Domanda di risoluzione e
criteri di valutazione dell'inadempimento

(commento alla sentenza Cassazione Civile - Sez. II° - 14 maggio 2004 n. 9200 )


La sentenza che si annota affronta fondamentalmente due delicate questioni: la valutazione dell'inadempimento e l'ammissibilità di un adempimento offerto successivamente alla domanda di risoluzione giudiziale (cfr. Auletta, La risoluzione per inadempimento, Milano, 1942, 137 e segg.; Di Majo-Giaquinto, L'esecuzione del contratto, Milano, 1967, 435 e segg.).
Se per quanto riguarda il primo punto la pronuncia in esame non si discosta dall'orientamento della Cassazione consolidatosi nel tempo, per quanto attiene alla seconda questione, la Suprema Corte torna ad occuparsi di una problematica molto controversa e dibattuta, riproponendo una interpretazione dell'art. 1453 c.c. a lungo contraddetta da molte altre decisioni della stessa Cassazione (v. Palmieri, La risoluzione per inadempimento nella giurisprudenza, Milano, 1994; e Vitiello, Risoluzione per inadempimento e adempimento tardivo, in Giur. It., 1995, I, 1, 1379).
La Corte d'appello, nel pronunciare la risoluzione del contratto preliminare di vendita chiesta dal promittente venditore, aveva ritenuto la gravità dell'inadempimento del promissario acquirente in considerazione delle rate di mutuo non pagate maturate nel corso del giudizio. La Suprema Corte, con la sentenza in epigrafe, ha cassato la sentenza, rilevando, che la valutazione della gravità dell'inadempimento doveva essere compiuta con riferimento al comportamento tenuto dall'obbligato al momento della proposizione della domanda di risoluzione (cfr. De Michel, Adempimento dopo la domanda di risoluzione e valutazione della non scarsa gravità dell'inadempimento, in Giur. It., 1994, I, 1, 1209).
Con riguardo alla prima problematica affrontata dalla sentenza in esame, è regola generale (così Corrias, Considerazioni sulla valutazione dell'importanza dell'inadempimento ai fini della risoluzione del contratto, in Riv. Giur. Sarda, 1991, 661) che: nei contratti con prestazioni corrispettive, in caso di denuncia di inadempienze reciproche, è necessario far luogo ad un giudizio di comparazione in ordine al comportamento tenuto da entrambe le parti per stabilire quale di esse, con riferimento ai rispettivi interessi ed alla oggettiva entità degli inadempimenti, si sia resa responsabile delle trasgressioni maggiormente rilevanti e causa del comportamento della controparte, nonché della conseguente alterazione del sinallagma (cfr. Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1966, 185, secondo il quale l'inadempimento giustifica la risoluzione del contratto «per la mancanza funzionale della causa»; e Messineo, Dottrina generale del contratto, Milano, 1952, 75 e segg., il quale collega la risoluzione per inadempimento proprio alla sopravvenuta mancanza di causa dell'obbligazione di adempiere).
Tale accertamento, fondato sulla valutazione dei fatti e delle prove, rientra nei poteri del giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato (ex plurimis: cfr. Cass., 7 ottobre 1998, n. 9913, in Rep. Giur. It., 1998, voce «Locazioni di cose», n. 197; Id., 28 ottobre 1981, n. 5672, in Rep. Giust. Civ., 1981, voce «Obbligazioni e contratti», n. 332).
Nella specie, come già efficacemente affermato dalla Suprema Corte di cassazione con la sentenza n. 8063 del 14 giugno 2001 (in Studium iuris, 2002, 97) con riguardo alla disciplina della risoluzione per inadempimento dei contratti a prestazioni corrispettive, il disposto dell'art. 1455 c.c. pone una regola di proporzionalità, in virtù della quale la risoluzione del vincolo contrattuale è collegata unicamente all'inadempimento delle obbligazioni che abbiano una notevole rilevanza nell'economia del rapporto, per la cui valutazione occorre tener conto dell'esigenza di mantenere l'equilibrio tra prestazioni di eguale peso.
Talché l'importanza dell'inadempimento non deve essere intesa in senso soggettivo (1), in relazione alla stima che la parte creditrice abbia potuto fare del proprio interesse violato (2), ma in senso obiettivo, in relazione, cioè, all'attitudine dell'inadempimento a turbare l'equilibrio contrattuale ed a reagire sulla causa del contratto e sul comune intento negoziale.
Per evitare i problemi legati alla valutazione della gravità dell'inadempimento in funzione dell'interesse della parte adempiente appare difatti preferibile l'opinione, largamente seguita in dottrina (cfr.: Collura, Importanza dell'inadempimento e teoria del contratto, Milano, 1992; Giorgianni, L'inadempimento, Milano, 1982; Mirabelli, Dei contratti in generale, in Commentario del codice civile, IV, 11, Torino, 1967; Smiroldo, Profili della risoluzione per inadempimento, Milano, 1982), secondo la quale il giudizio sulla gravità dell'inadempimento deve essere basato su criteri oggettivi, «in armonia fra l'altro con la funzione propria della risoluzione contrattuale, quale rimedio al difetto funzionale del sinallagma» (3). Una visione ancorata a criteri oggettivi consente certamente meglio di valutare l'eventuale squilibrio delle prestazioni dedotte nel contratto, rispetto ad una valutazione compiuta ponendosi esclusivamente nei panni dell'interessato (Cass., 13 febbraio 1990, n. 1046, in Arch. Civ., 1990, 610).
Sebbene, muovendo esclusivamente dal dato letterale dell'art. 1455 c.c., potrebbe quindi apparire preferibile la scelta di una valutazione soggettiva dell'inadempimento (secondo Ricciuto, Il recente orientamento della Cassazione sui criteri di valutazione dell'importanza dell'inadempimento, in Riv. Dir. Comm., 1987, II, 457, nota a Cass., 28 giugno 1986, n. 4311, nella sua laconicità l'art. 1455 ha indicato: un criterio di misurazione, ovvero l'importanza dell'inadempimento; e un chiaro termine di riferimento, cioè «l'interesse dell'altra parte»), in realtà, da una analisi puntuale, relativa ad altre norme che fanno riferimento alla rilevanza dell'inadempimento, emerge con chiarezza l'opportunità di un criterio oggettivo di valutazione (De Martini, Scarsa importanza dell'inadempimento, rifiuto di pagamento e preclusione dell'adempimento tardivo, in Giur. Comm., 1948, III, 813).
In materia di compravendita, ad esempio, negli artt. 1490 e 1492 c.c. è prevista la risoluzione del contratto se la cosa venduta sia affetta da «vizi che la rendano inidonea all'uso a cui è destinata»; nell'art. 1497 c.c. per un altro verso, si attribuisce all'acquirente il diritto di ottenere la risoluzione del contratto «quando la cosa venduta non ha le qualità promesse ovvero quelle essenziali per l'uso a cui è destinata». Inoltre, merita di essere citato, in materia di contratto d'appalto il 2° comma dell'art. 1668 c.c. che consente al committente di chiedere la risoluzione del contratto allorché «le difformità ed i vizi dell'opera sono tali da renderla del tutto inadatta alla sua destinazione» (4). Infine a consolidare l'orientamento favorevole ad una valutazione oggettiva dell'inadempimento soccorre senz'altro la disciplina introdotta nel codice agli artt. 1519 bis e segg. c.c. che esplicitamente nell'art. 1519 ter c.c. detta in modo inequivocabile i criteri, in base ai quali poter eccepire il vizio di conformità anche ai fini di una eventuale risoluzione del contratto, ancorandoli a parametri obiettivi quali l'inidoneità «all'uso al quale servono abitualmente beni dello stesso tipo» (art. 1519 ter, 2° comma, lett. a, c.c.) oppure «la qualità e le prestazioni abituali di un bene dello stesso tipo» che il consumatore può «ragionevolmente aspettarsi» (art. 1519 ter, 2° comma, lett. b, c.c.). Ai fini del criterio oggettivo da applicare nella valutazione della gravità dell'inadempimento nella controversia oggetto della sentenza in esame, merita inoltre attenzione l'art. 1525 c.c., il quale precisa che nella vendita con riserva di proprietà il mancato pagamento di una sola rata, che non superi l'ottava parte del prezzo, non dà luogo alla risoluzione del contratto.
Tuttavia, la giurisprudenza in tema d'interpretazione dell'art. 1455 c.c., dopo un'iniziale oscillazione fra le due antagoniste letture in chiave soggettiva od oggettiva della norma in esame, ha sposato una posizione intermedia (5). Infatti, se per un verso si considera prioritaria una valutazione obiettiva e funzionale dell'accordo negoziale, per un altro si ritiene che tale valutazione deve essere sempre condotta avendo come punto di riferimento costante l'interesse del soggetto non inadempiente ad un tempestivo ed esatto adempimento (Pisciotta, La risoluzione per inadempimento, Milano, 2000, 54).
La sentenza della Cassazione, che qui si annota, ribadisce quindi, sostanzialmente, tale orientamento (ex plurimis: Cass., 10 settembre 1991, n. 9485, in Giur. It., 1992, I, 1, 1081; e Cass., 7 giugno 1993, n. 6367, in Giur. It., 1994, I, 1, 1209, con nota di Cannas) che va perciò sempre più consolidandosi nella giurisprudenza (6).
La sentenza che si annota, inoltre, affronta, come accennato, un'ulteriore problematica molto delicata, riguardante la possibilità di adempiere (o di offrire l'adempimento) dopo che il creditore non inadempiente abbia giudizialmente richiesto la risoluzione del contratto nel quale era dedotta l'obbligazione inadempiuta (cfr. Picardi, In tema di adempimento tardivo e risoluzione del contratto, in Giur. It., 1994, I, 1, 23; Maienza, Adempimento tardivo e risoluzione del contratto, in Corriere Giur., 1995, 320).
Occorre, ad avviso di autorevole condivisibile dottrina (Sacco-De Nova, Trattato di diritto civile, Il contratto, II, Torino, 1992, 603), preliminarmente chiarire alcune circostanze: la domanda prevista nell'art. 1453, 3° comma, c.c. è quella fondata e cioè quella meritevole di accoglimento (Cass., 10 marzo 1986, n. 1588, in Nuova Giur. Comm., 1987, 37, con nota di Belfiore). Nel caso contrario, infatti, qualsiasi contraente pentito (anche prima della scadenza dell'obbligazione della controparte) potrebbe chiedere la risoluzione, impedendo così l'adempimento del convenuto, e ottenere lo scioglimento del vincolo contrattuale. In altre parole, la domanda giudiziale non è condizione sufficiente della risolubilità, la quale postula invece l'inadempimento e la sua gravità (Bianca, Diritto civile, V, La responsabilità, Milano, 1994, 285).
Dovendosi aver riguardo, al fine di valutare la gravità dell'inadempimento contrattuale, al rapporto tra l'intero corrispettivo pattuito e la somma non corrisposta, il giudice, come autorevolmente sostenuto da precedenti pronunce della Suprema Corte (Cass., 9 luglio 1997, n. 6224, in Guida al Diritto, 1997, 43), non deve tenere conto dell'ammontare del debito alla data della pronuncia, ma bensí di quello esistente alla data della proposizione della domanda di risoluzione del contratto, poiché è con riferimento a tale momento che va operata la suddetta valutazione.
Nell'ipotesi, oggetto della decisione in esame, in cui l'obbligazione debba essere adempiuta, per un accordo fra le parti, in più scadenze, vige la regola generale secondo la quale la valutazione dell'interesse del creditore ad un adempimento tardivo si pone per le prestazioni già scadute, mentre per quelle che devono ancora scadere (v. Cass., 28 febbraio 1987, n. 2145, in Giust. Civ., 1987, I, 1418) rimane l'obbligo del debitore di adempiere e del creditore di accettarle (cfr. Spallarossa, Giurisprudenza sistematica di diritto civile e commerciale, Torino, 1991, 866).
Tuttavia, mentre con riferimento alla domanda di adempimento contrattuale è consentito al giudice aver riguardo anche alla situazione d'inadempienza esistente al momento della pronuncia, la domanda di risoluzione cristallizza la posizione della parte inadempiente alla data di proposizione della domanda stessa.
Alla luce di tale condiviso principio, si concorda con quanto statuito dalla sentenza in commento laddove valuta «evidentemente erronea» la decisione assunta dalla Corte d'appello che, al fine di valutare la non scarsa importanza dell'inadempimento contrattuale ex art. 1455 c.c. ha tenuto conto, non solo dell'ammontare dei ratei di mutuo venuti a scadenza fino alla data di proposizione della domanda di risoluzione, bensí anche di quelli scaduti successivamente, fino alla data della pronuncia.
La pronuncia in esame sostanzialmente afferma che una volta proposta la domanda giudiziale di risoluzione, e sino a che non intervenga il giudicato, il convenuto non può più adempiere la propria obbligazione (7).
In senso contrario si pone l'orientamento giurisprudenziale, da ultimo rappresentato dalla sentenza della Suprema Corte 1° giugno 1993, n. 6121 (in Vita Notar., 1994, 763), secondo il quale, nelle more del giudizio, potendo la domanda non essere fondata, il debitore non è esonerato dall'obbligo di adempiere, potendo il suo atteggiamento «negativo» riflettersi sulla valutazione del comportamento pregresso, trasformando il precedente adempimento «non grave» in adempimento «grave» e perciò tale da legittimare l'accoglimento della domanda. La ratio che è sottesa a questo orientamento, che si discosta da quello fatto proprio dalla sentenza in epigrafe, è di impedire al creditore non inadempiente di paralizzare la possibilità di un adempimento tardivo con una domanda pretestuosa o infondata nei confronti del debitore inadempiente, il cui inadempimento non sia grave, e farlo, nelle more del giudizio, divenire grave.
Non va, inoltre, ignorato un orientamento (8) che si potrebbe definire «intermedio», fatto proprio da alcune decisioni della Suprema Corte, che, nell'interpretare l'art. 1455 c.c., con una giustificazione parzialmente diversa da quella estrinsecata nella citata sentenza n. 6121 del 1993, ha ritenuto ammissibile l'adempimento tardivo dopo sia stata proposta la domanda di risoluzione. Secondo questa interpretazione «l'adempimento effettuato dopo la domanda di risoluzione del contratto, pur non arrestando gli effetti di tale domanda, deve essere, tuttavia, preso in esame dal giudice» (Cass., 6 aprile 2000, n. 4317, in Corriere Giur., 2000, 1338) al fine di valutare l'importanza dell'inadempimento, potendo esso costituire circostanza decisiva a rendere l'inadempimento di scarsa importanza con diretta influenza sulla risolubilità del contratto, ai sensi dell'art. 1455 c.c. (9).
Tuttavia, anche questa interpretazione risulta criticabile, perché da un lato si pone in contrasto con la formulazione letterale dell'art. 1453 c.c., e dall'altro tradisce la ratio della norma in questione che attribuisce al creditore non inadempiente l'alternativa, in caso di inadempimento grave dell'altro contraente, fra il chiedere comunque l'adempimento tardivo, facoltà che sarà azionata normalmente quando il creditore continuerà ad avere interesse all'adempimento, ed il domandare la risoluzione giudiziale, che la parte non inadempiente richiederà quando sarà venuto meno l'interesse a ricevere la prestazione.
Lo sbarramento proposto dal legislatore si spiega proprio in questi termini: con la domanda di risoluzione il creditore dichiara di non avere più interesse all'adempimento e quindi solo con il suo consenso, e in nessun altro caso, il debitore potrebbe validamente adempiere dopo la domanda.
Condivisibile appare, quindi, l'interpretazione fornita dalla sentenza in epigrafe, che riprendendo un orientamento contrapposto a quello precedentemente indicato, preclude assolutamente la possibilità di un adempimento prestato dopo la domanda di risoluzione (10).
Invero, è stato messo in evidenza come già nella Relazione al codice civile (n. 661) si osservava, in riferimento al disposto del 2° e 3° comma dell'art. 1453 c.c., che «scegliendo la risoluzione, il contraente dichiara di non avere più interesse al contratto ed il debitore non deve ulteriormente mantenersi pronto per l'esecuzione della prestazione» (11). Del resto il creditore, domandando la risoluzione, mostra l'inequivoca volontà di travolgere il contratto, e quindi la mancanza di interesse a ricevere la prestazione, cosicché il convenuto non solo non può più adempiere, ma è anche esonerato dall'effettuare la prestazione a suo carico senza che ciò possa essere valutato ai fini dell'accertamento della fondatezza della domanda di parte attorea (12).
Ex art. 1453, quindi, la richiesta giudiziale di risoluzione del contratto per inadempimento comporta la cristallizzazione della posizione delle parti rispetto al contratto medesimo, in attesa della sentenza definitiva che ne deve decidere le sorti, di guisa che il giudice ha il dovere di fondare la sua decisione esclusivamente su quanto è avvenuto fino a quel momento, restandogli preclusa la valutazione, a qualsivoglia fine, della successiva condotta del debitore (13).
Inoltre, partendo dalla premessa secondo la quale il 3° comma dell'art. 1453 c.c. non introduce per il convenuto un divieto assoluto di adempimento dopo la proposizione della domanda di risoluzione, ma si limita a sancire l'inidoneità di un adempimento tardivo a sanare o lenire le conseguenze del pregresso inadempimento posto a base della domanda (14), nell'implicito presupposto che questo sia sussistente e che quindi il debitore non abbia più interesse all'adempimento, alcune decisioni ne hanno ricavato la conseguenza che se l'obbligazione debba, per accordo tra le parti, essere adempiuta a più riprese, abbia cioè più scadenze, e la domanda di risoluzione sia stata proposta quando non tutte le scadenze si siano verificate, il cennato disposto dell'art. 1453 c.c. si applica esclusivamente alle prestazioni già scadute.
Infatti, il giudice potrà accertare se vi sia stato inadempimento imputabile al debitore soltanto riguardo a queste ultime prestazioni e non a quelle ancora da scadere, rispetto alle quali il comportamento del debitore non è ancora suscettibile di valutazione in termini d'inadempimento; perciò rispetto a queste ultime l'eventuale inadempimento sopravvenuto in corso di causa non va considerato e valutato dal giudice, neanche se dedotto esplicitamente dalla controparte ai fini della pronuncia di risoluzione (15).
Infatti, poiché l'adempimento delle prestazioni che vanno a scadere in corso di causa è precluso al debitore dall'art. 1453, 3° comma, c.c., «la mancata effettuazione non può far diventare grave un inadempimento che non era tale al momento della proposizione della domanda di risoluzione» (Triola, Osservazioni in tema di rapporti tra domanda di risoluzione e inadempimento tardivo, in Vita Notar., 2000, 1370, nota a Cass., 6 aprile 2000, n. 4316).
Quindi, alla luce di quanto esposto è evidente che va condiviso quanto stabilito nella decisione annotata, che sostanzialmente ribadisce l'orientamento già espresso da Cass., 29 novembre 1996, n. 10632 (in Rep. Giur. It., 1996, voce «Obbligazioni e contratti», n. 390) e Id., 14 agosto 1986, n. 5050 (in Foro It., 1987, I, 93).

Autore: Battelli Ettore - tratto da: Giur. It., 2005, 478

Note:

(1) I sostenitori della impostazione soggettiva prendono spunto dalla formulazione letterale dell'art. 1455 c.c. il quale, ponendo come unico parametro di riferimento l'interesse della parte non inadempiente, sembrerebbe legittimare una valutazione della gravità dell'inadempimento legata esclusivamente alla lesione delle aspettative e «alla gravità della ferita arrecata all'interesse del creditore» (Sacco-De Nova, Trattato di diritto civile, Il contratto, II, Torino, 1992, 599). Tuttavia, sebbene questa impostazione abbia avuto un certo riscontro anche in giurisprudenza (Cass., 7 giugno 1993, n. 6367, in Giur. It., 1994, I, 1, 1209, con nota di De Michel), si è posto il problema, da un lato di evitare una valutazione del giudice slegata da qualsiasi criterio oggettivo e come tale informata esclusivamente al suo prudente apprezzamento (esprime tali timori Klitsche de la Grange, Risoluzione per inadempimento e potestà del giudice, in Riv. Dir. Civ., 1964, I, 28); dall'altro di non consentire al soggetto adempiente la possibilità di ottenere una risoluzione giudiziale del contratto invocando esclusivamente la lesione soggettiva dell'interesse (Scognamiglio, I contratti in generale, in Trattato di diritto civile, diretto da Grosso e Santoro-Passarelli, Milano, 1972, 273, così argomenta: «Ci sembra da escludere innanzitutto che, per la determinazione della entità dell'inadempimento, si debba tener conto della valutazione soggettiva che il contraente può fare del suo interesse; nel qual caso si dovrebbe far capo ad un elemento di giudizio vago ed equivoco, quale è la presumibile volontà dell'interessato»).

(2) Sostanzialmente, il timore di quest'ultima impostazione è proprio quella di consegnare la disponibilità del rimedio risolutorio «alla mera volontà della parte, che potrebbe in caso di un inadempimento, obiettivamente non grave, sostenere la lesione del proprio interesse» (De Giorgi, Adempimento tardivo e risoluzione del contratto, in Corriere Giur., 2000, 1340, commento a Cass., 6 aprile 2000, n. 4317).

(3) De Giorgi, Adempimento tardivo e risoluzione del contratto, cit., 1338.

(4) Sempre con riferimento alla valutazione dell'importanza dell'inadempimento, per una più accurata analisi delle norme richiamate a supporto della tesi d'interpretazione oggettiva del dettato dell'art. 1455 c.c., vedi più ampiamente lo studio condotto da Ricciuto, Il recente orientamento della Cassazione sui criteri di valutazione dell'importanza dell'inadempimento, in Riv. Dir. Comm., 1987, II, 463, nota a Cass., 28 giugno 1986, n. 4311.

(5) Cass., 28 marzo 1995, n. 3669, (in Rep. Giur. It., 1995, voce «Obbligazioni e contratti», n. 553): «la non scarsa importanza dell'inadempimento, che, nel giudizio di risoluzione del contratto con prestazioni corrispettive, ...omissis... deve essere accertata non solo in relazione alla entità oggettiva dell'inadempimento, ma anche con riguardo all'interesse che l'altra parte intende realizzare e sulla base di un criterio, quindi, che consenta di coordinare il giudizio sull'elemento oggettivo della mancata prestazione, nel quadro dell'economia generale del contratto, con gli elementi soggettivi e che, conseguentemente, investa, specie nei casi di inadempimento parziale, anche le modalità e le circostanze del concreto svolgimento del rapporto, per valutare se l'inadempimento in concreto accertato abbia comportato una notevole alterazione dell'equilibrio e della complessiva economia del contratto, e l'interesse dell'altra parte, quale è desumibile anche dal comportamento di questa, all'esatto adempimento nel termine stabilito».

(6) Da ultimo Cass., 6 giugno 1997, n. 5086, in Nuova Giur. Comm., 1998, 201, con nota di Barbanera, secondo la quale: «per definire i contorni della gravità dell'inadempimento vengono, quindi, in rilievo da un lato una valutazione obiettiva del fatto e dall'altro una considerazione dell'elemento soggettivo del medesimo; da una parte, cioè, l'elemento oggettivo della mancata prestazione nel quadro dell'economia generale del contratto, dall'altra l'interesse della controparte all'esatto adempimento».

(7) Ex plurimis: Cass., 14 agosto 1986, n. 5050, in Foro It., 1987, I, 93; Id., 28 febbraio 1987, n. 2145, in Giust. Civ., 1987, I, 1418; Id., 18 giugno 1991, n. 6880, in Rep. Foro It., 1991, voce «Contratto in genere», n. 363; Id., 18 giugno 1992, n. 7085, in Giust. Civ., 1993, I, 1264, con commento di Triola, In tema di rapporti tra domanda di risoluzione e domanda di adempimento.

(8) Vedi Cass., 18 maggio 1987, n. 4526, in Nuova Giur. Comm., 1998, 181, con nota di Minici, Risoluzione per inadempimento - Adempimento dopo la domanda; Id., 29 agosto 1990, n. 8955, ivi, 1991, I, 190, con nota di D'Angiolella, Rilevanza del comportamento del debitore successivo alla domanda di risoluzione del contratto; Id., 4 settembre 1991, n. 9358, in Giur. It., 1992, I, 1, 864, con nota di Oddi, secondo il quale: «... ai fini della determinazione della gravità dell'inadempimento il giudice del merito può tenere conto anche del comportamento dell'inadempiente, posteriore alla domanda di risoluzione del contratto; ciò considerando che l'unità del rapporto obbligatorio, cui tutte le prestazioni anche inadempiute (sia prima ovvero dopo l'indicata domanda) si riferiscono, non consente una valutazione frammentaria della condotta della parte inadempiente, per cui, quando nel corso del giudizio siano scadute tutte le residue obbligazioni gravanti sull'inadempiente, occorre tenere conto dell'integrale condotta di quest'ultimo ed operare una valutazione globale: così che l'adempimento effettuato dopo la domanda di risoluzione del contratto, pur non arrestando gli effetti di tale domanda, deve essere preso in esame dal giudice al fine della valutazione dell'importanza dell'inadempimento, potendo esso costituire circostanza decisiva a rendere l'inadempimento di scarsa importanza con diretta influenza sulla risolubilità del contratto ai sensi dell'art. 1455 c.c.».

(9) Da ultimo Cass., 9 dicembre 1988, n. 6672, in Rep. Foro It., 1988, voce «Contratto in genere», n. 391, secondo la quale «l'adempimento tardivo, pur non incidendo sulla domanda di risoluzione del contratto, a norma dell'art. 1453 c.c., deve essere preso in considerazione ai fini della valutazione dell'importanza dell'inadempimento ai sensi ed agli effetti dell'art. 1455 c.c.». In senso adesivo a tale orientamento, in dottrina cfr.: Scognamiglio, Contratti in generale (in Trattato di diritto civile, diretto da Grosso e Santoro-Passarelli, 1972, Milano, 270 e segg.), il quale afferma che la preclusione di cui all'art. 1453, 2° comma, c.c. non può essere intesa in senso categorico, ma deve essere sempre «consentito di agire per l'adempimento, se l'interesse del creditore, venuto meno per causa da lui indipendente, risorga, (...) se il giudizio di risoluzione si sia estinto». In tale ipotesi, comunque, si deve «tener conto dell'interesse del debitore che allo stato delle circostanze ha fatto affidamento invece sulla risoluzione definitiva». Tale orientamento è peraltro accolto anche da altra parte della dottrina: Belfiore, voce «Risoluzione per inadempimento», in Enc. del Diritto, XL, Roma, 1989, 1307; Smiroldo, Profili della risoluzione, cit., 519; Bronzini, L'importanza dell'inadempimento nelle obbligazioni, in Nuovo Dir., 1989, 538.

(10) In dottrina sul punto cfr. Carresi, in Trattato di diritto civile e commerciale, XXI, 2, Milano, 1987, 921, secondo il quale: «Per effetto della notificazione della domanda di risoluzione è invece la parte inadempiente che, almeno in larga massima, non può più adempiere, né quella non inadempiente può più domandare l'adempimento».

(11) Ed invero cfr. Conti, Effetti dell'adempimento successivo alla domanda di risoluzione. Una questione ancora aperta, in Foro Pad., 1992, I, 370, commento a Cass., 4 settembre 1991, n. 9358, il quale sottolinea come: «invero, v'è assoluta concordia in dottrina sul fatto che l'opzione normativa adottata dal legislatore del '42 con il 3° comma dell'art. 1453 cod. civ. tese ad eliminare il principio contenuto nell'art. 1165 del cod. civ. albertino, secondo il quale il giudice adito in risoluzione poteva "secondo le circostanze" concedere una dilazione all'inadempiente. In sede di redazione del nuovo codice, ben si comprese che la certezza dei traffici giuridici sarebbe stata irrimediabilmente compromessa dal potere discrezionale del giudice di concedere una dilazione all'inadempiente. Ecco dunque la ragione per cui si optò per un sistema nel quale la proposizione della domanda di risoluzione aveva effetto preclusivo in ordine ad un eventuale successivo adempimento da parte del debitore convenuto».

(12) In chiave adesiva a questo orientamento di matrice giurisprudenziale, in dottrina cfr. Dalmartello, voce «Solve et repete (patto o clausola del)», in Noviss. Dig. It., IV, Torino, 847, il quale sostiene che, sulla scorta della Relazione al codice civile (n. 661), la ragione della preclusione ex art. 1453 c.c. si evidenzi nel fatto che «scegliendo la risoluzione il contraente dichiara di non avere più interesse al contratto e il debitore non deve ulteriormente mantenersi pronto per l'esecuzione della prestazione».

(13) In tal senso si segnalano due prese di posizione della Suprema Corte ancor più decise, la più risalente delle quali (Cass., 21 febbraio 1985, n. 1531, in Foro It., 1986, I, 200) sostiene che: «Nei contratti a prestazioni corrispettive l'adempimento tardivo di una parte può essere legittimamente rifiutato dall'altra parte, anche nel caso in cui quest'ultima non abbia ancora proposto la domanda per conseguire la risoluzione del contratto, pur dovendo il giudice successivamente adito con essa, procedere in ogni caso, alla valutazione della non scarsa importanza dell'inadempimento, cioè del requisito richiesto dall'art. 1455 c.c. per la pronuncia risolutoria»; più recente è invece la sentenza della Cassazione n. 1595 del 9 febbraio 1993 (in Giur. It., 1994, I, 1, 24), secondo la quale: «Nei contratti a prestazioni corrispettive l'adempimento tardivo di una parte può essere legittimamente rifiutato dall'altra parte adempiente anche nel caso in cui quest'ultima non abbia ancora proposto la domanda per conseguire la risoluzione del contratto, salva la valutazione da parte del giudice della non scarsa importanza dell'inadempimento ai sensi dell'art. 1455 c.c., dovendosi escludere che l'opposto principio possa farsi derivare dalla disposizione dell'art. 1453 ultimo comma (...), perché in tal modo si consentirebbe alla parte inadempiente di modificare a suo arbitrio e senza il concorso dell'altra parte la situazione a lei sfavorevole da essa stessa determinata»; si veda anche Cass., 31 luglio 1987, n. 6643, in Foro It., 1988, I, 138, con nota di Straziota, che, con argomentazioni parzialmente diverse, pare muovere nello stesso senso.

(14) Cfr. Conti, Effetti dell'adempimento successivo alla domanda di risoluzione, cit., 372, secondo il quale: «non v'ha dubbio che il giudizio che dovrà accertare la gravità dell'inadempimento avrà riguardo alle sole prestazioni rimaste inadempiute al momento della domanda; ché se dovesse risultare un inadempimento di rilevante gravità ai sensi dell'art. 1455 c.c., lo stesso giudicante non potrà non esimersi dal pronunziare la risoluzione anche in presenza dell'adempimento successivo delle restanti prestazioni, risultando quest'ultimo inidoneo ad incidere sulla situazione sostanziale e processuale determinata dalla proposizione della domanda di risoluzione».

(15) Contra: Cass., 18 giugno 1991, n. 6880, in Rep. Foro It., 1991, voce «Contratto in genere», n. 363; Id., 4 settembre 1991, n. 9358, in Giur. It., 1992, I, 1, 864, secondo cui, con riguardo alle prestazioni non ancora scadute, l'eventuale inadempimento sopravvenuto in corso di causa va anch'esso preso in considerazione dal giudice, pur se dedotto implicitamente dalla controparte, proprio ai fini dell'accoglimento della domanda di risoluzione.