Cassazione S.U., 16/07/08 n.19499
Pres.Carbone, Est.Amatucci
(omissis)
Varie società editrici si opposero a diversi decreti ingiuntivi per mancato pagamento di somme dovute a titolo di contributi assicurativi e relative sanzioni civili
Con decisione del 1996 il pretore respinse le opposizioni e condannò l'INPS a tenere indenni le società opponenti di quanto avrebbero dovuto pagare in base ai decreti ingiuntivi.
Decidendo con sentenza n. 14271 del 2003 sugli appelli proposti ed in parziale accoglimento dell'appello incidentale condizionato proposto dalla R.C.S. Editori S.p.A. (anche quale incorporante di R.C.S. Editoriale Quotidiani S.p.A.), la sezione lavoro del Tribunale di Roma ha, per quanto in questa sede interessa, condannato l'INPS alla restituzione dei contributi indebitamenti versati.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione l'INPS, col il quale denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1224 e 2697 c.c. e vizio di motivazione per essere stato il maggior danno da svalutazione monetaria riconosciuto in contrasto col principîo enunciato da Cass. nn. 9910/03 e 14970/02; principîo secondo il quale, a tale fine, il creditore non può limitarsi ad allegare la propria qualità di imprenditore, essendo, invece, tenuto, in base al generale principîo dell'onere della prova, a fornire indicazioni in ordine al danno subito per effetto dell'indisponibilità del denaro determinata dall'inadempimento (quale, ad esempio, quello derivante da specifici investimenti programmati e non attuati), giacché, altrimenti, si darebbe luogo ad un meccanismo di automatica rivalutazione dei crediti, analogo a quello previsto per i lavoratori subordinati dall'art. 429 c.p.c.
Ha resistito con controricorso la RCS Quotidiani S.p.A.
L'esame del ricorso è stato rimesso dal primo Presidente a queste Sezioni Unite per il ravvisato contrasto di giurisprudenza in ordine alla sufficienza della qualità di imprenditore del creditore ai fini della presumibilità di impieghi antinflattivi della somma non tempestivamente versata dal debitore.
Premesso che il caso di specie concerne sicuramente un credito pecuniario ordinario, si rileva che si sono formati due diversi orientamenti giurisprudenziali; secondo un primo orientamento, è sufficiente dedurre la qualità di imprenditore per ritenere provato, per effetto di presunzione collegata alla qualità professionale, il maggior danno in questione (vengono citate: Cass., s.u. n. 2318/83, sez. I n. 1403/98, sez. I n. 5732/99, sez. II n. 409/00, sez. II n. 1770/01, sez. lav. n. 6420/01, sez. lav. n. 10304/02, sez. lav. n. 2113/03, sez. III n. 58/04, sez. III n. 13829/04, sez. III n. 14767/04, sez. III n. 20807/04, sez. I n. 4885/06, sez. II n. 5860/06);
- secondo un diverso orientamento, invece, il pur legittimo ricorso al notorio ed a presunzioni non può prescindere dall'assolvimento, da parte del creditore, ancorché appartenente ad una categoria soggettiva come quella degli imprenditori, di un onere quantomeno di allegazione, che consenta al giudice di verificare se, tenuto conto delle sue qualità personali e dell'attività in concreto esercitata, il particolare danno lamentato possa essersi verosimilmente prodotto (vengono indicate come espressive di tale indirizzo: Cass., sez. un. n. 2564/84, sez. un. n. 2368/86, sez. II n. 5678/99, sez. lav. n. 1036/02, sez. lav. n. 14970/02, sez. I n. 10860/03, sez. lav. n. 12634/04, sez. I, n. 2613/06, sez. lav. n. 6153/06).
Fondamento del secondo degli indirizzi indicati - afferma ancora la sezione lavoro - è, in sintesi, che gli automatismi risarcitori, al di là degli interessi di mora, sono previsti dal diritto positivo nella sussistenza non solo dell'elemento soggettivo (qualità del creditore), ma anche oggettivo (qualità del credito): spunti di sostegno a tale ricostruzione sarebbero rinvenibili nelle argomentazioni svolte dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 459 del 2000 e nelle disposizioni del D.Lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, recante "attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi dei pagamenti nella transazioni commerciali".
Con sentenza 2 novembre 2000, n. 450 la Corte costituzionale, chiamata a sindacare la regola della non cumulabilità di rivalutazione ed interessi, già prevista per i crediti di lavoro dall'art. 429 c.p.c. secondo l'interpretazione ampiamente consolidata di tale disposizione, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 22, comma 36, della L. 23 dicembre 1994, n. 724, limitatamente alle parole « e privati », nella parte in cui, riconosce(va) al lavoratore solo la maggior somma tra l'ammontare degli interessi e quello della rivalutazione monetaria; ciò sulla scorta del rilievo che ai crediti di lavoro, in considerazione della loro natura, deve riconoscersi un'effettiva specialità di tutela rispetto alla generalità degli altri crediti, sicché non è giustificabile che essa sia collocata « all'interno della disciplina generale di cui all'art. 1224 c.c. sulla responsabilità contrattuale da inadempimento » (così la motivazione, sub 7.1.).
È dunque vero che la Consulta ha avuto riguardo alla particolarità del credito (retribuzione) ed alla sua funzione di assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa, ma ciò in ragione della ravvisata necessità di una tutela speciale, normativamente assicurata dal cumulo di rivalutazione ed interessi (benché non possa dirsi costituzionalizzato - ha avvertito il Giudice delle leggi - il meccanismo previsto dall'art. 429, comma 3, c.c.).
Ha, infatti, ritenuto che il riconoscimento della maggior somma tra rivalutazione ed interessi, secondo quanto appunto previsto dalla norma dichiarata incostituzionale, si risolvesse nel collocare il trattamento dei crediti di lavoro all'interno della disciplina generale dell'art. 1224 c.c. Ha, inoltre, offerto spunti per un'interpretazione di tale disposizione in senso opposto a quello prospettato dalla sezione lavoro, posto che per i crediti di valuta si pone non già un problema di cumulo di rivalutazione ed interessi, ma solo di possibile riconoscibilità del maggior danno da svalutazione, indipendentemente da specifiche allegazioni probatorie: dunque, in definitiva, sotto il profilo aritmetico, della maggior somma tra interessi legali e svalutazione monetaria.
Il D.Lgs. 9 ottobre 2002, n. 231 (recante "attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi dei pagamenti nella transazioni commerciali"), richiamato senza ulteriori specificazioni, agli artt. 1 e 2 prevede, con talune esclusioni, che le relative disposizioni si applichino ad ogni pagamento effettuato a titolo di corrispettivo in una transazione commerciale (contratti tra imprese ovvero tra imprese e Pubbliche Amministrazioni che comportano, in via esclusiva o prevalente, la consegna di merci o la prestazione di servizi contro il pagamento di un prezzo); stabilisce che « il creditore ha diritto alla corresponsione di interessi moratori, ai sensi degli artt. 4 e 5, salvo che il debitore dimostri che il ritardo nel pagamento del prezzo è stato determinato da causa a lui non imputabile »(art. 3); correla il saggio degli interessi a quello del principale strumento di rifinanziamento della Banca centrale europea applicato in un certo giorno e maggiorato di sette punti (art. 5); dispone che il creditore ha diritto al risarcimento dei costi di recupero del credito, « salva la prova del maggior danno, ove il debitore non dimostri che il ritardo non sia a lui imputabile » (art. 6).
Non è dato rinvenire automatismi risarcitorî, quanto piuttosto la determinazione di un tasso degli interessi moratori collegato all'effettivo costo del denaro o a questo addirittura superiore; è, anzi, previsto che il debitore possa sottrarsi al pagamento degli interessi, se dimostra che il ritardo deriva da impossibilità non imputabile (mentre tale possibilità è esclusa quanto agli interessi legali dovuti dal giorno della mora ex art. 1224, comma 1, c.c.) ed è espressamente contemplata la prova del maggior danno, purché il debitore non dimostri la non imputabilità del ritardo.
Si tratta di una disciplina particolare, che, se non altro per l'elevatezza del tasso, non sembra offrire spunti per l'adozione di un'interpretazione dell'art. 1224, comma 2, c.c. sfavorevole al creditore imprenditore.
Conviene ripercorrere la storia dell'evoluzione della giurisprudenza in ordine alla prova del danno da svalutazione monetaria nelle obbligazioni pecuniarie.
Con la fondamentale sentenza n. 3776/79 le Sezioni Unite predicarono la liberalizzazione più ampia possibile nel rispetto dei principî tradizionali; principî intanto disattesi da Cass., n. 5670/78, la quale aveva sostanzialmente ritenuto che, insorta la mora debendi, le obbligazioni di valuta dovessero essere trattate come quelle di valore, sicché la somma originariamente dovuta « andava necessariamente rivalutata alla stregua di indici pubblicizzati di sicura attendibilità ».
Fu ribadito che nei debiti originariamente pecuniari, per i quali vale il principio nominalistico, la svalutazione monetaria verificatasi durante la mora non giustifica alcun risarcimento automatico che possa essere attuato con la rivalutazione della somma dovuta. Ma si affermò anche che non ha bisogno di essere provato il fatto che il denaro è destinato ad essere impiegato nell'acquisto di beni o servizi o comunque in forme remunerative; che risponde, infatti, alla natura della moneta che essa è non solo la misura dei valori, ma è strumento di scambio, dotata, appunto, di valore nella misura in cui viene adoperata a questo scopo; che il prudente apprezzamento del giudice in ordine alle presumibili modalità di impiego può essere formato eventualmente anche con valutazioni equitative, ai sensi dell'art. 1226 c.c.; che, infine, l'orientamento tradizionale andava rimeditato, anche « perché non dà adeguato rilievo a presunzioni di ordine oggettivo », che furono ricollegate all'appartenenza del creditore ad una delle categorie creditorie di cui appresso.
Le Sezioni Unite si pronunciarono nuovamente negli anni successivi con le sentenze nn. 2318/83, 2564/84 e 2368/86, l'ultima delle quali dette spazio ai cosiddetti "criteri personalizzati di normalità", riaffermando che nelle obbligazioni pecuniarie il danno da svalutazione non si identifica col fenomeno inflattivo e che incombe, pertanto, al creditore dimostrare che il pagamento tempestivo lo avrebbe messo in condizione di evitare o limitare gli effetti economici depauperatorî che l'inflazione produce per tutti i possessori di denaro; ma, chiarendo anche che tanto il creditore può fare avvalendosi di presunzioni e dati economici acquisiti dalla comune esperienza e riferiti a categorie economiche socialmente significative (« imprenditore », « risparmiatore abituale », « creditore occasionale », « modesto consumatore » « o altre enucleabili in relazione a più particolari modalità di impiego del denaro »).
Con riguardo alla categoria del creditore esercente attività imprenditoriale si affermò che possono essere fatte valere presunzioni di due tipi:
a) quelle connesse con il normale impiego del denaro nel ciclo produttivo, per cui l'esistenza e l'ammontare approssimativo del danno possono essere desunti dal risultato medio dell'attività in un certo periodo, come suggerito dalle sentenze del 1979;
b) quelle connesse al costo del denaro, precisamente allo scarto fra interesse legale e tasso di mercato dell'interesse praticato dalle banche alla migliore clientela per il credito a breve termine (prime rate), con la precisazione che tale criterio ha carattere primario, perché attiene al danno emergente, è altresì ancorato ad un parametro certo di facile rilevazione e, soprattutto, è l'unico possibile per un'azienda che non produca utile, ma sia in pareggio o in perdita, non essendovi, allora, un guadagno cui commisurare la presumibile entità della somma mancata (così la motivazione, sub 9).
Conclusero le Sezioni Unite che, pertanto, l'altro criterio risulta applicabile solo quando l'imprenditore espressamente deduca il mancato guadagno ed affermarono « che l'onere probatorio, pur non potendosi attestare alla qualità professionale, si atteggia diversamente per ciascuno dei due criteri ritenuti più appropriati per questa figura: in relazione al criterio del maggior costo del denaro, il creditore deve dimostrare di trovarsi in condizioni atte a presumere, secondo la normale gestione dell'impresa, il ricorso al mercato del credito; in relazione al criterio del mancato guadagno, invece, è tenuto a fornire gli elementi necessari a stabilire la redditività del denaro investito nell'impresa, sicché la prova - basata in gran parte su vicende proprie della singola impresa - spesso presenta maggiore complessità » (sub. 13, lettera b, della motivazione). Non affermarono, dunque, che l'imprenditore era tenuto a provare di aver fatto ricorso al finanziamento delle banche durante la mora, ma si riferirono genericamente alla dimostrazione di « condizioni atte a presumere ».
Criteri specifici furono fissati anche per il « risparmiatore abituale », per il « creditore occasionale » e per il « modesto consumatore »:
- si disse che al primo faceva carico l'onere di allegare e dimostrare la qualità degli investimenti abitualmente effettuati, sicché la presunzione operava in riferimento all'uguale destinazione che egli avrebbe dato alla somma non pagata ed all'ammontare del relativo reddito (interessi di titoli di Stato, rendimento di azioni, etc.);
- si ritenne che, per il secondo, era consentito presumere l'impiego mediante deposito presso istituti di credito, con conseguente commisurazione del danno alla remunerazione media dei depositi nel periodo di mora;
- si affermò, per il terzo, che, essendo presumibile che egli avrebbe destinato la somma alla immediata soddisfazione dei proprî bisogni familiari e personali, così realizzando la moneta al suo valore attuale e conseguentemente sottraendosi agli effetti depauperativi della svalutazione, era del tutto appropriato il riferimento agli indici ISTAT per la determinazione forfettaria del (maggior) danno.
Può dunque dirsi che, nella seconda metà degli anni '80, il regime probatorio relativo al maggior danno da svalutazione monetaria per il ritardato pagamento dei debiti pecuniari (ex art. 1224, comma 2, c.c.) risultò governato dalle seguenti regole:
a) il creditore imprenditore era gravato da un particolare onere probatorio solo in caso di richiesta di un maggior danno corrispondente ai risultati utili della sua impresa (lucro cessante), mentre poteva avvalersi di una presunzione di tipo quasi oggettivo, fondata su criteri personalizzati di normalità, in ordine al maggior danno ancorato allo scarto tra il tasso degli interessi legali ed il prime rate (danno emergente), essendo comunque tenuto a dimostrare di trovarsi in condizioni atte a presumere, secondo la normale gestione dell'impresa, il ricorso al mercato del credito;
b) il semplice consumatore poteva pretendere un maggior danno corrispondente alle differenze tra indici ISTAT e tasso legale di interesse, nel periodo della mora, indipendentemente da ogni specifica prova di impiego;
c) per il creditore occasionale si aveva senz'altro riguardo al tasso medio sui depositi bancari;
d) il risparmiatore abituale era, invece, tenuto a provare come normalmente investiva il denaro ed a quale tasso.
Sennonché - osservò criticamente la dottrina - soltanto l'imprenditore ed il consumatore (e quest'ultimo solo in ragione del censo o della modesta entità della somma dovutagli) erano, se pur non senza gravi difficoltà, astrattamente suscettibili di essere inseriti in una categoria determinata, mentre apparivano difficilmente etichettabili i creditori occasionali ed i risparmiatori abituali. Soprattutto perché il creditore sovente non è in grado egli stesso di stabilire, ex post, cosa avrebbe davvero fatto del denaro che gli era dovuto, ma che non aveva tempestivamente avuto, in quanto il problema dell'impiego si sarebbe posto, in relazione alle contingenze ed alle propensioni del momento, solo se e quando lo avesse davvero ricevuto; sicché si dava in tal modo la stura ad una serie di complicazioni processuali destinate ad offrire risultati di scarsissima attendibilità, data l'ovvia propensione del creditore ad evitare un inquadramento sfavorevole o nel quale la prova si presentasse complessa e, per converso, quello del debitore a prospettare l'inserimento del creditore in una categoria nella quale il maggior danno fosse più difficile da provare o di entità meno gravosa per il convenuto.
Negli anni successivi la prevalente giurisprudenza si attestò, comunque, sulla posizione secondo la quale, in caso di ritardato pagamento di un debito pecuniario ad un imprenditore commerciale, ai fini del riconoscimento del maggior danno ragguagliato alla svalutazione monetaria, non si rende necessario che egli fornisca la prova concreta di un danno causalmente ricollegabile all'indisponibilità dell'importo, ben potendosi dedurre in tale situazione, in base all'id quod plerumque accidit, che, in caso di tempestivo adempimento, la somma dovuta sarebbe stata reimpiegata in modo tale da essere sottratta agli effetti della svalutazione.
Una giurisprudenza minoritaria ritenne, per contro, che il pur legittimo ricorso al notorio ed alle presunzioni da parte del giudice non può prescindere dall'assolvimento da parte del creditore, quantunque imprenditore commerciale, di un onere quantomeno di allegazione, che consenta al giudice di merito di verificare se il particolare danno allegato (anche da svalutazione) possa essersi verosimilmente prodotto
Più numerose le sentenze che hanno affrontato il tema negli anni 2000, ancora una volta prevalentemente risolto nel senso che è sufficiente che non sia controversa la qualità di imprenditore del creditore perché possa essere riconosciuto il richiesto maggior danno da svalutazione monetaria
Si sostenne, in una fattispecie pressoché identica a quella ora in scrutinio, che il ricorso a categorie tipiche finirebbe anch'esso col determinare un automatismo di rivalutazione del credito contrario al principîo nominalistico e farebbe venir meno la distinzione tra obbligazioni di valuta ed obbligazioni di valore.
Si è rilevato che il rispetto del principîo nominalistico non è affatto incompatibile con la rilevanza delle variazioni del potere di acquisto della moneta; che, infatti, mentre nei debiti di valore la considerazione di quella variazione è insita nel procedimento di determinazione quantitativa della prestazione, nei debiti di valuta essa può, invece, rilevare esclusivamente sub specie damni e pone problemi di esclusiva natura probatoria; che ritenere notoria l'entità del fenomeno inflattivo e probabilisticamente rilevante la destinazione del denaro allo scambio non significa affatto derogare al principio nominalistico, ma solo adottare un criterio di valutazione che tiene conto degli interessi delle parti ed è conforme alla comune esperienza ed al comune sentire.
Si è altresì ribadito che, in base a tali principî, alcune decisioni della Corte avevano conseguentemente affermato che il danno da inadempimento dell'obbligazione pecuniaria è per qualsiasi creditore, per la parte che non sia già coperta dagli interessi legali, non inferiore alla misura dell'inflazione della moneta, che ne costituisce l'elementare dato probatorio, salvo che esso assuma un diverso, maggiore valore per il singolo creditore in relazione al comprovato uso che della somma oggetto dell'obbligazione intendeva fare. Pertanto, salvo questa prova diversa, il danno da svalutazione può essere determinato sulla base degli indici ufficiali dell'inflazione in relazione al costo della vita (sono citate Cass. nn. 123/83, 651/84, 3356/85). Ed ha concluso che, in effetti, « non è dubbio che la mancata disponibilità del danaro da parte del creditore costituisce obiettivamente un danno e non ha bisogno di alcuna prova di carattere soggettivo, salva la possibilità da parte del debitore di provare il concorso del fatto colposo del creditore, ai sensi dell'art. 1227 del codice civile. Di conseguenza, il creditore che intenda ottenere la rivalutazione nella misura ufficiale deve solo allegare gli indici ufficiali dell'ISTAT. Il creditore, invece, che ritenga che la mancata disponibilità del danaro abbia inciso sul suo patrimonio in misura superiore agli interessi legali e alla svalutazione ufficiale, dovrà provare il maggiore danno: dovrà provare, ad esempio, di aver dovuto rinunciare a investimenti particolarmente vantaggiosi o di essere dovuto ricorrere a prestiti particolarmente onerosi ».
Opposte le conclusioni di Cass. 14970/02, pronunciata anch'essa in fattispecie di domanda di restituzione di contributi indebitamente versati all'INPS. Con tale sentenza la stessa Sezione lavoro, dichiaratasi, a sua volta, pienamente consapevole dell'orientamento appena illustrato, ha, tuttavia, ritenuto (richiamando Cass., nn. 11870/92, 5517/97, 5678/99, 9965/01):
a) che collegare alla sola qualità di imprenditore la presunzione di un impiego antinflattivo del denaro, e dunque di un maggior danno da svalutazione monetaria durante la mora, finirebbe per stravolgere il criterio fondamentale dell'onere della prova di cui all'art. 2697 c.c., risolvendosi in un'ingiustificata soluzione di favore per il creditore, il quale, per beneficiare del risarcimento, dovrebbe solo provare di appartenere ad una determinata categoria economica;
b) che una tale conseguenza avrebbe ben poca giustificazione anche sotto il profilo sistematico, comportando l'introduzione di un meccanismo di automatica rivalutazione analogo a quello di cui all'art. 429 c.p.c. senza alcun fondamento normativo e, anzi, nel contesto di un'opposta tendenza legislativa, in cui il divieto di cumulo rappresenta la regola ed in cui una sostanziale valorizzazione dei crediti pecuniari, anche contrattuali, in relazione a particolari caratteristiche del creditore, necessiterebbe ancor più di un'esplicita previsione normativa.
Le conclusioni della citata sentenza 14970/02 sono state condivise dalla successiva 12634/04, che, ancora una volta relativa al danno da ritardo nella restituzione di somme indebitamente versate, ha ribadito che il maggior danno da svalutazione nelle obbligazioni pecuniarie non può essere riconosciuto indipendentemente dall'osservanza di uno specifico onere di allegazione e prova da parte del creditore (quantunque imprenditore) per due sostanziali ordini di ragioni:
c) perché si deve escludere che la svalutazione costituisca danno di per sé, stante l'operatività del principio nominalistico (art. 1277 c.c.), derogato specificamente dal legislatore soltanto per particolari crediti pecuniari, come i crediti di lavoro, ai sensi dell'art. 429, comma terzo, c.p.c.;
d) perché osta alla identificazione del danno moratorio nella diminuzione di valore della moneta il rilievo che « il denaro, per le illimitate possibilità di opzione tra i diversi impieghi, è metro di misura totalmente astratto; tale danno, quindi, può derivare esclusivamente dall'impiego che il creditore avrebbe fatto della somma se ne avesse conseguito la disponibilità tempestivamente (ad es., autofinanziamento e reimpiego nella produzione, acquisto di valori mobiliari, interessi bancari, etc.), cosicché deve ritenersi indispensabile (non potendo il giudice determinare autonomamente il tipo di impiego) che siano forniti elementi che consentano al giudice di ritenere, anche in via presuntiva, alcune forme di impiego più verosimili di altre ».
Allo stato attuale le tesi che si contendono il campo sono tre:
1) quella secondo la quale nei debiti di valuta, quale che sia la categoria cui appartiene il creditore, il maggior danno da svalutazione monetaria rispetto a quello che non sia già assorbito dagli interessi legali moratori, va riconosciuto in via generalizzata e presunta, fermo l'onere del creditore, che assuma di aver subìto un danno ancora maggiore, di provare che avrebbe fatto un uso del denaro tale da garantirgli un rendimento superiore al tasso di inflazione (lucro cessante), ovvero che, a causa dell'inadempimento, ha dovuto procurarsi denaro a tassi più onerosi (danno emergente), e salva la facoltà del debitore di offrire comunque la prova contraria;
2) quella secondo la quale il maggior danno da svalutazione va correlato alla sola categoria creditoria cui il creditore appartiene, in relazione alla più probabile forma di impiego del denaro;
3) quella secondo la quale l'appartenenza ad una categoria creditoria non è comunque sufficiente a giustificare il riconoscimento del maggior danno correlabile alle forme di impiego tipiche della categoria nella quale il creditore è iscrivibile (soprattutto se imprenditore), essendo, egli, comunque gravato da uno specifico onere, quantomeno, di allegazione in ordine al verosimile impiego che avrebbe fatto della somma dovutagli, che consenta al giudice di verificare se, tenuto conto di dette qualità personali e professionali, il danno denunziato possa essersi effettivamente prodotto (in difetto di quella allegazione, alcune sentenze affermano che non possono riconoscersi che gli interessi legali, come la citata n. 12634/04; altre che tale tipo di conseguenza va tratto solo per il danno eccedente il tasso di svalutazione, come Cass., Sez. lavoro, n. 6153/06).
Va osservato che nessuna delle tre è in tutto conforme ai principî enunciati da queste Sezioni Unite nel 1986, il cui trasparente scopo fu quello di semplificare, mediante il ricorso a presunzioni di tipo generalizzato, in relazione alla categoria di appartenenza del creditore, le modalità della prova del maggior danno da svalutazione. Si trattò di una soluzione intermedia tra quella che richiedeva la rigorosa e quasi sempre impossibile prova dell'avvenuta predisposizione di un impiego alternativo del denaro non tempestivamente pagato e quella di chi, invece, riteneva che, in caso di mora, il maggior danno da svalutazione è, in via generale, presunto in misura pari al tasso di inflazione, in relazione alle caratteristiche proprie del denaro, destinato per sua natura ad essere speso o investito in impieghi tali da mettere chi lo possegga al riparo, quantomeno, dalla svalutazione.
La terza tesi, che formalmente ne segue gli enunciati letterali, finisce, infatti, col non assecondarne lo spirito, segnatamente nella sua più rigorosa versione; la seconda è a questo conforme, ma ne disattende le prescrizioni testuali in relazione al creditore imprenditore; la prima è quella che maggiormente se ne discosta, ma è anche quella che, a parere del collegio, tiene in maggior conto i non appaganti risultati applicativi della soluzione dell'inquadramento dei creditori in categorie, cui collegare in via presuntiva il tipo di impiego che del denaro avrebbero fatto se fosse stato loro tempestivamente dato e, dunque, l'entità del maggior danno durante la mora del debitore.
A parte, invero, la categoria dell'imprenditore (per la quale pure, come s'è rilevato, non vengono adottate soluzioni univoche), l'inquadramento del creditore in una qualsiasi delle altre, o in quelle ulteriori che le Sezioni Unite del 1986 pure prospettarono potessero essere in seguito configurate e che non sono state, invece, mai elaborate, si è rivelata di assai problematica praticabilità, non sussistendo parametri di riferimento sufficientemente univoci per definire i caratteri proprî di ogni categoria.
E la stessa categoria degli imprenditori - per la quale, invece, i parametri per una qualificazione palesemente sussistono - non vale, a ben vedere, ad offrire criteri di maggiore attendibilità delle possibili inferenze induttive, posto che a quello che pretendesse come maggior danno la differenza tra il tasso legale d'interesse ed il prime rate (peraltro, non più rilevato a partire dal 2004 e, secondo le Sezioni Unite del 1986, ottenibile quasi sulla base della sola appartenenza alla relativa categoria) poterebbe obiettarsi che, già alla data di insorgenza della mora, la redditività marginale media dei propri investimenti era inferiore al tasso praticato dalle banche alla migliore clientela nei prestiti a breve termine; ovvero, se superiore, che male il creditore aveva fatto a non ricorrere al credito bancario (con conseguente applicazione dell'art. 1227, comma 2, c.c.), ovvero che non era comunque prevedibile dal debitore che non lo facesse (con conseguente irrisarcibilità del danno differenziale ex art. 1225 c.c.).
I bisogni ed i desideri che il denaro vale a soddisfare sono, d'altronde, troppi e troppo intimamente connessi anche al modo d'essere di ognuno, nonché agli eventi di cui ciascuno è nella vita protagonista, spettatore o vittima, perché l'uno o l'altro creditore sia suscettibile di essere tout court qualificato come consumatore o risparmiatore o creditore occasionale, essendo vero, invece, che ognuno è o può essere l'una o l'altra cosa o l'altra ancora o tutte insieme, in relazione a ciascuna frazione dell'importo ed a seconda delle contingenze economiche generali e personali del momento, dell'entità del credito, dei proprî progetti, e così via.
Per altro verso, le prorompenti esigenze di semplificazione dell'istruzione probatoria impongono, a distanza di circa un quarto di secolo, soluzioni più snelle, anche alla luce dei dati costituiti dall'incessante aumento del contenzioso civile, dall'allungamento dei tempi medi di definizione del processo, dal nuovo principio della sua ragionevole durata, proclamato dall'art. 111, comma 2, Cost. (nel testo introdotto con legge costituzionale n. 2 del 1999). Si verte, del resto, in situazioni che recano, in se stesse, il germe dell'inevitabile approssimazione della statuizione giudiziale, come avvertivano le stesse Sezioni Unite del 1986; nelle quali, dunque, l'equazione 'categoria creditoria = presunta, oggettivamente personalizzata modalità di impiego del denaro' presenta incognite non inferiori, in prima battuta, a quelle proprie dell'equazione 'creditore = maggior danno da svalutazione corrispondente all'incremento dei prezzi al consumo ovvero alla redditività delle più comuni forme di impiego alternative alla spesa'.
Non sussistono, d'altro canto, i paventati pericoli che i debiti di valuta ricevano, in tal modo, una disciplina identica a quella propria dei debiti di valore, con sostanziale pretermissione del principio nominalistico di cui all'art. 1277 c.c.; o che le conseguenze dell'inadempimento finiscano per divenire, per qualsiasi credito di denaro, identiche a quelle "speciali" che l'art. 429, comma 3, c.p.c. contempla per i crediti di lavoro; ovvero che sia sostanzialmente disapplicato il principio dell'onere della prova di cui all'art. 2697 c.c..
Sul primo punto va, infatti, osservato che il rispetto del principio nominalistico non è affatto incompatibile con la rilevanza delle variazioni del potere d'acquisto della moneta. Solo che, mentre nei debiti di valore la considerazione di quella variazione è insita nel procedimento di determinazione quantitativa della prestazione, in quanto il denaro vale solo a misurare e ad esprimere un valore necessariamente attuale, nei debiti di valuta essa può, invece, rilevare esclusivamente sub specie damni. La circostanza che una somma di denaro, come quantità di pezzi monetari dedotta in obbligazione, conservi integra la propria idoneità solutoria, quale che sia l'alterazione nel tempo del suo valore in termini di potere d'acquisto (non altro è il significato e non altra la conseguenza del nominalismo monetario), non esclude che la diminuzione del suo valore durante il periodo di mora debendi si risolva in un danno, tutte le volte che il creditore agli effetti della svalutazione si sarebbe sottratto, spendendo o investendo il denaro non tempestivamente versatogli in impieghi con remuneratività superiore al tasso di inflazione. Facendone, cioè, l'uso connaturale alla sua intima essenza, volta che, se il denaro è l'unico bene intrinsecamente insuscettibile di offrire qualunque utilitas diretta, è anche il solo che consente, mediante lo scambio, di procurare immediatamente quelle ricavabili da qualsiasi altro bene (è questa la giustificazione economica del rendimento del denaro dato a mutuo), sicché è del tutto contraria ai dati di comune esperienza l'ipotesi della mera conservazione improduttiva da parte del creditore di un bene ontologicamente destinato allo scambio o all'investimento. Se ne mostrò, d'altronde, consapevole lo stesso legislatore del 1942, all'atto della redazione del codice civile; al punto n. 592 (in fine) della Relazione al Re del Ministro Guardasigilli si legge, infatti, testualmente: « L'alterazione del valore della moneta dovuta può verificarsi durante la mora del debitore. Il caso non è previsto espressamente, perché esso si risolve in un danno, che è risarcibile secondo gli artt. 1218 e 1224, 2° comma ».
Neppure è possibile che si creino confusioni di sorta sul piano processuale, posto che nei debiti di valore (tipica l'obbligazione di risarcimento del danno) la rivalutazione non va neppure domandata, essendo il giudice tenuto d'ufficio alla liquidazione in valori monetari attuali; mentre nei debiti di valuta vanno chiesti sia gli interessi moratori sia il maggior danno (anche da svalutazione, secondo l'impreciso ma corrente lessico giudiziario, e tuttavia, più esattamente, da intervenuta impossibilità, per fatto del debitore, che il creditore si sottraesse agli effetti della svalutazione), risultando, altrimenti, inficiata da vizio di ultrapetizione la sentenza che riconoscesse gli uni o l'altro.
Quanto alla temuta possibilità che i crediti pecuniari ordinari e quelli di lavoro finiscano con l'essere trattati allo stesso modo, s'è già rilevato che, per i crediti di cui all'art. 429, comma 3, c.p.c., interessi e svalutazione si cumulano, mentre nei debiti di valuta il maggior danno (anche da svalutazione) è dovuto, ex art. 1224, comma 2, c.c., solo per la parte che non sia già coperta dagli interessi moratorî.
Quanto alla pretesa disapplicazione dell'art. 2697 c.c. che deriverebbe dal ritenere presunta (ma rectius : normale) una modalità di impiego del denaro tale da consentire al creditore di sottrarsi agli effetti della svalutazione, è stato da tempo chiarito come, in definitiva, è nel rapporto tra normalità ed anormalità, tra regola ed eccezione che si rinviene il criterio teorico e pratico della ripartizione dell'onere della prova, il quale non costituisce un istituto giuridico in sé concluso, ma un modo di osservare l'esperienza giuridica. E la giurisprudenza ha, quindi, fatto ricorso, tutte le volte che il modello legale prefissato non risultava appagante in relazione alle posizioni delle parti riguardo ai singoli temi probatorî, allo schema della presunzione in modo talora così tipico e costante da creare, in definitiva, vere e proprie regole di giudizio. Col risultato non già di invertire l'onere della prova, ma di distribuirlo in senso conforme alla realtà dell'esperienza positiva.
Ebbene, è senz'altro conforme alla realtà dell'esperienza positiva che il denaro sia speso in relazione alla sua primaria destinazione allo scambio ovvero impiegato in rassicuranti forme remunerative tali da garantire un rendimento superiore al tasso di inflazione, qual è quello dei titoli di Stato, costantemente eccedente l'incremento dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati rilevati dall'ISTAT.
Quanto, infine, all'argomento (addotto da Cass. Sez. lav. n. 12634/04) che « il denaro, per le illimitate possibilità di opzione tra i diversi impieghi, è metro di misura totalmente astratto », deve rilevarsi che l'osservazione si attaglia ai debiti di valore, nei quali il denaro viene, appunto, in considerazione come strumento di misura di un valore (mensura), ma non è conferente in ordine ai debiti di valuta, nei quali il denaro è dedotto in obbligazione come ammontare di pezzi monetari (mensuratum). Sicché, come la variazione del valore di una cosa si misura comparando fra loro le diverse quantità di moneta necessarie per scambiarla in tempi diversi con denaro, così la variazione del "valore" del denaro si misura comparando tra loro le diverse quantità di pezzi monetari necessari, in tempi diversi, per procurarsi la medesima cosa o le medesime cose. Cose e pezzi monetari dovuti e non dati, il cui valore sia mutato durante la mora, possono o meno aver prodotto un danno da diminuzione di valore, a seconda dell'impiego che ne avrebbe fatto il creditore: "possono" (non "devono"), giacché, se la loro destinazione era la mera conservazione, il danno da diminuzione di valore durante la mora sarà, in ogni caso, insussistente; ma, se la destinazione era lo scambio o l'investimento, il danno andrà commisurato alla diminuzione di valore o al costo affrontato dal creditore per procurarsi quel che gli era dovuto (cose o denaro) o, ancora, alle conseguenze economiche negative subite per non esserci riuscito.
Tanto precisato in linea di principio, va qui detto che le vicende che connotarono gli anni '70 e '80, durante i quali il tasso di svalutazione monetaria fu pressoché costantemente superiore a quello degli interessi legali, talora in misura assai rilevante, con una differenza che toccò i 16,1 punti percentuali nel 1980, indussero il legislatore a modificare l'art. 1284, comma 1, c.c., dapprima elevando il tasso degli interessi legali dal 5% al 10% in ragione di anno (art. 1, L. 26.11.1990, n. 353), e poi riportandolo al 5%, ma stabilendo che esso può essere annualmente modificato dal Ministro del Tesoro « sulla base del rendimento medio annuo lordo dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi e tenuto conto del tasso di inflazione registrato nell'anno » (art. 2, comma 185, L. 23.12.1996, n. 662).
Da allora, fatta eccezione per una pressoché insignificante differenza nell'anno 2000 (e per quella preannunciata come verosimile nell'anno 2008 in corso, per il quale il tasso di inflazione pare collocarsi intorno al 3,6% su base annua in relazione al momento di redazione della presente sentenza), il tasso di interesse è stato costantemente superiore al tasso ufficiale di aumento dei prezzi al consumo, sicché la svalutazione è risultata normalmente assorbita per intero dagli interessi legali, con conseguente perdita di rilevanza del problema relativo al risarcimento del maggior danno da svalutazione monetaria; problema che, in relazione alle periodiche determinazioni del Ministro del Tesoro, non dovrebbe essere ulteriormente configurabile, se non in casi assolutamente marginali ed in misure scarsamente significative, correlabili all'intervallo di tempo tra l'ipotetico aumento dell'indice medio dei prezzi al consumo ed il successivo adeguamento per l'anno successivo.
Resta il fatto che il tasso di rendimento lordo delle più comuni forme d'investimento è apprezzabilmente più elevato del tasso degli interessi legali: dal 1991 al 2008 i valori relativi al rendimento medio annuo lordo dei titoli di Stato di durata non superiore ai dodici mesi ed i valori del tasso legale d'interesse sono stati, infatti, di anno in anno, rispettivamente i seguenti: 13,779 e 10 (1991); 12,876 e 10 (1992); 13,555 e 10 (1993); 8,815 e 10 (1994); 11,949 e 10 (1995); 10,043 e 10 (1996); 6,757 e 5 (1997); 5,212 e 5 (1998); 3,556 e 2,5 (1999); 5,187 e 2,5 (2000); 4,928 e 3,5 (2001); 4,512 e 3 (2002); 3,672 e 3 (2003); 3,631 e 2,5 (2004); 3,244 e 2,5 (2005); 3,332 e 2,5 (2006); 4,167 e 2,5 (2007); 4,22 e 3,8 (fino a giugno del 2008). Fatta dunque eccezione per l'anno 1994, nel quale il rendimento dei titoli di Stato fu inferiore al tasso legale, va, allora, constatato che la più comune e prudente forma di investimento del denaro ha una redditività superiore al tasso dell'interesse legale, con la conseguenza che, per il debitore di un'obbligazione pecuniaria, in linea di massima, continua a poter essere economicamente conveniente non adempiere tempestivamente, così lucrando la differenza tra quello che è agevolmente in grado di ricavare dal denaro non versato al creditore durante la mora debendi e quello che dovrà al creditore quando adempirà la propria obbligazione. Il che è esattamente il contrario dell'intenzione del legislatore (la cui considerazione è imposta dal criterio ermeneutico di cui all'art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale), certamente non determinatosi alle modifiche normative di cui s'è detto sopra al fine di creare un incentivo economico all'inadempimento, ma a tanto indotto dall'ovvia considerazione che l'ordinato svolgimento dei rapporti economici fra i consociati costituisce un beneficio per la collettività, per una serie di ragioni la cui intuitività esime da una specifica enumerazione.
L'effetto di disincentivazione dell'inadempimento (e, di riflesso, la positiva ricaduta sulla diminuzione del contenzioso civile e sulla semplificazione del processo) è, appunto, collegato ad una soluzione che renda il debitore consapevole del fatto che la promozione di una causa da parte del creditore insoddisfatto si risolverebbe, comunque, nel riconoscimento a suo favore di un maggior importo, corrispondente, quantomeno, all'utile economico minimo che il debitore ha tratto o che avrebbe potuto trarre dalla conservazione, medio tempore, del denaro che doveva dare e che non ha dato. Ed è qui appena il caso di ricordare come, senza eccezione alcuna, tutte le istituzioni del Paese da tempo annoverino la inappagante funzionalità della giustizia civile (la quale dipende soprattutto dai lunghi tempi di definizione, a sua volta correlati alla variabile niente affatto indipendente del numero delle cause promosse) fra le ragioni di uno sviluppo economico inferiore a quello possibile, segnatamente sotto il profilo dell'abbassamento della propensione agli investimenti.
Tutto, insomma, concorre all'adozione di un'interpretazione che si risolva nel riconoscere al creditore di somme di denaro non corrisposte dal debitore in mora un maggior danno - ex art. 1224, comma 2, c.c. - corrispondente alla differenza tra il tasso di rendimento netto (dedotta l'imposta) dei titoli di Stato di durata non superiore ai dodici mesi (o tra il tasso di inflazione, se superiore) e quello degli interessi legali (se inferiore).
E tanto del tutto in linea con la ratio legis del novellato art. 1284, comma 1, c.c., il quale prevede un meccanismo che sconta l'inevitabile riferibilità al futuro dell'eventuale intervento adeguatore del Ministro del Tesoro (« con decreto da pubblicarsi nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica non oltre il 15 dicembre dell'anno precedente a quello cui il saggio si riferisce », ex art. 1284, comma 1, c.c.), le cui conseguenze vanno, tuttavia, in linea di principio, sopportate non già dal creditore insoddisfatto, ma dal debitore che versi anche in quella situazione di qualificato ritardo nell'adempimento qual è la mora (ex art. 1219 c.c.): quanto si va osservando è, infatti, estraneo agli interessi corrispettivi di cui all'art. 1282 c.c. ed a quelli compensativi di cui all'art. 1499 c.c., per i quali non è configurabile un danno da ritardo fino alla data di insorgenza della mora debendi.
Tale conclusione risulta, poi, definitivamente corroborata dalla lettera dell'art. 1284, comma 1, c.c., nel testo novellato nel 1996, laddove espressamente vincola il Ministro del Tesoro a determinare il saggio d'interesse « sulla base » del rendimento annuo lordo dei titoli di Stato non ultrannuali e « tenuto conto » del tasso d'inflazione registrato nell'anno: la differenza tra le due espressioni è, invero, significativa del primario rilievo che il legislatore ha conferito al parametro di riferimento costituito dal rendimento dei titoli di Stato ai fini dell'apprezzamento della normale redditività del denaro.
Le considerazioni fin qui svolte comportano il superamento della suddivisione dei creditori in categorie, a ciascuna delle quali si attagli la presunzione di una personalizzata modalità di impiego del denaro, restando, invece, l'àmbito della possibile personalizzazione affidato, esso solo, alla prova.
Sarà, così, consentito al debitore di provare - pur con le difficoltà connesse alla raffigurabilità di un ipotetico ed economicamente inefficiente comportamento altrui - che dal proprio ritardo nell'adempimento il creditore non ha subìto un danno o che lo ha subìto in misura inferiore al saggio degli interessi legali, sicché nulla gli è dovuto, in aggiunta a quelli, per maggior danno (perché, ad es., dedito al deposito del denaro in conto corrente, la cui remuneratività è notoriamente assai bassa, ovvero perché i suoi investimenti nel periodo si sono risolti in una perdita, etc.); così come sarà consentito al creditore di provare che il danno da ritardo è stato, invece, maggiore del rendimento netto dei titoli di Stato (perché costretto a ricorrere al credito bancario o per mancati investimenti remunerativi o per altre particolari vicende). Ma ciò non in quanto il creditore appartenga ad una categoria; il che si risolverebbe, tra l'altro - quantomeno in epoche connotate, come quella attuale, da un aumento dei prezzi al consumo normalmente inferiore al saggio degli interessi legali - nel paradossalmente deteriore trattamento dei meno abbienti, quale il modesto o mero o semplice consumatore. Non, dunque, per questo, ma perché il risarcimento va sempre tendenzialmente adeguato al danno effettivamente subìto, nei limiti in cui tale risultato sia perseguibile; limiti di cui il legislatore s'è fatto, del resto, consapevole carico, dettando la disposizione di cui all'art. 1226 c.c., ormai costantemente interpretata nel senso che alla valutazione equitativa nella liquidazione del danno è possibile ricorrere non solo quando il danno non possa essere provato nel suo preciso ammontare, ma anche quando quella prova si presenti, per l'una o per l'altra parte, particolarmente complessa o costosa, anche in riferimento al livello degli interessi dedotti in giudizio, oppure quando sia destinata ad offrire risultati di assai scarsa attendibilità.
Anche il creditore imprenditore, al pari di ogni altro creditore ed indipendentemente da qualsivoglia allegazione, avrà, dunque, titolo a pretendere il maggior danno nei limiti sopra indicati, salva la prova contraria, da offrirsi dal debitore, che esso è inferiore o inesistente. Ove invece lamenti un danno superiore a quei livelli e ne domandi il risarcimento, dovrà offrirne la prova, come ogni altro creditore. A tal fine, sarà, in linea di massima, sufficiente la produzione di documentazione dalla quale si evinca che, durante la mora del debitore, egli aveva fatto ricorso al credito bancario (con saggio di interesse passivo oggi attestantesi, a quanto consta, sull'Euribor maggiorato tra circa 0,20 e 2,5 punti) o ad altre forme di approvvigionamento di liquidità, con la dimostrazione dei relativi costi; e sempre che, in relazione alle dimensioni dell'impresa ed all'entità del credito, sia effettivamente presumibile che il ricorso al credito esterno sia stato conseguenza dell'inadempimento ovvero che l'adempimento tempestivo avrebbe comportato la destinazione della somma alla parziale estinzione del debito assunto verso il finanziatore (si incoraggerebbe, altrimenti, il possibile ricorso strumentale al credito bancario in funzione probatoria dell'entità del danno nel successivo giudizio di adempimento e risarcimento).
Se, invece, sia domandato un risarcimento del danno correlato all'utilità marginale netta dell'impresa durante la mora, perché il maggior danno possa essere rapportato ai mancati utili sarà necessario che il creditore imprenditore produca il bilancio contenente il conto economico (se tenuto a redigerlo) ovvero altre idonee scritture contabili; e sempre che, in relazione all'importo dovutogli e con riguardo al tipo ed al rilievo economico dell'attività stessa, sia effettivamente presumibile che la somma di cui era creditore sarebbe stata impiegata nell'impresa con il medesimo risultato utile.
È il caso di chiarire che le diverse enunciazioni effettuate da queste Sezioni Unite con la menzionata sentenza n. 16871 del 2007 concernevano una fattispecie nella quale il creditore aveva solo domandato la « rivalutazione monetaria e gli interessi », ma non aveva neppure sostenuto di aver subìto un maggior danno da svalutazione monetaria, sicché la domanda relativa a tale danno era stata ritenuta inammissibile in relazione alla norma di riferimento, d'ufficio individuata in quella di cui all'art. 1224, comma 2, c.c.
In tale occasione, inoltre, le Sezioni Unite, anche perché investite del ricorso solo in ragione della prospettata questione di giurisdizione, si sono limitate a fare applicazione dei principî già precedentemente enunciati con la più volte citata sentenza n. 2368/86, ma non hanno affrontato il tema ex professo, com'è invece avvenuto in quest'occasione.
E deve anche fugarsi l'eventuale preoccupazione che le conclusioni raggiunte si risolvano in un trattamento dei crediti ordinari più favorevole di quello "speciale" riservato ai crediti di lavoro dall'art. 429, comma 3, c.p.c.: il cumulo di rivalutazione ed interessi da effettuarsi per tali crediti è, invero, costantemente superiore al tasso del rendimento medio (anche lordo) dei titoli di Stato di durata non superiore all'anno.
Possono conclusivamente enunciarsi i seguenti principî di diritto:
« - nelle obbligazioni pecuniarie, in difetto di discipline particolari dettate da norme speciali, il maggior danno di cui all'art. 1224, comma 2, c.c. (rispetto a quello già coperto dagli interessi legali moratorî non convenzionali che siano comunque dovuti) è, in via generale, riconoscibile in via presuntiva, per qualunque creditore che ne domandi il risarcimento - dovendo ritenersi superata l'esigenza di inquadrare, a tale fine, il creditore in una delle categorie a suo tempo individuate -, nella eventuale differenza, a decorrere dalla data di insorgenza della mora, tra il tasso del rendimento medio annuo netto dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi ed il saggio degli interessi legali determinato per ogni anno ai sensi del primo comma dell'art. 1284 c.c.;
- è fatta salva la possibilità del debitore di provare che il creditore non ha subìto un maggior danno o che lo ha subìto in misura inferiore a quella differenza, in relazione al meno remunerativo uso che avrebbe fatto della somma dovuta, se gli fosse stata tempestivamente versata;
- il creditore che domandi a titolo di maggior danno una somma superiore a quella differenza è tenuto ad offrire la prova del danno effettivamente subìto, quand'anche sia un imprenditore, mediante la produzione di idonea e completa documentazione, e ciò sia che faccia riferimento al tasso dell'interesse corrisposto per il ricorso al credito bancario, sia che invochi come parametro l'utilità marginale netta dei proprî investimenti;
- in entrambi i casi, la prova potrà dirsi raggiunta per l'imprenditore solo se, in relazione alle dimensioni dell'impresa ed all'entità del credito, sia presumibile, nel primo caso, che il ricorso o il maggior ricorso al credito bancario abbia effettivamente costituito conseguenza dell'inadempimento ovvero che l'adempimento tempestivo si sarebbe risolto nella totale o parziale estinzione del debito contratto verso le banche; e, nel secondo, che la somma sarebbe stata impiegata utilmente nell'impresa.
Varie società editrici si opposero a diversi decreti ingiuntivi per mancato pagamento di somme dovute a titolo di contributi assicurativi e relative sanzioni civili
Con decisione del 1996 il pretore respinse le opposizioni e condannò l'INPS a tenere indenni le società opponenti di quanto avrebbero dovuto pagare in base ai decreti ingiuntivi.
Decidendo con sentenza n. 14271 del 2003 sugli appelli proposti ed in parziale accoglimento dell'appello incidentale condizionato proposto dalla R.C.S. Editori S.p.A. (anche quale incorporante di R.C.S. Editoriale Quotidiani S.p.A.), la sezione lavoro del Tribunale di Roma ha, per quanto in questa sede interessa, condannato l'INPS alla restituzione dei contributi indebitamenti versati.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione l'INPS, col il quale denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1224 e 2697 c.c. e vizio di motivazione per essere stato il maggior danno da svalutazione monetaria riconosciuto in contrasto col principîo enunciato da Cass. nn. 9910/03 e 14970/02; principîo secondo il quale, a tale fine, il creditore non può limitarsi ad allegare la propria qualità di imprenditore, essendo, invece, tenuto, in base al generale principîo dell'onere della prova, a fornire indicazioni in ordine al danno subito per effetto dell'indisponibilità del denaro determinata dall'inadempimento (quale, ad esempio, quello derivante da specifici investimenti programmati e non attuati), giacché, altrimenti, si darebbe luogo ad un meccanismo di automatica rivalutazione dei crediti, analogo a quello previsto per i lavoratori subordinati dall'art. 429 c.p.c.
Ha resistito con controricorso la RCS Quotidiani S.p.A.
L'esame del ricorso è stato rimesso dal primo Presidente a queste Sezioni Unite per il ravvisato contrasto di giurisprudenza in ordine alla sufficienza della qualità di imprenditore del creditore ai fini della presumibilità di impieghi antinflattivi della somma non tempestivamente versata dal debitore.
Premesso che il caso di specie concerne sicuramente un credito pecuniario ordinario, si rileva che si sono formati due diversi orientamenti giurisprudenziali; secondo un primo orientamento, è sufficiente dedurre la qualità di imprenditore per ritenere provato, per effetto di presunzione collegata alla qualità professionale, il maggior danno in questione (vengono citate: Cass., s.u. n. 2318/83, sez. I n. 1403/98, sez. I n. 5732/99, sez. II n. 409/00, sez. II n. 1770/01, sez. lav. n. 6420/01, sez. lav. n. 10304/02, sez. lav. n. 2113/03, sez. III n. 58/04, sez. III n. 13829/04, sez. III n. 14767/04, sez. III n. 20807/04, sez. I n. 4885/06, sez. II n. 5860/06);
- secondo un diverso orientamento, invece, il pur legittimo ricorso al notorio ed a presunzioni non può prescindere dall'assolvimento, da parte del creditore, ancorché appartenente ad una categoria soggettiva come quella degli imprenditori, di un onere quantomeno di allegazione, che consenta al giudice di verificare se, tenuto conto delle sue qualità personali e dell'attività in concreto esercitata, il particolare danno lamentato possa essersi verosimilmente prodotto (vengono indicate come espressive di tale indirizzo: Cass., sez. un. n. 2564/84, sez. un. n. 2368/86, sez. II n. 5678/99, sez. lav. n. 1036/02, sez. lav. n. 14970/02, sez. I n. 10860/03, sez. lav. n. 12634/04, sez. I, n. 2613/06, sez. lav. n. 6153/06).
Fondamento del secondo degli indirizzi indicati - afferma ancora la sezione lavoro - è, in sintesi, che gli automatismi risarcitori, al di là degli interessi di mora, sono previsti dal diritto positivo nella sussistenza non solo dell'elemento soggettivo (qualità del creditore), ma anche oggettivo (qualità del credito): spunti di sostegno a tale ricostruzione sarebbero rinvenibili nelle argomentazioni svolte dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 459 del 2000 e nelle disposizioni del D.Lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, recante "attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi dei pagamenti nella transazioni commerciali".
Con sentenza 2 novembre 2000, n. 450 la Corte costituzionale, chiamata a sindacare la regola della non cumulabilità di rivalutazione ed interessi, già prevista per i crediti di lavoro dall'art. 429 c.p.c. secondo l'interpretazione ampiamente consolidata di tale disposizione, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 22, comma 36, della L. 23 dicembre 1994, n. 724, limitatamente alle parole « e privati », nella parte in cui, riconosce(va) al lavoratore solo la maggior somma tra l'ammontare degli interessi e quello della rivalutazione monetaria; ciò sulla scorta del rilievo che ai crediti di lavoro, in considerazione della loro natura, deve riconoscersi un'effettiva specialità di tutela rispetto alla generalità degli altri crediti, sicché non è giustificabile che essa sia collocata « all'interno della disciplina generale di cui all'art. 1224 c.c. sulla responsabilità contrattuale da inadempimento » (così la motivazione, sub 7.1.).
È dunque vero che la Consulta ha avuto riguardo alla particolarità del credito (retribuzione) ed alla sua funzione di assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa, ma ciò in ragione della ravvisata necessità di una tutela speciale, normativamente assicurata dal cumulo di rivalutazione ed interessi (benché non possa dirsi costituzionalizzato - ha avvertito il Giudice delle leggi - il meccanismo previsto dall'art. 429, comma 3, c.c.).
Ha, infatti, ritenuto che il riconoscimento della maggior somma tra rivalutazione ed interessi, secondo quanto appunto previsto dalla norma dichiarata incostituzionale, si risolvesse nel collocare il trattamento dei crediti di lavoro all'interno della disciplina generale dell'art. 1224 c.c. Ha, inoltre, offerto spunti per un'interpretazione di tale disposizione in senso opposto a quello prospettato dalla sezione lavoro, posto che per i crediti di valuta si pone non già un problema di cumulo di rivalutazione ed interessi, ma solo di possibile riconoscibilità del maggior danno da svalutazione, indipendentemente da specifiche allegazioni probatorie: dunque, in definitiva, sotto il profilo aritmetico, della maggior somma tra interessi legali e svalutazione monetaria.
Il D.Lgs. 9 ottobre 2002, n. 231 (recante "attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi dei pagamenti nella transazioni commerciali"), richiamato senza ulteriori specificazioni, agli artt. 1 e 2 prevede, con talune esclusioni, che le relative disposizioni si applichino ad ogni pagamento effettuato a titolo di corrispettivo in una transazione commerciale (contratti tra imprese ovvero tra imprese e Pubbliche Amministrazioni che comportano, in via esclusiva o prevalente, la consegna di merci o la prestazione di servizi contro il pagamento di un prezzo); stabilisce che « il creditore ha diritto alla corresponsione di interessi moratori, ai sensi degli artt. 4 e 5, salvo che il debitore dimostri che il ritardo nel pagamento del prezzo è stato determinato da causa a lui non imputabile »(art. 3); correla il saggio degli interessi a quello del principale strumento di rifinanziamento della Banca centrale europea applicato in un certo giorno e maggiorato di sette punti (art. 5); dispone che il creditore ha diritto al risarcimento dei costi di recupero del credito, « salva la prova del maggior danno, ove il debitore non dimostri che il ritardo non sia a lui imputabile » (art. 6).
Non è dato rinvenire automatismi risarcitorî, quanto piuttosto la determinazione di un tasso degli interessi moratori collegato all'effettivo costo del denaro o a questo addirittura superiore; è, anzi, previsto che il debitore possa sottrarsi al pagamento degli interessi, se dimostra che il ritardo deriva da impossibilità non imputabile (mentre tale possibilità è esclusa quanto agli interessi legali dovuti dal giorno della mora ex art. 1224, comma 1, c.c.) ed è espressamente contemplata la prova del maggior danno, purché il debitore non dimostri la non imputabilità del ritardo.
Si tratta di una disciplina particolare, che, se non altro per l'elevatezza del tasso, non sembra offrire spunti per l'adozione di un'interpretazione dell'art. 1224, comma 2, c.c. sfavorevole al creditore imprenditore.
Conviene ripercorrere la storia dell'evoluzione della giurisprudenza in ordine alla prova del danno da svalutazione monetaria nelle obbligazioni pecuniarie.
Con la fondamentale sentenza n. 3776/79 le Sezioni Unite predicarono la liberalizzazione più ampia possibile nel rispetto dei principî tradizionali; principî intanto disattesi da Cass., n. 5670/78, la quale aveva sostanzialmente ritenuto che, insorta la mora debendi, le obbligazioni di valuta dovessero essere trattate come quelle di valore, sicché la somma originariamente dovuta « andava necessariamente rivalutata alla stregua di indici pubblicizzati di sicura attendibilità ».
Fu ribadito che nei debiti originariamente pecuniari, per i quali vale il principio nominalistico, la svalutazione monetaria verificatasi durante la mora non giustifica alcun risarcimento automatico che possa essere attuato con la rivalutazione della somma dovuta. Ma si affermò anche che non ha bisogno di essere provato il fatto che il denaro è destinato ad essere impiegato nell'acquisto di beni o servizi o comunque in forme remunerative; che risponde, infatti, alla natura della moneta che essa è non solo la misura dei valori, ma è strumento di scambio, dotata, appunto, di valore nella misura in cui viene adoperata a questo scopo; che il prudente apprezzamento del giudice in ordine alle presumibili modalità di impiego può essere formato eventualmente anche con valutazioni equitative, ai sensi dell'art. 1226 c.c.; che, infine, l'orientamento tradizionale andava rimeditato, anche « perché non dà adeguato rilievo a presunzioni di ordine oggettivo », che furono ricollegate all'appartenenza del creditore ad una delle categorie creditorie di cui appresso.
Le Sezioni Unite si pronunciarono nuovamente negli anni successivi con le sentenze nn. 2318/83, 2564/84 e 2368/86, l'ultima delle quali dette spazio ai cosiddetti "criteri personalizzati di normalità", riaffermando che nelle obbligazioni pecuniarie il danno da svalutazione non si identifica col fenomeno inflattivo e che incombe, pertanto, al creditore dimostrare che il pagamento tempestivo lo avrebbe messo in condizione di evitare o limitare gli effetti economici depauperatorî che l'inflazione produce per tutti i possessori di denaro; ma, chiarendo anche che tanto il creditore può fare avvalendosi di presunzioni e dati economici acquisiti dalla comune esperienza e riferiti a categorie economiche socialmente significative (« imprenditore », « risparmiatore abituale », « creditore occasionale », « modesto consumatore » « o altre enucleabili in relazione a più particolari modalità di impiego del denaro »).
Con riguardo alla categoria del creditore esercente attività imprenditoriale si affermò che possono essere fatte valere presunzioni di due tipi:
a) quelle connesse con il normale impiego del denaro nel ciclo produttivo, per cui l'esistenza e l'ammontare approssimativo del danno possono essere desunti dal risultato medio dell'attività in un certo periodo, come suggerito dalle sentenze del 1979;
b) quelle connesse al costo del denaro, precisamente allo scarto fra interesse legale e tasso di mercato dell'interesse praticato dalle banche alla migliore clientela per il credito a breve termine (prime rate), con la precisazione che tale criterio ha carattere primario, perché attiene al danno emergente, è altresì ancorato ad un parametro certo di facile rilevazione e, soprattutto, è l'unico possibile per un'azienda che non produca utile, ma sia in pareggio o in perdita, non essendovi, allora, un guadagno cui commisurare la presumibile entità della somma mancata (così la motivazione, sub 9).
Conclusero le Sezioni Unite che, pertanto, l'altro criterio risulta applicabile solo quando l'imprenditore espressamente deduca il mancato guadagno ed affermarono « che l'onere probatorio, pur non potendosi attestare alla qualità professionale, si atteggia diversamente per ciascuno dei due criteri ritenuti più appropriati per questa figura: in relazione al criterio del maggior costo del denaro, il creditore deve dimostrare di trovarsi in condizioni atte a presumere, secondo la normale gestione dell'impresa, il ricorso al mercato del credito; in relazione al criterio del mancato guadagno, invece, è tenuto a fornire gli elementi necessari a stabilire la redditività del denaro investito nell'impresa, sicché la prova - basata in gran parte su vicende proprie della singola impresa - spesso presenta maggiore complessità » (sub. 13, lettera b, della motivazione). Non affermarono, dunque, che l'imprenditore era tenuto a provare di aver fatto ricorso al finanziamento delle banche durante la mora, ma si riferirono genericamente alla dimostrazione di « condizioni atte a presumere ».
Criteri specifici furono fissati anche per il « risparmiatore abituale », per il « creditore occasionale » e per il « modesto consumatore »:
- si disse che al primo faceva carico l'onere di allegare e dimostrare la qualità degli investimenti abitualmente effettuati, sicché la presunzione operava in riferimento all'uguale destinazione che egli avrebbe dato alla somma non pagata ed all'ammontare del relativo reddito (interessi di titoli di Stato, rendimento di azioni, etc.);
- si ritenne che, per il secondo, era consentito presumere l'impiego mediante deposito presso istituti di credito, con conseguente commisurazione del danno alla remunerazione media dei depositi nel periodo di mora;
- si affermò, per il terzo, che, essendo presumibile che egli avrebbe destinato la somma alla immediata soddisfazione dei proprî bisogni familiari e personali, così realizzando la moneta al suo valore attuale e conseguentemente sottraendosi agli effetti depauperativi della svalutazione, era del tutto appropriato il riferimento agli indici ISTAT per la determinazione forfettaria del (maggior) danno.
Può dunque dirsi che, nella seconda metà degli anni '80, il regime probatorio relativo al maggior danno da svalutazione monetaria per il ritardato pagamento dei debiti pecuniari (ex art. 1224, comma 2, c.c.) risultò governato dalle seguenti regole:
a) il creditore imprenditore era gravato da un particolare onere probatorio solo in caso di richiesta di un maggior danno corrispondente ai risultati utili della sua impresa (lucro cessante), mentre poteva avvalersi di una presunzione di tipo quasi oggettivo, fondata su criteri personalizzati di normalità, in ordine al maggior danno ancorato allo scarto tra il tasso degli interessi legali ed il prime rate (danno emergente), essendo comunque tenuto a dimostrare di trovarsi in condizioni atte a presumere, secondo la normale gestione dell'impresa, il ricorso al mercato del credito;
b) il semplice consumatore poteva pretendere un maggior danno corrispondente alle differenze tra indici ISTAT e tasso legale di interesse, nel periodo della mora, indipendentemente da ogni specifica prova di impiego;
c) per il creditore occasionale si aveva senz'altro riguardo al tasso medio sui depositi bancari;
d) il risparmiatore abituale era, invece, tenuto a provare come normalmente investiva il denaro ed a quale tasso.
Sennonché - osservò criticamente la dottrina - soltanto l'imprenditore ed il consumatore (e quest'ultimo solo in ragione del censo o della modesta entità della somma dovutagli) erano, se pur non senza gravi difficoltà, astrattamente suscettibili di essere inseriti in una categoria determinata, mentre apparivano difficilmente etichettabili i creditori occasionali ed i risparmiatori abituali. Soprattutto perché il creditore sovente non è in grado egli stesso di stabilire, ex post, cosa avrebbe davvero fatto del denaro che gli era dovuto, ma che non aveva tempestivamente avuto, in quanto il problema dell'impiego si sarebbe posto, in relazione alle contingenze ed alle propensioni del momento, solo se e quando lo avesse davvero ricevuto; sicché si dava in tal modo la stura ad una serie di complicazioni processuali destinate ad offrire risultati di scarsissima attendibilità, data l'ovvia propensione del creditore ad evitare un inquadramento sfavorevole o nel quale la prova si presentasse complessa e, per converso, quello del debitore a prospettare l'inserimento del creditore in una categoria nella quale il maggior danno fosse più difficile da provare o di entità meno gravosa per il convenuto.
Negli anni successivi la prevalente giurisprudenza si attestò, comunque, sulla posizione secondo la quale, in caso di ritardato pagamento di un debito pecuniario ad un imprenditore commerciale, ai fini del riconoscimento del maggior danno ragguagliato alla svalutazione monetaria, non si rende necessario che egli fornisca la prova concreta di un danno causalmente ricollegabile all'indisponibilità dell'importo, ben potendosi dedurre in tale situazione, in base all'id quod plerumque accidit, che, in caso di tempestivo adempimento, la somma dovuta sarebbe stata reimpiegata in modo tale da essere sottratta agli effetti della svalutazione.
Una giurisprudenza minoritaria ritenne, per contro, che il pur legittimo ricorso al notorio ed alle presunzioni da parte del giudice non può prescindere dall'assolvimento da parte del creditore, quantunque imprenditore commerciale, di un onere quantomeno di allegazione, che consenta al giudice di merito di verificare se il particolare danno allegato (anche da svalutazione) possa essersi verosimilmente prodotto
Più numerose le sentenze che hanno affrontato il tema negli anni 2000, ancora una volta prevalentemente risolto nel senso che è sufficiente che non sia controversa la qualità di imprenditore del creditore perché possa essere riconosciuto il richiesto maggior danno da svalutazione monetaria
Si sostenne, in una fattispecie pressoché identica a quella ora in scrutinio, che il ricorso a categorie tipiche finirebbe anch'esso col determinare un automatismo di rivalutazione del credito contrario al principîo nominalistico e farebbe venir meno la distinzione tra obbligazioni di valuta ed obbligazioni di valore.
Si è rilevato che il rispetto del principîo nominalistico non è affatto incompatibile con la rilevanza delle variazioni del potere di acquisto della moneta; che, infatti, mentre nei debiti di valore la considerazione di quella variazione è insita nel procedimento di determinazione quantitativa della prestazione, nei debiti di valuta essa può, invece, rilevare esclusivamente sub specie damni e pone problemi di esclusiva natura probatoria; che ritenere notoria l'entità del fenomeno inflattivo e probabilisticamente rilevante la destinazione del denaro allo scambio non significa affatto derogare al principio nominalistico, ma solo adottare un criterio di valutazione che tiene conto degli interessi delle parti ed è conforme alla comune esperienza ed al comune sentire.
Si è altresì ribadito che, in base a tali principî, alcune decisioni della Corte avevano conseguentemente affermato che il danno da inadempimento dell'obbligazione pecuniaria è per qualsiasi creditore, per la parte che non sia già coperta dagli interessi legali, non inferiore alla misura dell'inflazione della moneta, che ne costituisce l'elementare dato probatorio, salvo che esso assuma un diverso, maggiore valore per il singolo creditore in relazione al comprovato uso che della somma oggetto dell'obbligazione intendeva fare. Pertanto, salvo questa prova diversa, il danno da svalutazione può essere determinato sulla base degli indici ufficiali dell'inflazione in relazione al costo della vita (sono citate Cass. nn. 123/83, 651/84, 3356/85). Ed ha concluso che, in effetti, « non è dubbio che la mancata disponibilità del danaro da parte del creditore costituisce obiettivamente un danno e non ha bisogno di alcuna prova di carattere soggettivo, salva la possibilità da parte del debitore di provare il concorso del fatto colposo del creditore, ai sensi dell'art. 1227 del codice civile. Di conseguenza, il creditore che intenda ottenere la rivalutazione nella misura ufficiale deve solo allegare gli indici ufficiali dell'ISTAT. Il creditore, invece, che ritenga che la mancata disponibilità del danaro abbia inciso sul suo patrimonio in misura superiore agli interessi legali e alla svalutazione ufficiale, dovrà provare il maggiore danno: dovrà provare, ad esempio, di aver dovuto rinunciare a investimenti particolarmente vantaggiosi o di essere dovuto ricorrere a prestiti particolarmente onerosi ».
Opposte le conclusioni di Cass. 14970/02, pronunciata anch'essa in fattispecie di domanda di restituzione di contributi indebitamente versati all'INPS. Con tale sentenza la stessa Sezione lavoro, dichiaratasi, a sua volta, pienamente consapevole dell'orientamento appena illustrato, ha, tuttavia, ritenuto (richiamando Cass., nn. 11870/92, 5517/97, 5678/99, 9965/01):
a) che collegare alla sola qualità di imprenditore la presunzione di un impiego antinflattivo del denaro, e dunque di un maggior danno da svalutazione monetaria durante la mora, finirebbe per stravolgere il criterio fondamentale dell'onere della prova di cui all'art. 2697 c.c., risolvendosi in un'ingiustificata soluzione di favore per il creditore, il quale, per beneficiare del risarcimento, dovrebbe solo provare di appartenere ad una determinata categoria economica;
b) che una tale conseguenza avrebbe ben poca giustificazione anche sotto il profilo sistematico, comportando l'introduzione di un meccanismo di automatica rivalutazione analogo a quello di cui all'art. 429 c.p.c. senza alcun fondamento normativo e, anzi, nel contesto di un'opposta tendenza legislativa, in cui il divieto di cumulo rappresenta la regola ed in cui una sostanziale valorizzazione dei crediti pecuniari, anche contrattuali, in relazione a particolari caratteristiche del creditore, necessiterebbe ancor più di un'esplicita previsione normativa.
Le conclusioni della citata sentenza 14970/02 sono state condivise dalla successiva 12634/04, che, ancora una volta relativa al danno da ritardo nella restituzione di somme indebitamente versate, ha ribadito che il maggior danno da svalutazione nelle obbligazioni pecuniarie non può essere riconosciuto indipendentemente dall'osservanza di uno specifico onere di allegazione e prova da parte del creditore (quantunque imprenditore) per due sostanziali ordini di ragioni:
c) perché si deve escludere che la svalutazione costituisca danno di per sé, stante l'operatività del principio nominalistico (art. 1277 c.c.), derogato specificamente dal legislatore soltanto per particolari crediti pecuniari, come i crediti di lavoro, ai sensi dell'art. 429, comma terzo, c.p.c.;
d) perché osta alla identificazione del danno moratorio nella diminuzione di valore della moneta il rilievo che « il denaro, per le illimitate possibilità di opzione tra i diversi impieghi, è metro di misura totalmente astratto; tale danno, quindi, può derivare esclusivamente dall'impiego che il creditore avrebbe fatto della somma se ne avesse conseguito la disponibilità tempestivamente (ad es., autofinanziamento e reimpiego nella produzione, acquisto di valori mobiliari, interessi bancari, etc.), cosicché deve ritenersi indispensabile (non potendo il giudice determinare autonomamente il tipo di impiego) che siano forniti elementi che consentano al giudice di ritenere, anche in via presuntiva, alcune forme di impiego più verosimili di altre ».
Allo stato attuale le tesi che si contendono il campo sono tre:
1) quella secondo la quale nei debiti di valuta, quale che sia la categoria cui appartiene il creditore, il maggior danno da svalutazione monetaria rispetto a quello che non sia già assorbito dagli interessi legali moratori, va riconosciuto in via generalizzata e presunta, fermo l'onere del creditore, che assuma di aver subìto un danno ancora maggiore, di provare che avrebbe fatto un uso del denaro tale da garantirgli un rendimento superiore al tasso di inflazione (lucro cessante), ovvero che, a causa dell'inadempimento, ha dovuto procurarsi denaro a tassi più onerosi (danno emergente), e salva la facoltà del debitore di offrire comunque la prova contraria;
2) quella secondo la quale il maggior danno da svalutazione va correlato alla sola categoria creditoria cui il creditore appartiene, in relazione alla più probabile forma di impiego del denaro;
3) quella secondo la quale l'appartenenza ad una categoria creditoria non è comunque sufficiente a giustificare il riconoscimento del maggior danno correlabile alle forme di impiego tipiche della categoria nella quale il creditore è iscrivibile (soprattutto se imprenditore), essendo, egli, comunque gravato da uno specifico onere, quantomeno, di allegazione in ordine al verosimile impiego che avrebbe fatto della somma dovutagli, che consenta al giudice di verificare se, tenuto conto di dette qualità personali e professionali, il danno denunziato possa essersi effettivamente prodotto (in difetto di quella allegazione, alcune sentenze affermano che non possono riconoscersi che gli interessi legali, come la citata n. 12634/04; altre che tale tipo di conseguenza va tratto solo per il danno eccedente il tasso di svalutazione, come Cass., Sez. lavoro, n. 6153/06).
Va osservato che nessuna delle tre è in tutto conforme ai principî enunciati da queste Sezioni Unite nel 1986, il cui trasparente scopo fu quello di semplificare, mediante il ricorso a presunzioni di tipo generalizzato, in relazione alla categoria di appartenenza del creditore, le modalità della prova del maggior danno da svalutazione. Si trattò di una soluzione intermedia tra quella che richiedeva la rigorosa e quasi sempre impossibile prova dell'avvenuta predisposizione di un impiego alternativo del denaro non tempestivamente pagato e quella di chi, invece, riteneva che, in caso di mora, il maggior danno da svalutazione è, in via generale, presunto in misura pari al tasso di inflazione, in relazione alle caratteristiche proprie del denaro, destinato per sua natura ad essere speso o investito in impieghi tali da mettere chi lo possegga al riparo, quantomeno, dalla svalutazione.
La terza tesi, che formalmente ne segue gli enunciati letterali, finisce, infatti, col non assecondarne lo spirito, segnatamente nella sua più rigorosa versione; la seconda è a questo conforme, ma ne disattende le prescrizioni testuali in relazione al creditore imprenditore; la prima è quella che maggiormente se ne discosta, ma è anche quella che, a parere del collegio, tiene in maggior conto i non appaganti risultati applicativi della soluzione dell'inquadramento dei creditori in categorie, cui collegare in via presuntiva il tipo di impiego che del denaro avrebbero fatto se fosse stato loro tempestivamente dato e, dunque, l'entità del maggior danno durante la mora del debitore.
A parte, invero, la categoria dell'imprenditore (per la quale pure, come s'è rilevato, non vengono adottate soluzioni univoche), l'inquadramento del creditore in una qualsiasi delle altre, o in quelle ulteriori che le Sezioni Unite del 1986 pure prospettarono potessero essere in seguito configurate e che non sono state, invece, mai elaborate, si è rivelata di assai problematica praticabilità, non sussistendo parametri di riferimento sufficientemente univoci per definire i caratteri proprî di ogni categoria.
E la stessa categoria degli imprenditori - per la quale, invece, i parametri per una qualificazione palesemente sussistono - non vale, a ben vedere, ad offrire criteri di maggiore attendibilità delle possibili inferenze induttive, posto che a quello che pretendesse come maggior danno la differenza tra il tasso legale d'interesse ed il prime rate (peraltro, non più rilevato a partire dal 2004 e, secondo le Sezioni Unite del 1986, ottenibile quasi sulla base della sola appartenenza alla relativa categoria) poterebbe obiettarsi che, già alla data di insorgenza della mora, la redditività marginale media dei propri investimenti era inferiore al tasso praticato dalle banche alla migliore clientela nei prestiti a breve termine; ovvero, se superiore, che male il creditore aveva fatto a non ricorrere al credito bancario (con conseguente applicazione dell'art. 1227, comma 2, c.c.), ovvero che non era comunque prevedibile dal debitore che non lo facesse (con conseguente irrisarcibilità del danno differenziale ex art. 1225 c.c.).
I bisogni ed i desideri che il denaro vale a soddisfare sono, d'altronde, troppi e troppo intimamente connessi anche al modo d'essere di ognuno, nonché agli eventi di cui ciascuno è nella vita protagonista, spettatore o vittima, perché l'uno o l'altro creditore sia suscettibile di essere tout court qualificato come consumatore o risparmiatore o creditore occasionale, essendo vero, invece, che ognuno è o può essere l'una o l'altra cosa o l'altra ancora o tutte insieme, in relazione a ciascuna frazione dell'importo ed a seconda delle contingenze economiche generali e personali del momento, dell'entità del credito, dei proprî progetti, e così via.
Per altro verso, le prorompenti esigenze di semplificazione dell'istruzione probatoria impongono, a distanza di circa un quarto di secolo, soluzioni più snelle, anche alla luce dei dati costituiti dall'incessante aumento del contenzioso civile, dall'allungamento dei tempi medi di definizione del processo, dal nuovo principio della sua ragionevole durata, proclamato dall'art. 111, comma 2, Cost. (nel testo introdotto con legge costituzionale n. 2 del 1999). Si verte, del resto, in situazioni che recano, in se stesse, il germe dell'inevitabile approssimazione della statuizione giudiziale, come avvertivano le stesse Sezioni Unite del 1986; nelle quali, dunque, l'equazione 'categoria creditoria = presunta, oggettivamente personalizzata modalità di impiego del denaro' presenta incognite non inferiori, in prima battuta, a quelle proprie dell'equazione 'creditore = maggior danno da svalutazione corrispondente all'incremento dei prezzi al consumo ovvero alla redditività delle più comuni forme di impiego alternative alla spesa'.
Non sussistono, d'altro canto, i paventati pericoli che i debiti di valuta ricevano, in tal modo, una disciplina identica a quella propria dei debiti di valore, con sostanziale pretermissione del principio nominalistico di cui all'art. 1277 c.c.; o che le conseguenze dell'inadempimento finiscano per divenire, per qualsiasi credito di denaro, identiche a quelle "speciali" che l'art. 429, comma 3, c.p.c. contempla per i crediti di lavoro; ovvero che sia sostanzialmente disapplicato il principio dell'onere della prova di cui all'art. 2697 c.c..
Sul primo punto va, infatti, osservato che il rispetto del principio nominalistico non è affatto incompatibile con la rilevanza delle variazioni del potere d'acquisto della moneta. Solo che, mentre nei debiti di valore la considerazione di quella variazione è insita nel procedimento di determinazione quantitativa della prestazione, in quanto il denaro vale solo a misurare e ad esprimere un valore necessariamente attuale, nei debiti di valuta essa può, invece, rilevare esclusivamente sub specie damni. La circostanza che una somma di denaro, come quantità di pezzi monetari dedotta in obbligazione, conservi integra la propria idoneità solutoria, quale che sia l'alterazione nel tempo del suo valore in termini di potere d'acquisto (non altro è il significato e non altra la conseguenza del nominalismo monetario), non esclude che la diminuzione del suo valore durante il periodo di mora debendi si risolva in un danno, tutte le volte che il creditore agli effetti della svalutazione si sarebbe sottratto, spendendo o investendo il denaro non tempestivamente versatogli in impieghi con remuneratività superiore al tasso di inflazione. Facendone, cioè, l'uso connaturale alla sua intima essenza, volta che, se il denaro è l'unico bene intrinsecamente insuscettibile di offrire qualunque utilitas diretta, è anche il solo che consente, mediante lo scambio, di procurare immediatamente quelle ricavabili da qualsiasi altro bene (è questa la giustificazione economica del rendimento del denaro dato a mutuo), sicché è del tutto contraria ai dati di comune esperienza l'ipotesi della mera conservazione improduttiva da parte del creditore di un bene ontologicamente destinato allo scambio o all'investimento. Se ne mostrò, d'altronde, consapevole lo stesso legislatore del 1942, all'atto della redazione del codice civile; al punto n. 592 (in fine) della Relazione al Re del Ministro Guardasigilli si legge, infatti, testualmente: « L'alterazione del valore della moneta dovuta può verificarsi durante la mora del debitore. Il caso non è previsto espressamente, perché esso si risolve in un danno, che è risarcibile secondo gli artt. 1218 e 1224, 2° comma ».
Neppure è possibile che si creino confusioni di sorta sul piano processuale, posto che nei debiti di valore (tipica l'obbligazione di risarcimento del danno) la rivalutazione non va neppure domandata, essendo il giudice tenuto d'ufficio alla liquidazione in valori monetari attuali; mentre nei debiti di valuta vanno chiesti sia gli interessi moratori sia il maggior danno (anche da svalutazione, secondo l'impreciso ma corrente lessico giudiziario, e tuttavia, più esattamente, da intervenuta impossibilità, per fatto del debitore, che il creditore si sottraesse agli effetti della svalutazione), risultando, altrimenti, inficiata da vizio di ultrapetizione la sentenza che riconoscesse gli uni o l'altro.
Quanto alla temuta possibilità che i crediti pecuniari ordinari e quelli di lavoro finiscano con l'essere trattati allo stesso modo, s'è già rilevato che, per i crediti di cui all'art. 429, comma 3, c.p.c., interessi e svalutazione si cumulano, mentre nei debiti di valuta il maggior danno (anche da svalutazione) è dovuto, ex art. 1224, comma 2, c.c., solo per la parte che non sia già coperta dagli interessi moratorî.
Quanto alla pretesa disapplicazione dell'art. 2697 c.c. che deriverebbe dal ritenere presunta (ma rectius : normale) una modalità di impiego del denaro tale da consentire al creditore di sottrarsi agli effetti della svalutazione, è stato da tempo chiarito come, in definitiva, è nel rapporto tra normalità ed anormalità, tra regola ed eccezione che si rinviene il criterio teorico e pratico della ripartizione dell'onere della prova, il quale non costituisce un istituto giuridico in sé concluso, ma un modo di osservare l'esperienza giuridica. E la giurisprudenza ha, quindi, fatto ricorso, tutte le volte che il modello legale prefissato non risultava appagante in relazione alle posizioni delle parti riguardo ai singoli temi probatorî, allo schema della presunzione in modo talora così tipico e costante da creare, in definitiva, vere e proprie regole di giudizio. Col risultato non già di invertire l'onere della prova, ma di distribuirlo in senso conforme alla realtà dell'esperienza positiva.
Ebbene, è senz'altro conforme alla realtà dell'esperienza positiva che il denaro sia speso in relazione alla sua primaria destinazione allo scambio ovvero impiegato in rassicuranti forme remunerative tali da garantire un rendimento superiore al tasso di inflazione, qual è quello dei titoli di Stato, costantemente eccedente l'incremento dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati rilevati dall'ISTAT.
Quanto, infine, all'argomento (addotto da Cass. Sez. lav. n. 12634/04) che « il denaro, per le illimitate possibilità di opzione tra i diversi impieghi, è metro di misura totalmente astratto », deve rilevarsi che l'osservazione si attaglia ai debiti di valore, nei quali il denaro viene, appunto, in considerazione come strumento di misura di un valore (mensura), ma non è conferente in ordine ai debiti di valuta, nei quali il denaro è dedotto in obbligazione come ammontare di pezzi monetari (mensuratum). Sicché, come la variazione del valore di una cosa si misura comparando fra loro le diverse quantità di moneta necessarie per scambiarla in tempi diversi con denaro, così la variazione del "valore" del denaro si misura comparando tra loro le diverse quantità di pezzi monetari necessari, in tempi diversi, per procurarsi la medesima cosa o le medesime cose. Cose e pezzi monetari dovuti e non dati, il cui valore sia mutato durante la mora, possono o meno aver prodotto un danno da diminuzione di valore, a seconda dell'impiego che ne avrebbe fatto il creditore: "possono" (non "devono"), giacché, se la loro destinazione era la mera conservazione, il danno da diminuzione di valore durante la mora sarà, in ogni caso, insussistente; ma, se la destinazione era lo scambio o l'investimento, il danno andrà commisurato alla diminuzione di valore o al costo affrontato dal creditore per procurarsi quel che gli era dovuto (cose o denaro) o, ancora, alle conseguenze economiche negative subite per non esserci riuscito.
Tanto precisato in linea di principio, va qui detto che le vicende che connotarono gli anni '70 e '80, durante i quali il tasso di svalutazione monetaria fu pressoché costantemente superiore a quello degli interessi legali, talora in misura assai rilevante, con una differenza che toccò i 16,1 punti percentuali nel 1980, indussero il legislatore a modificare l'art. 1284, comma 1, c.c., dapprima elevando il tasso degli interessi legali dal 5% al 10% in ragione di anno (art. 1, L. 26.11.1990, n. 353), e poi riportandolo al 5%, ma stabilendo che esso può essere annualmente modificato dal Ministro del Tesoro « sulla base del rendimento medio annuo lordo dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi e tenuto conto del tasso di inflazione registrato nell'anno » (art. 2, comma 185, L. 23.12.1996, n. 662).
Da allora, fatta eccezione per una pressoché insignificante differenza nell'anno 2000 (e per quella preannunciata come verosimile nell'anno 2008 in corso, per il quale il tasso di inflazione pare collocarsi intorno al 3,6% su base annua in relazione al momento di redazione della presente sentenza), il tasso di interesse è stato costantemente superiore al tasso ufficiale di aumento dei prezzi al consumo, sicché la svalutazione è risultata normalmente assorbita per intero dagli interessi legali, con conseguente perdita di rilevanza del problema relativo al risarcimento del maggior danno da svalutazione monetaria; problema che, in relazione alle periodiche determinazioni del Ministro del Tesoro, non dovrebbe essere ulteriormente configurabile, se non in casi assolutamente marginali ed in misure scarsamente significative, correlabili all'intervallo di tempo tra l'ipotetico aumento dell'indice medio dei prezzi al consumo ed il successivo adeguamento per l'anno successivo.
Resta il fatto che il tasso di rendimento lordo delle più comuni forme d'investimento è apprezzabilmente più elevato del tasso degli interessi legali: dal 1991 al 2008 i valori relativi al rendimento medio annuo lordo dei titoli di Stato di durata non superiore ai dodici mesi ed i valori del tasso legale d'interesse sono stati, infatti, di anno in anno, rispettivamente i seguenti: 13,779 e 10 (1991); 12,876 e 10 (1992); 13,555 e 10 (1993); 8,815 e 10 (1994); 11,949 e 10 (1995); 10,043 e 10 (1996); 6,757 e 5 (1997); 5,212 e 5 (1998); 3,556 e 2,5 (1999); 5,187 e 2,5 (2000); 4,928 e 3,5 (2001); 4,512 e 3 (2002); 3,672 e 3 (2003); 3,631 e 2,5 (2004); 3,244 e 2,5 (2005); 3,332 e 2,5 (2006); 4,167 e 2,5 (2007); 4,22 e 3,8 (fino a giugno del 2008). Fatta dunque eccezione per l'anno 1994, nel quale il rendimento dei titoli di Stato fu inferiore al tasso legale, va, allora, constatato che la più comune e prudente forma di investimento del denaro ha una redditività superiore al tasso dell'interesse legale, con la conseguenza che, per il debitore di un'obbligazione pecuniaria, in linea di massima, continua a poter essere economicamente conveniente non adempiere tempestivamente, così lucrando la differenza tra quello che è agevolmente in grado di ricavare dal denaro non versato al creditore durante la mora debendi e quello che dovrà al creditore quando adempirà la propria obbligazione. Il che è esattamente il contrario dell'intenzione del legislatore (la cui considerazione è imposta dal criterio ermeneutico di cui all'art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale), certamente non determinatosi alle modifiche normative di cui s'è detto sopra al fine di creare un incentivo economico all'inadempimento, ma a tanto indotto dall'ovvia considerazione che l'ordinato svolgimento dei rapporti economici fra i consociati costituisce un beneficio per la collettività, per una serie di ragioni la cui intuitività esime da una specifica enumerazione.
L'effetto di disincentivazione dell'inadempimento (e, di riflesso, la positiva ricaduta sulla diminuzione del contenzioso civile e sulla semplificazione del processo) è, appunto, collegato ad una soluzione che renda il debitore consapevole del fatto che la promozione di una causa da parte del creditore insoddisfatto si risolverebbe, comunque, nel riconoscimento a suo favore di un maggior importo, corrispondente, quantomeno, all'utile economico minimo che il debitore ha tratto o che avrebbe potuto trarre dalla conservazione, medio tempore, del denaro che doveva dare e che non ha dato. Ed è qui appena il caso di ricordare come, senza eccezione alcuna, tutte le istituzioni del Paese da tempo annoverino la inappagante funzionalità della giustizia civile (la quale dipende soprattutto dai lunghi tempi di definizione, a sua volta correlati alla variabile niente affatto indipendente del numero delle cause promosse) fra le ragioni di uno sviluppo economico inferiore a quello possibile, segnatamente sotto il profilo dell'abbassamento della propensione agli investimenti.
Tutto, insomma, concorre all'adozione di un'interpretazione che si risolva nel riconoscere al creditore di somme di denaro non corrisposte dal debitore in mora un maggior danno - ex art. 1224, comma 2, c.c. - corrispondente alla differenza tra il tasso di rendimento netto (dedotta l'imposta) dei titoli di Stato di durata non superiore ai dodici mesi (o tra il tasso di inflazione, se superiore) e quello degli interessi legali (se inferiore).
E tanto del tutto in linea con la ratio legis del novellato art. 1284, comma 1, c.c., il quale prevede un meccanismo che sconta l'inevitabile riferibilità al futuro dell'eventuale intervento adeguatore del Ministro del Tesoro (« con decreto da pubblicarsi nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica non oltre il 15 dicembre dell'anno precedente a quello cui il saggio si riferisce », ex art. 1284, comma 1, c.c.), le cui conseguenze vanno, tuttavia, in linea di principio, sopportate non già dal creditore insoddisfatto, ma dal debitore che versi anche in quella situazione di qualificato ritardo nell'adempimento qual è la mora (ex art. 1219 c.c.): quanto si va osservando è, infatti, estraneo agli interessi corrispettivi di cui all'art. 1282 c.c. ed a quelli compensativi di cui all'art. 1499 c.c., per i quali non è configurabile un danno da ritardo fino alla data di insorgenza della mora debendi.
Tale conclusione risulta, poi, definitivamente corroborata dalla lettera dell'art. 1284, comma 1, c.c., nel testo novellato nel 1996, laddove espressamente vincola il Ministro del Tesoro a determinare il saggio d'interesse « sulla base » del rendimento annuo lordo dei titoli di Stato non ultrannuali e « tenuto conto » del tasso d'inflazione registrato nell'anno: la differenza tra le due espressioni è, invero, significativa del primario rilievo che il legislatore ha conferito al parametro di riferimento costituito dal rendimento dei titoli di Stato ai fini dell'apprezzamento della normale redditività del denaro.
Le considerazioni fin qui svolte comportano il superamento della suddivisione dei creditori in categorie, a ciascuna delle quali si attagli la presunzione di una personalizzata modalità di impiego del denaro, restando, invece, l'àmbito della possibile personalizzazione affidato, esso solo, alla prova.
Sarà, così, consentito al debitore di provare - pur con le difficoltà connesse alla raffigurabilità di un ipotetico ed economicamente inefficiente comportamento altrui - che dal proprio ritardo nell'adempimento il creditore non ha subìto un danno o che lo ha subìto in misura inferiore al saggio degli interessi legali, sicché nulla gli è dovuto, in aggiunta a quelli, per maggior danno (perché, ad es., dedito al deposito del denaro in conto corrente, la cui remuneratività è notoriamente assai bassa, ovvero perché i suoi investimenti nel periodo si sono risolti in una perdita, etc.); così come sarà consentito al creditore di provare che il danno da ritardo è stato, invece, maggiore del rendimento netto dei titoli di Stato (perché costretto a ricorrere al credito bancario o per mancati investimenti remunerativi o per altre particolari vicende). Ma ciò non in quanto il creditore appartenga ad una categoria; il che si risolverebbe, tra l'altro - quantomeno in epoche connotate, come quella attuale, da un aumento dei prezzi al consumo normalmente inferiore al saggio degli interessi legali - nel paradossalmente deteriore trattamento dei meno abbienti, quale il modesto o mero o semplice consumatore. Non, dunque, per questo, ma perché il risarcimento va sempre tendenzialmente adeguato al danno effettivamente subìto, nei limiti in cui tale risultato sia perseguibile; limiti di cui il legislatore s'è fatto, del resto, consapevole carico, dettando la disposizione di cui all'art. 1226 c.c., ormai costantemente interpretata nel senso che alla valutazione equitativa nella liquidazione del danno è possibile ricorrere non solo quando il danno non possa essere provato nel suo preciso ammontare, ma anche quando quella prova si presenti, per l'una o per l'altra parte, particolarmente complessa o costosa, anche in riferimento al livello degli interessi dedotti in giudizio, oppure quando sia destinata ad offrire risultati di assai scarsa attendibilità.
Anche il creditore imprenditore, al pari di ogni altro creditore ed indipendentemente da qualsivoglia allegazione, avrà, dunque, titolo a pretendere il maggior danno nei limiti sopra indicati, salva la prova contraria, da offrirsi dal debitore, che esso è inferiore o inesistente. Ove invece lamenti un danno superiore a quei livelli e ne domandi il risarcimento, dovrà offrirne la prova, come ogni altro creditore. A tal fine, sarà, in linea di massima, sufficiente la produzione di documentazione dalla quale si evinca che, durante la mora del debitore, egli aveva fatto ricorso al credito bancario (con saggio di interesse passivo oggi attestantesi, a quanto consta, sull'Euribor maggiorato tra circa 0,20 e 2,5 punti) o ad altre forme di approvvigionamento di liquidità, con la dimostrazione dei relativi costi; e sempre che, in relazione alle dimensioni dell'impresa ed all'entità del credito, sia effettivamente presumibile che il ricorso al credito esterno sia stato conseguenza dell'inadempimento ovvero che l'adempimento tempestivo avrebbe comportato la destinazione della somma alla parziale estinzione del debito assunto verso il finanziatore (si incoraggerebbe, altrimenti, il possibile ricorso strumentale al credito bancario in funzione probatoria dell'entità del danno nel successivo giudizio di adempimento e risarcimento).
Se, invece, sia domandato un risarcimento del danno correlato all'utilità marginale netta dell'impresa durante la mora, perché il maggior danno possa essere rapportato ai mancati utili sarà necessario che il creditore imprenditore produca il bilancio contenente il conto economico (se tenuto a redigerlo) ovvero altre idonee scritture contabili; e sempre che, in relazione all'importo dovutogli e con riguardo al tipo ed al rilievo economico dell'attività stessa, sia effettivamente presumibile che la somma di cui era creditore sarebbe stata impiegata nell'impresa con il medesimo risultato utile.
È il caso di chiarire che le diverse enunciazioni effettuate da queste Sezioni Unite con la menzionata sentenza n. 16871 del 2007 concernevano una fattispecie nella quale il creditore aveva solo domandato la « rivalutazione monetaria e gli interessi », ma non aveva neppure sostenuto di aver subìto un maggior danno da svalutazione monetaria, sicché la domanda relativa a tale danno era stata ritenuta inammissibile in relazione alla norma di riferimento, d'ufficio individuata in quella di cui all'art. 1224, comma 2, c.c.
In tale occasione, inoltre, le Sezioni Unite, anche perché investite del ricorso solo in ragione della prospettata questione di giurisdizione, si sono limitate a fare applicazione dei principî già precedentemente enunciati con la più volte citata sentenza n. 2368/86, ma non hanno affrontato il tema ex professo, com'è invece avvenuto in quest'occasione.
E deve anche fugarsi l'eventuale preoccupazione che le conclusioni raggiunte si risolvano in un trattamento dei crediti ordinari più favorevole di quello "speciale" riservato ai crediti di lavoro dall'art. 429, comma 3, c.p.c.: il cumulo di rivalutazione ed interessi da effettuarsi per tali crediti è, invero, costantemente superiore al tasso del rendimento medio (anche lordo) dei titoli di Stato di durata non superiore all'anno.
Possono conclusivamente enunciarsi i seguenti principî di diritto:
« - nelle obbligazioni pecuniarie, in difetto di discipline particolari dettate da norme speciali, il maggior danno di cui all'art. 1224, comma 2, c.c. (rispetto a quello già coperto dagli interessi legali moratorî non convenzionali che siano comunque dovuti) è, in via generale, riconoscibile in via presuntiva, per qualunque creditore che ne domandi il risarcimento - dovendo ritenersi superata l'esigenza di inquadrare, a tale fine, il creditore in una delle categorie a suo tempo individuate -, nella eventuale differenza, a decorrere dalla data di insorgenza della mora, tra il tasso del rendimento medio annuo netto dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi ed il saggio degli interessi legali determinato per ogni anno ai sensi del primo comma dell'art. 1284 c.c.;
- è fatta salva la possibilità del debitore di provare che il creditore non ha subìto un maggior danno o che lo ha subìto in misura inferiore a quella differenza, in relazione al meno remunerativo uso che avrebbe fatto della somma dovuta, se gli fosse stata tempestivamente versata;
- il creditore che domandi a titolo di maggior danno una somma superiore a quella differenza è tenuto ad offrire la prova del danno effettivamente subìto, quand'anche sia un imprenditore, mediante la produzione di idonea e completa documentazione, e ciò sia che faccia riferimento al tasso dell'interesse corrisposto per il ricorso al credito bancario, sia che invochi come parametro l'utilità marginale netta dei proprî investimenti;
- in entrambi i casi, la prova potrà dirsi raggiunta per l'imprenditore solo se, in relazione alle dimensioni dell'impresa ed all'entità del credito, sia presumibile, nel primo caso, che il ricorso o il maggior ricorso al credito bancario abbia effettivamente costituito conseguenza dell'inadempimento ovvero che l'adempimento tempestivo si sarebbe risolto nella totale o parziale estinzione del debito contratto verso le banche; e, nel secondo, che la somma sarebbe stata impiegata utilmente nell'impresa.
(omissis)