Cassazione Civile, sez. III°, 16/10/07 n. 21619

Pres. DI NANNI Luigi Francesco - Est. TRAVAGLINO Giacomo - P.M. SGROI Carmelo
C.L.  c/  AZIENDA SANITARIA LOCALE N. (OMISSIS)

 

(Vai al commento di Marco Bona)
 

IN FATTO

Con atto di citazione dell'11 giugno 1984, P.A. convenne in giudizio, dinanzi al tribunale di Chiavari, l'USL (OMISSIS) della regione Liguria e il dott. C.L., esponendo:

- che il 28 novembre 1979, a seguito di una immersione in mare nei pressi di (OMISSIS) con apparecchio di respirazione, giunto alla profondità di 52 metri, era stato costretto ad una rapida emersione a causa di un guasto al dispositivo di riserva dell'aria;

- che, risalito in barca, aveva accusato un intenso dolore al centro della schiena, accompagnato da nausea e parestesia agli arti inferiori;

- che, fatto rientro al porto di (OMISSIS), era stato trasportato in ambulanza presso il locale ospedale;

- che, condotto in pronto soccorso, era stato assistito dal medico di guardia dott. C., al quale aveva manifestato il proprio timore circa le conseguenze di un'embolia gassosa;

- che il sanitario, dopo averlo fatto sdraiare, gli aveva somministrato ossigeno per circa 10 minuti, tranquillizzandolo e invitandolo a far ritorno a casa;

- che, pur avendo prospettato l'opportunità di un ricovero presso l'ospedale di Genova per un trattamento in camera iperbarica, era stato rassicurato dal C., che si era dichiarato esperto in materia;

- che, tornato a piedi al porto ed effettuate le operazioni di ormeggio della sua imbarcazione, aveva fatto ritorno a casa dove, intorno all'una della notte, si era ridestato in condizioni di tetraparesi;

- che, trasportato in ambulanza al pronto soccorso dell'ospedale di (OMISSIS) e visitato alle ore 1.25, era stato immediatamente trasferito all'ospedale (OMISSIS) e sottoposto (erano ormai le ore 3.05) a trattamento in camera iperbarica;

- che il 22 dicembre era stato dimesso da quel nosocomio con diagnosi di paraparesi da malattia da decompressione;

- che, nuovamente ricoverato presso lo stesso ospedale dal 7 gennaio al 16 febbraio 1980, era stato definitivamente dimesso, con prescrizione di trattamento terapeutico e riabilitativo a seguito di una invalidità quantificabile intorno al 60%.

Tanto premesso, l'attore, contestata una grave colpa professionale al C. - che, pur avendo diagnosticato una sospetta embolia gassosa, aveva omesso di avviarlo immediatamente al più vicino centro iperbarico, ciò che avrebbe consentito una cura della malattia tale da impedire i gravi esiti compromissivi della sua salute - ne chiese la condanna al risarcimento di tutti i danni subiti.

Il giudice di primo grado respinse la domanda, valorizzando la deposizione resa dalla teste T. (infermiera presente al momento del ricovero dell'attore in pronto soccorso, secondo la quale il P., quantunque insistentemente invitato dal medico a sottoporsi al ricovero in adeguata struttura ospedaliera, lo aveva rifiutato), e ritenendo che la decisione del C. di barrare, sul referto, la casella "si dimette", anzichè quella "rifiuta il ricovero" fosse stata in realtà consone alla vicenda, per avere il paziente rifiutato non il ricovero ma il trasferimento in altra struttura ospedaliera: avendo, per l'effetto, escluso ogni profilo di colpa in capo al sanitario, il giudice di primo grado non aveva preso in esame le risultanze delle due perizie d'ufficio quanto al profilo del nesso causale.

La corte di appello di Genova, investita dell'impugnazione del P., ne accolse il gravame, osservando, per quanto ancora rileva nel presente giudizio di legittimità:

- che il giudice di primo grado, nell'escludere la colpa del C. sulla base della deposizione della teste T., non aveva conseguentemente considerato in alcun modo la questione relativa al nesso causale;

- che la questione andava viceversa esaminata funditus, dovendosi in limine rilevare, nel comportamento del sanitario, gli estremi di un comportamento connotato da grave imperizia e imprudenza;

- che la valutazione dell'elemento soggettivo dell'illecito attribuito al medico risultava, tra l'altro, dalla perizia collegiale eseguita in grado di appello, ove era detto che "il comportamento del dott. C.... è da considerarsi francamente imprudente:

poichè l'estrema variabilità sintomatologia della MDD dovrebbe rientrare nel patrimonio delle comuni conoscenze di un medico di pronto soccorso, la remissione dei sintomi comparsi subito dopo l'emersione non poteva tranquillizzare nè esimere dalla messa in atto di provvedimenti tempestivi... la condotta da seguire sarebbe stata quella di mettersi in contatto con il più vicino centro di medicina iperbarica (Genova) e accordarsi per l'immediato invio del subacqueo a mezzo ambulanza... nell'ipotesi che questi avesse insistito per essere dimesso... sarebbe rimasto onere del medico di soddisfare la procedura di rifiuto del ricovero e di adempiere all'ulteriore dovere di informativa circa la natura dei sintomi premonitori dell'insorgenza di paresi";

- che, all'esito del raffronto tra le contrastanti (ma entrambe inattendibili, a giudizio della corte) dichiarazioni rese in sede di deposizione testimoniale dall'infermiera T. e dalla moglie del P. (secondo la quale, nonostante le sue insistenze per l'immediato avvio del marito in camera iperbarica, il sanitario ne aveva reiteratamente esclusa la necessità) e alla luce di quanto emerso dalle CTU, la colpa professionale del C. ben poteva dirsi provata sia sotto il profilo dell'omissione delle necessarie precauzioni imposte dal caso di specie (somministrazione di ossigeno soltanto al 30-40%, anzichè puro; mancato contatto telefonico immediato con il centro iperbarico di Genova; protrarsi del ricovero in pronto soccorso per circa un'ora; mancata prescrizione del pur necessario riposo assoluto; mancata refertazione delle dimissioni del paziente contro la volontà del medico);

- che la questione del nesso causale tra la condotta del sanitario e l'evento di danno lamentato dall'appellante, avendo ricevuto discordanti soluzioni dalle consulenze espletate in primo e secondo grado (il CTU nominato dal tribunale, difatti, in una prima consulenza, aveva sostenuto che l'intervallo di tempo tra la comparsa dei sintomi e l'inizio del trattamento in camera iperbarica era da ritenersi irrilevante, con conseguente esclusione di qualsivoglia nesso causale tra il comportamento del sanitario e la grave compromissione permanente delle condizioni fisiche del P.; in un secondo elaborato, redatto all'esito di una consulenza di parte, egli aveva modificato tali conclusioni ritenendo ragionevole la presunzione probabilistica - anche se non quantificabile in termini percentuali - che un più tempestivo intervento terapeutico avrebbe potuto in qualche maniera modificare il decorso della malattia; i consulenti nominati in secondo grado avevano a loro volta condiviso le conclusioni di questa seconda perizia, precisando - con il supporto di dati statistici da essi stessi definiti, peraltro, "disaggregati" - che il ritardo nel trattamento corrispondeva comunque ad una perdita di chance (senza che in concreto l'entità di tale perdita fosse nella specie quantificabile) andava risolto nel senso della sua esistenza, sub specie della predicabilità di un esito diverso nell'an e nel quantum della malattia in caso di un corretto trattamento sanitario (in concreto non eseguito);

- che, pertanto, la violazione da parte del medico delle regole tecniche da applicarsi nel caso di specie aveva sicuramente compromesso consistenti aspettative di guarigione o di esiti permanenti meno gravi per il danneggiato, anche se il risultato favorevole dell'appropriata terapia sarebbe stato possibile, ma non certo;

- che, in sede di quantificazione del danno, tali premesse imponevano l'individuazione di un coefficiente di riduzione del quantum risarcitorio, da fissarsi equitativamente nella misura del 50%.

Avverso tale sentenza, C.L. ha proposto ricorso per Cassazione, sostenuto da due motivi di gravame.

Si è costituita in questa sede, con atto definito "controricorso" (in realtà, avente piuttosto natura di ricorso incidentale adesivo alle censure svolte dal ricorrente principale), la ASL n. (OMISSIS) (già USL (OMISSIS) della regione (OMISSIS)), condannata in solido con l'odierno ricorrente al risarcimento dei danni così come liquidati dalla corte genovese.

Ha resistito con controricorso P.A..

Sono depositate agli atti memorie difensive di entrambi i controricorrenti.


IN DIRITTO

Il ricorso principale e il controricorso dell'azienda sanitaria sono infondati, e la sentenza di secondo grado va, pertanto, confermata, sia pur nei limiti e con le precisazioni in diritto che di qui a breve seguiranno.

Va in limine osservato che i motivi di censura contenuti nel controricorso ricalcano nella sostanza quelli esposti nel ricorso principale, e ne consentono, pertanto, un esame congiunto.

Con il primo motivo, si duole il ricorrente principale della violazione e falsa applicazione della norma di cui all'art. 2697 c.c. e dei principi che regolano l'attribuzione dell'onere probatorio; della carente, insufficiente e/o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia.

Nella esposizione del motivo, si censura la sentenza impugnata nella parte in cui, esclusa l'attendibilità di entrambi i testi escussi (l'infermiera e la moglie del P.), anzichè trarre da tale carenza probatoria, la reciproca elisione delle deposizioni, la conseguenza dell'assoluta mancanza di prova della colpa professionale del C., se ne sarebbe viceversa affermata erroneamente l'esistenza; e ancora, nella parte in cui non era stato attribuito il necessario rilievo a quella parte di CTU disposta in secondo grado, secondo la quale "l'indicazione di sottoporre a ricompressione in camera iperbarica subacquei reduci da un episodio di decompressione "anomala" ma asintomatici o non più sintomatici - come nella specie - è stata a lungo controversa e non è del tutto pacifica... all'epoca dei fatti non erano ancora state ufficialmente proposte le tabelle ricompressive in ossigeno cd. "conservative" per soggetti asintomatici... tuttavia non si può dire che vi aia accordo universale sulla loro effettiva utilità" (i passi della CTU sono puntualmente riportati in seno al motivo, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso).

Le censure non hanno pregio.

Con esse, nella sostanza, si chiede a questa Corte di procedere ad un nuovo esame di fatto delle risultanze processuali, onde pervenire alla conclusione (speculare rispetto a quella adottata dal giudice del merito) della assoluta impredicabilità di qualsivoglia elemento di colpevolezza in capo al ricorrente, sub specie della imprudenza e imperizia grave a lui contestata in sede di appello. Ma il motivo, sì come articolato, pur lamentando formalmente vizi tanto di violazione di legge quanto di difetto di motivazione, si risolve, in realtà, nella (non più ammissibile) richiesta di rivisitazione di fatti e circostanze ormai definitivamente accertati in sede di merito. Il ricorrente, difatti, lungi dal prospettare un vizio della sentenza gravata rilevante sotto il profilo di cui all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, nella parte in cui, ha ritenuto provato l'aspetto colposo del fatto ascritto al C., si volge in realtà ad invocare una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertate e ricostruite dalla corte di merito, muovendo così censure del tutto inammissibili, perchè la valutazione delle risultanze probatorie (non meno che il giudizio sull'attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri), così come la scelta, fra esse, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati in via esclusiva al giudice di merito il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e ipoteticamente verosimili), non incontra altro limite che quello (ampiamente osservato nella specie) di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare ogni e qual-siasi deduzione difensiva. E' principio di diritto ormai consolidato quello per cui l'art. 360 c.p.c., n. 5 non conferisce in alcun modo e sotto nessun aspetto alla Corte di Cassazione il potere di riesaminare il merito della causa, consentendo ad essa, di converso, il solo controllo - sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica - delle valutazioni compiute dal giudice d'appello, al quale soltanto, va ripetuto, spetta l'individuazione delle fonti del proprio convincimento, valutando le prove, controllandone l'attendibilità e la concludenza, scegliendo, fra esse, quelle funzionali alla dimostrazione dei fatti in discussione (eccezion fatta, beninteso, per i casi di prove cd. legali, tassativamente previste dal sottosistema ordinamentale civile). Il ricorrente, nella specie, pur denunciando, apparentemente, una deficiente motivazione della sentenza di secondo grado, inammissibilmente (perchè in contrasto con gli stessi limiti morfologici e funzionali del giudizio di legittimità) sollecita una nuova valutazione delle (ormai cristallizzate quoad effectum) risultanze fattuali del processo - segnatamente con riguardo alle risultanze degli elaborati peritali d'ufficio quanto ai ritenuti profili di colpa del C., nonchè alla decisiva circostanza del referto di dimissioni del paziente non seguito dalla annotazione del contrario avviso del sanitario, correttamente valorizzate dal giudice di merito - ad opera di questa Corte, onde trasformare surrettiziamente il giudizio di cassazione in un terzo grado di merito, nel quale ridiscutere analiticamente tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto l'attendibilità maggiore o minore di questa o di quella risultanza procedimentale, quanto ancora le opzioni espresse dal giudice di appello non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata, quasi che la fungibilità nella ricostruzione di un fatto fosse ancora legittimamente invocabile in seno al giudizio di Cassazione.

Con il secondo motivo, lamenta ancora il ricorrente la violazione e falsa applicazione degli artt. 40 e 41 c.p. e dei principi civilistici in materia di nesso causale; la carente, insufficiente e/o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia.

La sentenza del giudice di appello - si sostiene - sarebbe erronea altresì nella parte in cui si è ritenuto esistente un nesso di causalità tra l'ipotetica condotta colposa omissiva ascritta al C. e l'evento di danno, così disattendendo il principio di diritto enunciato, con particolare autorevolezza, dalle sezioni unite penali di questa stessa Corte regolatrice con la pronuncia 10.7.2002 (nota come sentenza F.) in tema di reati omissivi.

Nella specie -si soggiunge- occorreva accertare se il tempestivo inizio della terapia (dopo due ore e mezzo anzichè nove) avrebbe evitato o, almeno, attenuato le conseguenze lesive riportate dal P.; viceversa dalle stesse conclusioni dei CTU di primo e secondo grado, alla luce delle espressioni usate, non poteva che inferirsi l'inesistenza di un qualsiasi nesso causale tra l'ipotizzato ritardo del trattamento terapeutico e gli eventi lesivi, giusta le conclusioni predicate in punto di diritto, in subiecta materia, dalla citata sentenza a sezioni unite di questa Corte.

In conclusione, essendosi i consulenti espressi in termini meramente "possibilistici", senza percentualizzare la eventuale miglior riuscita del trattamento omesso, la corte di merito avrebbe dovuto trarre l'agevole conclusione della insussistenza del nesso causale tra l'ipotizzata condotta omissiva del sanitario e gli eventi lesivi e non anche "ridurre in via di equità il risarcimento del danno subito dal P., fra l'altro nella percentuale, del tutto immotivata e arbitraria, del 50%." Il motivo non merita accoglimento, ma il richiamo alla sentenza delle sezioni unite penali e le articolate argomentazioni in tema di nesso causale in esso svolte impongono a questa corte una approfondita disamina della relativa questione di diritto.

Il primo quesito che il motivo di ricorso pone al collegio è quello della applicabilità, o meno, in sede di giudizio civile, dei principi affermati dalle sezioni unite penali della Corte di legittimità con riferimento al reato omissivo c.d. improprio.

Impregiudicata, al momento, la soluzione della questione predetta, occorre preliminarmente sgombrare il campo da un equivoco nel quale lo stesso ricorrente incorre quando, testualmente, afferma che il dictum delle sezioni unite penali avrebbe risolto un contrasto tra due contrapposti orientamenti insorti in seno alle sezioni semplici della Corte medesima. in realtà, gli orientamenti espressi nel passato in subiecta materia dal giudice di legittimità in sede penale risultano essere stati tre: il primo, maggioritario e oggi disatteso dalle sezioni unite, che riconnetteva al concetto di nesso causale il criterio delle serie e apprezzabili possibilità di successo della condotta impeditiva omessa; il secondo, minoritario, fondato sul criterio della probabilità coincidente o prossima alla certezza; il terzo, infine, fatto proprio in sede di risoluzione di contrasto, dell'elevato grado di credenza razionale.

In particolare, le sezioni unite penali, nella sentenza F., evidenziano come lo schema condizionalistico disegnato dagli artt. 40 e 41 c.p. vada ad integrarsi con il criterio della sussunzione sotto leggi scientifiche, onde fornire garanzie di determinatezza alla fattispecie mercè la ricerca e l'approdo ad un indissolubile legame della causalità con i dati oggettivi che discendono dalle leggi scientifiche stesse. Disattesa, così, la ricostruzione della causalità in termini di "serie e apprezzabili possibilità di successo" (che viene definita "nozione debole della causalità giuridica"), dacchè una verifica siffatta verrebbe a sostituire all'oggettivo accertamento del nesso di causa un mero accertamento dell'aumento del rischio, trasformando i reati omissivi impropri in reati di pericolo o di mera condotta (e così violando i principi di legalità, tassatività e tipicità delle fattispecie criminose), e prese le distanze dall'orientamento della "probabilità prossima alla certezza" (perchè una spiegazione causale di tipo deterministico e non induttivo secondo criteri di utopistica certezza assoluta finirebbe con il frustrare gli scopi preventivo-repressivi del processo penale), le ss.uu. adottano, nella sostanza, l'orientamento intermedio dell'elevato grado di credibilità razionale dell'accertamento giudiziale; così tracciando definitivamente il confine tra probabilità statistica e probabilità logica: ("non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma o meno dell'ipotesi accusatoria sull'esistenza del nesso causale, poichè il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto sulla base delle circostanze del fatto e dell'evidenza probatoria, disponibile") Premessa la indiscutibile condivisibilità (e applicabilità tout court) del generalissimo principio che vuole preservato, in capo al giudice, quel margine irrinunciabile quanto inevitabile di verifica "logica" del rapporto di causalità al di fuori dei coefficienti meramente statistici e di altre valutazioni provenienti dagli accertamenti tecnico-scientifici, il primo interrogativo che il ricorso pone è quello della applicabilità del principio di causa penalmente rilevante così ricostruito dalle sezioni unite "anche al distinto settore della responsabilità civile, a differenza di quanto avviene per il diritto anglosassone e nordamericano" (come testualmente mostrano di ritenere i giudici di quel collegio).

Prescindendo dai possibili rilievi critici (non rilevanti in questa sede) da muoversi a tale ultima affermazione (come osserva un'attenta dottrina, difatti, il dato comparatistico porta piuttosto alla conclusione per cui anche nei sistemi di common law la giurisprudenza civile sia venuta a muoversi su piani diversi rispetto alle corti penali, avendo sviluppato maggiormente e in modo decisamente più incisivo teorie quali quella della causalità adeguata e del rischio evitabile), è lo stesso principio della coincidenza tra concetto di causalità in sede penale e di causalità in sede civile - sostenuta, in questa sede, con particolare vis argomentativa dal ricorrente - che non può dirsi condivisibile.

Come già da tempo una attenta dottrina ha ritenuto di sottolineare, invero, le esigenze decostruttive e ricostruttive dell'istituto del nesso di causa sottese al sottosistema penalistico non sono in alcun modo riprodotte (nè riproducibili) nella diversa e più ampia dimensione dell'illecito aquiliano, tanto sotto il profilo morfologico della fattispecie, quanto sotto l'aspetto funzionale.

Sotto il profilo morfologico, difatti, va considerato, da un canto, come il baricentro della disciplina penale con riferimento al profilo causale del fatto sia sempre e comunque rivolto verso l'autore del reato/soggetto responsabile, orbitando, viceversa, l'illecito civile (quantomeno a far data dagli anni '60) intorno alla figura del danneggiato; dall'altro, come, alla peculiare tipicità del fatto reato, faccia da speculare contralto il sistema aperto ed atipico dell'illecito civile (non è questa la sede per indagare funditus sul concetto di atipicità, se essa, cioè, sia riferita al fatto inteso come accadimento storico ovvero come evento di danno - e giammai, comunque, alle conseguenze dannose del fatto -, evento di danno che, a far data dagli anni '70, dottrina e giurisprudenza di questa stessa corte hanno più correttamente evidenziato come vero baricentro dell'illecito per vulnerare alfine la limitazione dell'art. 2043 c.c. ai soli diritti soggettivi assoluti).

Sotto il profilo funzionale, in sintonia con la più attenta dottrina, va considerato:

- da un canto, che la valutazione del nesso di causa, fondata esclusivamente sul semplice accertamento di un aumento (o di una speculare, mancata diminuzione) del rischio in conseguenza della condotta omessa, è criterio ermeneutico che inquieta l'interprete penale, poichè realmente trasforma surrettiziamente la fattispecie del reato omissivo improprio da vicenda di danno in reato di pericolo (o di mera condotta), mentre la stessa preoccupazione non pare esportabile in sede civile, dove l'accento è posto, ormai, sul concetto di "danno ingiusto";

- dall'altro lato, come ancora osservato in dottrina, che conseguenza della atipicità dell'illecito è la sua interazione con altre discipline (economiche e sociali, e non necessariamente solo scientifiche, funzionali, queste, in sede penale, a svolgere il compito di "legge di copertura"), onde pervenire al risultato finale di costruire una credibile teoria della prevenzione efficiente del costo sociale dei danni, allocando la responsabilità (anche) secondo criteri elastici che si strutturano (ormai da almeno un trentennio) seguendo una sempre più notevole ed accurata individuazione (specie in campo medico - professionale) delle tecniche giuridiche attraverso le quali pervenire ad una più articolata e complessa distribuzione dei rischi comunque e sempre collegati a tale attività.

Tale evoluzione segue, non a caso, la parallela evoluzione delle strutture e della natura stessa della responsabilità civile che, immaginata, all'epoca della codificazione del 1942, in una dimensione sinergica tra una vera e propria Generalklausel (l'art. 2043 cit.) e le successive norme esemplificative, secondo una struttura aperta dell'illecito, ma pur sempre secondo funzionalità di tutela dei (soli) diritti soggettivi assoluti, viene via via "ripensata" come storia (anche e soprattutto intellettuale) sempre più raffinata, come un problema di diritto vivente da rielaborare incessantemente secondo modelli dettati dalle complesse istanze sociali, in funzione della ricerca di criteri sempre più articolati di attribuzione di un determinato "costo" sociale, da allocarsi di volta in volta presso il danneggiato ovvero da trasferire ad altri soggetti (sempre più spesso, non necessariamente i diretti danneggianti).

Il sottosistema della responsabilità civile diventa, così, un satellite sperimentale di ingegneria sociale (che si allontana definitivamente dall'orbita dello speculare sottosistema penalistico), demandata, quanto a genesi e funzioni, quasi interamente agli interpreti, il cui compito diviene sempre più lo studio dei criteri di traslazione del danno. In questo quadro, il sottosistema della responsabilità medica diviene, in questo quadro, il topos "disfunzionale" al suo stesso interno rispetto agli schemi classici della responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, dell'obbligazione di mezzi e di risultato, dove un tempo "pendolare" segna diacronicamente tappe non lineari e non armoniche, per produrre nuovi, repentini e talvolta sorprendenti legami di senso e di struttura tra fatti concreti - l'intervento del medico - e moduli giuridici - la sua responsabilità - un tempo tra sè alieni, che officia la mutazione genetica della figura del professionista, un tempo genius loci ottocentesco, oggi ambita preda risarcitoria).

La disamina che precede conduce, dunque, ad una prima conclusione, che impone il rigetto, in parte qua, del motivo di ricorso: il modello di causalità sì come disegnato funditus dalle sezioni unite penali mal si attaglia a fungere da criterio valido anche in sede di accertamento della responsabilità civile da illecito omissivo del sanitario.

Resta l'interrogativo sui criteri idonei a tracciare le linee-guida del corretto accertamento del nesso di causa in sede di illecito aquiliano da condotta omissiva del sanitario.

Da tempo la dottrina evidenzia come, in sede civile, l'elaborazione di criteri di individuazione e valutazione della relazione causale tra il fatto e l'evento (e/o tra l'evento e il danno) ha sovente condotto ad approdi ermeneutici non certo caratterizzati da coerenza e univocità.

Questo collegio non può non rilevare, in limine, come tale inquietante disomogeneità di criteri e di pensiero si rivelerà come costante proprio di questa stessa giurisprudenza di legittimità, sovente chiamata a risolvere, in materie sicuramente delicate, come l'infortunistica o la responsabilità professionale, singole quanto complesse vicende, umane e processuali, le cui peculiarità specifiche mal si attagliano ad unitarie e articolate generalizzazioni teoriche.

Di qui, il contrasto, tra decisioni recenti di questa Corte tuttora non univoche su temi di ampio respiro, che potrebbero non a torto essere definite "macroaree di conflitto", quali:
1) il concetto di (e le differenze tra) causalità materiale e causalità giuridica;
2) il criterio di collegamento da adottare (alto grado di probabilità, probabilità, seria ed apprezzabile possibilità, semplice possibilità - con riguardo a quella peculiare fattispecie costituita dalla cd. "perdita di chance" -) tra la condotta e l'evento di danno;
3) la collocazione del fortuito nell'area della colpa ovvero nel territorio del nesso causale;
4) la commistione, ovvero la rigida separazione logica e cronologica, tra gli elementi strutturali dell'illecito: la colpa, il nesso causale.

Vero è che la natura stessa della fattispecie del nesso di causa si presenta, come già questa Corte ha avuto modo di affermare (Cass. 7997/2005) di per sè come un vero e proprio ossimoro fin dal momento in cui se ne predicano semplici quanto insopprimibili esigenze gnoseologiche. L'incipit di ogni indagine in tema di nesso causale, difatti, ne propone ad ogni passo "l'accertamento", ogni scritto sul tema della causalità anela "all'accertamento del nesso causale", muovendo così, del tutto inconsapevolmente, su di un terreno già assai scivoloso, se lo stesso sintagma "accertamento del nesso causale" cela una prima, latente insidia lessicale, dacchè ogni "accertamento" postula e tende ad una operazione logico-deduttiva o logico-induttiva che conduca ad una conclusione, appunto, "certa"; mentre un'indagine, per quanto rigorosa, funzionale a predicarne l'esistenza sul piano del diritto, si arresta, sovente, quantomeno in sede civile, sulle soglie del giudizio probabilistico (sia pur connotato da un diverso livello di intensità, dalla "quasi certezza" alla "seria ed apprezzabile possibilità").

La questione del nesso causale in seno al sottosistema della responsabilità civile è, dunque, ancora ben lungi dal potersi ritenere avviata a soddisfacente soluzione.

Una compiuta indagine sull'aspetto genetico dell'istituto del nesso causale conduce ad una prima, significativa rilevazione ermeneutica, quella per cui nulla di realmente definito parrebbe emergere dalle fonti legislative, penali e civili, sul tema della causalità in sè considerata: l'art. 40 c.p., rubricato "rapporto di causalità", stabilisce che "nessuno può essere punito... se l'evento da cui dipende l'esistenza del reato non è conseguenza della sua azione od omissione", fissando il solo principio di equivalenza fra il non fare ed il cagionare, e discorrendo genericamente di "conseguenze" al momento di individuare caratteri e peculiarità del nesso tra condotta ed evento; il successivo art. 41 c.p. si occupa del concorso di cause, per stabilire poi, in modo apparentemente superfluo, il principio "dell'interruzione del nesso causale" conseguente all'intervento di quella causa "sufficiente da sola a determinare l'evento". Gli artt. 1227 e 2043 c.c. strutturano, rispettivamente, il rapporto tra fatto - doloso o colposo - ed evento - dannoso - in termini di "cagionare", senza ulteriori specificazioni, mentre l'art. 1223 c.c. si riferisce, come sovente rilevato in dottrina e da questa stessa giurisprudenza, al nesso di condizionamento che lega non la condotta all'evento, ma l'evento/inadempimento ai danni/conseguenza, dei quali predica, a fini risarcitori, il necessario carattere di "conseguenza immediata e diretta" dell'inadempimento o del ritardo (in dottrina, si è affermato che l'art. 1223 c.c., e ss. dettano regole attraverso le quali il legislatore, presupponendo già risolto il problema dell'imputazione - e quindi già accertata l'esistenza della responsabilità - si preoccupa soltanto di determinare l'estensione della stessa, risolvendo, così, un problema che non è più di causalità, ma di ammontare del danno risarcibile.

Dal combinato disposto degli artt. 40 e 41 c.p. deriverebbe, secondo l'orientamento prevalente (ma autorevolmente contestato) in seno alla dottrina penalistica, un procedimento bifasico funzionale all'accertamento del nesso causale: dapprima, mediante la teoria della conditio sine qua non, si procede alla individuazione di tutte le cause di un determinato evento; successivamente, procedendo lungo la strada che conduce alla ipotetica interruzione del nesso di causa, si provvede a circoscrivere ad alcune soltanto, tra le molteplici cause condizionanti di ciascun evento, la possibile eziogenesi dello stesso.

Proprio questa seconda fase dell'accertamento è stata e resta oggetto di un vivace dibattito, che si protrae sin dall'800: la dottrina penalistica, nel tempo, elaborerà un numero imprecisato di teorie sull'argomento: conditio sine qua non; causalità adeguata e/o umana; scopo della norma violata; signoria dell'uomo sul fatto; aumento del rischio.

La giurisprudenza civile, a sua volta, pur non senza oscillazioni, si attesterà, in prevalenza, sulla linea di confine ove tutti gli antecedenti causali, in mancanza dei quali non si sarebbe verificato l'evento lesivo, assumono rilievo eziologico, abbiano essi agito in via diretta o soltanto mediata, salvo il temperamento normativo della "causa prossima da sola sufficiente a produrre l'evento".

Nel sistema della responsabilità civile, la causalità assolve, comunque, alla duplice finalità di fungere da criterio di imputazione del fatto illecito e di regola operativa per il successivo accertamento dell'entità delle conseguenze pregiudizievoli del fatto che si traducono in danno risarcibile.

Essa va pertanto scomposta (secondo l'opinione largamente prevalente) nelle due fasi corrispondenti al giudizio sull'illecito (nesso condotta/evento) e al giudizio sul danno da risarcire (nesso evento/danno).

Ed è opinione altrettanto prevalente, in dottrina come in giurisprudenza, quella secondo la quale, nel macrosistema civilistico, l'unico profilo dedicato espressamente dal legislatore del '42 al nesso eziologico sia quello ricavabile dall'art. 2043 c.c. dove l'imputazione del "fatto doloso o colposo" è addebitata a chi "cagiona" ad altri un danno ingiusto.

Un'analoga disposizione sul danno ingiusto, e non sul danno da risarcire, non è richiesta in tema di responsabilità contrattuale o da inadempimento, perchè in tal caso il soggetto responsabile è, di regola, il contraente o il debitore rimasto inadempiente. Sicchè questa stessa giurisprudenza di legittimità, partendo dall'ovvio presupposto di non dover identificare il soggetto responsabile del fatto dannoso, ha individuato una serie di soluzioni "pratiche", caso per caso, senza dover optare, in tema di responsabilità ex contractu, per una precisa scelta di campo onde coniugare il "risarcimento del danno", cui è dedicato l'art. 1223 c.c., con il rapporto di causalità.

Il sistema operazionale di valutazione e determinazione dei danni (anche extracontrattuali, in virtù del rinvio operato dall'art. 2056 c.c.) appare, nel suo complesso, composto, comunque, dagli artt. 1223, 1226 e 1227 c.c. (nonchè, limitatamente alla sola responsabilità contrattuale, dalla peculiare disposizione dell'art. 1225 c.c.: nel plesso costituito da tali norme trova altresì cittadinanza il principio ricavabile dall'art. 1221 c.c. - effetti della mora debendi sul rischio da impossibilità sopravvenuta della prestazione -, che si fonda su di una inferenza di tipo ipotetico/differenziale tra la situazione quale sarebbe stata senza il verificarsi del fatto dannoso e quella effettivamente realizzatasi, id est il cd. giudizio "controfattuale"). Qui il giudizio ipotetico assume il valore di criterio idoneo a valutare compiutamente l'ammontare del danno patrimoniale, criterio dunque di causalità ipotetica, necessario onde non tramutare in (indebito) arricchimento il (debito) risarcimento spettante al danneggiato.

Le disposizioni del capo 3^ del libro delle obbligazioni in tema di inadempimento hanno in comune, dunque, la funzione di adeguare il risarcimento al danno effettivamente subito dal danneggiato e di allocare presso il responsabile le conseguenze delle ripercussioni patrimoniali sfavorevoli che il danneggiato non può dover subire.

Sul piano della operatività concreta, peraltro, le norme hanno una distinta funzione e la disposizione dell'art. 1223 c.c. si pone, rispetto alle altre, in termini di vero e proprio ius singultire, poichè con essa l'ordinamento limita il risarcimento alla perdita subita ed al mancato guadagno (che conseguono tipicamente, in base all'id quod plerumque accidit, al fatto dannoso del tipo di quello verificatosi) in quanto conseguenze immediate e dirette dell'inadempimento o di altro fatto dannoso, così allocando presso il danneggiante non una qualsiasi ripercussione patrimoniale, ma ciò che costituisce il danno vero e proprio (id est, il "danno ingiusto"). E a ciò si giunge attraverso un giudizio ipotetico/differenziale tra condizione (dannosa) attuale e condizione del danneggiato quale sarebbe risultata in assenza del fatto dannoso.

Per quanto concerne i rapporti che intercorrono tra il comportamento antigiuridico del soggetto agente ed il fatto (o evento), e tra quest'ultimo ed il danno propriamente detto, la loro identificazione muta a seconda che il danno sia ritenuto un elemento qualificante il "fatto illecito" (e dunque interno alla stessa fattispecie sul piano morfologico) ovvero soltanto un effetto dello stesso (e per ciò stesso, al di fuori di essa, attenendo esso al piano effettuale).

Va allora ribadito che, secondo l'opinione assolutamente prevalente, occorre distinguere nettamente: da un lato sta il nesso, che deve sussistere tra comportamento ed evento perchè possa configurarsi, a monte, una responsabilità "strutturale" (Haftungsbegrundende Kausalitat); dall'altro, sta il nesso che, collegando l'evento al danno, consente l'individuazione delle singole conseguenze dannose, con la precipua funzione di delimitare, a valle, i confini di una (già accertata) responsabilità risarcitoria (Haftungsausfullende Kausalitat).

Un paradigma normativo della distinzione, secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalente, è ravvisabile, rispettivamente, nel primo e nell'art. 1227 c.c., comma 2. La prima, partendo della disposizione (se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate), lascia chiaramente intendere che il legislatore ha preso in esame l'ipotesi in cui il fatto del creditore/danneggiato interviene a spezzare il legame, a monte, tra comportamento del soggetto agente ed evento, escludendo così la totale imputabilità del fatto all'agente, e limitando di conseguenza la responsabilità di quest'ultimo. Il comma 2, al contrario (il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza), chiarisce in che modo il fatto del creditore possa influire, a valle, sul diverso rapporto evento-danno, e cioè rendendo non più risarcibili talune delle conseguenze immediate e dirette dell'evento, nonostante sia già stata accertata la piena responsabilità del danneggiante, e sia già stato determinato il risarcimento attraverso il filtro dell'art. 1223 c.c..

Così, da una lettura sistematica delle norme del codice civile vigente dettate in tema di risarcimento del danno, sembra emergere un plesso operativo razionale e coerente, articolato secondo un criterio di consequenzialità in virtù del quale il legislatore opera una netta separazione tra il momento (strutturale) dell'accertamento della responsabilità e quello (funzionale) del contenuto della stessa. Ma, mentre nella responsabilità contrattuale, l'art. 1218 c.c. è volto unicamente a sanzionare la condotta del debitore (inadempiente o in ritardo), la cui identificazione costituisce un prius logico già esistente (che si compie proprio attraverso il collegamento necessario con l'obbligazione rimasta inadempiuta), nel territorio della responsabilità aquiliana l'inesistenza di un titolo, e dunque di un rapporto già in atto tra danneggiante e danneggiato, giustifica la più articolata disciplina contenuta in quella serie di norme inserite nella prima parte del titolo 9^ del libro quarto (artt. 2043-2054 c.c.), che postula il previo accertamento del soggetto responsabile.

Risolto il problema della imputazione del fatto, e dunque della identificazione del soggetto responsabile, le norme in tema di responsabilità delimitano l'ambito della risarcibilità delle singole conseguenze dannose attraverso una disciplina parzialmente difforme nelle due diverse ipotesi di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, per la limitazione, contenuta nella norma di rinvio dell'art. 2056 c.c., in base alla quale viene esclusa l'applicabilità dell'art. 1225 c.c. (prevedibilità del danno) nei casi di obbligazioni risarcitorie derivanti da fatto illecito.

Quello che ancora giova sottolineare, nella dimensione dell'illecito contrattuale, è la relazione differenziale tra il disposto dell'art. 1223 c.c. in tema di risarcibilità di danni "conseguenze dirette e immediate" dell'inadempimento, e quello di cui al successivo art. 1225 c.c. che limita tale risarcimento, in caso di inadempimento colposo, ai soli "danni prevedibili".

Pur vero che la prima delle due norme regola il nesso di causa non tra condotta ed evento, ma tra l'evento (l'inadempimento) e il danno risarcibile (e, come si è avuto modo di sottolineare in precedenza, secondo una attenta dottrina non sarebbero neppure funzionali all'accertamento del nesso di causalità condotta/evento di danno), questo Collegio ritiene che possa non illegittimamente ipotizzarsi come il concetto di prevedibilità resti comunque estraneo, in parte qua, alla struttura oggettiva dell'illecito (perchè, in caso di inadempimento doloso, il debitore risarcirà sì i danni imprevedibili, ma che siano pur sempre conseguenza diretta ed immediata dell'inadempimento, di talchè la "diretta immediatezza" della realizzazione del danno non è destinata ad incidere sulla sua prevedibilità).

Di talchè, come correttamente mostra di ritenere anche il giudice del merito nella sentenza impugnata, il nesso di causalità è elemento strutturale dell'illecito, che corre - su di un piano strettamente oggettivo - tra un comportamento (dell'autore del fatto) astrattamente considerato (e non ancora qualificabile come generatore di un damnum iniuria datum), e un evento (dannoso).

Nell'individuazione di tale relazione primaria tra condotta ed evento si prescinde in prima istanza da ogni valutazione di prevedibilità, tanto soggettiva quanto "oggettivata", da parte dell'autore del fatto, essendo il concetto di prevedibilità/previsione insito nella fattispecie della colpa (elemento qualificativo del momento soggettivo dell'illecito, momento di analisi collocato in un ideale posterius rispetto alla ricostruzione della fattispecie). Solo il positivo accertamento del nesso di causalità materiale così rettamente inteso consente, allora, la traslazione, logicamente e cronologicamente conseguente sul piano dimostrativo, verso la dimensione dell'illecito costituito dal suo elemento soggettivo, e cioè verso l'analisi della sussistenza o meno della colpa dell'agente (o, se del caso, del dolo), co-elemento di fattispecie la cui impredicabilità nella singola vicenda, pur in presenza di un nesso causale accertato, ben potrebbe escludere l'esistenza dell'illecito secondo criteri (storicamente "elastici") della prevedibilità ed evitabilità del fatto. Criteri questi che restano iscritti nell'orbita dell'elemento soggettivo del fatto dannoso e postulano il positivo oggettivo accertamento del preesistente nesso causale, elemento strutturale del torto al quale non è consentito di collegare alcuna inferenza fondata sulla dicotomia colpevolezza/incolpevolezza, attenendo tale aspetto al successivo momento di valutazione della colpa.

Se, in altri termini, in tema di responsabilità medica, il comportamento del sanitario è astrattamente configurabile in termini di gravissima negligenza, ma il paziente muore (illico et immediate, e prima che la negligenza possa spiegare i suoi effetti causali sull'evoluzione del male) per altra patologia, del tutto (o anche solo "probabilmente") indipendente dal comportamento del sanitario stesso, l'indagine sulla colpevolezza di questi è preclusa dalla interruzione del nesso causale tra il suo comportamento (omissivo o erroneamente commissivo) e l'evento.

La relazione che lega nesso causale e colpa è, dunque, la stessa che collega la probabilità alla prevedibilità, concetti afferenti dimensioni diverse di valutazione e di giudizio, se si consideri che anche ciò che è Improbabile ben può essere prevedibile.

Deve pertanto concludersi sul tema del nesso causale, che, in sede civile, esso è destinato inevitabilmente a risolversi entro i (più pragmatici) confini di una dimensione "storica", o, se si vuole, di politica del diritto, che, come si è da più parti osservato, di volta in volta individuerà i termini dell'astratta riconducibilità delle conseguenze dannose delle proprie azioni in capo all'agente, secondo un principio guida che potrebbe essere formulato, all'incirca, in termini di rispondenza, da parte dell'autore del fatto illecito, delle conseguenze che "normalmente" discendono dal suo atto, a meno che non sia intervenuto un nuovo fatto rispetto al quale egli non ha il dovere o la possibilità di agire (la cd. teoria della regolarità causale e del novus actus interveniens).

In questo modo, il nesso causale diviene la misura della relazione probabilistica concreta (e svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra comportamento e fatto dannoso (quel comportamento e quel fatto dannoso) da ricostruirsi anche sulla base dello scopo della norma violata, mentre tutto ciò che attiene alla sfera dei doveri di avvedutezza comportamentale (o, se si vuole, di previsione e prevenzione, attesa la funzione - anche - preventiva della responsabilità civile, che si estende sino alla previsione delle conseguenze a loro volta normalmente ipotizzabili in mancanza di tale avvedutezza) andrà più propriamente ad iscriversi entro l'orbita soggettiva (la colpevolezza) dell'illecito.

Non è illegittimo immaginare, allora, una "scala discendente", così strutturata:

1) in una diversa dimensione di analisi sovrastrutturale del (medesimo) fatto, la causalità civile "ordinaria", attestata sul versante della probabilità relativa (o "variabile"), caratterizzata, specie in ipotesi di reato commissivo, dall'accedere ad una soglia meno elevata di probabilità rispetto a quella penale, secondo modalità semantiche che, specie in sede di perizia medico-legale, possono assumere molteplici forme espressive ("serie ed apprezzabili possibilità", "ragionevole probabilità" ecc.), senza che questo debba, peraltro, vincolare il giudice ad una formula peritale, senza che egli perda la sua funzione di operare una selezione di scelte giuridicamente opportune in un dato momento storico: senza trasformare il processo civile (e la verifica processuale in ordine all'esistenza del nesso di causa) in una questione di verifica (solo) scientifica demandabile tout court al consulente tecnico: la causalità civile, in definitiva, obbedisce alla logica del "più probabile che non";

2) in una diversa dimensione, sempre nell'orbita del sottosistema civilistico, la causalità da perdita di chance, attestata tout court sul versante della mera possibilità di conseguimento di un diverso risultato terapeutico, da intendersi, rettamente, non come mancato conseguimento di un risultato soltanto possibile, bensì come sacrificio della possibilità di conseguirlo, inteso tale aspettativa (la guarigione da parte del paziente) come "bene", come diritto attuale, autonomo e diverso rispetto a quello alla salute.

Quasi certezza (ovvero altro grado di credibilità razionale), probabilità relativa e possibilità sono, dunque, in conclusione, le tre categorie concettuali che, oggi, presiedono all'indagine sul nesso causale nei vari rami dell'ordinamento.

Vere le premesse metodologiche che precedono, ben s'intende come la sentenza impugnata non meriti censure, anche se la motivazione adottata dai giudici genovesi necessiti di correzioni in parte qua.

La corte ligure ha ritenuto, nella sostanza, di fondare il proprio convincimento in ordine alla concreta predicabilità, nel caso di specie, della sussistenza del nesso di causa tra la condotta omissiva del sanitario e l'evento lesivo lamentato dal P. sia sulla seconda consulenza Ce., ove si discorre di ragionevole probabilità (ancorchè percentualmente non quantificabile) che un più tempestivo intervento terapeutico avrebbe potuto modificare il decorso della MDD presentata dal paziente (folio 19 della sentenza), sia sulla consulenza collegiale espletata in grado appello (che, premessa l'esistenza di risultati incoraggianti per terapie ricompressive effettuate entro i primi 30 minuti, sottolinea peraltro la disomogeneità della casistica in materia, specificando ulteriormente l'impossibilità di percentualizzare a priori la probabilità di completa guarigione o di esiti meno gravi in caso di trattamento effettuato entro 2-3 ore rispetto a quello concretamente avvenuto, dopo 9 ore, che "presenterebbe comunque un più basso grado di probabilità").

Al di là della terminologia usata (al folio 21 della sentenza si parla di possibilità e non di certezza del risultato favorevole dell'appropriata terapia), il giudice del merito mostra chiaramente di ritenere (e l'apprezzamento non è censurabile in questa sede, dacchè sorretta da ampia e congrua motivazione) "più probabile che non" l'esistenza del nesso di causa tra il comportamento omissivo del sanitario e le lesioni subite dal P., dovendosi a tale proposito espungere dalla parte motiva della sentenza l'espressione (contenuta al folio 21) relativa alla compromissione di aspettative di guarigione, poichè, in tale passaggio, il giudice di merito mostra chiaramente di confondere il danno da lesione alla salute da quello da perdita di chance.

Non è compito di questo collegio affrontare il tema del criterio risarcitorio adottato in sede di merito, non avendo, in proposito, svolto censure nè il ricorrente, nè il "controricorrente" adesivo (al di là di una generica quanto inammissibile doglianza, non motivata sotto alcun profilo), e non avendo, di converso, proposto alcuna impugnazione incidentale il danneggiato P..

Il ricorso è pertanto rigettato.

Equi motivi suggeriscono l'integrale compensazione delle spese del presente giudizio.


P.Q.M.

La corte rigetta il ricorso. Spese del giudizio di cassazione interamente compensate tra le parti.