Il maggior danno da mora debendi nelle obbligazioni pecuniarie

 


 Cass. Civile, S.U., 16/07/08 n. 19499

 Presidente Carbone - PM Martone - Relatore Amatucci

 

Obbligazioni pecuniarie - Principio nominalistico - Mora del debitore - Interessi di mora - Svalutazione monetaria - Maggior danno - Prova presuntiva

Nelle obbligazioni pecuniarie, in difetto di discipline particolari dettate da norme speciali, il maggior danno di cui all'art. 1224, 2| co., c.c., rispetto a quello già coperto dagli interessi legali moratori non convenzionali (che siano comunque dovuti), è in via generale riconoscibile in via presuntiva, per qualunque creditore che ne domandi il risarcimento - dovendo ritenersi superata l'esigenza di inquadrare a tale fine il creditore in una delle categorie a suo tempo individuate -, nella eventuale differenza, a decorrere dalla data di insorgenza della mora, tra il tasso del rendimento medio annuo netto dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi ed il saggio degli interessi legali determinato per ogni anno ai sensi dell'art. 1284, 1° co., c.c.E' fatta salva la possibilità del debitore di provare che il creditore non ha subito un maggior danno o che lo ha subito in misura inferiore a quella differenza, in relazione al meno remunerativo uso che avrebbe fatto della somma dovuta se gli fosse stata tempestivamente versata.Il creditore che domandi a titolo di maggior danno una somma superiore a quella differenza è tenuto ad offrire la prova del danno effettivamente subito, quand'anche sia un imprenditore, mediante la produzione di idonea e completa documentazione, e ciò sia che faccia riferimento al tasso dell'interesse corrisposto per il ricorso al credito bancario sia che invochi come parametro l'utilità marginale netta dei propri investimenti.In entrambi i casi la prova potrà dirsi raggiunta per l'imprenditore solo se, in relazione alle dimensioni dell'impresa ed all'entità del credito, sia presumibile, nel primo caso, che il ricorso o il maggior ricorso al credito bancario abbia effettivamente costituito conseguenza dell'inadempimento, ovvero che l'adempimento tempestivo si sarebbe risolto nella totale o parziale estinzione del debito contratto verso le banche; e, nel secondo, che la somma sarebbe stata impiegata utilmente nell'impresa.

Il fatto

1. Varie società editrici si opposero, con atti distinti, a diversi decreti ingiuntivi emessi nei loro confronti dal pretore di Roma su istanza dell'Inpgi - Istituto nazionale di previdenza dei giornalisti italiani "( omissis )" per il pagamento di somme dovute per omesso versamento di contributi assicurativi e relative sanzioni civili relativamente a periodi compresi tra il 1980 ed il 1986.

Dedussero che, a seguito della fiscalizzazione di cui all'art. 1, l. n. 782/1980, le somme non erano dovute e, in subordine, che l'Inps, che chiamarono in giudizio unitamente al Ministero del tesoro, era tenuto a restituire quanto percepito in eccesso.

Con sentenza n. 15496/1996 il pretore respinse le opposizioni e condannò l'Inps a tenere indenni le società opponenti di quanto avrebbero dovuto pagare all'Inpgi in base ai decreti ingiuntivi.

Decidendo con sentenza n. 14271/2003 sugli appelli proposti ed in parziale accoglimento dell'appello incidentale condizionato proposto dalla R.E. s.p.a. (anche quale incorporante di R.E.Q. s.p.a.) la sezione lavoro del Tribunale di Roma ha, per quanto in questa sede interessa, condannato l'Inps alla restituzione dei contributi indebitamenti versati dalla predetta società per l'ammontare di euro 110.982,29, "oltre interessi legali e rivalutazione monetaria, secondo gli indici Istat dei prezzi al consumo, dalla data di notificazione all'Inps dei ricorsi in opposizione ai decreti di ingiunzione fino al soddisfo".

Ha ritenuto il Tribunale che, secondo quanto affermato da Cass. n. 6420/2001, ai fini del risarcimento del maggior danno da svalutazione monetaria ex art. 1224, 2° co., c.c., la semplice qualità di imprenditore del creditore rileva come elemento presuntivo idoneo a far ritenere che la somma, se restituita tempestivamente, sarebbe stata reinvestita nell'attività produttiva, con conseguente neutralizzazione degli effetti della svalutazione monetaria.

2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione l'Inps, affidandosi ad un unico motivo, col quale denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1224 e 2697 c.c. e vizio di motivazione per essere stato il maggior danno da svalutazione monetaria riconosciuto in contrasto col principio enunciato da Cass. n. 9910/2003 e Cass. n. 14970/2002; principio secondo il quale, a tale fine, il creditore non può limitarsi ad allegare la propria qualità di imprenditore, essendo invece tenuto, in base al generale principio dell'onere della prova, a fornire indicazioni in ordine al danno subito per effetto dell'indisponibilità del denaro determinata dall'inadempimento (quale, ad esempio, quello derivante da specifici investimenti programmati e non attuati), giacché altrimenti si darebbe luogo ad un meccanismo di automatica rivalutazione dei crediti, analogo a quello previsto per i lavoratori subordinati dall'art. 429 c.p.c.

Ha resistito con controricorso la R.Q. s.p.a. (nuova denominazione della R.E. s.p.a.), che ha depositato anche memoria illustrativa.

3. L'esame del ricorso è stato rimesso dal primo presidente a queste S.U. a seguito di ordinanza interlocutoria della sezione lavoro, 19.12.2006, n. 2990, depositata il 12.2.2007, per il ravvisato contrasto di giurisprudenza in ordine alla sufficienza della qualità di imprenditore del creditore ai fini della presumibilità di impieghi antinflattivi della somma non tempestivamente versata dal debitore.

Con la predetta ordinanza la sezione lavoro, premesso che il caso di specie concerne sicuramente un credito pecuniario ordinario, rileva che si sono formati diversi orientamenti giurisprudenziali, sostanzialmente riducibili a due, sull'applicazione dei principi enunciati dalla innovativa sentenza delle S.U. n. 3776/1979 in ordine alla prova che, nelle obbligazioni pecuniarie, il creditore appartenente alla categoria degli imprenditori deve offrire perché possa essergli riconosciuto il maggior danno da svalutazione monetaria, rispetto a quello già coperto dagli interessi legali:

- secondo un primo orientamento, è sufficiente dedurre la qualità di imprenditore per ritenere provato, per effetto di presunzione collegata alla qualità professionale, il maggior danno in questione (vengono citate: Cass. n. 2318/1983; Cass. n. 1403/1998; Cass. n. 5732/1999; Cass. n. 409/2000; Cass. n. 1770/2001; Cass. n. 6420/2001; Cass. n. 10304/2002; Cass. n. 2113/2003; Cass. n. 58/2004; Cass. n. 13829/2004; Cass. n. 14767/2004; Cass. n. 20807/2004; Cass. n. 4885/2006; Cass. n. 5860/2006);

- secondo un diverso orientamento, invece, il pur legittimo ricorso al notorio ed a presunzioni non può prescindere dall'assolvimento, da parte del creditore, ancorché appartenente ad una categoria soggettiva come quella degli imprenditori, di un onere quantomeno di allegazione, che consenta al giudice di verificare se, tenuto conto delle sue qualità personali e dell'attività in concreto esercitata, il particolare danno lamentato possa essersi verosimilmente prodotto (vengono indicate come espressive di tale indirizzo: Cass. n. 2564/1984; Cass. n. 2368/1986; Cass. n. 5678/1999; Cass. n. 1036/2002; Cass. n. 14970/2002; Cass. n. 10860/2003; Cass. n. 12634/2004; Cass. n. 2613/2006; Cass. n. 6153/2006).

Fondamento del secondo degli indirizzi indicati - afferma ancora la sezione lavoro - è, in sintesi, che gli automatismi risarcitori, al di là degli interessi di mora, sono previsti dal diritto positivo nella sussistenza non solo dell'elemento soggettivo (qualità del creditore) ma anche oggettivo (qualità del credito): spunti di sostegno a tale ricostruzione sarebbero rinvenibili nelle argomentazioni svolte dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 459/2000 e nelle disposizioni del d.lg. 9.10.2002, n. 231, recante "attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi dei pagamenti nella transazioni commerciali".

 

La motivazione

1. E' opportuno verificare preliminarmente se la decisione ed il testo normativo appena citati offrano effettivamente sostegno alla seconda delle ricostruzioni prospettate.

1.1. Con sentenza 2.11.2000, n. 450, la Corte Costituzionale, chiamata a sindacare la regola della non cumulabilità di rivalutazione ed interessi, già prevista per i crediti di lavoro dall'art. 429 c.p.c. secondo l'interpretazione ampiamente consolidata di tale disposizione, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 22, 36° co., l. 23.12.1994, n. 724, limitatamente alle parole "e privati", nella parte in cui in buona sostanza riconosce(va) al lavoratore solo la maggior somma tra l'ammontare degli interessi e quello della rivalutazione monetaria; ciò sulla scorta del rilievo che ai crediti di lavoro, in considerazione della loro natura, deve riconoscersi un'effettiva specialità di tutela rispetto alla generalità degli altri crediti, sicché non è giustificabile che essa sia collocata "all'interno della disciplina generale di cui all'art. 1224 c.c. sulla responsabilità contrattuale da inadempimento" (così la motivazione, sub 7.1.).

E' dunque ben vero che la Consulta ha avuto riguardo alla particolarità del credito (retribuzione) ed alla sua funzione di assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa, ma ciò in ragione della ravvisata necessità di una tutela speciale, normativamente assicurata dal cumulo di rivalutazione ed interessi (benché non possa dirsi costituzionalizzato - ha avvertito il Giudice delle leggi - il meccanismo previsto dall'art. 429, 3° co., c.c.).

Ha, infatti, dichiaratamente ritenuto che il riconoscimento della maggior somma tra rivalutazione ed interessi, secondo quanto appunto previsto dalla norma dichiarata incostituzionale, si risolvesse nel collocare il trattamento dei crediti di lavoro all'interno della disciplina generale dell'art. 1224 c.c. Ha dunque offerto spunti per un'interpretazione di tale disposizione in senso se mai opposto a quello prospettato dalla sezione lavoro, posto che per i crediti di valuta si pone non già un problema di cumulo di rivalutazione ed interessi, ma solo di possibile riconoscibilità del maggior danno da svalutazione indipendentemente da specifiche allegazioni probatorie: dunque, in definitiva, sotto il profilo aritmetico, della maggior somma tra interessi legali e svalutazione monetaria.

1.2. Il d.lg. 9.10.2002, n. 231 (recante "attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi dei pagamenti nella transazioni commerciali"), richiamato senza ulteriori specificazioni, agli artt. 1 e 2 prevede, con talune esclusioni, che le relative disposizioni si applichino ad ogni pagamento effettuato a titolo di corrispettivo in una transazione commerciale (contratti tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni che comportano, in via esclusiva o prevalente, la consegna di merci o la prestazione di servizi contro il pagamento di un prezzo); stabilisce che "il creditore ha diritto alla corresponsione di interessi moratori, ai sensi degli artt. 4 e 5, salvo che il debitore dimostri che il ritardo nel pagamento del prezzo è stato determinato da causa a lui non imputabile" (art. 3); correla il saggio degli interessi a quello del principale strumento di rifinanziamento della Banca centrale europea applicato in un certo giorno e maggiorato di sette punti (art. 5); dispone che il creditore ha diritto al risarcimento dei costi di recupero del credito, "salva la prova del maggior danno, ove il debitore non dimostri che il ritardo non sia a lui imputabile" (art. 6).

Non è dato rinvenire automatismi risarcitori, quanto piuttosto la determinazione di un tasso degli interessi moratori collegato all'effettivo costo del denaro, o a questo addirittura superiore; è anzi previsto che il debitore possa sottrarsi al pagamento degli interessi se dimostra che il ritardo deriva da impossibilità non imputabile (mentre tale possibilità è esclusa quanto agli interessi legali dovuti dal giorno della mora ex art. 1224, 1° co., c.c., ed è espressamente contemplata la prova del maggior danno, purché il debitore non dimostri la non imputabilità del ritardo.

Si tratta in ogni caso di una disciplina particolare che, se non altro per l'elevatezza del tasso, non sembra offrire spunti per l'adozione di un'interpretazione dell'art. 1224, 2° co., c.c., sfavorevole al creditore imprenditore.

2. Conviene allora, in vista della soluzione del problema del quale queste S.U. sono investite, ripercorrere la storia dell'evoluzione della giurisprudenza in ordine alla prova del danno da svalutazione monetaria nelle obbligazioni pecuniarie.

Con la fondamentale sentenza n. 3776/1979 (seguita dalla conforme n. 5572/1979) le S.U. predicarono la liberalizzazione più ampia possibile nel rispetto dei principi tradizionali un anno prima affermati da Cass. n. 4463/1977; principi intanto disattesi da Cass. n. 5670/1978, la quale aveva sostanzialmente ritenuto - secondo i commenti fortemente critici della dottrina prevalente - che, insorta la mora debendi , le obbligazioni di valuta dovessero essere trattate come quelle di valore, sicché la somma originariamente dovuta "andava necessariamente rivalutata alla stregua di indici pubblicizzati di sicura attendibilità".

Fu dunque ribadito che nei debiti originariamente pecuniari, per i quali vale il principio nominalistico, la svalutazione monetaria verificatasi durante la mora non giustifica alcun risarcimento automatico che possa essere attuato con la rivalutazione della somma dovuta. Ma si affermò anche che non ha bisogno di essere provato il fatto che il denaro è destinato ad essere impiegato nell'acquisto di beni o servizi o comunque in forme remunerative; che risponde infatti alla natura della moneta che essa è non solo la misura dei valori ma è strumento di scambio, dotata appunto di valore nella misura in cui viene adoperata a questo scopo; che il prudente apprezzamento del giudice in ordine alle presumibili modalità di impiego può essere formato eventualmente anche con valutazioni equitative, ai sensi dell'art. 1226 c.c.; che, infine, l'orientamento tradizionale andava rimeditato anche "perché non da adeguato rilievo a presunzioni di ordine oggettivo", che furono ricollegate all'appartenenza del creditore ad una delle categorie creditorie di cui appresso.

Le S.U. si pronunciarono nuovamente negli anni successivi con le sentenze n. 2318/1983, n. 2564/1984 e n. 2368/1986, l'ultima delle quali dette spazio ai c.d. "criteri personalizzati di normalità", riaffermando che nelle obbligazioni pecuniarie il danno da svalutazione non si identifica col fenomeno inflattivo e che incombe pertanto al creditore dimostrare che il pagamento tempestivo lo avrebbe messo in condizione di evitare o limitare gli effetti economici depauperatori che l'inflazione produce per tutti i possessori di denaro; ma chiarendo anche che tanto il creditore può fare avvalendosi di presunzioni e dati economici acquisiti dalla comune esperienza e riferiti a categorie economiche socialmente significative ("imprenditore", "risparmiatore abituale", "creditore occasionale", "modesto consumatore" "o altre enucleabili in relazione a più particolari modalità di impiego del denaro").

Con specifico riguardo alla categoria del creditore esercente attività imprenditoriale si affermò che possono essere fatte valere presunzioni di due tipi: a) quelle connesse con il normale impiego del denaro nel ciclo produttivo, per cui l'esistenza e l'ammontare approssimativo del danno possono essere desunti dal risultato medio dell'attività in un certo periodo, come suggerito dalle sentenze del 1979; b) quelle connesse al costo del denaro, precisamente allo scarto fra interesse legale e tasso di mercato dell'interesse praticato dalle banche alla migliore clientela per il credito a breve termine (prime rate), con la precisazione che tale criterio ha carattere primario, perché attiene al danno emergente, è altresì ancorato ad un parametro certo di facile rilevazione e, soprattutto, è l'unico possibile per un'azienda che non produca utile, ma sia in pareggio o in perdita, non essendovi allora un guadagno cui commisurare la presumibile entità della somma mancata (così la motivazione, sub 9).

Conclusero le S.U. che, pertanto, l'altro criterio risulta applicabile solo quando l'imprenditore espressamente deduca il mancato guadagno; ed affermarono "che l'onere probatorio, pur non potendosi attestare alla qualità professionale, si atteggia diversamente per ciascuno dei due criteri ritenuti più appropriati per questa figura: in relazione al criterio del maggior costo del denaro, il creditore deve dimostrare di trovarsi in condizioni atte a presumere, secondo la normale gestione dell'impresa, il ricorso al mercato del credito; in relazione al criterio del mancato guadagno, invece, è tenuto a fornire gli elementi necessari a stabilire la redditività del denaro investito nell'impresa, sicché la prova - basata in gran parte su vicende proprie della singola impresa - spesso presenta maggiore complessità" ( sub 13, lett. b, della motivazione). Non affermarono, dunque, che l'imprenditore era tenuto a provare di aver fatto ricorso al finanziamento delle banche durante la mora, ma si riferirono genericamente alla dimostrazione di "condizioni atte a presumere".

Criteri specifici furono fissati anche per il "risparmiatore abituale", per il "creditore occasionale" e per il "modesto consumatore":

- si disse che al primo faceva carico l'onere di allegare e dimostrare la qualità degli investimenti abitualmente effettuati, sicché la presunzione operava in riferimento all'uguale destinazione che egli avrebbe dato alla somma non pagata ed all'ammontare del relativo reddito (interessi di titoli di Stato, rendimento di azioni, ecc.);

- si ritenne che, per il secondo, era consentito presumere l'impiego mediante deposito presso istituti di credito, con conseguente commisurazione del danno alla remunerazione media dei depositi nel periodo di mora;

- si affermò per il terzo che, essendo presumibile che egli avrebbe destinato la somma alla immediata soddisfazione dei propri bisogni familiari e personali, così realizzando la moneta al suo valore attuale e conseguentemente sottraendosi agli effetti depauperativi della svalutazione, era del tutto appropriato il riferimento agli indici Istat per la determinazione forfettaria del (maggior) danno.

Ancora al criterio personalizzato di normalità le S.U. si riferirono con sentenza n. 5299/1989, con la quale fu ribadita la possibilità di una presunzione generalizzata di spesa immediata da parte del semplice consumatore e della determinabilità del danno da ritardato pagamento in riferimento agli indici Istat delle variazioni dei prezzi al consumo, "così semplificandosi al massimo l'assolvimento dell'onere della prova ... ed ancorando, al tempo stesso, la liquidazione del danno a parametri oggettivi e di agevole liquidazione".

Può dunque dirsi che, nella seconda metà degli anni 80, il regime probatorio relativo al maggior danno da svalutazione monetaria per il ritardato pagamento dei debiti pecuniari ( ex art. 1224, 2° co., c.c.) risultò governato dalle seguenti regole:

a) il creditore imprenditore era gravato da un particolare onere probatorio solo in caso di richiesta di un maggior danno corrispondente ai risultati utili della sua impresa (lucro cessante), mentre poteva avvalersi di una presunzione di tipo quasi oggettivo, fondata su criteri personalizzati di normalità, in ordine al maggior danno ancorato allo scarto tra il tasso degli interessi legali ed il prime rate (danno emergente), essendo comunque tenuto a dimostrare di trovarsi in condizioni atte a presumere, secondo la normale gestione dell'impresa, il ricorso al mercato del credito;

b) il semplice consumatore poteva pretendere un maggior danno corrispondente alle differenze tra indici Istat e tasso legale di interesse, nel periodo della mora, indipendentemente da ogni specifica prova di impiego;

c) per il creditore occasionale si aveva senz'altro riguardo al tasso medio sui depositi bancari;

d) il risparmiatore abituale era invece tenuto a provare come normalmente investiva il denaro ed a quale tasso.

Sennonché - osservò criticamente la dottrina - soltanto l'imprenditore ed il consumatore (e quest'ultimo solo in ragione del censo o della modesta entità della somma dovutagli) erano, se pur non senza gravi difficoltà, astrattamente suscettibili di essere inseriti in una categoria determinata, mentre apparivano difficilmente etichettabili i creditori occasionali ed i risparmiatori abituali. Soprattutto perché il creditore sovente non è in grado egli stesso di stabilire, ex post , cosa avrebbe davvero fatto del denaro che gli era dovuto ma che non aveva tempestivamente avuto, in quanto il problema dell'impiego si sarebbe posto, in relazione alle contingenze ed alle propensioni del momento, solo se e quando lo avesse davvero ricevuto; sicché si dava in tal modo la stura ad una serie di complicazioni processuali destinate ad offrire risultati di scarsissima attendibilità, data l'ovvia propensione del creditore ad evitare un inquadramento sfavorevole o nel quale la prova si presentasse complessa e, per converso, quello del debitore a prospettare l'inserimento del creditore in una categoria nella quale il maggior danno fosse più difficile da provare o di entità meno gravosa per il convenuto.

Negli anni successivi la prevalente giurisprudenza si attestò comunque sulla posizione secondo la quale, in caso di ritardato pagamento di un debito pecuniario ad un imprenditore commerciale, ai fini del riconoscimento del maggior danno ragguagliato alla svalutazione monetaria non si rende necessario che egli fornisca la prova concreta di un danno causalmente ricollegabile all'indisponibilità dell'importo, ben potendosi dedurre in tale situazione, in base all' id quod plerumque accidit , che in caso di tempestivo adempimento la somma dovuta sarebbe stata reimpiegata in modo tale da essere sottratta agli effetti della svalutazione (cfr., ex plurimis , Cass. n. 600/1986; Cass. n. 742/1986; Cass. n. 809/1986; Cass. n. 6483/1987; Cass. n. 4666/1990; Cass. n. 1403/1998; Cass. n. 5732/1999; Cass. n. 35/1985; Cass. n. 1492/1987; Cass. n. 2161/1987; Cass. n. 12343/1997; Cass. n. 4184/1998; Cass. n. 6231/1986; Cass. n. 1244/1988; Cass. n. 3014/1989; Cass. n. 12381/1991).

Una giurisprudenza minoritaria ritenne, per contro, che il pur legittimo ricorso al notorio ed alle presunzioni da parte del giudice non può prescindere dall'assolvimento da parte del creditore, quantunque imprenditore commerciale, di un onere quantomeno di allegazione che consenta al Giudice di merito di verificare se il particolare danno allegato (anche da svalutazione) possa essersi verosimilmente prodotto (così Cass. n 1212/1986; Cass. n. 2368/1986; Cass. n. 2690/1987; Cass. n. 4344/1993; Cass. n. 5517/1997; Cass. n. 5678/1999).

Più numerose le sentenze che hanno affrontato il tema negli anni 2000, ancora una volta prevalentemente risolto nel senso che è sufficiente che non sia controversa la qualità di imprenditore del creditore perché possa essere riconosciuto il richiesto maggior danno da svalutazione monetaria (tra le altre, Cass. n. 15059/2000; Cass. n. 2816/2006; Cass. n. 4885/2006; Cass. n. 19927/2007; Cass. n. 409/2000; Cass. n. 1770/2001; Cass. n. 13133/2003; Cass. n. 5860/2006; Cass. n. 317/2002; Cass. n. 14909/2002; Cass. n. 58/2004; Cass. n. 20807/2004; Cass. n. 13829/2004; Cass. n. 5008/2005; Cass. n. 22986/2005; Cass. n. 14089/2000; Cass. n. 6420/2001; Cass. n. 10304/2002; Cass. n. 2113/2003; hanno per contro ritenuto che occorrano allegazioni specifiche, pur nell'ambito della categoria di appartenenza, tra le altre, Cass. n. 4919/2003; Cass. n. 6327/2000; nonché Cass. n. 14970/2002; Cass. n. 9910/2003; Cass. n. 12634/2004; Cass. n. 2613/2006; Cass. n. 6153/2006; oltre a Cass. n. 16871/2007, della quale si dirà specificamente più avanti).

Emblematiche dei due contrapposti indirizzi, per le argomentazioni addotte, sono le sentenze n. 14089/2000 da un lato, e n. 14970/2002 e n. 12634/2004 dall'altro, tutte della sezione lavoro.

2.1. La prima, pronunciata in fattispecie pressoché identica a quella ora in scrutinio, s'è fatta puntuale carico dell'argomento secondo il quale il ricorso a categorie tipiche finirebbe anch'esso col determinare un automatismo di rivalutazione del credito contrario al principio nominalistico e farebbe venir meno la distinzione tra obbligazioni di valuta ed obbligazioni di valore.

Ha tuttavia rilevato che il rispetto del principio nominalistico non è affatto incompatibile con la rilevanza delle variazioni del potere di acquisto della moneta; che, infatti, mentre nei debiti di valore la considerazione di quella variazione è insita nel procedimento di determinazione quantitativa della prestazione, nei debiti di valuta essa può invece rilevare esclusivamente sub specie dammi e pone problemi di esclusiva natura probatoria; che ritenere notoria l'entità del fenomeno inflattivo e probabilisticamente rilevante la destinazione del danaro allo scambio non significa affatto derogare al principio nominalistico, ma solo adottare un criterio di valutazione che tiene conto degli interessi delle parti ed è conforme alla comune esperienza ed al comune sentire.

Ha dunque ricordato che, in base a tali principi, alcune decisioni di questa Corte avevano conseguentemente affermato che il danno da inadempimento dell'obbligazione pecuniaria è per qualsiasi creditore, per la parte che non sia già coperta dagli interessi legali, non inferiore alla misura dell'inflazione della moneta, che ne costituisce l'elementare dato probatorio, salvo che esso assuma un diverso, maggiore valore per il singolo creditore in relazione al comprovato uso che della somma oggetto dell'obbligazione intendeva fare. Pertanto, salvo questa prova diversa, il danno da svalutazione può essere determinato sulla base degli indici ufficiali dell'inflazione in relazione al costo della vita (sono citate Cass. n. 123/1983; Cass. n. 651/1984; Cass. n. 3356/1985). Ed ha concluso che, in effetti, "non è dubbio che la mancata disponibilità del danaro da parte del creditore costituisce obiettivamente un danno e non ha bisogno di alcuna prova di carattere soggettivo, salva la possibilità da parte del debitore di provare il concorso del fatto colposo del creditore, ai sensi dell'art. 1227 c.c. Di conseguenza, il creditore che intenda ottenere la rivalutazione nella misura ufficiale deve solo allegare gli indici ufficiali dell'Istat. Il creditore, invece, che ritenga che la mancata disponibilità del danaro abbia inciso sul suo patrimonio in misura superiore agli interessi legali e alla svalutazione ufficiale, dovrà provare il maggiore danno: dovrà provare, ad esempio, di aver dovuto rinunciare a investimenti particolarmente vantaggiosi o di essere dovuto ricorrere a prestiti particolarmente onerosi".

2.2. Opposte le conclusioni di Cass. n. 14970/2002, pronunciata anch'essa in fattispecie di domanda di restituzione di contributi indebitamente versati all'Inps. Con tale sentenza la stessa sezione lavoro, dichiaratasi a sua volta pienamente consapevole dell'orientamento appena illustrato, ha tuttavia ritenuto (richiamando Cass. n. 11870/1992; Cass. n. 5517/1997; Cass. n. 5678/1999; Cass. n. 9965/2001):

a) che collegare alla sola qualità di imprenditore la presunzione di un impiego antinflattivo del denaro e, dunque, di un maggior danno da svalutazione monetaria durante la mora, finirebbe per stravolgere il criterio fondamentale dell'onere della prova di cui all'art. 2697 c.c., risolvendosi in un'ingiustificata soluzione di favore per il creditore il quale, per beneficiare del risarcimento, dovrebbe solo provare di appartenere ad una determinata categoria economica;

b) che una tale conseguenza avrebbe ben poca giustificazione anche sotto il profilo sistematico, comportando l'introduzione di un meccanismo di automatica rivalutazione analogo a quello di cui all'art. 429 c.p.c. senza alcun fondamento normativo e, anzi, nel contesto di un'opposta tendenza legislativa, in cui il divieto di cumulo rappresenta la regola ed in cui una sostanziale valorizzazione dei crediti pecuniari, anche contrattuali, in relazione a particolari caratteristiche del creditore, necessiterebbe ancor più di un'esplicita previsione normativa.

Le conclusioni della citata sentenza n. 14970/2002 sono state condivise dalla successiva n. 12634/2004 che, ancora una volta relativa al danno da ritardo nella restituzione di somme indebitamente versate all'Inps, contrapponendosi a Cass. n. 14089/2000, ha ribadito che il maggior danno da svalutazione nelle obbligazioni pecuniarie non può essere riconosciuto indipendentemente dall'osservanza di uno specifico onere di allegazione e prova da parte del creditore (quantunque imprenditore) per due sostanziali ordini di ragioni:

c) perché si deve escludere che la svalutazione costituisca danno di per sé, stante l'operatività del principio nominalistico (art. 1277 c.c.) derogato specificamente dal legislatore soltanto per particolari crediti pecuniari, come i crediti di lavoro, ai sensi dell'art. 429, 3° co., c.p.c.

d) perché osta alla identificazione del danno moratorio nella diminuzione di valore della moneta il rilievo che "il denaro, per le illimitate possibilità di opzione tra i diversi impieghi, è metro di misura totalmente astratto; tale danno, quindi, può derivare esclusivamente dall'impiego che il creditore avrebbe fatto della somma se ne avesse conseguito la disponibilità tempestivamente (es. autofinanziamento e reimpiego nella produzione, acquisto di valori mobiliari, interessi bancari, ecc.), cosicché deve ritenersi indispensabile (non potendo il giudice determinare autonomamente il tipo di impiego) che siano forniti elementi che consentano al giudice di ritenere, anche in via presuntiva, alcune forme di impiego più verosimili di altre".

3. Allo stato, dunque, le principali tesi in materia sono tre:

1) quella secondo la quale nei debiti di valuta, quale che sia la categoria cui appartiene il creditore, il maggior danno da svalutazione monetaria rispetto a quello che non sia già assorbito dagli interessi legali moratori, va riconosciuto in via generalizzata e presunta, fermo l'onere del creditore che assuma di aver subito un danno ancora maggiore di provare che avrebbe fatto un uso del denaro tale da garantirgli un rendimento superiore al tasso di inflazione (lucro cessante), ovvero che a causa dell'inadempimento ha dovuto procurarsi denaro a tassi più onerosi (danno emergente); e salva la facoltà del debitore di offrire comunque la prova contraria;

2) quella secondo la quale il maggior danno da svalutazione va correlato alla sola categoria creditoria cui il creditore appartiene in relazione alla più probabile forma di impiego del denaro;

3) quella secondo la quale l'appartenenza ad una categoria creditoria non è comunque sufficiente a giustificare il riconoscimento del maggior danno correlabile alle forme di impiego tipiche della categoria nella quale il creditore è iscrivibile (soprattutto se imprenditore), essendo egli comunque gravato da uno specifico onere quantomeno di allegazione in ordine al verosimile impiego che avrebbe fatto della somma dovutagli, che consenta al giudice di verificare se, tenuto conto di dette qualità personali e professionali, il danno denunziato possa essersi effettivamente prodotto (in difetto di quella allegazione, alcune sentenze affermano che non possono riconoscersi che gli interessi legali, come la citata n. 12634/2004; altre, che tale tipo di conseguenza va tratto solo per il danno eccedente il tasso di svalutazione, come Cass. n. 6153/2006).

Va osservato che nessuna delle tre è in tutto conforme ai principi enunciati da queste S.U. nel 1986, il cui trasparente scopo fu quello di semplificare, mediante il ricorso a presunzioni di tipo generalizzato in relazione alla categoria di appartenenza del creditore, le modalità della prova del maggior danno da svalutazione. Si trattò di una soluzione intermedia tra quella che richiedeva la rigorosa e quasi sempre impossibile prova dell'avvenuta predisposizione di un impiego alternativo del denaro non tempestivamente pagato e quella di chi invece riteneva che, in caso di mora, il maggior danno da svalutazione è in via generale presunto in misura pari al tasso di inflazione in relazione alle caratteristiche proprie del denaro, destinato per sua natura ad essere speso o investito in impieghi tali da mettere chi lo possegga al riparo, quantomeno, dalla svalutazione.

La terza tesi, che formalmente ne segue gli enunciati letterali, finisce infatti col non assecondarne lo spirito, segnatamente nella sua più rigorosa versione; la seconda è a questo conforme, ma ne disattende le prescrizioni testuali in relazione al creditore imprenditore; la prima è quella che maggiormente se ne discosta, ma è anche quella che, a parere del collegio, tiene in maggior conto i non appaganti risultati applicativi della soluzione dell'inquadramento dei creditori in categorie, cui collegare in via presuntiva il tipo di impiego che del denaro avrebbero fatto se fosse stato loro tempestivamente dato e, dunque, l'entità del maggior danno durante la mora del debitore.

A parte, invero, la categoria dell'imprenditore (per la quale pure, come s'è rilevato, non vengono adottate soluzioni univoche), l'inquadramento del creditore in una qualsiasi delle altre, o in quelle ulteriori che le S.U. del 1986 pure prospettarono potessero essere in seguito configurate e che non sono state invece mai elaborate, si è rivelata di assai problematica praticabilità, non sussistendo parametri di riferimento sufficientemente univoci per definire i caratteri propri di ogni categoria.

E la stessa categoria degli imprenditori - per la quale, invece, i parametri per una qualificazione palesemente sussistono - non vale, a ben vedere, ad offrire criteri di maggiore attendibilità delle possibili inferenze induttive, posto che a quello che pretendesse come maggior danno la differenza tra il tasso legale d'interesse ed il prime rate (peraltro non più rilevato a partire dal 2004 e, secondo le S.U. del 1986, ottenibile quasi sulla base della sola appartenenza alla relativa categoria) poterebbe obiettarsi che già alla data di insorgenza della mora la redditività marginale media dei propri investimenti era inferiore al tasso praticato dalle banche alla migliore clientela nei prestiti a breve termine; ovvero, se superiore, che male il creditore aveva fatto a non ricorrere al credito bancario (con conseguente applicazione dell'art. 1227, 2° co., c.c.), ovvero che non era comunque prevedibile dal debitore che non lo facesse (con conseguente irrisarcibilità del danno differenziale ex art. 1225 c.c.).

I bisogni ed i desideri che il denaro vale a soddisfare sono d'altronde troppi e troppo intimamente connessi anche al modo d'essere di ognuno, nonché agli eventi di cui ciascuno è nella vita protagonista, spettatore o vittima, perché l'uno o l'altro creditore sia suscettibile di essere tout court qualificato come consumatore, o risparmiatore, o creditore occasionale, essendo vero invece che ognuno è o può essere l'una o l'altra cosa, o l'altra ancora, o tutte insieme in relazione a ciascuna frazione dell'importo ed a seconda delle contingenze economiche generali e personali del momento, dell'entità del credito, dei propri progetti e così via.

Per altro verso, le prorompenti esigenze di semplificazione dell'istruzione probatoria impongono, a distanza di circa un quarto di secolo, soluzioni più snelle, anche alla luce dei dati costituiti dall'incessante aumento del contenzioso civile, dall'allungamento dei tempi medi di definizione del processo, dal nuovo principio della sua ragionevole durata, proclamato dall'art. 111, 2° co., Cost. (nel testo introdotto con l. n. 2/1999). Si verte, del resto, in situazioni che recano in se stesse il germe dell'inevitabile approssimazione della statuizione giudiziale, come avvertivano le stesse S.U. del 1986; nelle quali, dunque, l'equazione "categoria creditoria = presunta, oggettivamente personalizzata modalità di impiego del denaro" presenta incognite non inferiori, in prima battuta, a quelle proprie dell'equazione "creditore = maggior danno da svalutazione corrispondente all'incremento dei prezzi al consumo, ovvero alla redditività delle più comuni forme di impiego alternative alla spesa".

4. Non sussistono d'altro canto i paventati pericoli che i debiti di valuta ricevano in tal modo una disciplina identica a quella propria dei debiti di valore, con sostanziale pretermissione del principio nominalistico di cui all'art. 1277 c.c.; o che le conseguenze dell'inadempimento finiscano per divenire, per qualsiasi credito di denaro, identiche a quelle "speciali" che l'art. 429, 3° co., c.p.c., contempla per i crediti di lavoro; ovvero che sia sostanzialmente disapplicato il principio dell'onere della prova di cui all'art. 2697 c.c.

4.1. Sul primo punto va infatti osservato che il rispetto del principio nominalistico non è affatto incompatibile con la rilevanza delle variazioni del potere d'acquisto della moneta. Solo che, mentre nei debiti di valore la considerazione di quella variazione è insita nel procedimento di determinazione quantitativa della prestazione in quanto il denaro vale solo a misurare e ad esprimere un valore necessariamente attuale, nei debiti di valuta essa può invece rilevare esclusivamente sub specie damni . La circostanza che una somma di denaro, come quantità di pezzi monetari dedotta in obbligazione, conservi integra la propria idoneità solutoria quale che sia l'alterazione nel tempo del suo valore in termini di potere d'acquisto (non altro è il significato e non altra la conseguenza del nominalismo monetario), non esclude che la diminuzione del suo valore durante il periodo di mora debendi si risolva in un danno tutte le volte che il creditore agli effetti della svalutazione si sarebbe sottratto, spendendo o investendo il denaro non tempestivamente versatogli in impieghi con remuneratività superiore al tasso di inflazione. Facendone, cioè, l'uso connaturale alla sua intima essenza, volta che se il denaro è l'unico bene intrinsecamente insuscettibile di offrire qualunque utilitas diretta è anche il solo che consente, mediante lo scambio, di procurare immediatamente quelle ricavabili da qualsiasi altro bene (è questa la giustificazione economica del rendimento del denaro dato a mutuo), sicché è del tutto contraria ai dati di comune esperienza l'ipotesi della mera conservazione improduttiva da parte del creditore di un bene ontologicamente destinato allo scambio o all'investimento. Se ne mostrò d'altronde consapevole lo stesso legislatore del 1942 all'atto della redazione del codice civile; al punto n. 592 (in fine) della relazione al re del ministro guardasigilli si legge infatti testualmente: "l'alterazione del valore della moneta dovuta può verificarsi durante la mora del debitore. Il caso non è previsto espressamente, perché esso si risolve in un danno, che è risarcibile secondo gli artt. 1218 e 1224, 2° co., c.c.".

Neppure è possibile che si creino confusioni di sorta sul piano processuale, posto che nei debiti di valore (tipica l'obbligazione di risarcimento del danno) la rivalutazione non va neppure domandata, essendo il giudice tenuto d'ufficio alla liquidazione in valori monetari attuali; mentre nei debiti di valuta vanno chiesti sia gli interessi moratori sia il maggior danno (anche da svalutazione, secondo l'impreciso ma corrente lessico giudiziario; e tuttavia, più esattamente, da intervenuta impossibilità, per fatto del debitore, che il creditore si sottraesse agli effetti della svalutazione), risultando altrimenti inficiata da vizio di ultrapetizione la sentenza che riconoscesse gli uni o l'altro.

4.2. Quanto alla temuta possibilità che i crediti pecuniari ordinari e quelli di lavoro finiscano con l'essere trattati allo stesso modo, s'è già rilevato che per i crediti di cui all'art. 429, 3° co., c.p.c., interessi e svalutazione si cumulano, mentre nei debiti di valuta il maggior danno (anche da svalutazione) è dovuto, ex art. 1224, 2° co., c.c., solo per la parte che non sia già coperta dagli interessi moratori.

4.3. Quanto alla pretesa disapplicazione dell'art. 2697 c.c. che deriverebbe dal ritenere presunta (ma, rectius , normale) una modalità di impiego del denaro tale da consentire al creditore di sottrarsi agli effetti della svalutazione, è stato da tempo chiarito come, in definitiva, è nel rapporto tra normalità ed anormalità, tra regola ed eccezione che si rinviene il criterio teorico pratico della ripartizione dell'onere della prova, il quale non costituisce un istituto giuridico in sé concluso, ma un modo di osservare l'esperienza giuridica. E la giurisprudenza ha quindi fatto ricorso, tutte le volte che il modello legale prefissato non risultava appagante in relazione alle posizioni delle parti riguardo ai singoli temi probatori, allo schema della presunzione in modo talora così tipico e costante da creare, in definitiva, vere e proprie regole di giudizio. Col risultato non già di invertire l'onere della prova, ma di distribuirlo in senso conforme alla realtà dell'esperienza positiva.

Ebbene, è senz'altro conforme alla realtà dell'esperienza positiva che il denaro sia speso in relazione alla sua primaria destinazione allo scambio, ovvero impiegato in rassicuranti forme remunerative tali da garantire un rendimento superiore al tasso di inflazione, qual è quello dei titoli di stato, costantemente eccedente l'incremento dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati rilevati dall'Istat.

4.4. Quanto, infine, all'argomento (addotto da Cass. n. 12634/2004) che "il denaro, per le illimitate possibilità di opzione tra i diversi impieghi, è metro di misura totalmente astratto", deve rilevarsi che l'osservazione si attaglia ai debiti di valore, nei quali il denaro viene appunto in considerazione come strumento di misura di un valore (mensura), ma non è conferente in ordine ai debiti di valuta, nei quali il denaro è dedotto in obbligazione come ammontare di pezzi monetari ( mensuratum ). Sicché, come la variazione del valore di una cosa si misura comparando fra loro le diverse quantità di moneta necessarie per scambiarla in tempi diversi con denaro, così la variazione del "valore" del denaro si misura comparando tra loro le diverse quantità di pezzi monetari necessari, in tempi diversi, per procurarsi la medesima cosa o le medesime cose.

Cose e pezzi monetari dovuti e non dati, il cui valore sia mutato durante la mora, possono o meno aver prodotto un danno da diminuzione di valore a seconda dell'impiego che ne avrebbe fatto il creditore: "possono" (non "devono"), giacché se la loro destinazione era la mera conservazione, il danno da diminuzione di valore durante la mora sarà in ogni caso insussistente; ma se la destinazione era lo scambio o l'investimento, il danno andrà commisurato alla diminuzione di valore, o al costo affrontato dal creditore per procurarsi quel che gli era dovuto (cose o denaro), o ancora alle conseguenze economiche negative subite per non esserci riuscito.

5. Tanto precisato in linea di principio, va qui detto che le vicende che connotarono gli anni 70 e 80, durante i quali il tasso di svalutazione monetaria fu pressoché costantemente superiore a quello degli interessi legali, talora in misura assai rilevante, con una differenza che toccò i 16.1 punti percentuali nel 1980, indussero il legislatore a modificare l'art. 1284, 1° co., c.c., dapprima elevando il tasso degli interessi legali dal 5 al 10% in ragione di armo (art. 1, l. 26.11.1990, n. 353), e poi riportandolo al 5% ma stabilendo che esso può essere annualmente modificato dal Ministro del tesoro "sulla base del rendimento medio annuo lordo dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi e tenuto conto del tasso di inflazione registrato nell'anno" (art. 2, 185° co., l. 23.12.1996, n. 662).

Da allora, fatta eccezione per una pressoché insignificante differenza nell'anno 2000 (e per quella preannunciata come verosimile nell'anno 2008 in corso, per il quale il tasso di inflazione pare collocarsi intorno al 3,6% su base annua in relazione al momento di redazione della presente sentenza), il tasso di interesse è stato costantemente superiore al tasso ufficiale di aumento dei prezzi al consumo, sicché la svalutazione è risultata normalmente assorbita per intero dagli interessi legali, con conseguente perdita di rilevanza del problema relativo al risarcimento del maggior danno da svalutazione monetaria; problema che, in relazione alle periodiche determinazioni del Ministro del tesoro, non dovrebbe essere ulteriormente configurabile, se non in casi assolutamente marginali ed in misure scarsamente significative, correlabili all'intervallo di tempo tra l'ipotetico aumento dell'indice medio dei prezzi al consumo ed il successivo adeguamento per l'anno successivo.

Resta il fatto che il tasso di rendimento lordo delle più comuni forme d'investimento è apprezzabilmente più elevato del tasso degli interessi legali: dal 1991 al 2008 i valori relativi al rendimento medio annuo lordo dei titoli di Stato di durata non superiore ai dodici mesi ed i valori del tasso legale d'interesse sono stati, infatti, di anno in anno, rispettivamente i seguenti: 13,779 e 10 (1991); 12,876 e 10 (1992); 13,555 e 10 (1993); 8,815 e 10 (1994); 11,949 e 10 (1995); 10,043 e 10 (1996); 6,757 e 5 (1997); 5,212 e 5 (1998); 3,556 e 2,5 (1999); 5,187 e 2,5 (2000); 4,928 e 3,5 (2001); 4,512 e 3 (2002); 3,672 e 3 (2003); 3,631 e 2,5 (2004); 3,244 e 2,5 (2005); 3,332 e 2,5 (2006); 4,167 e 2,5 (2007); 4,22 e 3,8 (fino a giugno del 2008). Fatta dunque eccezione per l'anno 1994, nel quale il rendimento dei titoli di Stato fu inferiore al tasso legale, va allora constatato che la più comune e prudente forma di investimento del denaro ha una redditività superiore al tasso dell'interesse legale, con la conseguenza che, per il debitore di un'obbligazione pecuniaria, in linea di massima continua a poter essere economicamente conveniente non adempiere tempestivamente, così lucrando la differenza tra quello che è agevolmente in grado di ricavare dal denaro non versato al creditore durante la mora debendi e quello che dovrà al creditore quando adempirà la propria obbligazione.

Il che è esattamente il contrario dell'intenzione del legislatore (la cui considerazione è imposta dal criterio ermeneutico di cui all'art. 11 disp. gen.), certamente non determinatosi alle modifiche normative di cui s'è detto sopra al fine di creare un incentivo economico all'inadempimento, ma a tanto indotto dall'ovvia considerazione che l'ordinato svolgimento dei rapporti economici fra i consociati costituisce un beneficio per la collettività per una serie di ragioni la cui intuitività esime da una specifica enumerazione.

L'effetto di disincentivazione dell'inadempimento (e, di riflesso, la positiva ricaduta sulla diminuzione del contenzioso civile e sulla semplificazione del processo) è appunto collegato ad una soluzione che renda il debitore consapevole del fatto che la promozione di una causa da parte del creditore insoddisfatto si risolverebbe, comunque, nel riconoscimento a suo favore di un maggior importo corrispondente quantomeno all'utile economico minimo che il debitore ha tratto o che avrebbe potuto trarre dalla conservazione, medio tempore , del denaro che doveva dare e che non ha dato. Ed è qui appena il caso di ricordare come, senza eccezione alcuna, tutte le istituzioni del Paese da tempo annoverino la inappagante funzionalità della giustizia civile (la quale dipende soprattutto dai lunghi tempi di definizione, a sua volta correlati alla variabile niente affatto indipendente del numero delle cause promosse) fra le ragioni di uno sviluppo economico inferiore a quello possibile, segnatamente sotto il profilo dell'abbassamento della propensione agli investimenti.

Tutto insomma concorre all'adozione di un'interpretazione che si risolva nel riconoscere al creditore di somme di denaro non corrisposte dal debitore in mora un maggior danno - ex art. 1224, 2° co., c.c. - corrispondente alla differenza tra il tasso di rendimento netto (dedotta l'imposta) dei titoli di Stato di durata non superiore ai dodici mesi (o tra il tasso di inflazione se superiore) e quello degli interessi legali (se inferiore).

E tanto del tutto in linea con la ratio legis del novellato art. 1284, 1° co., c.c., il quale prevede un meccanismo che sconta l'inevitabile riferibilità al futuro dell'eventuale intervento adeguatore del Ministro del tesoro ("con decreto da pubblicarsi nella G.U. non oltre il 15.12.dell'anno precedente a quello cui il saggio si riferisce", ex art. 1284, 1° co., c.c.), le cui conseguenze vanno tuttavia, in linea di principio, sopportate non già dal creditore insoddisfatto, ma dal debitore che versi anche in quella situazione di qualificato ritardo nell'adempimento qual è la mora, ( ex art. 1219 c.c.): quanto si va osservando è infatti estraneo agli interessi corrispettivi di cui all'art. 1282 c.c. ed a quelli compensativi di cui all'art. 1499 c.c., per i quali non è configurabile un danno da ritardo fino alla data di insorgenza della mora debendi .

Tale conclusione risulta, poi, definitivamente corroborata dalla lettera dell'art. 1284, 1° co., c.c. nel testo novellato nel 1996, laddove espressamente vincola il Ministro del tesoro a determinare il saggio d'interesse "sulla base" del rendimento annuo lordo dei titoli di Stato non ultrannuali e "tenuto conto" del tasso d'inflazione registrato nell'anno: la differenza tra le due espressioni è invero significativa del primario rilievo che il legislatore ha conferito al parametro di riferimento costituito dal rendimento dei titoli di Stato ai fini dell'apprezzamento della normale redditività del denaro.

Le considerazioni fin qui svolte comportano il superamento della suddivisione dei creditori in categorie, a ciascuna delle quali si attagli la presunzione di una personalizzata modalità di impiego del denaro, restando invece l'ambito della possibile personalizzazione affidato, esso solo, alla prova. Sarà così consentito al debitore di provare - pur con le difficoltà connesse alla raffigurabilità di un ipotetico ed economicamente inefficiente comportamento altrui - che dal proprio ritardo nell'adempimento il creditore non ha subito un danno, o che lo ha subito in misura inferiore al saggio degli interessi legali, sicché nulla gli è dovuto, in aggiunta a quelli, per maggior danno (perché, ad esempio, dedito al deposito del denaro in conto corrente, la cui remuneratività è notoriamente assai bassa, ovvero perché i suoi investimenti nel periodo si sono risolti in una perdita, ecc.); così come sarà consentito al creditore di provare che il danno da ritardo è stato invece maggiore del rendimento netto dei titoli di Stato (perché costretto a ricorrere al credito bancario, o per mancati investimenti remunerativi, o per altre particolari vicende). Ma ciò non in quanto il creditore appartenga ad una categoria; il che si risolverebbe tra l'altro - quantomeno in epoche connotate, come quella attuale, da un aumento dei prezzi al consumo normalmente inferiore al saggio degli interessi legali - nel paradossalmente deteriore trattamento dei meno abbienti, quale il modesto o mero o semplice consumatore. Non dunque per questo, ma perché il risarcimento va sempre tendenzialmente adeguato al danno effettivamente subito, nei limiti in cui tale risultato sia perseguibile; limiti di cui il legislatore s'è fatto del resto consapevole carico dettando la disposizione di cui all'art. 1226 c.c., ormai costantemente interpretata nel senso che alla valutazione equitativa nella liquidazione del danno è possibile ricorrere non solo quando il danno non possa essere provato nel suo preciso ammontare, ma anche quando quella prova si presenti, per l'una o per l'altra parte, particolarmente complessa o costosa, anche in riferimento al livello degli interessi dedotti in giudizio, oppure quando sia destinata ad offrire risultati di assai scarsa attendibilità.

Anche il creditore imprenditore, al pari di ogni altro creditore ed indipendentemente da qualsivoglia allegazione, avrà dunque titolo a pretendere il maggior danno nei limiti sopra indicati, salva la prova contraria, da offrirsi dal debitore, che esso è inferiore o inesistente. Ove invece lamenti un danno superiore a quei livelli e ne domandi il risarcimento, dovrà offrirne la prova, come ogni altro creditore.

A tal fine sarà in linea di massima sufficiente la produzione di documentazione dalla quale si evinca che, durante la mora del debitore, egli aveva fatto ricorso al credito bancario (con saggio di interesse passivo oggi attestantesi, a quanto consta, sull'Euribor maggiorato tra circa 0,20 e 2,5 punti) o ad altre forme di approvvigionamento di liquidità, con la dimostrazione dei relativi costi; e sempre che, in relazione alle dimensioni dell'impresa ed all'entità del credito, sia effettivamente presumibile che il ricorso al credito esterno sia stato conseguenza dell'inadempimento, ovvero che l'adempimento tempestivo avrebbe comportato la destinazione della somma alla parziale estinzione del debito assunto verso il finanziatore (si incoraggerebbe altrimenti il possibile ricorso strumentale al credito bancario in funzione probatoria dell'entità del danno nel successivo giudizio di adempimento e risarcimento).

Se invece sia domandato un risarcimento del danno correlato all'utilità marginale netta dell'impresa durante la mora, perché il maggior danno possa essere rapportato ai mancati utili sarà necessario che il creditore imprenditore produca il bilancio contenente il conto economico (se tenuto a redigerlo) ovvero altre idonee scritture contabili; e sempre che, in relazione all'importo dovutogli e con riguardo al tipo ed al rilievo economico dell'attività stessa, sia effettivamente presumibile che la somma di cui era creditore sarebbe stata impiegata nell'impresa con il medesimo risultato utile.

6. E' il caso di chiarire che le diverse enunciazioni effettuate da queste S.U. con la menzionata sentenza n. 16871/2007 concernevano una fattispecie nella quale il creditore aveva solo domandato la "rivalutazione monetaria e gli interessi", ma non aveva neppure sostenuto di aver subito un maggior danno da svalutazione monetaria, sicché la domanda relativa a tale danno era stata ritenuta inammissibile in relazione alla norma di riferimento, d'ufficio individuata in quella di cui all'art. 1224, 2° co., c.c.

In tale occasione, inoltre, le S.U., anche perché investite del ricorso solo in ragione della prospettata questione di giurisdizione, si sono limitate a fare applicazione dei principi già precedentemente enunciati con la più volte citata sentenza n. 2368/1986, ma non hanno affrontato il tema ex professo , com' è invece avvenuto in quest'occasione.

E deve anche fugarsi l'eventuale preoccupazione che le conclusioni raggiunte si risolvano in un trattamento dei crediti ordinari più favorevole di quello "speciale" riservato ai crediti di lavoro dall'art. 429, 3° co., c.p.c. il cumulo di rivalutazione ed interessi da effettuarsi per tali crediti è, invero, costantemente superiore al tasso del rendimento medio (anche lordo) dei titoli di Stato di durata non superiore all'anno.

7. Possono conclusivamente enunciarsi i seguenti principi di diritto:

"- nelle obbligazioni pecuniarie, in difetto di discipline particolari dettate da norme speciali, il maggior danno di cui all'art. 1224, 2° co., c.c. (rispetto a quello già coperto dagli interessi legali moratori non convenzionali che siano comunque dovuti) è in via generale riconoscibile in via presuntiva, per qualunque creditore che ne domandi il risarcimento - dovendo ritenersi superata l'esigenza di inquadrare a tale fine il creditore in una delle categorie a suo tempo individuate - nella eventuale differenza, a decorrere dalla data di insorgenza della mora, tra il tasso del rendimento medio annuo netto dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi ed il saggio degli interessi legali determinato per ogni anno ai sensi dell'art. 1284, 1° co., c.c.

- è fatta salva la possibilità del debitore di provare che il creditore non ha subito un maggior danno o che lo ha subito in misura inferiore a quella differenza, in relazione al meno remunerativo uso che avrebbe fatto della somma dovuta se gli fosse stata tempestivamente versata;

- il creditore che domandi a titolo di maggior danno una somma superiore a quella differenza è tenuto ad offrire la prova del danno effettivamente subito, quand'anche sia un imprenditore, mediante la produzione di idonea e completa documentazione, e ciò sia che faccia riferimento al tasso dell'interesse corrisposto per il ricorso al credito bancario sia che invochi come parametro l'utilità marginale netta dei propri investimenti;

- in entrambi i casi la prova potrà dirsi raggiunta per l'imprenditore solo se, in relazione alle dimensioni dell'impresa ed all'entità del credito, sia presumibile, nel primo caso, che il ricorso o il maggior ricorso al credito bancario abbia effettivamente costituito conseguenza dell'inadempimento, ovvero che l'adempimento tempestivo si sarebbe risolto nella totale o parziale estinzione del debito contratto verso le banche; e, nel secondo, che la somma sarebbe stata impiegata utilmente nell'impresa".

8. In applicazione degli enunciati principi il ricorso va respinto.

Negli anni per i quali si era protratta la mora, infatti, il rendimento dei titoli di Stato è stato complessivamente superiore al tasso della svalutazione monetaria che il Giudice del merito ha riconosciuto al creditore indipendentemente da una prova specifica in ordine all'impiego del denaro.

Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese del giudizio di legittimità, in quanto il ricorso sarebbe stato suscettibile di essere accolto in base ad almeno uno degli orientamenti di cui al contrasto ora difformemente composto. 

P.Q.M.

La Corte di Cassazione a S.U. rigetta il ricorso e compensa le spese.


 IL COMMENTO

di Renato Partisani

(da Responsabilità civile, 2 / 2009)

1. La problematica risarcibilità del danno da mora nelle obbligazioni di valuta

Il danno al patrimonio è risarcibile quando ne sia provata la esistenza e la derivazione causale dall'illecito civile, secondo regole univoche ed oggettive di certezza, ragionevole attendibilità o probabilità [1]. Da tale principio può ricavarsi, quale implicito corollario, la inammissibilità di forme d'automatismo risarcitorio basate sulle mere qualità personali del creditore. Ciò vale anche nelle obbligazioni pecuniarie, dove in caso di ritardo nel pagamento simili automatismi sono ammessi, tutt'al più, in ragione della oggettiva natura del credito [2], come stabilito dalla norma speciale dell'art. 429 c.p.c., che riconosce il cumulo di rivalutazione ed interessi, in funzione della necessità di assicurare al lavoratore subordinato ed alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa.

Nei crediti ordinari di valuta la mora debendi produce sempre un danno da risarcire, liquidato dal legislatore nella misura forfettaria minima degliinteressi moratori. L'ulteriore risarcimento dell'art. 1224, 2| co., c.c., è invece liquidato al creditore che dimostri di averlo effettivamente subito (v. infra ). La prova, in quest'ultimo caso, talora è tanto ardua da risultare diabolica poiché, stante le innumerevoli possibilità di impiego fruttifero o antinflattivo del danaro, spesso non è dato sapere in che modo il creditore pecuniario avrebbe con certezza impiegato la somma dovutagli e, conseguentemente, se ed in quale misura lo stesso avrebbe conseguito un vantaggio economico oppure evitato di subire un pregiudizio, ove il debitore avesse pagato alla naturale scadenza.

Nel passato, per ovviare a tali asperità probatorie la giurisprudenza ha elaborato i c.d. "criteri personalizzati di normalità", attraverso i quali s'è fatto un largo impiego delle presunzioni di danno fondate sulla normale destinazione del danaro, determinata proprio in ragione delle condizioni e delle qualità personali del creditore [3].

L'impiego dei criteri presuntivi ha in materia scontato una approssimazione della statuizione giudiziale tanto crescente quanto più numerose fossero risultate le categorie di creditori tipizzate ex ante dal formante giurisprudenziale. Per vero, troppo vasta è l'alea di incongruenze tra il tipo d'attività professionale esercitata ed il reddito da questa in concreto prodotto, mentre non ogni investimento o intrapresa d'affare produce sempre i profitti sperati [4]. Il rischio era, dunque, quello di una generalizzazione di classi creditorie che avrebbe implicato autentiche forme d'automatismo risarcitorio, basate proprio sullo status del creditore pecuniario, tali perciò da oscurare non solo il principio nominalistico, ma anche le regoli comuni della responsabilità civile.

Come vedremo più oltre, la diversa fisionomia in materia assunta dalla prova del maggior danno da ritardo talvolta ha solo mitigato il rigore del principio nominalistico, talaltra vi ha addirittura derogato [5]. Ne derivava un sistema di regole giurisprudenziali tanto confuso e macchinoso da generare incertezze sulle effettive conseguenze risarcitorie dell'art. 1224, 2| co., c.c., onde il suggerimento, da parte di autorevole dottrina, di porvi rimedio equiparando ex lege l'interesse di mora al tasso ufficiale di sconto [6].

Era dunque auspicabile che prima o poi le S.U. del S.C. intervenissero per regolare la complessa materia, senza con ciò supplire ad alcuna lacuna o carenza legislativa [7]: la nomofilachia del S.C. avrebbe di fatti assicurato, de iure condito , una maggior certezza del diritto nel frattempo resa indifferibile dai mutamenti sopraggiunti nella economia, stante il maggior tasso di interessi legali rispetto a quello d'inflazione nominale che ha dato rinnovato impulso alla funzione deterrente della responsabilità contrattuale, in ragione dell'arricchimento ingiustificato che il debitore avrebbe tratto dalla mora.

 

2. Il maggior danno da mora nella Cass., S.U., 16.7.2008, n. 19499

A seguito d'ordinanza interlocutoria della sezione lavoro, 19.12.2006, n. 2990, il primo presidente ha rimesso alle S.U. del S.C. la questione di diritto, già decisa in senso difforme dalle sezioni semplici, concernente la esaustività della qualità di imprenditore ai fini della presumibilità, in favore del creditore pecuniario, di impieghi antinflattivi delle somme delle quali il debitore abbia colpevolmente ritardato il pagamento.

Il caso di specie all'esame della sezione lavoro era di quelli piuttosto frequenti nella prassi e riguardava la restituzione di contributi previdenziali indebitamente versati da una nota società editrice che perciò ne chiedeva ed otteneva la restituzione, a titolo d'indebito oggettivo (art. 2033 c.c.), con condanna dell'Inps (Istituto nazionale per la previdenza sociale) al pagamento degli interessi legali oltre la rivalutazione monetaria, secondo gli indici Istat dei prezzi al consumo, che il giudice del merito riconosceva dalla data della notifica del ricorso fino al soddisfo.

La condanna dell'ente previdenziale convenuto era motivata dal Tribunale di Roma, sezione lavoro [8] aderendo a quella giurisprudenza secondo la quale ai fini del risarcimento del maggior danno da svalutazione monetaria ex art. 1224, 2| co., c.c., la semplice qualità di imprenditore del creditore sarebbe assurta ad elemento presuntivo idoneo a far ritenere che la somma, se restituita tempestivamente, sarebbe stata reinvestita nell'attività produttiva, con conseguente neutralizzazione degli effetti della svalutazione monetaria [9].

Avverso tale pronuncia, l'ente previdenziale proponeva ricorso avanti il S.C., affidandosi all'unico motivo col quale era denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 1224 e 2697 c.c., questa volta sulla scorta del contrastante orientamento giurisprudenziale secondo il quale, agli effetti considerati, il creditore non può limitarsi ad allegare la propria qualità di imprenditore, essendo invece tenuto, in base al generale principio dell'art. 2697 c.c., a fornire utili elementi in ordine al danno subito per effetto dell'indisponibilità del denaro determinata dall'inadempimento (quale, ad esempio, quello derivante da specifici investimenti programmati e non attuati), giacché altrimenti si darebbe luogo ad un meccanismo di automatica rivalutazione dei crediti, analogo a quello che l'art. 429 c.p.c. prevede per i lavoratori subordinati [10].

Sulla questione le S.U. hanno pronunciato la sentenza 16.7.2008, n. 19499, con la quale è stato definitivamente composto il contrasto di giurisprudenza in punto di prova che ogni creditore pecuniario (compreso l'imprenditore commerciale) deve fornire affinché possa essergli risarcito il maggior danno da ritardo, ai sensi dell'art. 1224, 2| co., c.c. [11].

Dopo aver analiticamente ripercorso la complessa evoluzione giurisprudenziale sulla prova del danno da svalutazione monetaria, il S.C. enuncia una serie articolata di principi di diritto con i quali rimedia alla congerie di giudicati incongruenti e, in particolare, alla disorganicità della tipizzazione ex ante di classi creditorie che avrebbe determinato un automatismo risarcitorio contrario al principio nominalistico ed eliminato, sul piano teorico-sistematico, ogni distinzione tra debito di valuta e debito di valore:

"- nelle obbligazioni pecuniarie, in difetto di discipline particolari dettate da norme speciali, il maggior danno di cui all'art. 1224, 2| co., c.c., rispetto a quello già coperto dagli interessi legali moratori non convenzionali che siano comunque dovuti, è in via generale riconoscibile in via presuntiva, per qualunque creditore che ne domandi il risarcimento - dovendo ritenersi superata l'esigenza di inquadrare a tale fine il creditore in una delle categorie a suo tempo individuate -, nella eventuale differenza, a decorrere dalla data di insorgenza della mora, tra il tasso del rendimento medio annuo netto dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi ed il saggio degli interessi legali determinato per ogni anno ai sensi dell'art. 1284, 1° co., c.c.;

- è fatta salva la possibilità del debitore di provare che il creditore non ha subito un maggior danno o che lo ha subito in misura inferiore a quella differenza, in relazione al meno remunerativo uso che avrebbe fatto della somma dovuta se gli fosse stata tempestivamente versata;

- il creditore che domandi a titolo di maggior danno una somma superiore a quella differenza è tenuto ad offrire la prova del danno effettivamente subito, quand'anche sia un imprenditore, mediante la produzione di idonea e completa documentazione, e ciò sia che faccia riferimento al tasso dell'interesse corrisposto per il ricorso al credito bancario, sia che invochi come parametro l'utilità marginale netta dei propri investimenti;

- in entrambi i casi, la prova potrà dirsi raggiunta per l'imprenditore solo se, in relazione alle dimensioni dell'impresa ed all'entità del credito, sia presumibile, nel primo caso, che il ricorso o il maggior ricorso al credito bancario abbia effettivamente costituito conseguenza dell'inadempimento, ovvero che l'adempimento tempestivo si sarebbe risolto nella totale o parziale estinzione del debito contratto verso le banche; e, nel secondo, che la somma sarebbe stata impiegata utilmente nell'impresa".

In applicazione dei suddetti principi, il S.C. ha nella specie respinto il ricorso dell'Inps sul presupposto che, durante gli anni della mora, il rendimento dei titoli di Stato fosse risultato complessivamente superiore al tasso di svalutazione monetaria riconosciuto dal giudice del merito indipendentemente dalla prova specifica circa l'effettivo impiego del danaro da parte del creditore insoddisfatto.

La soluzione accolta dalle S.U. contempera il principio dell'integralità del risarcimento con "le prorompenti esigenze di semplificazione dell'istruzione probatoria" (par. 3) senza tuttavia alterare la coerenza sistematica del codice civile: essa non inficia il principio nominalistico dell'art. 1277 c.c. né comporta alcuna disapplicazione dell'art. 2697 c.c., quanto alla prova del danno risarcibile. Del pari, nessun equivoco ne deriverebbe sul piano processuale, posto che nei debiti di valore (e dunque nella obbligazione di risarcimento del danno) la rivalutazione non va neppure domandata, essendo il giudice tenuto d'ufficio alla liquidazione in valori monetari attuali, mentre nei debiti di valuta il risarcimento del maggior danno dell'art. 1224, 2| co., c.c. dev'essere espressamente richiesto dal creditore (par. 4.1).

Il trattamento in tal modo riservato ai crediti pecuniari ordinari nemmeno risulterebbe più favorevole rispetto a quello "speciale" riservato ai crediti di lavoro dall'art. 429 c.p.c., nella misura in cui il cumulo di rivalutazione ed interessi da effettuarsi per questi ultimi risultasse, come in concreto risulta, costantemente superiore al tasso di rendimento medio dei titoli di Stato di durata non superiore all'anno (par. 6).

 

3. L'inadempimento e il danno nelle obbligazioni pecuniarie

L'inadempimento del debito di valuta causa al creditore un danno storicamente risarcito attraverso gli interessi moratori e l'ulteriore risarcimento dell'eventuale maggior danno.

Gli interessi di mora erano ammessi anche nella vigenza del divieto canonico delle usurae , ma il creditore era gravato della prova di aver subito un effettivo pregiudizio. Successivamente, il Code Napoléon stabilì che gli interessi di mora sarebbero decorsi dalla data della domanda in giudizio, dispensando il creditore dall'onere di provare il danno in concreto subito per effetto del ritardo ma escludendosi la risarcibilità di eventuali danni che lo stesso creditore avesse subito in eccedenza rispetto agli interessi legali (art. 1153 c.c.) [12].

Sulla scorta del modello francese, anche nel sistema del codice civile italiano del 1865 il tradizionale favor riservato al debitore pecuniario, da un lato, e le diffidenze verso le usurae , dall'altro, concorsero a limitare il danno derivante dalla mora solvendi al pagamento dei soli interessi legali (che sarebbero però decorsi dalla costituzione in mora), "salve le regole particolari al commercio, alla fideiussione e alla società" (art. 1231 c.c. 1865).

Nel codice civile in vigore al creditore è invece riconosciuto un "ulteriore risarcimento", ove dimostri di aver subito un "maggior danno" rispetto a quello risarcitogli (con esenzione da ogni onere probatorio) al tasso di interesse legale (art. 1224, 2| co., c.c.) [13]. La regola fu codificata dagli estensori del 1942 ispirandosi al modello del par. 288 BGB che previde, con norma fortemente innovativa, la risarcibilità del maggior danno che il legislatore francese, con l. 7.4.1900, per contro limitò ai soli casi di dolo del debitore [14].

Il maggior danno dell'art. 1224, 2| co., c.c., non è dovuto se la misura degli interessi moratori era stata convenuta fra le parti, alla stessa stregua di una clausola penale [15], e non differisce, per natura e presupposti, dal risarcimento del danno liquidato nella misura forfetaria minima degli interessi legali [16].

L'ulteriore risarcimento spetta al creditore che dimostri il maggior danno dell'art. 1224, 2| co., c.c., con qualsiasi mezzo, incluso il notorio e le presunzioni delle quali la giurisprudenza ha fatto largo impiego, come si vedrà più oltre. Resta inteso che tale risarcimento potrà liquidarsi se ed in quanto ne vengano accertati i presupposti, quali l'inadempimento colpevole del debitore ed il nesso causale tra questo ed il danno [17]: l'art. 1224, 2| co., c.c., richiama le regole generali della responsabilità contrattuale, onde stabilirne la applicabilità alla specie dei debiti di valuta, in alternativa alle norme sugli interessi legali [18].

Il maggior danno causato dal ritardo può astrattamente consistere di qualsiasi pregiudizio arrecato al patrimonio del creditore ai sensi dell'art. 1223 c.c., potendosi perciò configurare come danno emergente, lucro cessante e forse anche come perdita di chance. Nondimeno, nella prassi giudiziale esso è prevalentemente coinciso col danno da svalutazione, nel significato corrente di deprezzamento della moneta o di perdita del suo potere di acquisto (v. infra ).

Contrariamente a quanto talvolta affermatosi in giurisprudenza, la rivalutazione deldebito di valutanon converte la obbligazione pecuniaria in debito di valore e non abrogherebbe, pertanto, il principio nominalistico che governa la materia: mentre nei debiti di valore il computo della variazione del potere di acquisto della moneta è insita nel procedimento di liquidazione del danno, in quanto il denaro vale solo a misurare e ad esprimere un valore necessariamente attuale, nei debiti di valuta essa invece rileva soltanto sub specie damni [19], secondo una impostazione che riceve puntuale conferma dalla Relazione al codice civile (n. 592), dalla quale si apprende che l'alterazione del valore della moneta, verificatasi durante la mora debendi , non fu specificamente codificata dovendosi semplicemente trattare d'un danno risarcibile secondo le regole di diritto comune (artt. 1218 e 1224, 2| co., c.c.).

Quanto agli elementi costitutivi dell'illecito in questione, la giurisprudenza ha chiarito che il maggior danno derivante dal ritardato pagamento di un debito pecuniario può essere risarcito sulla scorta del ritardo imputabile a mera colpa del debitore, non richiedendosi che il debitore abbia agito con animus nocendi , ovvero con dolo specifico finalizzato a danneggiare il creditore [20].

Il maggior danno dell'art. 1224, 2| co., c.c., è il danno che eccede quello già coperto dagli interessi di mora calcolati al tasso legale sulla somma dedotta in obbligazione; esso pertanto si giustappone e non si aggiunge a quello, forfettario, previsto dall'art. 1224, 1° co., c.c., dovendo perciò esser depurato di quanto fosse liquidato a titolo di interessi moratori [21].

Ancorché conseguenti dal medesimo illecito (l'inadempimento colposo del debitore), gli interessi di mora e il maggior danno costituiscono poste di danno ontologicamente distinte (allo stesso modo del lucro cessante e della perdita della chance), con conseguenze anche d'ordine processuale, poiché il giudicato formatosi sulla condanna del debitore al pagamento della somma capitale e degli interessi moratori preclude la possibilità di richiedere in autonomo giudizio il risarcimento del maggior danno, salvo che il creditore, nel primo giudizio, abbia fatto espressa riserva di agire in separata sede ed il debitore non si sia a ciò opposto [22].

 

4. I diversi orientamenti giurisprudenziali sulla prova del danno da svalutazione della moneta

Le obbligazioni pecuniarie costituiscono la specie più diffusa e stereotipa di obbligazione. Le stesse sono soggette al principio nominalistico dell'art. 1277 c.c. e, a rigore, dovrebbero continuare ad esserlo anche dopo la scadenza, per cui la prestazione si estingue, pur dopo la costituzione in mora del debitore, col pagamento della qualità di moneta cui essa è commisurata, anche se questa durante la mora abbia perduto parte del suo potere di acquisto per effetto della svalutazione, cosicché la svalutazione stessa in sé non dovrebbe configurare un danno in senso giuridico, ma un'evenienza capace d'aggravare il pregiudizio derivante al creditore dall'inadempimento [23].

Sennonché, l'esigenza di compensare integralmente il pregiudizio sofferto dal creditore, specialmente nei periodi di grande inflazione, ha indotto la giurisprudenza a qualificare la svalutazione monetaria quale danno in re ipsa ed a minare, conseguentemente, le fondamenta della distinzione tra obbligazioni di valuta e obbligazioni di valore, la cui sopravvivenza è storicamente dipesa proprio dal modo in cui s'è fatta applicazione delle regole di liquidazione del maggior danno causato dal colpevole ritardo del debitore pecuniario.

Il primo stadio evolutivo della prova del maggior danno dell'art. 1224, 2| co., c.c., è nella giurisprudenza dei primi anni '50 che, diversamente da quella degli anni successivi, riconobbe alla svalutazione monetaria solo una potenziale efficienza dannosa, talché il creditore dovesse dimostrare che la mancata disponibilità del danaro gli avesse impedito l'acquisto di beni sottratti alla svalutazione ovvero d'esser stato costretto alla vendita di beni di siffatta specie o, infine, d'esser stato costretto ad assumere una gravosa obbligazione, ricorrendo a prestiti onerosi [24]. Tale iniziale orientamento era conforme alle dottrine del tempo che collocavano il danno da svalutazione all'interno della disciplina generale della responsabilità contrattuale, perciò esigendo la prova del danno che, avendo ad oggetto un fatto ipotetico, poteva tuttavia darsi soltanto in via presuntiva [25].

Successivamente, stante il forte processo inflazionistico in atto sin dagli anni '70, la giurisprudenza per qualche tempo aderì al criterio dell'automatico riconoscimento del danno da inflazione, sul presupposto che la perdita del potere di acquisto della moneta giuridicamente realizzasse un danno concreto e reale, del quale il creditore non dovesse fornire alcuna prova, qualificandosi la svalutazione medesima come fatto notorio e potendosene perciò definire la entità secondo indici pubblicizzati di sicura attendibilità e concludenza [26].

Il ritardo nell'adempimento avrebbe dunque causato un danno in re ipsa , quale "perdita secca" ragguagliata al deprezzamento della moneta, sul presupposto che ogni impiego del danaro, anche il semplice deposito bancario o la spendita in beni di consumo, produce ricchezza riconducibile al valore della moneta. Si sarebbe trattato di un danno emergente per il quale il creditore risultava dispensato dalla prova e perciò risarcito in egual misura per tutti i creditori, a differenza del mancato guadagno che doveva per contro essere specificamente provato.

Nel luglio del 1979, la Corte di Cassazione ristabilisce l'originario ordine giuridico statuendo che, in materia, i maggiori danni derivanti dalla mora non possono ritenersi in re ipsa ma devono essere allegati e dimostrati dal creditore il quale a tale effetto avrebbe peraltro potuto avvalersi: 1) del notorio acquisto alla comune esperienza, quanto alla destinazione del denaro all'acquisto di beni o servizi oppure alle modalità d'impiego dello stesso danaro coerentemente alle qualità professionali, ai bisogni che le personali possibilità finanziarie consentono di soddisfare, infine alle abitudini derivanti dalla mentalità e dall'ambiente di vita; 2) delle presunzioni di vita (contenenti in nuce il c.d. "criterio personalizzato di normalità") fondate su condizioni e qualità personali del creditore e sulle modalità d'impiego del denaro, coerenti - secondo i criteri della normalità e della possibilità - con tali elementi, per desumere dal complesso di questi dati (integrati, ove occorra, con criteri equitativi) quali maggiori utilità, nei singoli casi, la somma tempestivamente pagata avrebbe potuto procurare al creditore [27].

Tale indirizzo si consolida negli anni '80, nel corso dei quali è ribadita la esclusione di risarcimenti automatici ed uniformi salvo il ricorso, per conclamate esigenze di concludenza e celerità dei processi civili, alla tecnica delle presunzioni sull'impiego del denaro per classi standardizzate di creditori pecuniari, predefinite con riguardo alle loro attività professionali e condizioni economico-sociali. Attraverso la compiuta sperimentazione dei c.d. "criteri personalizzati di normalità" si distinguono, pertanto, le categorie dell'imprenditore, che normalmente impiega il denaro nel ciclo produttivo per trarne profitto; del risparmiatore abituale, che normalmente suole collocare il denaro in determinati investimenti; del modesto consumatore, che normalmente spende tutto il denaro di cui dispone per soddisfare i bisogni propri e della famiglia, perciò risentendo del rialzo dei prezzi al consumo; infine del creditore occasionale, che beneficia una tantum di una somma rilevante (ad esempio, indennità di fine rapporto, indennizzo assicurativo, ecc.) per la quale debba invece escludersi l'immediata destinazione al consumo [28].

Alla stregua di consimili classificazioni, in giurisprudenza dunque s'affermavano, in punto di prova del danno, le seguenti regole:

a) il creditore imprenditore era gravato d'un peculiare onere probatorio solo ove avesse domandato un maggior danno corrispondente ai risultati utili della sua impresa (lucro cessante), mentre poteva giovarsi della presunzione tipo, fondata sui predetti criteri personalizzati di normalità, quanto al maggior danno costituito dallo scarto tra il tasso degli interessi legali ed il prime rate (danno emergente), dovendo tuttavia dimostrare di trovarsi in condizioni idonee a far presumere, secondo la normale gestione dell'impresa, il ricorso al mercato del credito;

b) il semplice consumatore poteva invece pretendere un maggior danno corrispondente alle differenze tra gli indici Istat ed il tasso legale di interesse, nel periodo della mora, indipendentemente da ogni specifica prova di impiego del danaro;

c) per il creditore occasionale si aveva senz'altro riguardo al tasso medio sui depositi bancari, sul presupposto ch'egli non avrebbe investito in altre forme più remunerative il proprio danaro;

d) il risparmiatore abituale era invece tenuto a provare le forme e le modalità del normale investimento del proprio denaro nonché il relativo tasso di redditività.

Sennonché, la applicazione di tali criteri di liquidazione del danno presupponeva una precisa collocazione del creditore in un gruppo o categoria predefinita che nella prassi si rivelava affatto difficoltosa, sia per le eccezioni ex latere debitoris , sia per le illimitate potenzialità di impiego del danaro (che variano a seconda delle contingenze e delle propensioni del momento), sia per la possibile contestuale appartenenza del creditore a più classi socio-economiche oppure per il passaggio dello stesso, nel corso del tempo, da un gruppo ad altro.

I criteri personalizzati di normalità tipizzati ex ante avrebbero inoltre implicato, nella sostanza, una sorta di rivalutazione automatica del credito, in contrasto col principio nominalistico in forza del quale il debito originario deve essere adempiuto secondo il valore nominale della moneta avente corso legale alla data del pagamento, anche in sede di esecuzione forzata. Per questo i giudici hanno stabilito che la prova del maggior danno non potesse ritenersi assolta mediante la mera dimostrazione dello status professionale o sociale del creditore, esigendo (quanto meno) l'allegazione di elementi e circostanze idonee ad evidenziarne le concrete propensioni economiche, poiché solo queste ultime avrebbero indicato, con più precisione, la effettiva categoria di appartenenza del creditore medesimo e giustificato l'impiego delle presunzioni sulla effettiva destinazione del denaro tempestivamente riscosso [29].

Tale ultima impostazione risultava tuttavia fin troppo rigorosa, nella misura in cui avesse reso più gravosa la prova, da parte del creditore pecuniario, che il pagamento tempestivo lo avrebbe posto nella condizione di evitare, o quantomeno di limitare, gli effetti economici depauperatori che l'inflazione produce per i possessori di danaro, con la conseguenza di incentivare l'oltranzismo dilatorio del debitore inadempiente [30].

 

5. Il nuovo criterio presuntivo uniforme di normalità

Le S.U. del luglio ultimo scorso, non rinnegano l'impiego delle presunzioni di danno fondate sulla normale destinazione del danaro; tuttavia, nel segno d'una evidente discontinuità col passato, decretano il definitivo "superamento della suddivisione dei creditori in categorie, a ciascuna delle quali si attagli la presunzione di una personalizzata modalità di impiego del denaro, restando invece l'ambito della possibile personalizzazione affidato, esso solo, alla prova" [31].

In tal modo, la Cass., 16.7.2008, n. 19499, riconduce la prova del maggior danno nell'alveo naturale degli artt. 1218, 1223 e 2697 c.c., garantendo coerenza al sistema del codice civile che, anche in tema di responsabilità del conduttore per il ritardato rilascio dell'immobile locato, esige la prova in concreto del maggior danno dell'art. 1591 c.c. La cesura col passato è marcata ma non radicale, laddove è stabilito che, in mancanza di norme speciali, nei debiti di valuta il maggior danno (rispetto a quello già coperto dagli interessi legali moratori non convenzionali) possa esser ancora provato e liquidato in via presuntiva, in favore di "qualunque creditore che ne domandi il risarcimento", seppur in misura limitata alla differenza tra il tasso di rendimento netto (dedotta l'imposta) dei titoli di Stato di durata non superiore ai dodici mesi (o tra il tasso di inflazione se superiore) e quello degli interessi legali (se inferiore).

Ne risulta salvaguardato il principio nominalistico, il cui rigore è (ancora) mitigato dall'impiego delle presunzioni basate sulla normale destinazione del danaro; diversamente dalle pronunce degli anni scorsi tale impiego è però circoscritto ad un'unica classe creditoria, composta dalla generalità dei consociati ovvero dal consociato medio che, normalmente, impiega il proprio denaro nella forma più comune e prudente di investimento, costituita dall'acquisto di titoli di Stato.

In luogo dei numerosi elaborati ed applicati in precedenza [32] le S.U. del S.C. ora optano, dunque, per un nuovo criterio di normalità, unico ed uniforme, che consente una liquidazione forfetaria minima del maggior danno dell'art. 1224, 2| co., c.c. basata su elementi di stima che assicurano la stessa obiettività degli indici Istat, già utilizzati per la aestimatio del danno da svalutazione, ovvero dei criteri alternativi che nel corso degli anni furono suggeriti dalle dottrine che proposero di sostituire per legge il saggio d'interesse legale con altro parametro, quale il tasso ufficiale di sconto.

A ben vedere, le S.U. hanno esteso alla mora dell'art. 1224, 2| co., c.c., il medesimo principio di diritto già enunciato nel risolvere la dibattuta questione concernente la ammissibilità delle presunzioni semplici per la prova del maggior danno provocato dal conduttore in mora nella restituzione dell'immobile locato [33]. Alla base del dictum in commento v'è, infatti, la adesione all'orientamento meno rigorista che, con riguardo alla proposta di nuova locazione quale mezzo idoneo a dimostrare la possibilità di ritrarre dalla locazione un profitto più elevato [34], ha considerato gravi, precise e concordanti non solo quelle presunzioni nelle quali il fatto da provare costituisce unica conseguenza logicamente possibile del fatto noto, ma anche quelle in cui lo stesso fatto ignoto costituisce derivazione di quelli noti nella normalità dei casi, secondo l' id quod plerunque accidit . La conseguenza è che mentre in passato il danno da svalutazione monetaria era risarcito in ogni caso quale danno emergente identico per tutti i creditori, attraverso il parametro di redditività dei titoli di Stato il maggior danno dell'art. 1224, 2| co., c.c., è ora invece liquidato dalle S.U. come lucro cessante, per il quale è ritenuta sufficiente la prova indiziaria della utilità patrimoniale che, secondo un rigoroso giudizio di probabilità (e non di mera possibilità), il creditore avrebbe conseguito se la somma fosse stata pagata alla naturale scadenza.

 

6. La presunzione di danno e la prova contraria del debitore

S'è detto che l'art. 1224 c.c.dispensa il creditore dall'onere di provare il danno effettivamente subito, a meno che egli non richieda un risarcimento ulteriore, oltre agli interessi di mora. L'attribuzione ope legis degli interessi moratori non prescinde dal danno concretamente verificatosi, né consegue ad una presunzione assoluta di danno: nelle obbligazioni di valuta l'interesse di mora è il danno risarcito in base ad una presunzione relativa che, in quanto tale, non preclude al creditore di agire secondo le regole (alternative e) generali di responsabilità, con tutte le implicazioni che ne deriverebbero in punto di prova del (maggior) danno.

In tale contesto normativo, la Cass., S.U., 16.7.2008, n. 19499, a ben vedere introduce una (ulteriore) presunzione semplice di maggior danno, che partecipa della medesima natura della presunzione legale relativa all'interesse di mora: trattasi di presunzione in senso proprio, poiché la prova contraria verte proprio sulla negazione del fatto ignoto costituito dal maggior danno corrispondente alla differenza tra il tasso di rendimento netto (dedotta l'imposta) dei titoli di Stato di durata non superiore ai dodici mesi (o tra il tasso di inflazione se superiore) e quello degli interessi legali (se inferiore).

In materia, l'impiego delle presunzioni strutturate sul nuovo criterio uniforme di normalità implica una sostanziale inversione dell'onere della prova che non grava il debitore pecuniario di una inammissibile prova negativa, bensì della prova del fatto positivo contrario alla pretesa del creditore non soddisfatto alla naturale scadenza. Al debitore è infatti consentito "di provare - pur con le difficoltà connesse alla raffigurabilità di un ipotetico ed economicamente inefficiente comportamento altrui - che dal proprio ritardo nell'adempimento il creditore non ha subito un danno, o che lo ha subito in misura inferiore al saggio degli interessi legali, sicché nulla gli è dovuto, in aggiunta a quelli, per maggior danno (perché, ad esempio, dedito al deposito del denaro in conto corrente, la cui remuneratività è notoriamente assai bassa, ovvero perché i suoi investimenti nel periodo si sono risolti in una perdita, ecc.)" [35].

Sotto quest'ultimo profilo v'è dunque una evidente continuità con i numerosi precedenti in termini che ammettevano la prova contraria del debitore sull'insussistenza del danno da svalutazione o della sua minore incidenza rispetto al tasso d'inflazione [36].

 

7. La funzione deterrente della mora debendi, tra responsabilità contrattuale e azione generale di arricchimento senza causa

Nell'attuale congiuntura economica non solo il danno da svalutazione è assorbito dall'attribuzione degli interessi legali, ma il tasso di rendimento lordo dei titoli di Stato è apprezzabilmente superiore al tasso degli stessi interessi di mora, "con la conseguenza che, per il debitore di un'obbligazione pecuniaria, in linea di massima continua a poter essere economicamente conveniente non adempiere tempestivamente, così lucrando la differenza tra quello che è agevolmente in grado di ricavare dal denaro non versato al creditore durante la mora debendi e quello che dovrà al creditore quando adempirà la propria obbligazione" [37].

In linea di principio il debitore non può né deve esser posto in condizione di poter trarre alcuna utilità dalla mora. Per questo nel codice civile è stabilito che l'obbligazione pecuniaria produce interessi di pieno diritto (art. 1282 c.c.) e che solo con la costituzione in mora del creditore il debitore può liberarsi dall'obbligo di corrisponderli (art. 1207 c.c.).

Conformandosi allo spirito della legge, la giurisprudenza ha stabilito, con evidenti finalità deterrenti, che il risarcimento del maggior danno da mora debendi dell'art. 1224, 2| co., c.c., non può essere escluso o limitato, ai sensi dell'art. 1227, 2| co., c.c., in ragione del tempo lasciato trascorrere dal creditore prima di esercitare l'azione giudiziaria e del conseguenziale incremento dell'entità del pregiudizio, trattandosi di effetti che spetta al debitore di evitare, adempiendo sollecitamente l'obbligazione [38].

La stessa coerenza sistematica riemerge dalla ratio decidendi della Cass., S.U., 16.7.2008, n. 19499, dove i profili del "danno" subito dal creditore che consegue in ritardo la prestazione pecuniaria si fondono, con evidente compenetrazione tra finalità compensativa e di deterrenza, con quelli del "vantaggio" che il debitore potrebbe conseguire eseguendo in ritardo la prestazione medesima. E' bene osservare, a questo proposito, come opportunamente le S.U. abbiano ritenuto di considerare il "vantaggio" che il debitore potrebbe trarre dalla mora ai limitati effetti della prova, sebbene in via solo presuntiva iuris tantum , del danno da risarcirsi secondo la clausola generale dell'art. 1218 c.c., senza con ciò autorizzarsi l'azione di arricchimento senza causa del creditore pecuniario: qui la questione non avrebbe riguardato solo la sussidiarietà dell'azione dell'art. 2041 c.c. quanto, piuttosto, la stessa precettività del principio nominalistico, atteso che l'ingiusto arricchimento di una parte ed il lucro cessante dell'altra nella specie potrebbero sempre verificarsi, anche in mancanza del colpevole ritardo del debitore pecuniario.

 

8. Il maggior danno dell'imprenditore commerciale

Con la sentenza in data 16.7.2008, n. 19499, le S.U. hanno composto il contrasto di giurisprudenza sorto sulla sufficienza della qualità di imprenditore del creditore ai fini della presumibilità di impieghi antinflattivi della somma non versata dal debitore alla naturale scadenza.

In materia, per oltre un ventennio la giurisprudenza s'era in prevalenza attestata su posizioni consolidate nel ritenere che, al fine del riconoscimento e della liquidazione delmaggior danno derivante dalla svalutazione della moneta, la qualità personale del creditore, ed in specie quella d'imprenditore commerciale, avrebbe costituito elemento sufficiente per consentire al giudice il ricorso al notorio acquisito dalla comune esperienza ed alle presunzioni, circa gli investimenti che il creditore stesso avrebbe potuto effettuare per evitare o contenere l'effetto depauperatorio dell'inflazione [39].

Per il creditore esercente una attività di impresa, avrebbe dunque costituito idoneo e preferenziale criterio di liquidazione del danno il riferimento al costo del danaro, e segnatamente allo scarto tra interesse legale e tasso di mercato dell'interesse praticato dalle banche alla migliore clientela (prime rate) sulla piazza del creditore e nel periodo della mora. Tale criterio sarebbe stato l'unico applicabile ad una impresa in pareggio o in perdita, mentre il criterio della redditività marginale media dell'investimento (desunta attraverso il normale impiego del danaro nel ciclo produttivo, nelle forme dell'autofinanziamento o della copertura endogena del capitale) sarebbe stato applicato solo in favore dell'imprenditore che avesse espressamente dedotto il mancato guadagno.

Secondo il nuovo orientamento della Cass., 16.7.2008, n. 19499, l'imprenditore che domandi, a titolo di maggior danno, la maggior somma tra interessi moratori e rendimento medio annuo netto dei titoli di Stato di durata non superiore ai dodici mesi è tenuto ad offrire la prova del danno effettivamente subito, mediante la produzione di idonea e completa documentazione, e ciò sia che faccia riferimento al tasso dell'interesse corrisposto per il ricorso al credito bancario, sia che invochi come parametro l'utilità marginale netta dei propri investimenti.

In applicazione delle regole generali sulla causalità giuridica (art. 1223 c.c.), la domanda dell'imprenditore potrà accogliersi solo se, in relazione alle dimensioni dell'impresa ed all'entità del credito, possa presumersi che il ricorso o il maggior ricorso al credito bancario abbia effettivamente costituito conseguenza dell'inadempimento, ovvero che l'adempimento tempestivo si sarebbe risolto nella totale o parziale estinzione del debito contratto verso le banche.

Allo stesso modo dall'istruttoria di causa dovrà emergere che la somma non corrisposta alla naturale scadenza sarebbe stata utilmente impiegata nell'impresa del creditore.

 


Note:


1 Alla evidenza, nell'impiego dei comuni criteri di responsabilità occorre preliminarmente qualificare la posta di danno da risarcire; occorre, in particolare, distinguere tra danno emergente, lucro cessante, danno presente, danno futuro e perdita di chance atteso che, esemplificando, altro dal danno emergente che possa comprovarsi (nell'an e nel quantum) in via documentale, sarebbe il lucro cessante, per natura incerto e futuro e perciò tale da imporre il ricorso a presunzioni ed alla liquidazione in via equitativa dell'art. 1226 c.c.

2 Non, dunque, con riguardo alle qualità soggettive del creditore.


3 Cass., S.U., 4.7.1979, n. 3776, in Resp. civ. e prev., 1979, 720; in Riv. notariato, 1979, 1537; in Giust. civ., 1979, I, 1576; in Foro it., 1980, I, 118: "Nelle obbligazioni pecuniarie, il creditore che domanda oltre gli interessi legali, i maggiori danni derivanti dalla mora, ha l'onere di allegare e dimostrare, valendosi, senza alcuna limitazione, di ogni possibile mezzo di prova, il pregiudizio patrimoniale risentito; ed il giudice può, in conseguenza di altre specifiche prove, utilizzare oltre il notorio acquisito alla comune esperienza (destinazione del denaro all'acquisto di beni o servizi; impiego del denaro in maniera coerente con le qualità professionali, con i bisogni che le personali possibilità finanziarie consentono di soddisfare, con le abitudini derivanti dalla mentalità e dall'ambiente di vita) presunzioni di vita fondate su condizioni e qualità personali del creditore e sulle modalità di impiego del denaro, coerenti - secondo i criteri della normalità e della possibilità - con tali elementi, per desumere dal complesso di questi dati (integrati, ove occorra, con criteri equitativi) quali maggiori utilità, nei singoli casi, la somma tempestivamente pagata avrebbe potuto procurare al creditore, rimanendo fermo, per quest'ultimo, l'onere di dimostrare in maniera più specifica l'eventuale danno emergente derivante dal fatto di aver dovuto procurarsi la somma (non pagatagli) a condizioni particolarmente svantaggiose o mediante alienazione di beni reali, od il danno allegato con riferimento ad investimenti particolari specificamente programmati e resi impossibili dall'inadempimento del debitore".Come noto, la giurisprudenza dell'ultimo ventennio del secolo scorso ha dunque distinto, agli effetti dell'ulteriore risarcimento dell'art. 1224, 2| co., c.c., da allegarsi e provarsi in via indiziaria e presuntiva, attraverso l'impiego dei criteri personalizzati basati sull'id quod plerumque accidit, tra: 1) imprenditore-operatore economico; 2) risparmiatore abituale; 3) risparmiatore occasionale; 4) modesto consumatore; 5) ogni altro creditore in generale, secondo classificazioni di volta in volta tipizzate alla stregua del medesimo criterio personalizzato di normalità.Il medesimo criterio personalizzato di normalità figura, tra le altre, nella Cass., S,U., 11.10.1979, n. 5272, in Resp. civ. e prev., 1980, 224; Cass., 18.6.1980, n. 3884, in Giust. civ. mass., 1980, 6; Cass., 3.5.1986, n. 3018, ivi, 1986, 5; Cass., S.U., 5.4.1986, n. 2368, in Foro it., 1988, I, 2129; Cass., sez. lav., 27.1.1988, n. 703, in Giust. civ. mass., 1988, 1; Id., 7.4.1988, n. 2767, ivi, 1988, 4; Cass., 15.10.1992, n. 11283, ivi, 1992, 10, dov'è ribadito il principio secondo cui per aversi presunzione giuridicamente valida non è necessario che tra il fatto noto ed il fatto ignoto debba sussistere un rapporto di esclusiva necessità causale, ma è sufficiente che il fatto da provare derivi dal primo come conseguenza ragionevolmente possibile e verosimile secondo un criterio di normalità (nella specie, il S.C. confermava la decisione dei giudici del merito che nell'attribuzione del "maggior danno" avevano fondato sulla professione del creditore - trattavasi di dottore commercialista, quindi d'un esperto in operazioni finanziarie - la presunzione di proficuo investimento della somma di danaro dovutagli, in guisa da sottrarla alla svalutazione monetaria intervenuta durante la mora).


4 Del resto, sulla inattendibilità, agli effetti della certezza del danno, dei criteri di normalità tipizzati ex ante in via giurisprudenziale, è davvero significativo un passo della motivazione della Cass., S.U., 16.7.2008, n. 19499, della quale diremo più oltre, secondo cui "i bisogni ed i desideri che il denaro vale a soddisfare sono d'altronde troppi e troppo intimamente connessi anche al modo d'essere di ognuno, nonché agli eventi di cui ciascuno è nella vita protagonista, spettatore o vittima, perché l'uno o l'altro creditore sia suscettibile di essere tout court qualificato come consumatore, o risparmiatore, o creditore occasionale, essendo vero invece che ognuno è o può essere l'una o l'altra cosa, o l'altra ancora, o tutte insieme in relazione a ciascuna frazione dell'importo ed a seconda delle contingenze economiche generali e personali del momento, dell'entità del credito, dei propri progetti e così via" (par. 3).

5 Il rapporto tra il principio nominalistico dell'art. 1277 c.c. e il capoverso dell'art. 1224 c.c. costituisce uno dei temi storicamente più dibattuti in letteratura: Trimarchi, Svalutazione monetaria e ritardo nell'adempimento di obbligazioni pecuniarie, Milano, 1983; Bianca, Diritto civile, V, Milano, 1994, 203 ss.; Id., Inadempimento delle obbligazioni, in Comm. Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1979, 349 ss.; Quadri, Danno e risarcimento nelle obbligazioni pecuniarie, in Giur. it., 1979, I, 1, 971 ss.; Franzoni, Il danno al patrimonio, Milano, 1996, 386 ss.; oltre all'ampia rassegna giurisprudenziale sistematica di Cantillo, Le obbligazioni, III, in Giur. sist. Bigiavi, Torino, 1992, 1348 ss. 


6 Galgano, Diritto civile e commerciale, II, 1, Padova, 1993, 85. Il tasso ufficiale di sconto (dal gennaio del 1999 sostituito dal tasso ufficiale di riferimento) era il tasso con cui la Banca Centrale concedeva prestiti alle altre banche e, perciò, avrebbe effettivamente determinato il reale costo del danaro, agli effetti del maggior danno dell'art. 1224, 2| co., c.c.


7 A ben vedere, la stessa Corte di Cassazione ha lasciato chiaramente intendere di ben conoscere i propri limiti istituzionali in materia di maggior danno dell'art. 1224, 2| co., c.c., auspicando un intervento legislativo ed alludendo alla propria incompetenza a porre in essere non "un'operazione esegetica, ma normativa": cfr. Cass., 5.4.1986, n. 2368, in Giust. civ., 1986, I,1595; in Foro it., 1986, I, 1539, par. 8 della parte motiva. 

8 Statuendo in parziale accoglimento dell'appello incidentale della società creditrice ex art. 2033 c.c. 

9 Cass., 8.5.2001, n. 6420, in Giust. civ. mass., 2001, 947.


10 Cass., 20.6.2003, n. 9910, ivi, 2003, 6, ove il principio per cui, con riguardo al credito relativo alla restituzione degli importi indebitamente versati a titolo di contributi all'Inps, la somma dovuta non è suscettibile, al pari di ogni altra ipotesi di obbligazione di valuta, di automatica rivalutazione in relazione all'intervenuto deprezzamento della moneta. 


11 Sulla fattispecie v., in dottrina, Bianca, Inadempimento delle obbligazioni, in Comm. Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1979, 349 ss.; Franzoni, Il danno al patrimonio, Milano, 1996, 379 ss.; Cantillo, Le obbligazioni, III, in Giur. sist. Bigiavi, Torino, 1992, 1343 ss.; Perlingieri, Manuale di diritto civile, Napoli, 2007, 292; Libertini, Interessi, in Enc. dir., XXII, Milano, 1972, 105 ss. 


12 Libertini, Interessi, in Enc. dir., XXII, Milano, 1972, 99 ss. 


13 L'orientamento dominante è notoriamente costante nell'escludere che, oltre al maggior danno, al creditore debbano liquidarsi anche gli interessi moratori. Tra le altre, v. Cass., 17.3.1994, n. 2538, in Giust. civ. mass., 1994, 328, nel senso che gli interessi legali sulle somme dovute, siano essi corrispettivi o moratori, sono pur sempre strumentali alla reintegrazione del patrimonio del creditore della perdita connessa alla mancata disponibilità tempestiva delle somme medesime in base alla presunzione di naturale fecondità del denaro e quindi a prescindere dalla prova della concreta esistenza del pregiudizio, con la conseguenza che, assolvendo entrambi una funzione risarcitoria, ove il creditore deduca e dimostri di avere subito a causa della svalutazione monetaria un danno maggiore di quello compensato dalla sola loro liquidazione e ne ottenga l'integrale risarcimento mediante rivalutazione della somma dovuta, l'importo della rivalutazione stessa, che assolve identica funzione risarcitoria, con riguardo al danno effettivo e non semplicemente presunto, non è cumulabile né con l'uno né con l'altro tipo di interessi, mentre gli ulteriori interessi sulla somma rivalutata non possono che decorrere dal momento della liquidazione di questa.


14 In tal guisa, alla evidenza, il maggior danno da mora del debitore pecuniario riceveva, nella legislazione francese del secolo scorso, un trattamento del tutto analogo a quello che il codice civile italiano in vigore riserva al risarcimento del danno che non poteva prevedersi al tempo della insorgenza dell'obbligazione inadempiuta (art. 1225 c.c.). 


15 La giurisprudenza ha qualificato la determinazione convenzionale degli interessi come clausola penale (riguardante, come emergerebbe dalla chiara formulazione dell'art. 1224, 2| co., c.c., solo gli interessi moratori, e quindi, nel caso di interessi convenzionali convenuti in misura maggiore prima della mora, il creditore avrà diritto alla liquidazione forfetaria del danno in misura corrispondente, e cioè a tasso superiore a quello legale), avente perciò la funzione di preventiva e definitiva liquidazione convenzionale di ogni danno ulteriore che si verificasse a seguito di svalutazione monetaria (Cass., 21.6.2001, n. 8481, in Giust. civ. mass., 2001, 1230). Ne derivano evidenti implicazioni, specie con riguardo alla riducibilità degli interessi convenzionali, allo stesso modo della penale ritenuta manifestamente eccessiva, ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 1384 c.c. 


16 Bianca, Inadempimento delle obbligazioni, in Comm. Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1979, 349. 


17 Cass., 20.11.2007, n. 24142, in Giust. civ. mass., 2007, 11. 

18 Libertini, Interessi, cit., 107. 


19 Cass., 16.7.2008, n. 19499, in parte motiva, par. 4.1. 


20 Cass., sez. lav., 16.6.2006, n. 13923, in Giust. civ. mass., 2006, 6 (nella specie, sulla scorta del principio riportato nel testo la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza impugnata, con la quale era stata ravvisata, con riferimento all'affermazione della responsabilità conseguente al tardivo pagamento di un debito pecuniario da parte di una p.a., l'indispensabilità della prova che, oltre al requisito dell'imputabilità del ritardo a carico della stessa debitrice, quest'ultima avesse agito con l'indicato animus nocendi). 


21 Diversamente, il creditore pecuniario riceverebbe un indebito arricchimento, stante la duplicazione del risarcimento del medesimo danno da ritardo. 


22 Cass., 4.3.2003, n. 3187, in Foro it., 2003, I, 3084. 


23 Cass., 15.1.1982, n. 250, in Giust. civ. mass., 1982, 1. 


24 Cass., 11.1.1951, n. 47, in Giur. it., I, 1, 103; in Foro it., 1951, I, 163. 


25 Nicolò, Gli effetti della svalutazione della moneta nei rapporti di obbligazione, in Foro it., 1944-1946, V, 45. 


26 Cass., 30.11.1978, n. 5670, in Foro it., 1979, I, 15; in Giur. it., 1979, 971, I, 1; in Resp. civ. e prev., 1979, 39; in Arch. civ., 1979, 620; in Vita notarile, 1978, 1112, nel senso che, in tema di obbligazioni pecuniarie, tra i maggiori danni che potessero spettare al creditore, in aggiunta agli interessi legali, andassero compresi quelli dipendenti dalla svalutazione monetaria, verificatasi durante la mora del debitore, di talché il creditore, che si fosse limitato a chiedere il risarcimento della perdita subita per effetto del diminuito potere d'acquisto della moneta, ben avrebbe potuto dedurre ed utilizzare a suo favore il solo fatto notorio della svalutazione, senza necessità di fornire la prova di aver concretamente predisposto il reimpiego della somma dovutagli. Veniva perciò accolta la opinione secondo cui il debito di valuta, per effetto della mora del debitore, si sarebbe trasformato in debito di valore, come successivamente confermato dalla Cass., 7.1.1983, n. 123, in Giust. civ., 1983, I, 766; in Giur. it., 1983, I, 1, 574; in Banca borsa tit. cred., 1983, II, 297, sul presupposto che gli interessi di cui all'art. 1224, 1° co., c.c., ivi qualificati moratori, in realtà non avessero funzione risarcitoria, trovando causa nella normale redditività del denaro, mentre il risarcimento del danno derivante dalla mancata prestazione della valuta fosse regolato dal 2| co. della stessa disposizione e fosse perciò sottratto al principio nominalistico perché commisurato, al pari dell'inadempimento d'ogni altro debito, al depauperamento economico sofferto dal creditore in relazione al valore che aveva per lui l'adempimento tempestivo. Per la Cass. n. 123/1983, poiché il pagamento in moneta svalutata equivale alla prestazione di cosa diminuita di valore perché deprezzata, la svalutazione monetaria - che ontologicamente è un danno collettivo, generalizzato ad ogni uso del denaro - per effetto dell'inadempimento si sarebbe trasformata in un danno individuale da risarcirsi in ogni caso, quanto meno in misura pari all'entità del deprezzamento monetario risultante dagli indici ufficiali. 


27 Cass., S.U., 4.7.1979, n. 3776, in Giur. it., I, 1, 1410; in Foro it., 1979, I, 1668; in Giust. civ., 1979, I, 1546; in Resp. civ. e prev., 1979, 720. 


28 Cass., S.U., 5.4.1986, n. 2368, pubblicata in Giust. civ., 1986, I, 1595; in Foro it., 1986, I, 1265; in Giur. it., 1986, I, 1, 1389, relativa alla svalutazione di somme dovute a seguito della revisione del prezzo di appalto di opere pubbliche. I criteri personalizzati di normalità hanno trovato compiuta applicazione, oltre che nella giurisprudenza sul maggior danno sofferto dall'imprenditore commerciale (della quale diremo più oltre nel testo), anche nella giurisprudenza che ha ritenuto provato il danno in base a presunzioni desunte dalla condizione di pensionato del creditore: cfr. Cass., 22.10.1981, n. 5555, in Giust. civ., 1982, I, 437, ove un espresso riferimento, in parte motiva, alla categoria del "modesto consumatore", all'interno della quale era collocato il creditore di prestazioni previdenziali escluse dalla rivalutazione automatica di cui all'art. 429, 3° co., c.p.c. (nuovo testo). Nell'occasione il S.C. chiarì che, agli effetti della liquidazione del maggior danno dell'art. 1224, 2| co., c.c., ogni fattispecie dovesse essere valutata con metodo di specificità, avuto cioè riguardo a tutte le effettive condizioni dei singoli creditori non tempestivamente soddisfatti, talché nella specie la qualità di pensionato dovesse apprezzarsi avendo riguardo alle sue possibilità economiche, alle sue condizioni di vita personale e familiare nonché alle sue peculiari necessità, quale la più vantaggiosa destinazione delle somme dovute e non spese immediatamente, siccome accantonate come risparmio (nella specie trattavasi di domanda di risarcimento del danno da svalutazione monetaria per mancata corresponsione di una indennità di buonuscita). 


29 Da ultimo, v. Cass., 11.2.2008, n. 3188, in Guida dir., 2008, 17, 66, dove il principio è enunciato per concludere che il credito del professionista non è equiparabile a quello dell'imprenditore, nei cui confronti può essere applicata la presunzione dell'investimento delle somme percette nelle materie prime e nei macchinari necessari allo svolgimento dell'attività produttiva, e neppure a quello dei modesti consumatori, il cui reddito è interamente utilizzato per sopperire alle esigenze quotidiane. 


30 Cass., 26.10.2000, n. 14089, in Giust. civ. mass., 2000, 2180, in parte motiva, anch'essa relativamente ad una fattispecie di rivalutazione di somme restituite dall'Inps per contributi indebitamente versati. 


31 Cass., S.U., 16.7.2008, n. 19499, in motivazione, par. 5. 


32 Si allude ovviamente alle categorie socialmente significative dell'imprenditore, del risparmiatore abituale, del creditore occasionale, del modesto consumatore ovvero delle ulteriori enucleabili in relazione a precipue altre modalità d'impiego del danaro. A questo riguardo si osservi che gli stessi criteri personalizzati di normalità avrebbero riservato un trattamento deteriore ai ceti creditori meno abbienti: sul punto cfr. Ascarelli, Obbligazioni pecuniarie, in Comm. Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1959, 569, secondo il quale l'onere di provare il maggior danno, troppo rigoroso per i ceti economicamente più deboli, avrebbe invece favorito i creditori più facoltosi, in grado di destinare il danaro ad investimenti produttivi e redditizi. 


33 Cass., 13.6.2006, n. 13653, in Giust. civ., 2007, 12, 2848, massimata come segue: "in tema di responsabilità del conduttore per il ritardato rilascio di immobile locato, il maggior danno, di cui all'art. 1591 c.c., va provato in concreto dal locatore secondo le regole ordinarie, rientrando, quindi, tra i mezzi di prova consentiti anche la prova per presunzioni, sempre che queste presentino i requisiti previsti dall'art. 2729, 1| co., c.c., e permettano di ritenere dimostrato il fatto ignoto, con l'ulteriore specificazione che le presunzioni sono da considerare gravi, precise e concordanti sia quando il fatto da provare segue a quelli noti in modo necessario secondo logica, sia quando ne derivi nella normalità dei casi, secondo l'id quod plerumque accidit ed, inoltre, che costituisce prova idonea dell'effettiva lesione del patrimonio del locatore anche una proposta, seria e specifica, proveniente dallo stesso conduttore". 


34 Nella fattispecie decisa dalla Cass., 13.6.2006, n. 13653, cit., il conduttore aveva offerto di rinnovare la locazione ad un canone maggiore di quello ultimo corrisposto, allo scopo di evitare il rilascio dell'immobile locato. Il maggior danno subito dal locatore per effetto della mora del conduttore potrebbe consistere, oltre che nella impossibilità di dare in locazione il bene per un canone più elevato, anche nel non averlo potuto utilizzare direttamente e tempestivamente ovvero, ancora, nella perdita di chance di vendita ad un prezzo conveniente o d'altre analoghe situazioni pregiudizievoli, con la precisazione che l'onere di detta prova, a carico del locatore, potrebbe assolversi tramite presunzioni, avuto riguardo all'esistenza di ben determinate proposte di locazione o d'acquisto e di concreti propositi di utilizzazione. 


35 Cass., S.U., 16.7.2008, n. 19499, in parte motiva, par. 5. 


36 Tra le altre, v. Cass., 21.5.1988, n. 3556, in Foro it., 1985, I, 2239; in Giur. it., 1986, I, 1, 219; in Giust. civ. mass., 1988, 5. In senso conforme Cass., 7.1.1983, n. 123, in Giust. civ., 1983, I, 766; in Giur. it., 1983, I, 1, 574; in Banca borsa tit. cred., 1983, II, 297. 


37 Cass., S.U., 16.7.2008, n. 19499, in motivazione, par. 5. Diversamente da quanto accade nei debiti di valore e nei casi dell'art. 429 c.p.c., nelle obbligazioni di valuta interessi di mora e rivalutazione non possono sommarsi, di modo che il debitore possa giovarsi del contenimento della inflazione al di sotto del tasso degli interessi legali, quindi dell'ingiustificato arricchimento dato dalla differenza tra il tasso di rendimento netto (dedotta l'imposta) dei titoli di Stato di durata non superiore ai dodici mesi (o tra il tasso di inflazione se superiore) e quello degli interessi legali (se inferiore). 


38 Cass., 22.3.1991, n. 3103, in Giust. civ. mass., 1991, 3; Cass., 7.11.1998, n. 5995, ivi, 1988, 11. 


39 Ex plurimis, Cass., 30.1.1986, n. 600, in Mass. Giur. it., 1986 nonché, da ultimo, Cass., 16.3.2006, n. 5860, in Giust. civ. mass., 2006, 3, nella massima che segue: "In tema di inadempimento delle obbligazioni pecuniarie, nel caso in cui il creditore - del quale non sia controversa la qualità di imprenditore commerciale - deduca di aver subito dal ritardo del debitore nell'adempimento un pregiudizio conseguente al diminuito potere di acquisto della moneta, non è necessario, ai fini del riconoscimento del maggior danno ragguagliato alla svalutazione monetaria, che egli fornisca la prova di un danno concreto causalmente ricollegabile all'indisponibilità del credito per effetto dell'inadempimento, dovendosi presumere, in base all'id quod plerumque accidit, che, se vi fosse stato tempestivo adempimento, la somma dovuta sarebbe stata utilizzata in impieghi antinflattivi per il finanziamento dell'attività imprenditoriale e, quindi, sottratta agli effetti della svalutazione".