Diritto Bancario
LA PRESCRIZIONE DECENNALE DELLA DOMANDA DEL CORRENTISTA DI RIPETIZIONE DI SOMME ILLEGITTIMAMENTE ADDEBITATE DALLA BANCA DECORRE DALLA DATA DI ESTINZIONE DEL CONTO (NEL CASO DI RIMESSE RIPRISTINATORIE) OVVERO DA OGNI SINGOLA ANNOTAZIONE (NEL CASO DI RIMESSE SOLUTORIE)
Con la sentenza n. 6195/2020 la Cassazione, richiamando l’insegnamento delle Sezioni Unite del 02/12/2010 n. 24418, precisa che l’azione di ripetizione di indebito, proposta dal cliente di una banca, il quale lamenti la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi anatocistici maturati con riguardo ad un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente, è soggetta all’ordinaria prescrizione decennale. Detta prescrizione decorre, nell’ipotesi in cui i versamenti abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista, non dalla data di annotazione in conto di ogni singola posta di interessi illegittimamente addebitati, bensì dalla data di estinzione del saldo di chiusura del conto, in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati. Ne consegue che, in materia di prescrizione, occorre necessariamente distinguere, tra i conti correnti passivi, i contratti a servizio dei quali sia prevista la messa a disposizione del cliente di un certa somma a mezzo di un parallelo contratto di apertura di credito (conti affidati) dai contratti di conto corrente che di tale servizio non fruiscono (conti non affidati). Mentre in relazione a questi ultimi le rimesse hanno tutte funzione solutoria in quanto, essendo dirette a colmare le passività maturate (scoperto), comportano un pagamento operando uno spostamento patrimoniale in favore della banca, in relazione ai primi le rimesse possono avere tanto natura solutoria (nel caso di “confinamento”, allorché siano dirette a colmare le passività conseguenti all’utilizzazione della provvista in misura superiore al consentito), quanto natura ripristinatoria se le rimesse siano volte invece a ripristinare la provvista nei limiti dell’accordato.
Vai alla sentenza Cassazione, 1° Sezione, 05/03/2020 n. 6195
IN MANCANZA DI RISPETTO DEL VINCOLO DI FINANZIABILITA’, IL CONTRATTO DI MUTUO FONDIARIO E’ INESORABILMENTE NULLO
La Suprema Corte di Cassazione, sez. I civile, torna a pronunciarsi in materia di superamento del limite di finanziabilità del mutuo fondiario. Giova preliminarmente ricordare che il credito fondiario consiste in uno speciale finanziamento con il quale il legislatore ha previsto delle finalità sociali non disponibili e quindi non derogabili dalla autonomia della parti, al fine di giungere alla realizzazione di molteplici interessi pubblici (cfr. Cass. n. 9219/1995). Pertanto, con la ordinanza n. 1193/2020, la Cassazione chiarisce che il limite di finanziabilità ex art. 38, co. 2° TULB, è elemento essenziale del contenuto del contratto ed il suo mancato rispetto determina la nullità del contratto stesso; costituendo un limite inderogabile all'autonomia privata in ragione della natura pubblica dell'interesse tutelato, volto a regolare il quantum della prestazione creditizia al fine di favorire la mobilizzazione della proprietà immobiliare e agevolare e sostenere l'attività di impresa.
Vai all’Ordinanza Cassazione, Sez. I, 21/01/2020 n. 1193
CLAUSOLE CLAIMS MADE: COMMENTO A SENTENZA SEZIONI UNITE N. 22437 DEL 24/09/2018
Le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione hanno statuito il seguente principio di diritto: «Il modello dell’assicurazione della responsabilità civile con clausole “on claims made basis”, che è volto ad indennizzare il rischio dell’impoverimento del patrimonio dell’assicurato pur sempre a seguito di un sinistro, inteso come accadimento materiale, è partecipe del tipo dell’assicurazione contro i danni, quale deroga consentita all’art. 1917 c.c., comma 1, non incidendo sulla funzione assicurativa il meccanismo di operatività della polizza legato alla richiesta risarcitoria del terzo danneggiato comunicata all’assicuratore. Ne consegue che, rispetto al singolo contratto di assicurazione, non si impone un test di meritevolezza degli interessi perseguiti dalle parti, ai sensi dell’art. 1322 c.c., comma 2, ma la tutela invocabile dal contraente assicurato può investire, in termini di effettività, diversi piani, dalla fase che precede la conclusione del contratto sino a quella dell’attuazione del rapporto, con attivazione dei rimedi pertinenti ai profili implicati, ossia (esemplificando): responsabilità risarcitoria precontrattuale anche nel caso di contratto concluso a condizioni svantaggiose; nullità, anche parziale, del contratto per difetto di causa in concreto, con conformazione secondo le congruenti indicazioni di legge o, comunque, secondo il principio dell’adeguatezza del contratto assicurativo allo scopo pratico perseguito dai contraenti; conformazione del rapporto in caso di clausola abusiva (come quella di recesso in caso di denuncia di sinistro)». In tal modo risulta archiviato il principio dell'accertamento della meritevolezza contrattuale (si badi bene da non appiattirsi sul concetto affine di liceità e da non riferire esclusivamente al risultato del contratto e non a quest’ultimo o al suo scopo o alla sua causa), intrinsecamente connesso all’atipicità ascritta al contratto assicurativo con claims made (anch’essa superata), residuando, viceversa, unicamente un test specifico, di adeguatezza, calibrato esclusivamente sull’ineludibile rispetto dei limiti di legge, imposto espressamente dal primo comma dell’art. 1322 c.c. Giova ricordare che, con la propria ordinanza interlocutoria n. 1465 del 19/01/2018, la 3° Sezione aveva evidenziato i seguenti due problemi definitori: a) la possibilità, nell’ambito dell’assicurazione contro i danni, di riferire il concetto di “sinistro” a fatti diversi da quelli specificamente previsti dall’art. 1882 c.c., ovvero, nel caso di assicurazione per la responsabilità civile, dal primo comma dell’art. 1917 c.c.: sinistro, quindi, come qualcosa di differente dall’evento avverso, dannoso e non voluto dall’assicurato, che costituisca l’avveramento del rischio assicurato (come, per esempio, la richiesta di risarcimento del terzo danneggiato); b) la meritevolezza, o meno, della clausola che, in un contratto di assicurazione della responsabilità civile, stabilisca la spettanza, la misura e i limiti dell’indennizzo in ossequio alle condizioni contrattuali vigenti al momento della presentazione della richiesta di risarcimento, da parte del terzo danneggiato (e non, quindi, in base a quelle in vigore al momento di verificazione del danno). Le Sezioni Unite, optando per una risoluzione unitaria delle due descritte questioni, scelgono di assumere quale punto di partenza dell’iter argomentativo l’intervento normativo in materia di responsabilità civile sanitaria (art. 11 della Legge Gelli – Bianco) stante l’indubbio rilievo costituzionale degli interessi tutelati. Nel margine di derogabilità del regime di c.d. loss occurence, ex art. 1917 c.c., può legittimamente collocarsi la struttura propria della clausola claims made che, dunque, rientra nell’area della tipicità legale e codicistica. Il modello claims made, formalmente introitato quale paradigma normativo, sveste i caratteri di eccezione derogatoria e di pattuizione specifica del singolo rapporto contrattuale per divenire un archetipo stabile e trasversale di riferimento. Siffatto approdo ermeneutico non fa disconoscere alle Sezioni Unite che, nell’assicurazione contro i danni, la garanzia riguardi il danno “prodotto da un sinistro” e che, quest’ultimo, alla stregua del linguaggio giuridico fatto proprio dal “diritto vivente”, sia da ravvisarsi nel fatto, materiale e storico, idoneo a provocare il danno. Comunque sia, dal momento che il danno rappresenta l’ubi consistam dell’interesse dell’assicurato alla stipulazione della polizza, è necessario dedicare un’attenzione più puntuale a quest’ultimo, che, di fatto, integra il rischio assicurabile, la cui incertezza deve permanere intatta sino al momento di inizio dell’assicurazione (da intendersi, nel caso dell’assicurazione della responsabilità civile, alla stregua d’incertezza circa l’impoverimento del patrimonio del danneggiante – assicurato, in conseguenza del relativo fatto fondativo del sinistro). In un quadro operativo siffatto risulta più facilmente introitabile l’approdo nomofilattico, contenuto nella sentenza n. 9140/2016, relativo all’assicurabilità dei rischi pregressi, stante il risalto attribuito alla circostanza che “il rischio dell’aggressione del patrimonio dell’assicurato, in dipendenza di un sinistro verificatosi nel periodo contemplato dalla polizza, si concretizza progressivamente, perché esso non si esaurisce nella sola condotta materiale, cui pur è riconducibile causalmente il danno, occorrendo anche la manifestazione del danneggiato di esercitare il diritto al risarcimento”: di tal guisa, resta, di fatto, impregiudicata l’alea, indefettibile nel contratto assicurativo, dell’avveramento progressivo di tutti gli elementi costitutivi del rischio assicurabile (rectius, dell’impoverimento patrimoniale del soggetto danneggiante – assicurato) e, consequenzialmente, la liceità del modello claims made con garanzia pregressa. Su di un piano più strettamente operativo, alla tipicità normativizzata del modello claims made consegue, direttamente, il superamento del giudizio di meritevolezza , ai sensi dell’art. 1322 c.c., dopo la reiezione, già metabolizzata, di quello di vessatorietà. La portata innovativa e, per certi aspetti, risolutiva della pronuncia in commento non è individuabile tanto nell’operazione di liberalizzazione e sdoganamento del modello claims made. Le Sezioni Unite definiscono, invece, l’esatta portata del controllo giudiziale sul singolo accordo contrattuale, rifuggendo dal riproporre la delineazione problematica di un “super – potere” manicheo in capo all’organo giudicante ed assumendo, quale parametro valutativo di riferimento, il primo comma dell’art. 1322 c.c.: le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge. Le claims made, quale modello tipico di assicurazione, restano soggiogate al test sul rispetto dei “limiti imposti dalla legge”, che il dettame codicistico postula per ogni intervento conformativo sul contratto inerente al tipo, in ragione del suo farsi concreto regolamento dell’assetto di interessi perseguiti, secondo quella che suole definirsi “causa in concreto” del negozio in grado di prediligere la massimizzazione dell’autonomia privata (e non una sua costrizione funzionalizzata). Le Sezioni Unite approfondiscono poi le tutele rimediali, compiendo un’accurata indagine su tutto lo spettro temporale del contratto assicurativo, dal momento prodromico alla sua conclusione fino a quello relativo all’estrinsecazione operativa. Relativamente al primo profilo, gli ermellini evidenziano come gli specifici obblighi informativi e contenutistici debbano essere assolti dall’Assicuratore in modo trasparente e mirato alla tutela effettiva della controparte contrattuale, nell’ottica di far porre in essere a quest’ultima una scelta consapevole e razionale e addivenire, quindi, alla stipulazione di una polizza con una copertura assicurativa il più possibile aderente alle sue personali esigenze. Oneri, invero, di certo non nuovi, visto che preesistenti alle specifiche disposizioni dettate dal Codice delle assicurazioni private e, comunque, derivabili dai generalissimi principi di buona fede, protezione e informazione, ex artt. 1175 e 1375 c.c., nonché ex art. 2 Cost.(14). Viene ribadita la circostanza per cui le violazioni ex artt. 1337 e 1338 c.c. abbiano esistenza autonoma, rispetto all’eventuale conclusione del contratto: potrà assumere comunque rilievo tale responsabilità anche in ipotesi di contratto validamente concluso, laddove si accerti compiutamente che la parte onerata abbia omesso, nella fase delle trattative, informazioni rilevanti che, probabilmente, avrebbero indotto la controparte a richiedere una diversa conformazione dell’accordo contrattuale stesso, nonché a prescindere dall’eventualità ulteriore che la condotta scorretta abbia concorso a un vizio del consenso (rilevante per l’annullabilità, ai sensi dell’art. 1427 c.c. o per il ristoro dei danni nell’ipotesi di dolo incidente, ex art. 1440 c.c.). Per quanto concerne la c.d. “causa concreta”, quale funzione economico – individuale, intrinsecamente caratterizzante la singola e specifica negoziazione, le Sezione Unite, mutuando quanto già rilevato nella sentenza n. 9140/2016, evidenziano come, nell’architettura rimediale, la tutela di stampo più strettamente consumeristico non può che avere un’operatività residuale, dal momento che ontologicamente riservata ai consumatori, ovverosia a persone fisiche che concludono un contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente esercitata, ossia ai settori cui, in modo quasi assorbente, il mercato assicurativo “claims made” è rivolto. Non si può prescindere da un’analisi, accurata, del sinallagma contrattuale, tanto nella fase statica, quanto in quella dinamica: l’apprezzamento dell’accordo contrattuale transita inevitabilmente dalla sua validazione, ovverosia dal riscontro se l’assetto, così come cristallizzato ex contractu, possa concorrere a realizzare la funzione pratica voluta dai contraenti (ossia, nel caso di specie, giovarsi di un’assicurazione adeguata allo scopo). Premessa indefettibile è la presupposizione che l’emersione di un qualsivoglia disequilibrio o disallineamento debba essere ragionevolmente interpretato alla stregua di indice presuntivo di una carenza della causa in concreto dell’operazione economica. Occorrerà pertanto indagare se lo scopo pratico del regolamento negoziale sia rappresentativo, o meno, di un arbitrario squilibrio giuridico tra rischio assicurato e premio, giacché, nella contrattualistica assicurativa la corrispettività delle posizioni si fonda su di una relazione oggettiva e coerente con il rischio assicurato, attraverso criteri di calcolo attuariale. L’eventuale violazione della disciplina legale minima, costituita da regole cc.dd. di struttura, accertata nella descritta operazione di ponderazione dell’equilibrio sinallagmatico, condurrà alla declaratoria di nullità del contratto, ai sensi dell’art. 1418 c.c., o a quella delle singole clausole difformi, ex art. 1419, secondo comma, c.c., con il conseguente ripristino, formale e sostanziale, dell’equilibrio dell’assetto vulnerato.
Vai alla sentenza Cass. S.U. 24/09/2018 n. 22437
Vai alla sentenza Cass. Civ., Sez. III, 13/11/2019 n. 29365
LE SEZIONI UNITE RISOLVONO IL CONTRASTO SULL'ECCEZIONE DI PRESCRIZIONE DA PARTE DELLA BANCA
Con la sentenza n. 15895/2019, le Sezioni Unite hanno stabilito che la Banca, convenuta nell’ambito di una azione di ripetizione dell’indebito fondata sull’illegittimità degli addebiti effettuati su conto corrente affidato, nell’eccepire la prescrizione del credito non è tenuta ad indicare specificamente quali tra le rimesse abbiano carattere solutorio, potendosi limitare ad allegare l’inerzia del creditore con conseguente volontà di volerne profittare. La Suprema Corte ha ricordato che con la nozione di allegazione “in senso proprio” si intende l’affermazione di fatti processuali rilevanti, posti a base dell’azione o dell’eccezione, ovvero fatti costitutivi, impeditivi, modificati o estintivi, definiti quindi come fatti principali. Nel novero dell’onere di allegazione, sussiste una differenza sul piano giuridico tra eccezioni in senso stretto e in senso lato. Per ciò che attiene all’eccezione di prescrizione, i giudici di legittimità hanno specificato come essa consista nell’affermazione di fatti estintivi, modificativi od impeditivi che possono assumere una rilevanza processuale solo allorquando vengano introdotti nel giudizio dalla parte; mentre nel caso di eccezioni in senso lato sussiste un potere–dovere di rilievo officioso da parte dell’organo giudicante. Da tali considerazioni discende la necessità di distinguere il concetto di onere di allegazione dalla nozione di onere della prova, per cui solo nel primo caso si fissa il thema decidendum, mentre col secondo si intende la verifica della fondatezza della domanda o dell’eccezione. In particolare, analizzando la struttura nella fattispecie estintiva delineata dall’art. 2394 c.c., secondo cui “ogni diritto si estingue quando il titolare non lo esercita per il tempo determinato dalla legge”, già con la sentenza resa a Sezioni Unite n. 10955/2002 si faceva rientrare l’eccezione di prescrizione nel novero delle eccezioni con cui viene fatto valere un “fatto principale”, ovvero l’inerzia del titolare.
Vai a Cassazione civile, Sez. Unite, sentenza 13/06/2019, n. 15895
LE SEZIONI UNITE INDICANO COME DETERMINARE GLI EFFETTI DELLA COMMISSIONE MASSIMO SCOPERTO AI FINI DELLA VERIFICA DELLA USURARIETA' DEL RAPPORTO BANCARIO
Le Sezioni Unite risolvono la vexata quaestio della rilevanza della commissione di massimo scoperto ai fini del calcolo del TEG (tasso effettivo globale) per il periodo antecedente al 1 gennaio 2010, cioè anteriore all'entrata in vigore delle disposizioni di cui all’art. 2 bis D.L. n. 185/2008. In tali ipotesi, ai fini della verifica del superamento del tasso soglia dell'usura presunta, va effettuata la separata comparazione del tasso effettivo globale d'interesse praticato in concreto e della commissione di massimo scoperto (CMS) eventualmente applicata -intesa quale commissione calcolata in misura percentuale sullo scoperto massimo verificatosi nel periodo di riferimento- rispettivamente con il tasso soglia e con la “CMS soglia”, calcolata aumentando della metà la percentuale della CMS media indicata nei decreti ministeriali emanati ai sensi dell’art. 2 co. 1° della L. n. 108/96. Andrà quindi compensato l'importo della eventuale eccedenza della CMS in concreto praticata, rispetto a quello della CMS rientrante nella soglia, con il “margine” degli interessi eventualmente residuo, pari alla differenza tra l'importo degli stessi rientrante nella soglia di legge e quello degli interessi in concreto praticati. In altri termini, è necessario svolgere una doppia comparazione: la prima tra il TEG e il tasso soglia; la seconda tra la commissione di massimo scoperto concretamente applicata e quella “soglia”. Svolta questa operazione, occorre compensare l’importo dell’eventuale eccedenza della commissione di massimo scoperto con il margine degli interessi che sia eventualmente residuato, da calcolarsi sottraendo il TEG alla soglia di legge: sussisterà usura qualora, a seguito di detta compensazione, dovesse sussistere ancora un importo residuale. La pronuncia in esame è destinata ad incidere sul contenzioso pregresso in tema di commissione di massimo scoperto ed interviene, apparentemente in favore dei Clienti delle Banche, in un quadro caratterizzato da visioni giurisprudenziali non allineate.
Vai alla sentenza Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, 20 giugno 2018 n. 16303
Vai al commento del dr. Roberto Marcelli (pubblicato su www.ilcaso.it - Articolo n. 692)
LA CASSAZIONE FISSA DEGLI IMPORTANTI PRINCIPI IN MATERIA DI USURA BANCARIA
Con sentenza n. 12965 del 22/06/2016, il Giudice di legittimità ha fissato i seguenti principi in materia di usura bancaria:
- la clausola contenuta nei contratti di apertura di credito in conto corrente, che preveda l'applicazione di un determinato tasso sugli interessi dovuti dal cliente e con fluttuazione tendenzialmente aperta, da correggere con sua automatica riduzione in caso di superamento del c.d. “tasso soglia usurario”, ma solo mediante l'astratta affermazione del diritto alla restituzione del supero in capo al correntista, è nulla ex art. 1344 cod. civ., perché tesa ad eludere il divieto di pattuire interessi usurari previsto dall'art. 1815 co. 2° cod. civ. per il mutuo (regola applicabile per tutti i contratti che prevedono la messa a disposizione di denaro dietro una remunerazione);
- è privo di fondamento giuridico il rilievo che la L. 28 febbraio 2001 n. 24 di interpretazione autentica della L. 7 maggio 1996 n. 108, si applichi solo ai contratti di mutuo. Nella realtà, la norma prescinde dalla qualificazione del rapporto in cui siano convenuti interessi usurari e il generale richiamo all'art. 644 cod. pen. ne estende il campo di applicazione a tutte le fattispecie negoziali in concreto penalmente sanzionabili;
- il giudizio in punto di usurarietà si basa sul raffronto tra un dato concreto (lo specifico TEG applicato) e un dato astratto (il TEGM rilevato con riferimento alla tipologia di appartenenza del contratto in questione), sicché -se detto raffronto non viene effettuato adoperando la medesima metodologia di calcolo- il dato che se ne ricava non può che essere in principio viziato;
- i decreti ministeriali che hanno rilevato il TEGM -dal 1997 al dicembre del 2009- sulla base delle istruzioni della Banca d'Italia non hanno tenuto conto della commissione di massimo scoperto al fine di determinare il tasso soglia usurario (ciò è avvenuto solo dal 1° gennaio 2010, nelle rilevazioni trimestrali del TEGM). Ne consegue che l'art. 2bis del D.L. n. 185/2008, introdotto con la legge di conversione n. 2/2009, non è norma di interpretazione autentica dell'art. 644 co. 3° cod. pen., bensì disposizione con portata innovativa dell'ordinamento, intervenuta a modificare -per il futuro- la complessa disciplina anche regolamentare (richiamata dall'art. 644 co. 4° cod. pen.) tesa a stabilire il limite oltre il quale gli interessi sono usurari, derivandone che per i rapporti bancari esauritisi prima del 1° gennaio 2010, allo scopo di valutare il superamento del tasso soglia nel periodo rilevante, non debba tenersi conto delle CMS applicate dalla banca, essendo tenuto il giudice a procedere ad un apprezzamento nel medesimo contesto di elementi omogenei della rimunerazione bancaria, al fine di pervenire alla ricostruzione del tasso-soglia usurario.
Vai alla sentenza Cassazione, Sez. I, 31/05 – 22/06/2016 n. 12695
L'ONERE PROBATORIO DELLA BANCA E DEL CORRENTISTA A SECONDO DI CHI SIA LA PARTE ATTRICE
Il Giudice di legittimità, con l’ordinanza n. 28945 del 4 dicembre 2017, ha precisato che il correntista che agisca in giudizio per la restituzione di quanto indebitamente riscosso dalla banca ha l’onere di dimostrare, nella sua precisa entità, l’appostazione in conto di somme non dovute, successivamente oggetto di riscossione da parte dell’istituto di credito. Da ciò consegue che il mancato assolvimento da parte del correntista all’onere di produrre gli estratti conto dall’inizio del rapporto, dando così integrale dimostrazione degli addebiti e delle rimesse che siano stati operati, impedisce l’azzeramento del saldo debitorio documentato dal primo degli estratti conto utilizzabili per la ricostruzione del rapporto di dare e avere tra le parti, dovendo l’accertamento giudiziale prendere le mosse proprio da tale evidenza contabile.
Tale indirizzo non è in contrasto con la giurisprudenza che vede onere della Banca che agisce per un proprio diritto di pagamento, di produrre gli estratti conto a far data dal momento di apertura del conto; non potendosi a ciò sottrarre invocando l’insussistenza dell’obbligo di conservare le scritture contabili oltre dieci anni (Cass. 25 maggio 2017, n. 13258; Cass. 20 aprile 2016, n. 7972; Cass. 18 settembre 2014, n. 19696; Cass. 26 gennaio 2011, n. 1842; Cass. 25 novembre 2010, n. 23974; Cass. 10 maggio 2007, n.10692). Se, invece, ad agire in giudizio è il correntista, l’onere di provare l’andamento del conto dal suo inizio incombe su detto soggetto.
Vai all’ordinanza Cassazione Civ., Sez. 6 - 1, 04/12/2017 n. 28945
LA CASSAZIONE COMPIE UNA RICOGNIZIONE DEI PRINCIPI DI DIRITTO IN MATERIA DI RIPARTIZIONE DELL'ONERE DELLA PROVA NEI CONTENZIOSI (CON PARTICOLARE MA NON ESCLUSIVO RIFERIMENTO A QUELLI BANCARI)
Con la sentenza n. 9201/15, il Giudice di legittimità ha compiuto un'interessante ricognizione dei principi di diritto in tema di oneri probatori. In particolare: 1) quando l'attore propone domanda di accertamento negativo del diritto del convenuto e quest'ultimo non si limiti a chiedere il rigetto della pretesa avversaria ma proponga domanda riconvenzionale per conseguire il credito negato dalla controparte, ambedue le parti hanno l'onere di provare le rispettive contrapposte pretese (Cass. 3374/2007; Cass. 12963/2005; Cass. 7282/1997); 2) l'onere probatorio gravante, a norma dell'art. 2697 c.c., su chi intende far valere in giudizio un diritto, ovvero su chi eccepisce la modifica o l'estinzione del diritto da altri vantato, non subisce deroga neanche quando abbia ad oggetto "fatti negativi", in quanto la negatività dei fatti oggetto della prova non esclude né inverte il relativo onere, gravando esso pur sempre sulla parte che fa valere il diritto di cui il fatto, pur se negativo, ha carattere costituito; tuttavia, in tal caso la relativa prova può essere data mediante dimostrazione di uno specifico fatto positivo contrario, od anche mediante presunzioni dalle quali possa desumersi il fatto negativo (Cass. 23229/2004; Cass. 9099/2012); 3) la banca deve dimostrare l'entità del proprio credito mediante la produzione degli estratti conto a partire dall'apertura del conto e cioè dal saldo zero (Cass. 23974/10); 4) in tema di prova del credito fornita da un istituto bancario, va distinto l'estratto di saldoconto (che consiste in una dichiarazione unilaterale di un funzionario della banca creditrice accompagnata dalla certificazione della sua conformità alle scritture contabili e da un'attestazione di verità e liquidità del credito), dall'ordinario estratto conto, che è funzionale a certificare le movimentazioni debitorie e creditorie intervenute dall'ultimo saldo, con le condizioni attive e passive praticate dalla banca. Mentre il saldoconto riveste efficacia probatoria nel solo procedimento per D.I. eventualmente instaurato dall'istituto bancario, l'estratto conto, trascorso il debito periodo di tempo dalla sua comunicazione al correntista, assume carattere di incontestabilità ed è, conseguentemente, idoneo a fungere da prova anche nel successivo giudizio contenzioso instaurato dal cliente (Cass. 14234/2003; Cass. 2751/2002).
Vai alla sentenza Cassazione, Sez. I°, 07/05/2015 n. 9201
LA BANCA HA L'ONERE DI DOCUMENTARE IL PROPRIO CREDITO ANCHE PER IL PERIODO ANTECEDENTE I DIECI ANNI. LA MANCANZA DI PROVA SI RIVERBERA SUL CREDITO RESIDUO, OVE ACCERTABILE
Non è escluso dall'onus probandi posto a carico del creditore la fase temporale che si colloca anteriormente agli ultimi dieci anni. L'accertamento dell'indebito derivante dalla nullità delle clausole relative alla capitalizzazione trimestrale degli interessi, applicata fin dall'insorgere del rapporto di conto corrente, richiede, indefettibilmente, la ricostruzione dei movimenti del conto fin dalla nascita. L'eventuale impossibilità di reperire la documentazione relativa al segmento temporale sopraindicato da parte del creditore onerato, non può riverberare sull'accertamento dell'indebito opposto dal debitore, ma esclusivamente sul residuo credito ove accertabile.
Vai alla sentenza Cassazione, Sez. I°, 18/09/2014 n. 19696
A SEGUITO DI ACCERTAMENTO DELLA NULLITA' DELLA PREVISIONE DI CAPITALIZZAZIONE TRIMESTRALE, GLI INTERESSI A DEBITO DEL CORRENTISTA DEVONO ESSERE RICALCOLATI SENZA ALCUNA CAPITALIZZAZIONE
La Suprema Corte ha precisato che, anche per i contratti antecedenti la sentenza a Sezioni Unite n. 24418/2010, “una volta dichiarata la nullità della previsione negoziale di capitalizzazione trimestrale, per contrasto con il divieto di anatocismo stabilito dall’art. 1283 c.c. (il quale osterebbe anche ad un’eventuale previsione negoziale di capitalizzazione annuale), gli interessi a debito del correntista debbono essere calcolati senza operare capitalizzazione alcuna”. Il Giudice di legittimità ha respinto, in particolare, il rilievo della banca secondo cui la richiamata pronuncia delle Sezioni Unite integrerebbe un’ipotesi di c.d. overruling, con conseguente esigenza di rimedi a tutela dell’affidamento incolpevole della banca. “Ai fini di tali rimedi -spiega la Corte- rileva il solo mutamento, nella giurisprudenza di legittimità, della consolidata interpretazione di norme di carattere processuale (e sempre che si tratti di mutamento in senso restrittivo delle facoltà delle parti), come chiaramente risulta da Cass. Sez. Un. 15144/2011, mentre nella specie il chiarimento delle Sezioni Unite non ha comportato alcuna modifica della precedente giurisprudenza di questa Corte e ha riguardato norme di diritto sostanziale”.
Vai all’ordinanza Corte di Cassazione n. 20172 del 03/09/2013
LA CONSULTA DICHIARA LA "INCOSTITUZIONALITA'" DELL'ART. 2 COMMA 61° D.L. N. 225/2010 (cd. Milleproroghe)
La Corte Costituzionale ha accolto le censure avanzate nelle differenti ordinanze di rimessione della questione, affermandone l'illegittimità costituzionale per contrasto con l'art. 3 della Costituzione. La norma censurata, facendo retroagire la disciplina in esso prevista, non rispetta i principi generali di eguaglianza e ragionevolezza. Inoltre non è dato ravvisare quali sarebbero i motivi imperativi d’interesse generale, idonei a giustificare l’effetto retroattivo delle disposizioni. Ne segue che risulta violato anche il parametro costituito dall’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della Convenzione europea, come interpretato dalla Corte di Strasburgo.
L’art. 2935 cod. civ. stabilisce che la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere. Si tratta di una norma di carattere generale, la cui formula “elastica” si spiega con l’esigenza di adattarla alle concrete modalità dei molteplici rapporti dai quali i diritti soggetti a prescrizione nascono. La norma censurata, con la sua efficacia retroattiva, lede in primo luogo il canone generale della ragionevolezza delle norme (art. 3 Cost.). Invero, essa è intervenuta sull’art. 2935 cod. civ. in assenza di una situazione di oggettiva incertezza del dato normativo perché, in materia di decorrenza del termine di prescrizione relativo alle operazioni bancarie regolate in conto corrente, a parte un indirizzo del tutto minoritario della giurisprudenza di merito, si era ormai formato un orientamento maggioritario in detta giurisprudenza che aveva trovato riscontro in sede di legittimità ed aveva condotto ad individuare nella chiusura del rapporto contrattuale o nel pagamento solutorio il dies a quo per il decorso del suddetto termine. L’ampia formulazione della norma censurata impone di affermare che, nel novero dei «diritti nascenti dall’annotazione», devono ritenersi inclusi anche i diritti di ripetere somme non dovute (quali sono quelli derivanti, ad esempio, da interessi anatocistici o comunque non spettanti, da commissioni di massimo scoperto e così via, tenuto conto del fatto che il rapporto di conto corrente si è svolto in data precedente all’entrata in vigore del decreto legislativo 4 agosto 1999 n. 342, recante modifiche al d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia). Ma la ripetizione dell’indebito oggettivo postula un pagamento (art. 2033 cod. civ.) che, avuto riguardo alle modalità di funzionamento del rapporto di conto corrente, spesso si rende configurabile soltanto all’atto della chiusura del conto (Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza n. 24418/2010). Ne deriva che ancorare con norma retroattiva la decorrenza del termine di prescrizione all’annotazione in conto significa individuarla in un momento diverso da quello in cui il diritto può essere fatto valere, secondo la previsione dell’art. 2935 cod. civ. Pertanto, la norma censurata, lungi dall’esprimere una soluzione ermeneutica rientrante tra i significati ascrivibili al citato art. 2935 cod. civ., ad esso nettamente deroga, innovando rispetto al testo previgente, peraltro senza alcuna ragionevole giustificazione. Anzi, l’efficacia retroattiva della deroga rende asimmetrico il rapporto contrattuale di conto corrente perché, retrodatando il decorso del termine di prescrizione, finisce per ridurre irragionevolmente l’arco temporale disponibile per l’esercizio dei diritti nascenti dal rapporto stesso, in particolare pregiudicando la posizione giuridica dei correntisti che, nel contesto giuridico anteriore all’entrata in vigore della norma denunziata, abbiano avviato azioni dirette a ripetere somme ai medesimi illegittimamente addebitate.
L’art. 2 comma 61 del D.L. n. 225 del 2010 (primo periodo), convertito, con modificazioni, dalla L. n. 10/2011, è costituzionalmente illegittimo anche per altro profilo. È noto che, a partire dalle sentenze n. 348 e 349 del 2007, la giurisprudenza della Corte è costante nel ritenere che le norme della CEDU –nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, specificamente istituita per dare ad esse interpretazione e applicazione– integrino, quali “norme interposte”, il parametro costituzionale espresso dall’art. 117, co. 1° Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali (ex plurimis: sentenze n. 1 del 2011; n. 196, n. 187 e n. 138 del 2010; sulla perdurante validità di tale ricostruzione anche dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, sentenza n. 80 del 2011).
La Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte affermato che se, in linea di principio, nulla vieta al potere legislativo di regolamentare in materia civile, con nuove disposizioni dalla portata retroattiva, diritti risultanti da leggi in vigore, il principio della preminenza del diritto e il concetto di processo equo sanciti dall’art. 6 della Convenzione ostano, salvo che per imperative ragioni di interesse generale, all’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia, al fine di influenzare l’esito giudiziario di una controversia (ex plurimis: Corte europea, sentenza sezione seconda, 7 giugno 2011, Agrati ed altri contro Italia; sezione seconda, 31 maggio 2011, Maggio contro Italia; sezione quinta, 11 febbraio 2010, Javaugue contro Francia; sezione seconda, 10 giugno 2008, Bortesi e altri contro Italia).
Pertanto sussiste uno spazio, sia pur delimitato, per un intervento del legislatore con efficacia retroattiva (fermi i limiti di cui all’art. 25 Cost.), se giustificato da «motivi imperativi d’interesse generale»», che spetta innanzitutto al legislatore nazionale e a questa Corte valutare, con riferimento a principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, nell’ambito del margine di apprezzamento riconosciuto dalla giurisprudenza della Cedu ai singoli ordinamenti statali (sentenza n. 15 del 2012).
Nel caso in esame, non è dato ravvisare quali sarebbero i motivi imperativi d’interesse generale, idonei a giustificare l’effetto retroattivo. Ne segue che risulta violato anche il parametro costituito dall’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della Convenzione europea, come interpretato dalla Corte di Strasburgo.
Vai alla Sentenza della Corte Costituzionale 05/04/2012 n. 78
LA BANCA PERDE IL BENEFICIO DELLA GARANZIA RILASCIATOGLI DAL FIDEIUSSORE QUALORA PERSEGUA NELL'AFFIDAMENTO SENZA TENER CONTO DEL SIGNIFICATIVO PEGGIORAMENTO DELLE CONDIZIONI PATRIMONIALI DEL GARANTITO
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21730/10, ha enunciato il seguente principio di diritto: «Se, nell’ambito di un rapporto di apertura di credito in conto corrente, si manifesta un significativo peggioramento delle condizioni patrimoniali del debitore rispetto a quelle conosciute al momento dell’apertura del rapporto, tali da mettere a repentaglio la solvibilità del debitore medesimo, alla stregua del principio cui si ispira l’art. 1956 c.c. la banca creditrice, la quale disponga di strumenti di autotutela che le consentano di porre termine al rapporto impedendo ulteriori atti di utilizzazione del credito che aggraverebbero l’esposizione debitoria, di quegli strumenti è tenuta ad avvalersi anche a tutela dell’interesse del fideiussore inconsapevole, se non vuol perdere il beneficio della garanzia, in conformità ai doveri di correttezza e buona fede ed in attuazione del dovere di salvaguardia dell'altro contraente, a meno che il fideiussore manifesti la propria volontà di mantenere ugualmente ferma la propria obbligazione di garanzia». Tale conclusione, di notevole portata innovativa, è basata sul rilievo che l’ipotesi contemplata dall'art. 1956 c.c. non può essere riferita alla sola instaurazione di nuovi rapporti obbligatori tra il creditore ed il terzo, cui si estenda la garanzia per debiti futuri in precedenza prestata dal fideiussore, bensì abbraccia anche il modo in cui il creditore gestisce un rapporto obbligatorio già instaurato con il terzo, coperto dalla fideiussione, quando ne derivi un ingiustificato ed imprevedibile aggravamento del rischio cui è esposto il garante di non poter utilmente rivalersi sul debitore di quanto eventualmente abbia dovuto corrispondere al creditore. Più in particolare, si pone in evidenza che -da un lato- l’art. 1956 c.c. onera il creditore di un comportamento rispettoso del principio di buona fede nella gestione del rapporto debitorio, tale da non ledere ingiustificatamente l’interesse del fideiussore e -dall'altro lato- che l’art. 1956 c.c. prevede quanto contemplato, mutatis mutandi, dall’art. 1461 c.c. in forza del quale ciascun contraente può sospendere la propria prestazione quando le condizioni patrimoniali dell’altro sono divenute tali da compromettere la possibilità della controprestazione e non sia stata data idonea garanzia. La prospettiva nella quale si collocano le due norme richiamate (art. 1461 c.c. ed art. 1956 c.c.) è diversa: l'una è volta a tutelare l'interesse del creditore dal rischio della mancata controprestazione, l'altra è volta a tutelare l'interesse del fidejussore. Entrambe muovono, però, dal medesimo presupposto, costituito dall'aggravamento della situazione patrimoniale del debitore; e quel comportamento, che nella logica dell'art. 1461 c.c. rappresenta una forma di autotutela / facoltà per il creditore, si trasforma -per quest'ultimo- (quando vi sia stata la prestazione da parte del fideiussore di garanzia per debiti futuri) in un onere se voglia conservare il beneficio della garanzia e salvo che il fideiussore non lo autorizzi a comportarsi altrimenti.
Vai alla sentenza Cassazione 22/10/2010 n. 21730
LA CASSAZIONE SI PRONUNCIA -PER LA PRIMA VOLTA- SULLA NOZIONE DI OPERATORE QUALIFICATO NEI CONTRATTI DERIVATI
In mancanza di elementi contrari emergenti dalla documentazione già in possesso dell'intermediario in valori mobiliari, la semplice dichiarazione, sottoscritta dal legale rappresentante, che la società disponga della competenza ed esperienza richieste in materia di operazioni in valori mobiliari -pur non costituendo dichiarazione confessoria, in quanto volta alla formulazione di un giudizio e non all'affermazione di scienza e verità di un fatto obiettivo- esonera l'intermediario stesso dall'obbligo di ulteriori verifiche sul punto ed, in carenza di contrarie allegazioni specificamente dedotte e dimostrate dalla parte interessata, può costituire argomento di prova che il giudice può porre a base della propria decisione, anche come unica e sufficiente fonte di prova in difetto di ulteriori riscontri, per quanto riguarda la sussistenza in capo al soggetto che richieda di compiere operazioni nel settore dei valori mobiliari dei presupposti per il riconoscimento della sua natura di operatore qualificato.
LA CASSAZIONE PRECISA IL CONCETTO DI INFORMAZIONE ADEGUATA DEL CLIENTE (SUITABILITY RULE)
Ai sensi del Testo Unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria l'operatore finanziario è gravato del dovere sia di farsi parte attiva nella richiesta all'investitore di notizie circa la sua esperienza e la sua situazione finanziaria, gli obiettivi di investimento e la propensione al rischio, sia di informare adeguatamente il cliente, al fine di porre il risparmiatore nella condizione di effettuare consapevoli e ragionate scelte di investimento o disinvestimento. Il duplice riferimento alle informazioni adeguate e necessarie e la direzione dell'obbligo nei confronti del cliente inducono a ritenere che le informazioni debbano essere modellate alla luce della particolarità del rapporto con l'investitore, in modo da soddisfare le specifiche esigenze proprie di quel singolo rapporto. L'ambito oggettivo delle disposizioni concernenti l'adeguatezza delle operazioni (suitability rule) trova applicazione con riferimento a tutti i servizi di investimento prestati nei confronti di qualsiasi investitore che non sia un operatore qualificatore sia con riguardo ai servizi di investimento nei quali sia ravvisabile una discrezionalità dell'intermediario, come ad esempio nel caso di contratti di gestione di portafogli di investimento, sia la dove l'operazione avvenga su istruzione del cliente, come, appunto, quando venga prestato il servizio di negoziazione o di ricezione e di trasmissione di ordini.
Vai alla sentenza Cassazione Civile, Sez. I°, 25/06/08 n. 17340
LA BANCA NON PUO' CONCEDERE PRESTITI PER COSTITUIRSI UNA GARANZIA REALE
Un Giudice di merito, con una sentenza che si segnala per la completezza dell'analisi svolta, ha precisato che il mutuo fondiario non può essere utilizzato per ripianare i debiti -del mutuatario- nei confronti della banca. In questo modo, infatti, si crea un'obbligazione virtuale per ottenere delle garanzie fideiussorie e ipotecarie. L'operazione di cui sopra, in pratica, non appare meritevole di tutela in quanto la banca utilizza il contratto di mutuo non già per concedere un finanziamento bensì per costituire un'ipoteca a garanzia di debiti preesistenti.
Vai alla sentenza del Tribunale di Latina, sezione distaccata di Terracina, 11/08/2008 n. 326
NULLITA' DEL CONTRATTO DI INTERMEDIAZIONE O RESPONSABILITA' DELL'INTERMEDIARIO: LE S.U. RISOLVONO IL CONTRASTO
Le Sezioni Unite della Cassazione -con le due sentenze in esame- intervengono per porre fine al contrasto giurisprudenziale riguardante gli effetti della violazione dei doveri d'informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni che la Legge pone a carico del soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi d'investimento finanziario. Tale violazione può dar luogo a responsabilità precontrattuale, con conseguente obbligo di risarcimento dei danni, ove avvenga nella fase precedente o coincidente con la stipulazione del contratto d'intermediazione destinato a regolare i successivi rapporti tra le parti. Può -invece- dare luogo a responsabilità contrattuale, ed eventualmente condurre alla risoluzione del predetto contratto, ove si tratti di violazioni riguardanti le operazioni d'investimento o disinvestimento compiute in esecuzione del contratto d'intermediazione finanziaria in questione. In nessun caso, in difetto di previsione normativa in tal senso, la violazione dei su accennati doveri di comportamento può determinare la nullità del contratto d'intermediazione, o dei singoli atti negoziali conseguenti, a norma dell'art. 1418, comma 1, c.c. Le S.U. precisano, a tale riguardo, che le regole di comportamento degli intermediari finanziari hanno carattere imperativo: nel senso che esse, essendo dettate non solo nell'interesse del singolo contraente di volta in volta implicato ma anche nell'interesse generale all'integrità dei mercati finanziari, si impongono inderogabilmente alla volontà delle parti contraenti. Questo rilievo, tuttavia, non è da solo sufficiente a dimostrare che la violazione di una o più tra dette norme comporta la nullità dei contratti stipulati dall'intermediario col cliente. Se la loro violazione non può essere, sul piano giuridico, priva di conseguenze, non è detto che la conseguenza sia necessariamente la nullità del contratto. Più in particolare, è evidente che il legislatore -il quale certo avrebbe potuto farlo e che, nella medesima legge, non ha esitato ad altro proposito a farlo- non ha espressamente stabilito che il mancato rispetto delle citate disposizioni interferisce con la fase genetica del contratto e produce l'effetto radicale della nullità invocata dai ricorrenti. Non si tratta quindi certamente di uno di quei casi di nullità stabiliti dalla legge ai quali allude il 3° comma dell'art. 1418 c.c. Neppure i casi di nullità contemplati dal 2° comma dell'art. 1418 c.c. sono invocabili nella situazione in esame. E' vero che, tra questi casi, figura anche quello della mancanza di uno dei requisiti indicati dall'art. 1325 c.c., e che il primo di tali requisiti è l'accordo delle parti. Ma, ove pure si voglia ammettere che nella fase prenegoziale la violazione dei doveri di comportamento dell'intermediario sopra ricordati siano idonei ad influire sul consenso della controparte contrattuale, inquinandolo, appare arduo sostenere che sol per questo il consenso manca del tutto; ed i vizi del consenso -se pur di essi si possa parlare- non determinano la nullità del contratto, bensì la sua annullabilità, qualora ricorrano le condizioni previste dagli artt. 1427 e segg. c.c. Resta da considerare l'ipotesi che la nullità possa dipendere dall'applicazione della disposizione dettata dal 1° comma dell'art. 1418 c.c.: che si possa, cioè, predicare la nullità (c.d. virtuale) del contratto contrario a norme imperative, tali essendo appunto le norme dettate dall'articolo 6 della Legge n. 1/1991. Le S.U., per escludere la possibilità di invocare la nullità del contratto per violazione di norme di comportamento gravanti sull'intermediario nella fase prenegoziale ed in quella esecutiva, osservano che, "nel settore della intermediazione finanziaria, non è dato assolutamente rinvenire indici univoci dell'intenzione del legislatore di trattare sempre e comunque le regole di comportamento, ivi comprese quelle concernenti i doveri d'informazione " dell'altro contraente, alla stregua di regole di validità degli atti. Richiamando la distinzione tra gli obblighi che precedono ed accompagnano la stipulazione del contratto d'intermediazione e quelli che si riferiscono alla successiva fase esecutiva, la Corte rileva come la violazione dei primi (ove non si traduca addirittura in situazioni tali da determinare l'annullabilità -mai comunque la nullità- del contratto per vizi del consenso) è naturalmente destinata a produrre una responsabilità di tipo precontrattuale, dalla quale discende l'obbligo per l'intermediario di risarcire gli eventuali danni. Non osta a ciò l'avvenuta stipulazione del contratto. Infatti, la violazione dell'obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto assume rilievo non soltanto nel caso di rottura ingiustificata delle trattative (ovvero qualora sia stipulato un contratto invalido o inefficace), ma anche se il contratto concluso sia valido e tuttavia risulti pregiudizievole per la parte rimasta vittima del comportamento scorretto. In siffatta ipotesi il risarcimento del danno deve essere commisurato al minor vantaggio, ovvero al maggior aggravio economico prodotto dal comportamento tenuto in violazione dell'obbligo di buona fede, salvo che sia dimostrata l'esistenza di ulteriori danni che risultino collegati a detto comportamento da un rapporto rigorosamente consequenziale e diretto. La violazione dei doveri dell'intermediario riguardanti invece la fase successiva alla stipulazione del contratto d'intermediazione può assumere i connotati di un vero e proprio inadempimento (o non esatto adempimento) contrattuale: giacchè quei doveri, pur essendo di fonte legale, derivano da norme inderogabili e sono quindi destinati ad integrare a tutti gli effetti il regolamento negoziale vigente tra le parti. Ne consegue che la loro violazione, oltre a generare eventuali obblighi risarcitori in forza dei principi generali sull'inadempimento contrattuale, può, ove ricorrano gli estremi di gravità postulati dall'art. 1455 c.c., condurre anche alla risoluzione del contratto d'intermediazione finanziaria.
Vai alla sentenza Cassazione Sezioni Unite 19/12/2007 n. 26724
Vai alla sentenza Cassazione Sezioni Unite 19/12/2007 n. 26725
Vai al commento del Dott. Filippo Sartori "La (ri)vincita dei rimedi risarcitori" pubblicato su www.ilcaso.it
Vai al commento del Dott. Daniele Maffeis "Dopo le S.U.: l'intermediario che non si astiene restituisce al Cliente il denaro investito" pubblicato su www.ilcaso.it
LE MODALITA' DI CALCOLO DEL DEBITO RESIDUO DEL MUTUATARIO INADEMPIENTE
La Corte di Cassazione, in un caso di risoluzione anticipata del contratto di mutuo fondiario a seguito della notifica dell'atto di precetto da parte dell'istituto di credito, ha affermato nuovamente il principio generale del divieto di anatocismo, ma la novità della decisione sta nell'aver escluso il meccanismo dell'anatocismo relativamente alle rate di mutuo non ancora maturate e nell'aver sancito il principio che -in tali casi- il credito dell'istituto mutuante risulterà formato dalle rate già scadute fino a quel momento, dal capitale residuo e dagli interessi di mora convenuti da applicarsi tanto alle rate scadute quanto al capitale residuo. Non è affatto detto che tale sistema di calcolo sia più vantaggioso per la parte mutuataria; ma i giudici non hanno fatto altro che applicare la norma dell'art. 120 TUB, integrato dalla delibera del CICR del 9/2/2000, che prevede che dal momento della risoluzione del contratto di finanziamento, per inadempimento del finanziato, sulla somma dovuta decorrono gli interessi come contrattualmente stabilito (su questi interessi non è consentita la capitalizzazione periodica). Sulla questione della risoluzione del contratto di mutuo la suprema Corte ha disatteso le richieste della banca che insisteva sul punto che l'azione esecutiva per il recupero del credito non comporta necessariamente la risoluzione del contratto di mutuo e non impedisce la maturazione di ulteriori rate in base al piano di ammortamento concordato. Al contrario, la Corte ha affermato che quando la banca mutuante, a seguito dell'inadempimento del mutuatario, intima il precetto per ogni suo credito, viene attivata la clausola risolutiva espressa e non si ha semplicemente la decadenza per il debitore dal beneficio del pagamento rateale ma avviene la risoluzione del contratto che opera per il futuro anticipando la scadenza dell'obbligazione di rimborso del capitale. La Corte sostiene che la risoluzione del contratto di mutuo non compromette l'equilibrio economico tra le operazioni passive (emissione delle cartelle fondiarie) e quelle attive (prestiti ipotecari) effettuate dall'istituto mutuante, poiché continuano a maturare degli interessi sul capitale residuo. Non più gli interessi corrispettivi ma gli interessi moratori al tasso convenzionale stabilito dal contratto. E su quest'ultimo punto, la Cassazione esclude che possa applicarsi il tasso legale agli interessi moratori e ritiene, invece, applicabile il tasso convenzionale, quello stabilito dal contratto. Pertanto, dal momento dell'avvenuta risoluzione del contratto non sono più maturate ulteriori semestralità, cioè rate composte da capitale e da interessi corrispettivi, e la banca avrebbe dovuto chiedere al debitore non le rate a scadere, oltre a quelle scadute, ma il pagamento del capitale residuo, oltre agli interessi convenzionali di mora sia sulle rate scadute sia sul capitale residuo. Altro punto importante della sentenza è quello in cui si afferma il potere del giudice di rilevare d'ufficio la nullità della clausola anatocistica anche se non è stato fatto espressamente dalla parte che ne aveva interesse.
Vai alla sentenza Corte Cassazione 21/10/05 n. 20449
LA BANCA GIRATARIA PER L'INCASSO CHE PAGA UN ASSEGNO NON TRASFERIBILE A PERSONA DIVERSA DAL BENEFICIARIO INCORRE IN RESPONSABILITA' CONTRATTUALE
Componendo il precedente contrasto giurisprudenziale, le Sezioni Unite della Cassazione -con sentenza n. 14712/2007- hanno affermato la natura contrattuale della responsabilità della banca negoziatrice di assegni (bancari o circolari), che abbia pagato i predetti in violazione dell'art. 43, comma 1, Legge Assegno. Detta responsabilità si manifesta nei confronti di tutti i soggetti nel cui interesse quelle regole sono dettate e che, per la violazione di esse, abbiano sofferto un danno. Nel novero di tali soggetti rientra indubbiamente il prenditore, ma anche colui che abbia apposto sul titolo la clausola di non trasferibilità, o colui che abbia visto in tal modo indebitamente utilizzata la provvista costituita presso la banca trattaria (od emittente), nonché, se del caso, questa stessa banca. Dalla natura contrattuale della responsabilità discende l'applicazione del relativo regime giuridico e, in particolare, l'applicabilità della prescrizione ordinaria decennale alla relativa azione ex art. 2946 cod. civ.
Abbandonando le precedenti impostazioni di responsabilità aquiliana e responsabilità ex lege (cfr.: Cass., Sez. I°, 06/10/05 n. 19512), la Cassazione arriva quindi a fissare una sorta anomala di responsabilità contrattuale della Banca negoziatrice, osservando che la clausola di non trasferibilità sta a tutelare (in virtù della rigida disciplina imposta dall'art. 43 co. 2° R.D. 21/12/1933 n. 1736) ogni e qualsiasi interessato all'operazione di riscossione.
Vai alla sentenza Cassazione Sezioni Unite 08/05 - 26/06/2007 n. 14712
IL DIRITTO DELLA BANCA DI RECEDERE DAL CONTRATTO DI C/C E' COMUNQUE SINDACABILE
Con l'ordinanza in esame il Tribunale di Roma, sezione distaccata di Ostia, nell'ambito di un procedimento d'urgenza, ha ordinato a un Istituto di credito l'immediata riattivazione del conto corrente e dei servizi ad esso accessori intestati al ricorrente, in quanto il diritto di recesso esercitato dalla banca sarebbe stato immotivato e privo di qualsiasi ragione, benché formalmente corretto. Secondo la più attenta e condivisibile giurisprudenza, infatti, il potere tipicamente concesso alla banca di recedere dai contratti di conto corrente senza particolari vincoli incontra comunque i limiti della correttezza e della buona fede. Essi rappresentano -da un lato- il margine estremo fin dove può spingersi la discrezionalità dell'istituto di credito, dall'altro, il parametro di riferimento nella valutazione della legittimità della condotta dello stesso istituto. Ciò significa che la regolarità formale del recesso non implica la totale insindacabilità del modo di esercizio del diritto potestativo di recesso da parte della banca. Resta pur sempre da rispettare il fondamentale principio dell'esecuzione dei contratti secondo buona fede (art. 1375 c.c.) alla stregua del quale non può escludersi che, anche se pattiziamente consentito in difetto di giusta causa, il recesso di una banca dal rapporto di conto corrente o di apertura di credito sia da considerare illegittimo ove in concreto esso assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari. Connotati tali, cioè, da contrastare con la ragionevole aspettativa di chi, in base ai comportamenti usualmente tenuti dalla banca ed all'assoluta normalità commerciale dei rapporti in atto, abbia fatto conto di poter disporre del conto corrente e/o della provvista creditizia per il tempo previsto. La scelta di recesso da parte dell'istituto di credito deve, quindi, essere supportata da ragioni e motivi sui quali chiunque, che non sia di parte, debba e possa ragionevolmente convenire.
Vai all'Ordinanza 05/11/07 del Tribunale di Roma - Sezione distaccata di Ostia
ESISTE RESPONSABILITA' DELLA BANCA -PER VIOLAZIONE DELL'OBBLIGO DI BUONA FEDE- IN CASO DI COMPENSAZIONE TRA DUE C/C OPERATA SENZA PREVENTIVA COMUNICAZIONE
E' ammissibile la compensazione mediante l'immissione del saldo di un conto corrente come posta passiva di un altro con annotazione contabile pur in presenza di una clausola contrattuale relativa a saldi passivi e attivi di più rapporti o più conti esistenti tra la banca e lo stesso cliente che le parti hanno ritenuto di mantenere formalmente e contabilmente distinti. Determina tuttavia la responsabilità della banca la compensazione effettuata senza procedere alla sua pronta comunicazione al correntista, in applicazione del principio di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.). La Cassazione non è entrata nell'esame della nota questione -ben dibattuta in Dottrina- in merito alla possibilità che la norma contenuta nell'art. 1853 c.c. operi anche in mancanza della chiusura dei conti (e ciò in quanto le parti avevano disciplinato la compensazione). In precedenza (sentenza 23/05/86 n. 3447), la Corte aveva ritenuto irrilevante il fatto che il correntista potesse ignorare la avvenuta compensazione. Con la decisione in esame il Giudice di legittimità ha osservato che le scritturazioni concernenti lo stesso conto non sono omologabili con quelle derivanti dalla compensazione di conti diversi. Nel primo caso, infatti, gli addebiti e gli accrediti comportano un'operazione di conguaglio ma non di compensazione. Nell'ipotesi di compensazione -ex art. 1853 c.c.- tra saldi attivi e passivi di più conti correnti assume uno specifico significato la comunicazione effettuata dalla banca. Il bilanciamento tra l'interesse del correntista (che fa affidamento sul saldo del conto sul quale trae l'assegno) e quello della banca (di salvaguardia della garanzia sulla quale ha fatto affidamento in relazione alla compensazione pattuita) impone che ciascuna delle parti agisca secondo buona fede e correttezza ex art. 1375 c.c. Viene pertanto ribadito che, in tema di esecuzione del contratto bancario, la buona fede si atteggia come un impegno od obbligo di solidarietà che impone a ciascuna parte di tenere quei comportamenti idonei a preservare, senza rappresentare un apprezzabile sacrificio a suo carico, gli interessi dell'altra parte.
Vai alla sentenza Cassazione - Sezione 1° Civile - 28/09/2005 n. 18947
In materia di esecuzione in buona fede del contratto bancario:
Vai alla sentenza Cassazione - Sezione 3° Civile - 16/10/2002 n. 14726
Vai alla sentenza Cassazione - Sezione 1° Civile - 27/09/2001 n. 12093
LE CONSEGUENZE DEL PROTESTO ILLEGITTIMO
Il Giudice di legittimità, con la sentenza n. 9233/07, ha rilevato che, in caso di protesto illegittimo di una cambiale, la lesione alla reputazione personale costituisce di per sé un danno reale che va risarcito. Nel caso di specie la controversia nasce dall'illegittimità del protesto di una cambiale presentata ad un Istituto diverso da quello indicato dalla debitrice come banca d'appoggio: la S.C. cassa la sentenza di merito che dà per assodata la responsabilità da inadempimento del creditore ma poi nega la quantificazione equitativa del pregiudizio che scaturisce dalla perdita dell'immagine professionale o sociale. Il danno -spiegano i Giudici di legittimità- va invece risarcito (sia a titolo contrattuale per inadempimento sia a titolo extracontrattuale in base alla clausola generale del neminem laedere) in modo satisfattivo, ed equitativo se la peculiare figura del danno lo richiede (cfr.: artt. 1226 e 2056 c.c.). Il creditore era tenuto al risarcimento del danno per la lesione alla reputazione personale: la prova della lesione, contestuale a quella dell'illegittimità del protesto, costituisce un danno ingiusto in re ipsa (cfr. Cassazione 4881/01; 11103/98; 2576/96). La Cassazione, in base ai principi costituzionali e alla giurisprudenza della Consulta, sottolineano l'ingiustizia del danno che lede la reputazione della persona che si vede illegittimamente inclusa «nel cartello dei cittadini insolventi» e dunque lesa nella propria immagine sociale (cfr. artt. 2 e 3 Cost.) e socialmente discriminata (cfr. Corte costituzionale, n. 252/83).
Vai alla sentenza Cassazione - Sezione 3° Civile - 18/04/2007 n. 9233
LE SEZIONI UNITE STATUISCONO SULLA DECORRENZA DEL TERMINE PRESCRIZIONALE PER LA RICHIESTA DI RIMBORSO DEGLI INTERESSI ANATOCISTICI
Le Sezioni unite civili della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 24418/10, hanno respinto il ricorso della Banca Popolare Pugliese avverso la Sentenza n. 97/09 emessa dalla Corte d’Appello di Lecce, chiarendo che "se dopo la conclusione di un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente, il correntista agisce per far dichiarare la nullità della clausola che prevede la corresponsione di interessi anatocistici e per la ripetizione di quanto pagato indebitamente a questo titolo, il termine di prescrizione decennale cui tale azione di ripetizione è soggetta decorre, qualora i versamenti eseguiti dal correntista in pendenza del rapporto abbiano avuto solo funzione ripristìnatoria della provvista, dalla data in cui è stato estinto il saldo di chiusura dei conto in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati." Il termine decennale di prescrizione per richiedere alla banca gli interessi anatocistici indebitamente pagati decorre quindi dalla data in cui è stato estinto il saldo di chiusura del conto ed interessa tutte le operazioni operate dal correntista dall’apertura del conto alla sua chiusura. Non solo. Sul fronte capitalizzazione degli interessi il Collegio esteso ha rafforzato un principio già sancito dal legislatore e secondo cui "l'interpretazione data dal giudice di merito all'art. 7 del contratto di conto corrente bancario, stipulato dalle parti in epoca anteriore al 22 aprile 2000, secondo la quale la previsione di capitalizzazione annuale degli interessi contemplata dal primo comma di detto articolo si riferisce ai soli interessi maturati a credito del correntista, essendo invece la capitalizzazione degli interessi a debito prevista dal comma successivo su base trimestrale, è conforme ai criteri legali d'interpretazione del contratto ed, in particolare, a quello che prescrive l'interpretazione sistematica delle clausole; con la conseguenza che, dichiarata la nullità della surriferita previsione negoziale di capitalizzazione trimestrale, per contrasto con il divieto di anatocismo stabilito dall'art. 1283 c.c. (il quale osterebbe anche all'eventuale previsione negoziale di capitalizzazione annuale), gli interessi a debito del correntista debbono essere calcolati senza operare capitalizzazione alcuna".
Insomma il correntista può recuperare tutte le somme che la banca ha illegittimamente acquisito dalla prima operazione sino alla chiusura del conto, purché questo non sia chiuso da oltre dieci anni.
Inoltre è vietata ogni forma di anatocismo, sia trimestrale che annuale.
Vai alla sentenza Cassazione Sezioni Unite Civili, 02/12/2010 n. 24418
Vai al commento del Dott. Roberto Marcelli esaminante, tra l'altro, la nuova metodologia da adottare in sede di ricalcolo peritale
LA CORTE D'APPELLO DI ANCONA CONSIDERA NON APPLICABILE AI GIUDIZI IN CORSO L'ART. 2 CO. 61 D.L. 29/12/2010 N. 225 ("MILLEPROROGHE")
La Corte d'Appello di Ancona, con l'interessante e ben motivata ordinanza del 15/03/2011, interviene (subito dopo l'ordinanza del Tribunale di Benevento del 10/03/2011, che ne ha sollevata la questione di legittimità costituzionale) sulla recente norma di cui all'art. 2 co. 61° del D.L. 29/12/2010 n. 225 (c.d. "Decreto Milleproroghe", conv. con mod. dalla L. 26/02/2011 n. 10). Tale disposizione, come noto, prevede testualmente che "in ordine alle operazioni bancarie regolate in conto corrente l'articolo 2935 del codice civile si interpreta nel senso che la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall'annotazione in conto inizia a decorrere dal giorno dell'annotazione stessa. In ogni caso non si fa luogo alla restituzione degli importi già versati alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto legge".
In particolare, la Corte afferma la non applicabilità della novella di cui sopra al caso di specie sotto un duplice profilo. In primo luogo, poiché i "diritti nascenti dalle annotazioni in conto", per coerenza sistematica, devono essere immediatamente azionabili (ancorché il cliente possa non aver ancora cognizione di tali annotazioni), mentre nel caso delle azioni di ripetizione dell'indebito essi sorgono solo al verificarsi di un "pagamento" come definito dalle Sezioni Unite Civili con la sentenza 02/12/2010 n. 24418. Di conseguenza la norma del decreto, riferendosi alla prescrizione dei diritti diversi da quelli in lite, non risulta pertinente alla fattispecie esaminata, la quale resta quindi assoggettata ai principi fissati dalla Corte di legittimità. In secondo luogo, avendo la norma ad avviso del giudicante portata innovativa e non meramente interpretativa, essa non può trovare applicazione non potendo disporre retroattivamente l'estinzione di un diritto già azionato in giudizio. La pronuncia della Corte d'Appello d'Ancona si pone dichiaratamente nel solco tracciato dalla già citata sentenza delle Sezioni Unite, riconoscendone il perdurante valore di precedente di riferimento in materia. Al di là della valutazione sull'asserita natura innovativa e non interpretativa della novella, da cui discenderebbe la sua dichiarata inapplicabilità ai giudizi pendenti, appare di tutta evidenza che il percorso logico-argomentativo seguito dalla Corte marchigiana intende minimizzare la portata dell'intervento del Legislatore, riscontrando l'inadeguatezza della norma così formulata a far decorrere il termine prescrizionale dell'indebito dalla mera annotazione dell'operazione dichiarata nulla.
Vai all'ordinanza della Corte d'Appello di Ancona 15/03/2011
Vai all'ordinanza del Tribunale di Benevento 10/03/2011
LA NULLITA' DELLE CLAUSOLE DI CAPITALIZZAZIONE TRIMESTRALE
Le Sezioni Unite della Cassazione confermano, con la sentenza n. 21095/04, la nullità delle clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori. L'art. 1283 c.c. stabilisce che, in mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza; e sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi. Il Giudice di legittimità è più volte intervenuto onde dirimere la questione dello "spessore" che dovrebbero avere gli usi richiamati dall'art. 1283 c.c. In particolare, è stato statuito che "la clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal cliente di una banca è nulla in quanto essa non risponde ad un uso negoziale (e non normativo), ancorché la clausola stessa sia nello specifico contratto, dichiarata conforme alle "norme bancarie uniformi" (giacché anche queste costituiscono usi negoziali) " (Cass. 01/10/02 n. 14091). Nel senso della nullità della convenzione di capitalizzazione trimestrale dell'interesse composto, si confrontino, tra le altre: Cass. 11/11/03 n. 2593; Cass. 18/09/03 n. 13739; Cass. 01/10/02 n. 14091; Cass. 28/03/02 n. 4498; Cass. 28/03/02 n. 4490; Cass. 01/02/02 n. 1281; Cass. 11/11/99 n. 12507; Cass. 30/03/99 n. 3096. Di particolare rilievo è la sentenza del 30/03/99 n. 3096, con la quale la Cassazione ha ritenuto che la clausola della capitalizzazione trimestrale potrebbe fondarsi, semmai, solo su un uso negoziale; conseguentemente escludendo che possa verificarsi un'integrazione automatica nel contratto a norma dell'art. 1374 c.c.
Prima del 1999, la prassi bancaria della capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito era ritenuta rientrare, anche dall'esame compiuto in via giudiziaria, fra gli usi normativi richiamati dall'art. 1283 c.c. e, cioè, nella "costante, uniforme, generale e pubblica ripetizione di un determinato comportamento accompagnato dalla convinzione che si tratti di un comportamento giuridicamente obbligatorio". L'importanza della sentenza delle S.U. in commento risiede nel fatto che viene escluso che le clausole di capitalizzazione trimestrale dovessero ritenersi valide sino al 1999, stante l'allora communis opinio della loro validità (ad una consuetudine in tal senso allora vigente sarebbe subentrata solo una desuetudine). E ciò, da un lato, perché già prima del 1999 vi erano stati importanti interventi in materia da parte del Legislatore (si pensi alla c.d. Legge antiusura) e, dall'altro lato, perché le clausole che consentivano l'anatocismo, già predisposte dalle Banche, venivano sottoscritte -senza possibilità di modifica- dalla parte che aveva necessità di accedere al credito bancario. Si afferma definitivamente, pertanto, l'indispensabilità dell'uso normativo al fine di giustificare la deroga al divieto di pattuizione anatocistica.
Con la sentenza S.U. 4 novembre 2004 n. 21095 la vicenda dell'anatocismo giunge, se forse non alla definitiva conclusione, sicuramente ad un punto d'arrivo giurisprudenziale di notevole rilevanza. La vicenda può essere così sintetizzata:
Per quasi un ventennio la giurisprudenza di legittimità e di merito ha affermato la validità delle clausole di capitalizzazione trimestrale, escludendo l'esistenza di un contrasto con la previsione di cui all'art. 1283 c.c. sulla base dell'affermazione dell'esistenza di un uso idoneo a derogare al divieto di anatocismo stabilito dalla norma medesima. Tale orientamento trovava opposizione solo in alcune sporadiche pronunce di merito.
Nel 1999 la Suprema Corte, con una serie di sentenze, affermava la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale, "sostanzialmente argomentando nel senso della inesistenza di un uso normativo idoneo a derogare all'art. 1283 c.c." Il nuovo corso della Cassazione, tuttavia, è stato contrastato da una minoritaria giurisprudenza di merito.
Il legislatore tentava di attuare un intervento risolutivo della materia con il D.Lgs. 4 agosto 1999, n. 342, da un lato modificando l'art. 120 T.U.L.B. ed introducendo con esso il principio della eguale cadenza di capitalizzazione dei saldi attivi e passivi e, dall'altro lato, stabilendo una "sanatoria" per il pregresso con la norma transitoria di cui all'art. 25 D.Lgs. n. 342/1999, che operava il "salvataggio" delle clausole di capitalizzazione trimestrale contenute nei contratti conclusi prima dell'entrata in vigore della nuova disciplina".
La norma transitoria è stata travolta dalla Corte costituzionale 17 ottobre 2000, n. 425.
Risoltosi così il problema per i soli contratti di conto corrente posteriori al 2000, per il periodo precedente la Suprema Corte ha continuato, con una ulteriore serie di sentenze, a ribadire il suo più recente approccio, estendendo i principi enunciati inizialmente con riferimento al conto corrente bancario anche ai contratti di mutuo". Infine, con la pronuncia delle Sezioni Unite n. 21095/2004, ha sancito in modo netto il revirement del 1999, consolidando il nuovo "trend giurisprudenziale e normativo".
Vai alla Sentenza Cassazione Sezioni Unite 07/10 - 04/11/04 n. 21095
Pubblichiamo un'interessante sentenza di merito che si caratterizza per aver affrontato, con estrema chiarezza e linearità, una serie di aspetti (decorrenza prescrizione, anatocismo, rinvio agli usi, capitalizzazione trimestrale, commissione di massimo scoperto, approvazione del conto) già esaminati dalla giurisprudenza di legittimità
Vai alla sentenza del Tribunale di Torino n. 450 del 21/01/2010
IL TRIBUNALE INIBISCE ALLA BANCA DI RESPINGERE LE RICHIESTE DI RICALCOLO DELLA ESPOSIZIONE DEBITORIA SOSTENENDO LA VALIDITA' DELLA CLAUSOLA DI CAPITALIZZAZIONE TRIMESTRALE
Il Tribunale di Palermo ha accolto la domanda di inibitoria avanzata da un'associazione di consumatori nei confronti del Banco di Sicilia il quale, malgrado il rinnovato quadro normativo e giurisprudenziale in tema di anatocismo bancario e la natura vessatoria della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi, si era reiteratamente rifiutato di ricalcolare il saldo dei conti correnti ancora attivi o di restituire le somme incassate in forza della illegittima capitalizzazione degli interessi a debito. Il Giudicante ha fatto divieto all'istituto bancario di respingere le istanze avanzate dai titolari di rapporto di conto corrente (consumatori) finalizzate al ricalcolo della esposizione debitoria previa depurazione della capitalizzazione trimestrale al 30 giugno 2000 nonchè quelle dirette alla ripetizione di somme corrisposte in eccedenza in virtù della applicata capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito sino a detta data. Tale divieto riguarda i soli casi in cui la banca abbia sostenuto la piena validità ed efficacia della clausola di capitalizzazione trimestrale, potendo invece l'istituto giustificare il rifiuto al ricalcolo sulla base di diverse eccezioni inerenti il singolo rapporto di conto corrente bancario. Il Tribunale ha infine disposto l'applicazione di una penalità in caso di ritardo pari ad euro 516 per ogni violazione alle statuizioni rigettando inoltre la domanda volta ad ottenere la condanna della banca a consegnare gli estratti conto in suo possesso antecedenti i dieci anni dalla richiesta, non ravvisandosi alcun obbligo giuridico di consevazione di tale documentazione oltre il decennio.
Vai alla sentenza del Tribunale di Palermo 01/06/2006 n. 2491
L'ILLEGITTIMITA' DELL'ANATOCISMO TRIMESTRALE
Il Tribunale di Lecce - Sezione distaccata di Nardò, con la sentenza n. 42 del 05/04/2004 è intervenuto -in materia di contratti di c/c bancario e di interessi passivi- tutelando le legittime istanze degli utenti bancari (cfr.: Trib., ordinanze 21/10/1999; 29/10/1999 e 10/12/1999: r.o. nn. 690 e 753 del 1999, n. 44 del 2000; Trib. Sent. 352/2004; C. Appello, sent. 27/6/2000; C. Appello, sent. 22/10/2001; C. Appello 6/2/2001).
In Dottrina è ormai riconosciuto che, in mancanza della domanda giudiziale o della convenzione posteriore alla scadenza degli interessi, questi ultimi restano infruttiferi in considerazione della imperatività della norma di cui all'art. 1283 c.c.; dal ché la violazione di essa produce la nullità delle relative pattuizioni anteriori alla scadenza degli interessi (CAFARO R. - TANZA A. "La tutela dei consumatori nel credito, nei servizi finanziari e bancari", Piacenza, 2003, 136). La sentenza in rassegna si segnala anche per il principio sancito in tema di contestazione/approvazione dell'estratto conto, documento certificato dal dirigente della Banca, il cui valore probatorio è limitato ai soli fini dell'ottenimento del decreto ingiuntivo.
Per unanime e consolidato orientamento giurisprudenziale, in un ordinario giudizio di cognizione, l'efficacia probatoria dell'E/C è regolata dai principi generali (Trib. Genova sent. 1/4/99 in Gius, 1999, pag. 2446; Cass. 10/8/90 n. 8128; Trib. Cagliari sent. 4/7/89, in Riv. Giur. Sarda, 1991, 75; Trib. Milano, sent. 13/10/88 in Banca, Borsa e titoli di credito, 1990, II, 213; Trib. Alessandria, sent. 13/5/97 in Giur. It., 1998, 54, con nota di Ziino; Trib. Venezia, sent. 4/6/92 in Foro It., 1994, I, 289, secondo cui il saldaconto non costituisce neppure prova idonea per l'ingiunzione di pagamento); mentre "la migliore dottrina e giurisprudenza, attenendosi alla lettera della norma, hanno circoscritto il valore probatorio al procedimento monitorio e riconosciuto al documento medesimo, nell'ambito del giudizio di cognizione, l'idoneità a fornire meri elementi di prova indiziaria atti a contribuire soltanto nel contesto di altri elementi ugualmente significativi alla formazione del libero convincimento del giudice" (CAFARO R. - TANZA A., cit., 122). L'approvazione del conto ex art. 1832 c.c. (applicabile al c/c bancario in forza del richiamo operato dall'art. 1857 c.c.) rende incontestabili le annotazioni in conto -derivanti dalla mancata impugnazione- nella loro realtà effettuale; ma NON determina la decadenza da eventuali eccezioni relative alla validità ed efficacia dei rapporti obbligatori (contratto ed altre pattuizioni) da cui dette annotazioni derivano (cfr. Cass. 11/5/98 n. 4735; Cass. 11/9/97 n. 8989; Cass. 16/1/97 n. 404; Cass. 10/10/96 n. 8851; Cass. 11/3/96 n. 1978; Cass. 15/6/95 n. 6736; Cass. 24/5/91, n. 5876; Cass. 13/1/88 n. 178; Cass. 24/7/86 n. 4735; Cass. 7/9/84 n. 4788; Cass. 14/2/84 n. 1112; Cass. 19/1/84 n. 452; Cass. 19/8/83 n. 5409, Cass. 10/4/80 n. 2095). "Il silenzio del correntista (perché in ciò si risolve la mancata contestazione) non può, quindi, essere interpretato come costitutivo di diritti di credito in realtà insussistenti, tanto più se si considera che, di norma, le contestazioni formulabili presuppongono un bagaglio di conoscenze tecnico - giuridiche delle quali, per comune esperienza, il normale cittadino è del tutto sprovvisto, né va sottovalutata la posizione dell'imprenditore che, avendo investito le somme oggetto di affidamento, è impossibilitato a restituire immediatamente le medesime qualora la banca, indispettita da pesanti contestazioni, revochi immediatamente l'affidamento stesso" (CAFARO R. - TANZA A., cit., 123). Stesse conclusioni vengono raggiunte per quanto concerne l'arbitraria variazione, in sfavore del cliente, dei c.d. "giorni di valuta". Nel provvedimento in esame il Giudicante si sofferma sulla questione dei c.d. "usi di piazza", stabilendo che in caso di generico "riferimento per relationem alle condizioni praticate usualmente dalle Banche sulla piazza", anche per i contratti di conto corrente anteriori all'entrata in vigore della Legge 154/1992 gli interessi ultralegali vanno determinati per iscritto ex art. 1284 c.c. e per relationem solo mediante "il richiamo a criteri prestabiliti ed elementi estrinseci, purché obiettivamente individuabili ". La clausola di determinazione dell'interesse ultralegale, mediante riferimento al c.d. "uso di piazza", è da ritenersi nulla ed improduttiva di ogni effetto per violazione del disposto di cui agli artt. 1284, comma 3°, 1346 e 1418, comma 2°, cod. civ. La S.C. sin nella sentenza n. 11042 del 10/11/97 ha infatti inequivocabilmente osservato che "una clausola, la quale si limiti a far riferimento alle condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito sulla piazza, non è sufficientemente univoca e non può quindi giustificare la pretesa al pagamento di interessi in misura superiore a quella legale, in quanto, data l'esistenza di diverse tipologie di interessi, essa non consente, per la sua genericità, di stabilire a quale previsione le parti abbiano inteso concretamente riferirsi". Nel senso della nullità della clausola determinativa dell'interesse corrispettivo ultralegale mediante il rinvio "alle condizioni usualmente praticate dalle aziende di credito sulla piazza " v. anche -ex plurimis- Cass. - Sez. I, 14/1/99 n. 348.
Per quanto riguarda la c.m.s. (commissione di massimo scoperto) anche il Tribunale di Lecce, nella sentenza in commento, aderisce ad un'opinione ormai più che consolidata in Giurisprudenza di merito e di legittimità (ex plurimis: Cass. 21/11/00 n. 15024), nonché in Dottrina: la ratio delle c.m.s. non può essere individuata in alcuna fonte normativa poichè il nostro ordinamento non fa mai riferimento alla c.m.s., termine che, di fatto, è considerato un vera e propria integrazione del tasso nominale di interesse e che non ha una specifica giustificazione economico-tecnica (BRUSASCA, Tecnica Bancaria, Milano; DELL'AMORE, Economia delle aziende di credito, Istituto di Economia Aziendale Università Bocconi di Milano, III, Le banche di deposito, 777; CAFARO R- TANZA A., cit. p.116). La convenzione anatocistica, preventiva e trimestrale, potrebbe essere consentita, ex art. 1283 c.c., solo in presenza di un uso normativo, in forza del quale sia espressamente prevista la preventiva pattuizione della capitalizzazione trimestrale degli interessi scaduti. Non esiste un uso normativo, anteriore all'entrata in vigore del vigente codice civile del 1942, né successivo a detta data, il cui contenuto consenta la preventiva pattuizione della capitalizzazione trimestrale degli interessi non ancora scaduti. E se, per assurdo, si fosse creato un tale uso successivamente all'entrata in vigore del codice civile, questo non avrebbe potuto validamente formarsi, in quanto contra legem. La pretesa consuetudine normativa di capitalizzazione trimestrale degli interessi non soltanto è inesistente al momento dell'entrata in vigore del codice del 1942, ma anche successivamente, visto che le prime N.U.B. (Norme Bancarie Uniformi, gruppo di 15 condizioni elaborate dall'ABI), in tema di conto corrente, sono state adottate dal 1° gennaio 1952 (ma non erano presenti né nel 1942, né successivamente) e prevedevano, per la prima volta, la capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori. Per quanto riguarda gli "usi", registrati dalle Camere di Commercio in sede provinciale (prima o in concomitanza con l'entrata in vigore del codice civile e delle "condizioni generali uniformi di banca" in tema di conto corrente), non contenevano previsioni circa la chiusura e la capitalizzazione trimestrale dei conti debitori a favore delle banche. In conclusione, deve convenirsi che l'inserzione nei contratti bancari di una previsione di capitalizzazione trimestrale non costituisce un uso normativo. Al più, essa potrebbe costituire una tendenza (dettata dall'imposizione di un contraente forte) verso la costituzione di un uso negoziale (art. 1340 c.c.), la cui formazione peraltro non si sarebbe mai compiuta, considerato il contrasto di questa clausola con il divieto imperativamente stabilito dalla legge (così: CAFARO R. - TANZA A., cit., 103).
Vai alla sentenza del Tribunale di Lecce - Sezione di Nardò, n. 42 del 05/04/2004 Vai alla sentenza del Tribunale di Lecce n. 352 del 07/01 - 11/02/04 Vai alla sentenza del Tribunale di Lecce n. 522 del 28/01/04 Vai alla sentenza del Tribunale di Lecce n. 1736 del 14/04/03
EMESSA LA PRIMA SENTENZA DI MERITO SULLA VICENDA DELLE OBBLIGAZIONI ARGENTINE
Vai alla sentenza del Tribunale di Mantova - Sez. II, n. 614 del 18/03/2004
Vai alla nota a sentenza dell'Avv. Giovanna Cafaro (articolo tratto da www.tidona.com)
Vai ad una rassegna di massime giurisprudenziali in materia di bonds argentini (da www.tidona.com - maggio 2005)
GLI ISTITUTI DI CREDITO NON POSSONO FARSI PAGARE LE INFORMAZIONI RICHIESTE DAI CORRENTISTI IN MERITO ALLE LORO OPERAZIONI BANCARIE
Le banche devono consegnare ai propri clienti le informazioni personali richieste in modo gratuito e in forma comprensibile. Lo ha statuito, in data 21/11/03, il Garante per la protezione dei dati personali, il quale ha dato ragione al ricorso di un correntista che, dopo aver richiesto alla propria banca informazioni sulle sue operazioni bancarie, si è sentito rispondere che -per accedere alla documentazione richiesta- avrebbe dovuto ''precostituire i fondi occorrenti per la ricerca e la produzione dei documenti richiesti''. Il Garante ha ribadito che la legge obbliga ''il titolare o il responsabile del trattamento ad estrapolare dai propri archivi e documenti tutti i dati personali oggetto di richiesta, detenuti su supporto cartaceo o informatico, che riguardano l'interessato, ed a comunicarli a quest'ultimo con modalità idonee a renderli agevolmente comprensibili.
Intervenendo su un simile ricorso, già il 12/05/03 il Garante aveva statuito l'obbligo per la Banca ad assicurare un completo riscontro dei dati in suo possesso, anche quando questi siano stati già, in tutto o in parte, comunicati al cliente mediante l'invio degli estratti conto mensili. Qualora l'operazione di estrapolazione e trascrizione fosse particolarmente complessa, la banca può far visionare la documentazione al cliente o rilasciargliene copia.
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CONFERMATA DALLA CORTE D'APPELLO DI ROMA LA VESSATORIETA' DI ALCUNE CLAUSOLE DEI CONTRATTI BANCARI
La vicenda prende le sue mosse dalla sentenza 21/01/2000 con la quale il Tribunale di Roma ha dichiarato abusive alcune clausole predisposte dall'A.B.I. e ne inibiva l'uso sia nei contratti bancari pendenti sia in quelli futuri. Il Giudice di 2° grado, respingendo -in grandissima parte- l'appello proposto dall'A.B.I., nonché dalla Banca Fideuram e dalla B.P.M., compie un'approfondita e molto convincente analisi della natura e dei limiti delle condizioni generali di contratto utilizzate nei rapporti tra Banche e consumatori; distinguendo tra le clausole illegittime e quelle che, per rimanere legittime, devono essere adeguatamente interpretate. In particolare, la Corte chiarisce che una clausola giudicata abusiva può risultare legittima in un singolo contratto qualora risulti che essa sia stata oggetto di trattativa individuale (art. 1469 ter cod. civ., 4° co.) oppure, in concreto, bilanciata da vantaggi compensativi. Illegittime vengono confermate le clausole riguardanti: a) la limitazione convenzionale della responsabilità della Banca nei contratti per le cassette di sicurezza e per gli obblighi di custodia degli assegni da parte del cliente; b) la facoltà di libero ed incondizionato recesso nel contratto di apertura di credito; c) l'autotutela -in favore della Banca- per l'ipotesi di compensazione di propri controcrediti; d) l'anatocismo; e) l'esclusione -per la Banca- dell'obbligo di comunicazione preventiva in caso di modifica del parametro di cui alle indicizzazioni degli interessi; f) la facoltà della Banca di agire in via principale, anziché sussidiaria, sui beni personali di ciascuno dei coniugi cointestatari; g) la facoltà -per la Banca- di modificare le Condizioni Generali di contratto per proprie "esigenze organizzative"; h) la limitazione di responsabilità per fatti di terzi; i) l'efficacia probatoria conferita all'estratto conto; l) la limitazione di responsabilità per la mancata comunicazione -nel termine di 2 o 4 giorni, a seconda se la Banca è girante o portatrice del titolo- del mancato pagamento di un assegno bancario.
Vai alla sentenza 24/09/2002 della Corte d'Appello di Roma - 2° Sezione Civile