La Corte di Cassazione ha emanato una sentenza che è parsa suscitare notevole interesse per la portata che avrà sulla annosa questione del riconoscimento giuridico della c.d. "famiglia di fatto" derivante dalla convivenza " more uxorio" (v. Cass. Pen. Sez. IV sentenza n. 33305/02). La Suprema Corte, secondo i primi commenti, con la sentenza emanata "prende finalmente atto della pluralità delle relazioni familiari che esistono nel nostro Paese,tutte meritevoli di pari tutela (atteso che) sempre più persone decidono di costruire un rapporto affettivo e di reciproca solidarietà non utilizzando o non potendo utilizzare l'istituto matrimoniale" (da Il Messaggero,S. G., del 8/10/2002). I Giudici hanno, infatti, stabilito che sono meritevoli di tutela non solo i membri del nucleo familiare, ma addirittura gli amici che vivono insieme, i conviventi gay e tutte quelle persone la cui permanenza sotto lo stesso tetto "sia dotata di un minimo di stabilità,tale da non farla definire episodica,ma idoneo e ragionevole presupposto per una attesa di apporto economico futuro e costante". La sentenza in commento trae origine, peraltro, dal riconoscimento del risarcimento dei danni per le lesioni subite da un giovane che,tuttavia, si era opposto alla richiesta avanzata dai propri genitori atteso che la "scelta naturale di coabitare con i propri congiunti è necessariamente destinata a non continuare nel tempo e quindi non è suscettibile di assumere i caratteri d diritto assoluto". Sul punto la Cassazione ha quindi sancito in maniera lapidaria che la coabitazione "può ormai considerarsi ad un tempo stabile o aleatoria come qualunque altra scelta operata ad altro titolo poiché da tempo è venuto meno anche il carattere di stabilità del vincolo matrimoniale". In conseguenza la Suprema Corte ha riconosciuto il diritto a costituirsi parte civile non solo ai genitori della persona offesa, purché conviventi, ma ha esteso tale diritto anche a tutte le forme di convivenza purché dotate di un minimo di stabilità con ciò ribadendo il contenuto di una precedenza sentenza risalente al 7 Luglio 1992 laddove aveva sancito che "l'aggressione ad opera di terzi legittima il convivente a costituirsi parte civile". In base al provvedimento, la legittimazione al risarcimento deriverebbe dalla lesione di qualsiasi convivenza purché dotata di un minimo di stabilità e non episodica ma "idoneo e ragionevole presupposto per un apporto economico futuro e costante". Indubbiamente tale sentenza potrebbe apparire ad alcuni del tutto innovativa rispetto alle precedenti decisioni emanate dalla stessa Corte sulla stessa materia sino al 1992, poiché sancisce il principio che la anche la mera convivenza può costituire titolo per il risarcimento del danno da illecito penale. Tuttavia la Corte era già intervenuta di recente sullo stesso tema riconoscendo all'affidatario del minore, vittima del reato, la legittimazione attiva a costituirsi parte civile nel processo penale atteso che con la sentenza n. 35121 del 27.9.2001 la Cassazione, sez. IV penale, aveva riconosciuto piena legittimazione in capo agli affidatari familiari di un minore, deceduto per fatto illecito di un terzo, a costituirsi parte civile nel processo penale a carico dell'autore del fatto delittuoso. La Corte, precisando nella motivazione quali siano i presupposti per il riconoscimento di tale diritto, aveva evidenziato l'importanza di "[...] una convivenza, tra adulto e minore, duratura, ininterrotta negli anni e caratterizzata dalla costante e premurosa assistenza dell'adulto nei confronti del minore[...]". Tale sentenza si collocava,quindi,nel solco dell'orientamento giurisprudenziale (minoritario) teso a riconoscere rilevanza giuridica alla famiglia "di fatto", ovvero all'unione tra due conviventi, che si esplichi "[...] in una comunanza di vita e di interessi e nella reciproca assistenza morale e materiale". La Corte di Cassazione aveva dunque accolto il ricorso proposto dagli affidatari di un minore, vittima di un incidente stradale, avvero la sentenza della Corte d'Appello che aveva escluso la loro legitimatio ad causam. Secondo il Giudice di merito, infatti, gli affidatari non potevano vantare alcun diritto al risarcimento del danno patrimoniale e/o morale derivante dalla morte del minore stante il vincolo meramente affettivo che unisce l'affidatario e il minore ed il carattere di temporaneità dell'istituto dell'affidamento, che, a sua volta, è finalizzato al reinserimento del minore nella famiglia di origine. La Cassazione, con una inversione di tendenza, aveva invece ritenuto che -in presenza di un rapporto duraturo, ininterrotto e caratterizzato da una costante e premurosa assistenza dell'adulto nei confronti del minore, inserito nella famiglia di quest'ultimo sin dalla tenerissima età- debba essere riconosciuto al rapporto stesso una valenza non solo affettiva, ma anche giuridica. Secondo la Corte appare del tutto ragionevole ritenere che dalla morte del minore derivi agli affidatari una sofferenza e un turbamento tali da legittimarli a chiedere il risarcimento delle conseguenze dannose. In caso contrario,non troverebbe giustificazione il riconoscimento giuridico, ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità, della convivenza more uxorio, caratterizzata da stabilità, natura affettiva e para-familiare Va pure sottolineato come, in una tale ottica, anche l'ultima decisione emessa dalla Cassazione finisca con lo stravolgere l'orientamento della Corte Costituzionale, intervenuta anch'essa più volte sul tema nel corso degli anni e che ha sempre manifestato un orientamento contrario alla legalizzazione della c.d. convivenza more uxorio, a parte rare eccezioni. La Corte Costituzionale ha, infatti, più volte rigettato le censure di costituzionalità mosse dai Giudici a varie disposizioni ed incentrate sulla disparità di trattamento tra convivenza "more uxorio" e vincolo coniugale osservando che la convivenza "more uxorio" è diversa dal vincolo coniugale ed a questo non assimilabile, mancando tale rapporto dei caratteri di stabilità e certezza propri del vincolo coniugale, poiché la convivenza risulta basata unicamente sull'affectio quotidiana, liberamente ed in ogni istante revocabile" (1). In particolare la Corte,chiamata a pronunciarsi su di un tema ricorrente costituito dalle pensioni di reversibilità, ha più volte chiarito come la mancata inclusione del convivente more uxorio tra i soggetti beneficiari del trattamento pensionistico trovi la sua non irragionevole giustificazione nella circostanza che tale trattamento si collega geneticamente ad un preesistente rapporto giuridico che nel caso di specie mancherebbe, con la conseguenza che la diversità delle situazioni poste a raffronto rende non illegittima una differenziata disciplina delle stesse (v.sentenza n.8 del 1996). In tali casi,infatti, non potrebbe neppure sostenersi la violazione del principio della tutela delle formazioni sociali in cui si sviluppa la persona umana in quanto la riferibilità del principio alla convivenza di fatto, benché caratterizzata da un grado accentrato di stabilità (come affermato con le sentenze nn.310 del 1989 e 237 del 1986) non comporta un necessario riconoscimento al convivente del trattamento pensionistico di reversibilità poiché esso non appartiene certamente ai diritti inviolabili dell'uomo presidiati dall'art.2 della Costituzione (2). Per la Corte, in definitiva, sussiste una sostanziale diversità tra famiglia di fatto e famiglia fondata sul matrimonio in ragione dei caratteri di stabilità,certezza,reciprocità e corrispettività dei diritti e doveri che nascono soltanto dal vincolo coniugale (3). Tale impostazione è rimasta sempre costante nel tempo anche quanto il Giudice Costituzionale si è dovuto occupare del divieto di espulsione dello straniero convivente "more uxorio" con un cittadino italiano atteso che il vincolo parentale può riguardare unicamente le persone che si trovano in una situazione di certezza dei rapporti giuridici invece assente nella convivenza more uxorio (4). Ancora più recentemente la censura di infondatezza ha riguardato le doglianze sollevate dinanzi alla Corte in relazione alla non punibilità dei fatti commessi in danno del convivente more uxorio (5). La Corte aveva già dichiarato in precedenza la infondatezza di analoga questione con la sentenza n.423 del 24/3/1988 e n.1122 del 20/12/1988 affermando che la convivenza more uxorio risulta fondata su un legame affettivo liberamente revocabile da ciascuna delle parti. Lo stesso orientamento è ravvisabile nella sentenza n. 237 del 18/11/1986, in tema di falsa testimonianza. In definitiva la convivenza more uxorio, secondo la Corte Costituzionale, rappresenta l'effetto di una scelta di libertà dalle regole costruite dal legislatore per il matrimonio da cui consegue la impossibilità, pena la violazione della libera determinazione delle parti, di estendere alla famiglia di fatto le regole anche processuali dell'istituto matrimoniale (6). In tal caso, la mancanza di una disciplina corrispondente all'art.155 cod. civ. 4° comma, sul preferenziale affidamento della casa familiare al coniuge affidatario dei minori, rende inapplicabile in concreto il procedimento previsto dall'art.706 e ss. c.p.c. ai conviventi more uxorio con prole. La Corte Costituzionale ha pure sancito in subiecta materia l'inapplicabilità dell'art.2941,n.1 c.c., nella parte in cui non estende anche alla situazione di convivenza more uxorio la causa di sospensione della prescrizione dettata per i rapporti fra i coniugi in costanza di matrimonio atteso che la disposizione codicistica di riferirebbe a rapporti di carattere patrimoniale difficilmente ricadenti sotto il parametro costituzionale che presuppone la inviolabilità dei diritti ed ancor più per la natura stessa della prescrizione che impone,per il decorso dei termini,parametri certi,riscontrabili soltanto in connessione ad un vincolo giuridico caratterizzato per la certezza e la disciplina legale della relazione su cui è fondato come il matrimonio(7). Inoltre la Corte ha censurato come inammissibile anche la pur rilevante questione di legittimità sollevata in tema di adozione di minori da parte del convivente more uxorio stabilendo che, pur rientrando nella discrezionalità del legislatore riconoscere alla convivenza more uxorio alcune conseguenze giuridiche, la normativa in materia non prevede alcuna disposizione favorevole al riconoscimento di siffatto diritto (8). L'unica vera eccezione a tale orientamento costante deve ritenersi la declaratoria di illegittimità dell'art.6 della legge sulle locazioni (392/1978) nella parte in cui non ha previsto la successione nel contratto di locazione del convivente more uxorio con prole in luogo del partner deceduto o che abbia cessato la convivenza (9). La Corte ha sul punto sostenuto che il diritto alla abitazione, collocabile tra i diritti inviolabili dell'uomo tutelati dall'art.2 della Costituzione, non può essere negato al genitore affidatario del minore per il fatto della cessazione della convivenza "more uxorio" anche laddove la questione riguardi la locazione di un immobile ovvero l'assegnazione di alloggio economico e popolare a favore del convivente (10). In definitiva non si può in alcun modo sostenere che la Corte Costituzionale non abbia assunto una posizione precisa tutte le volte in cui si è trovata ad esaminare la vexata quaestio dei problemi civili e penali derivanti dalla convivenza more uxorio. Per completezza di trattazione va segnalata una recente decisione del Consiglio di Stato in materia di dispensa dal servizio militare per l'assolvimento di obblighi di assistenza derivante da una convivenza more uxorio che ha sostenuto che "nel sistema di diritto positivo, pur essendo la famiglia legittima fondata sul matrimonio ad assumere le prerogative proprie della "società naturale", ciò non significa l'irrilevanza del fenomeno sociale, spesso ricorrente, della convivenza senza matrimonio, allorché si stabiliscono aspettative e vincoli di fedeltà, assistenza, reciproca contribuzione agli oneri patrimoniali, in tutto analoghi a quelli che nella famiglia legittima sono imposti dalla legge oltre che dalla solidarietà familiare. L'ordinamento tende quindi a riconoscere rilevanza alle situazioni di fatto che abbiano la stessa consistenza di stabilità e serietà di quelle giuridiche, soprattutto in presenza di lesioni a beni della vita di rilievo costituzionale, come nel caso del diritto al mantenimento dell'abitazione. In base a tale motivazione è stato quindi ritenuto illegittimo da parte del Cd S il diniego dalla dispensa dal servizio militare, fondato sulla sola irrilevanza della convivenza more uxorio, quando l'unico sostegno reddituale della famiglia di fatto,composta dalla convivente more uxorio e da due minori,è costituito dal reddito del ricorrente,con cui viene anche pagato il canone di locazione dell'abitazione e che verrebbe meno in caso di svolgimento del servizio militare (v. Consiglio di Stato-Adunanza della Sezione Terza del 9 gennaio 2001 n. 1915/2000). Ciò posto e passando ora in rassegna le decisioni della Corte di Cassazione emanate negli ultimi anni è possibile verificare come, nel tempo, risultino importanti modificazioni. Sebbene, in materia di locazione, la Suprema Corte si sia uniformata alle decisioni della Corte Costituzionale,sancendo il diritto del convivente alla successione nel rapporto locativo laddove sia accertato il rapporto di convivenza alla data della morte del conduttore (11) come già stabilito in precedenti decisioni (12), proprio negli ultimi anni la stessa Corte si è discostata dalle decisioni della Corte Costituzionale in altri casi sancendo che "la convivenza more uxorio,ove abbia carattere di stabilità e dia luogo a prestazioni di assistenza economica di tipo familiare da parte del convivente,può spiegare rilievo a seconda dei casi dia sul diritto che sulla misura dell'assegno di divorzio (13). Invero la Corte aveva già sottolineato la rilevanza giuridica del rapporto di fatto tra le persone caratterizzato dalla stabilità che di per sé conferisce grado di certezza al rapporto stesso sia per quanto concerne la tutela dei figli minori,sia con riferimento ai rapporti patrimoniali, dovendosi distinguere nella convivenza tra semplice rapporto occasionale e famiglia di fatto (14). Non era mancato a tal proposito neppure un esplicito riferimento alla ipotesi della comunione tacita familiare disciplinata dall'art. 230 bis c.c. per giustificare il rapporto lavorativo svolto nell'ambito della convivenza more uxorio stante la mancanza di subordinazione onerosa(15). Infine,sin dal 1993,la Corte -anticipando la decisione in commento- aveva affermato chiaramente che la convivenza more uxorio tra persone in stato libero non costituisce causa di illiceità e quindi di nullità di un contratto attributivo di diritti patrimoniali (nella specie comodato) "in quanto tale convivenza ancorché non disciplinata dalla legge,non contrasta né con le norme imperative,non esistendo norme che la vietino, né con l'ordine pubblico,né con il buon costume inteso come il complesso di principi etici costituenti la morale sociale di un determinato momento storico,stante la rilevanza assunta nel vigente ordinamento con riferimento alla attribuzione di potestà parentali, a mente dell'art.317-bis c.c., ed alla successione nel contratto di locazione(16) e quantunque la convivenza concubinaria non comporti per nessuno dei partners alcun diritto al mantenimento reciproco (17). In definitiva la Cassazione,con l'ultima sentenza emanata,non ha mutato in maniera radicale il proprio convincimento,già espresso in precedenti decisioni, sebbene tale sentenza finisca con il suscitare forti perplessità nel Giurista e preluda l'avvento di decisioni di più ampia portata che possono accelerare un processo decisionale da parte del Legislatore chiamato ancora una volta a svolgere un intervento decisivo ed in linea con i principi morali regolatori della famiglia legittima più volte ribaditi dalla Corte Costituzionale. A questo proposito va sottolineato che l'unica iniziativa legislativa assunta in Parlamento deve, allo stato, ritenersi il DDL n.682 presentato alla Camera dei Deputati il 10/5/1996 e rimasto senza seguito. Nella relazione accompagnatoria al DDL si sottolinea come sia sentita la esigenza di una compiuta disciplina legislativa della "famiglia di fatto" che fornisca tutela giuridica a tale forma di convivenza e salvaguardi il principio della parità giuridica riconosciuta nel matrimonio e tutelato costituzionalmente. Il Relatore pone in evidenza come,secondo le rilevazioni dell'ISTAT, la convivenza more uxorio riguarderebbe (al 1996) una percentuale di circa 1,3% delle famiglie,con punte del 4,6 % localizzate nei grandi comuni del Nord ma che cresce in misura rilevante atteso che convivono more uxorio sempre più giovani che per libera scelta rifiuterebbero il matrimonio,sebbene il fenomeno riguardi anche gli anziani,che trovano nella convivenza solidarietà ed assistenza priva di legami formali, come pure i coniugi separati e divorziati, che non intendono ripetere l'esperienza del matrimonio. Il DDL all'esame del Parlamento troverebbe quindi la sua ratio nell'esigenza di tutela della libertà di scelta di chi intende costituire un rapporto di coppia alternativo a quello matrimoniale oltre che nella necessaria disciplina degli effetti economici patrimoniali derivanti dai rapporti di convivenza. Va pure menzionato il DDL costituzionale n.1734 del 2 maggio 1989,recante modifiche agli artt. 2, 3, 29, 30, 31, 36 e 37 della Costituzione che introduce,peraltro,una distinzione tra l'istituto della famiglia da quello del matrimonio in quanto non trovano più nella realtà e nella legge piena coincidenza.La famiglia,infatti,secondo l'elaborato legislativo non può essere più solo quella fondata sul matrimonio, a meno di non voler disconoscere diritti, doveri, valori e comportamenti di famiglie che si fondano su rapporti tra individui codificabili in modo diverso dal matrimonio. Le questioni patrimoniali derivanti dai rapporti di convivenza sono state affrontate più volte anche dalla Dottrina (18) che ha sostento in proposito come l'analisi dei profili patrimoniali della convivenza more uxorio non possa prescindere da una,sia pur sintetica,riflessione sulla evoluzione delle strutture sociali, politiche ed economiche intervenuta in questi ultimi anni e che ha inciso sullo stesso modo di essere delle comunità familiari ed alla trasformazione della società che ha messo in crisi i ruoli all'interno del nucleo familiare ed in cui il matrimonio non è più considerato l'unico mezzo di realizzazione della personalità femminile, ma uno dei possibili modi attraverso cui la donna e l'uomo possono svolgere insieme un utile ruolo sociale. Si ritiene,pertanto,che, in tale ottica,sia l'uomo che la donna possano realizzarsi anche in un rapporto di convivenza di fatto se vissuto con responsabilità, partecipazione affettiva, spirito di dedizione verso il partner e, se presenti, verso i figli. Il mutato atteggiamento della società verso la famiglia di fatto richiederebbe,in conseguenza,una valutazione dei risultati raggiunti in tema di rapporti patrimoniali fra conviventi,ma soprattutto la individuazione di nuovi criteri per risolvere i problemi di ordine patrimoniale derivanti da un rapporto non legalizzato. Si sostiene in proposito che l'unione familiare non fondata sul matrimonio non è più riprovata dalla coscienza sociale e sebbene, in conseguenza delle tradizioni etico -religiose del nostro Paese,continui ad essere privilegiata l'unione legittima, quella di fatto riceve parziale e limitata tutela, in primo luogo quale formazione sociale in cui gli individui esprimono la loro personalità, secondo l'art. 2 Costituzione,e, poi, in conseguenza dell'influenza delle legislazioni straniere che sono rivolte ad ammetterne pieno riconoscimento (19). In tale ambito vanno ricondotte le proposte di legge tendenti ad una regolamentazione completa delle unioni di fatto e tra di esse ve ne sono alcune che aprono la via alla convivenza tra soggetti di eguale sesso, non richiedendo come requisito di riconoscimento dell'unione la diversità di sesso. Per ciò che concerne,in particolare,le unioni tra coppie omosessuali, pur riconoscendosi in via astratta la possibilità che esse rappresentino una valida comunità di vita ed affetti, si afferma come risulti di fatto difficile ottenere un'effettiva tutela giuridica a causa della riprovazione sociale che ancor oggi spesso accompagna tali legami con la conseguenza che, esclusa una rilevanza esterna di tali unioni,risulterebbe difficile conseguire una regolamentazione interna dei rapporti patrimoniali. La Dottrina in rassegna pone in evidenza, quindi, a sostegno di una maggiore tutela della convivenza more uxorio,la indubbia la rilevanza che nell'ambito sociale ha assunto la convivenza tra due persone (20). Traendo le conclusioni, sembrerebbe che la Cassazione, anticipando un più compiuto esame del problema in sede legislativa,abbia inteso attingere ai principi enunciati dai vari DDL e dalla Dottrina si qui commentata per condividerne i contenuti in base ad una malcelata visione pessimistica del vincolo coniugale esistente nella attuale società contemporanea e ad una sorta di "obbligo" di legittimazione delle convivenze,anche omosessuali, che, nell'ottica della Corte, parrebbero destinate in futuro a prevalere. La decisione della Cassazione si pone così in aperto contrasto proprio con quei principi di ordine pubblico,buon costume e norme imperative che costituiscono patrimonio comune di ogni Stato di diritto cui la legislazione deve uniformarsi affinché costituisca un sicuro punto di orientamento per tutti gli operatori del diritto in generale prescindendo dalle proprie convinzioni etiche o religiose. Deve,per contro,riconoscersi una più coerente visione del problema da parte della Corte Costituzionale che,va ancora una volta sottolineato,anche di recente e quindi senza perdere di vista la rilevanza degli stessi fenomeni sociali che hanno determinato la decisione emanata dalla Cassazione, ha ribadito la infondatezza delle censure di costituzionalità mosse da più parti in tema di disparità di trattamento del convivente more uxorio,come più innanzi ricordato, proprio in base alla inesistenza di una condivisibile disciplina della materia. In un momento in cui il dibattito politico nazionale si confronta sulla necessità dei c.d. PACS per le coppie di fatto, la Cassazione interviene sull'argomento delle convivenze "more uxorio" stabilendo che la vita delle coppie di fatto deve essere equiparata a quella delle coppie sposate in virtù della "signifi cativa evoluzione sociale" degli ultimi tempi. E' quanto ha affermato la Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione,con la sentenza n.109/ 2006 del 5 Gennaio 2006 decidendo in relazione all'ammissione al patrocinio a spese dello Stato di una coppia convivente. La Suprema Corte ha,infatti,stabilito che, ai fini del calcolo del reddito per l'ammissione al gratuito patrocinio, il rapporto di convivenza non si interrompe con lo stato detentivo, in considerazione della "significativa evoluzione sociale, normativa e giurisprudenziale registratasi negli ultimi tempi", finaliz zata a dare rilievo sociale e giuridico alla convivenza "more uxorio". La Corte,con la decisione in commento, ribadisce un orientamento formatosi sotto la vigenza della legge n. 219 del 1990,come sostituita dalla legge n. 134 del 2001,ed afferma che per la determi- nazione dei limiti di reddito ai fini dell'ammissione al patrocinio a spese dello Stato occorre tenere conto della somma dei redditi facenti capo all'interessato ed agli altri familiari conviventi, compreso il convivente more uxorio. In conseguenza,afferma la Corte che,in relazione alla normativa nella quale vi era esplicito e letterale riferimento alla convivenza con il coniuge, ai fini delle individuazioni del limite reddituale per l'ammis sione al gratuito patrocinio nei procedimenti penali (ed a differenza di quelli civili ed amministrativi),la norma stessa va interpretata nel senso dell'equiparazione della convivenza coniugale alla convivenza more uxorio. Il Collegio ha ritenuto pienamente condivisibile l'indirizzo interpretativo appena ricordato, anche per ché lo stesso "risulta assolutamente in linea con la significativa evoluzione sociale, normativa e giuris prudenziale, registratasi negli ultimi tempi ed evidentemente finalizzata a dare rilievo sociale e giuri dico (ovviamente, sia in bonam che in malam partem) alla famiglia di fatto e, di conseguenza, al rap porto more uxorio che nel caso di specie non pare possa essere messo in discussione, sotto il profilo fattuale" ed avrebbe portato al riconoscimento della famiglia di fatto, quale situazione di rilevanza giuridica. Muovendo dalla evidente necessità di porre l'accento sulla realtà sociale piuttosto che sulla veste formale dell'unione tra due persone conviventi, è stata dunque riconosciuta valenza giuridica a quella relazione interpersonale che presenti carattere di tendenziale stabilità, natura affettiva e parafamiliare, che si esplichi in una comunanza di vita e di interessi e nella reciproca assistenza morale e materiale. A conforto di tale orientamento,la Corte cita tra i principi enunciati nella giurisprudenza di legittimità in sede civile,a quello secondo cui deve attribuirsi rilievo,quanto alla corresponsione dell'assegno divor- zile dovuto in conseguenza di scioglimento del matrimonio,al rapporto di convivenza more- uxorio,caratterizzato da stabilità,continuità e regolarità,eventualmente instaurato dal coniuge benefi- ciario dell'assegno stesso.(v.Cassazione Sez. Prima n. 11975/03) Dovendo confrontarsi con le mutate concezioni che si sono affermate nella società moderna, la giuris prudenza, in materia di rapporti interpersonali, ha dunque considerato la famiglia di fatto quale realtà sociale che, pur essendo al di fuori dello schema legale cui si riferisce, esprime comunque caratteri ed istanze analoghe a quelle della famiglia stricto sensu intesa. Sin qui la sentenza della Cassazione che merita una attenta lettura alla luce della attuale legislazione in materia. Secondo l'art. 29 della Costituzione, la famiglia è una società naturale fondata sul matrimonio. Per quanto riguarda, invece, il rapporto tra conviventi, non si ritiene sia possibile applicare le norme previste per la famiglia legittima e ciò lo si può evincere dal dettato dell'art. 29 Cost. atteso che questa norma attribuisce alla famiglia legittimamente costituita una particolare tutela, in considerazione della peculiarità e dell'importanza sociale svolta dalla famiglia quale luogo di formazione e sviluppo della persona. Nondimeno, si fanno sempre più frequenti i casi di famiglia non fondata sul matrimonio (c.d. famiglia di fatto, o convivenza more uxorio). La convivenza more uxorio, che non è neppure più riprovata socialmente, rappresenta una situazione non illecita,giacché è una formazione sociale nel cui ambito può svolgersi la personalità degli individui come sancito dall'art. 2 della Costituzione. Occorre,tuttavia,che essa non sia occasionale, bensì caratterizzata da società di intenti e da stabilità come afferma il Bianca e come conferma la giurisprudenza Più precisamente la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha specificato che, al fine di distinguere tra semplice rapporto occasionale e famiglia di fatto, si deve tenere soprattutto conto del carattere di stabilità del rapporto, carattere che conferisce certezza al rapporto stesso e lo rende rilevante sotto il profilo giuridico. Dalla convivenza, però, non nasce un impegno di continuità del rapporto e la sua rottura non può fondare pretese risarcitorie o alimentari. Lo scioglimento della convivenza non abbisogna,allo stato,di nessun atto formale, come del resto la sua "istituzione" a differenza del matrimonio che presuppone la continuità del rapporto e, di conse guenza, le formalità previste per il divorzio Al momento, è assente nel nostro ordinamento un riconoscimento esplicito, ed una disciplina organica, della famiglia non fondata sul matrimonio atteso che non è ancora operativa la riforma all'esame del Parlamento. In ogni caso,anche nell'ultima legislatura, non sono mancate proposte di legge per offrire una regolamentazione organica alla famiglia di fatto. In tale ambito si pongono le proposte di legge tendenti ad una regolamentazione completa delle unioni di fatto e tra di esse ve ne sono alcune che aprono la via alla convivenza tra soggetti di eguale sesso, non richiedendo come requisito di riconoscimento dell'unione la diversità di sesso. L'assenza di norme specifiche non ha tuttavia portato ad escludere un riconoscimento, anche giurisprudenziale, ad alcuni profili della convivenza more uxorio, sicché più di un effetto giuridico viene ora riallacciato ad essa, anche se è sicuro che non è immaginabile una piena parificazione alle unioni fondate sul matrimonio, almeno sino a quando permarrà la chiara, fondamentale enunciazione di cui all'art. 29 Costituzione. Deve escludersi l'applicazione analogica delle norme dettate in tema di famiglia legittima a quella non fondata sul matrimonio, come non manca di statuire la giurisprudenza Parte della dottrina (tra cui il Bianca) ammette, tuttavia, che la convivenza stabile può rilevare nella impresa familiare (art. 230 bis, del Codice civile). Nel tentativo di attribuire una tutela alla convivenza more uxorio la Corte Costituzionale, con sentenza del 1988 ha sancito, in materia di locazione, l'incostituzionalità della legge in materia di locazioni lì ove questa non prevedeva il diritto di succedere nel contratto di locazione anche alle persone conviventi con il conduttore. Inoltre è stata sancita dal nuovo codice di procedura penale la facoltà di astensione dal deporre contro l'imputato, concessa ai suoi prossimi congiunti, anche al convivente more uxorio. Viceversa la Corte Costituzionale ha bocciato l'aspettativa delle coppie non coniugate di adottare un bambino: con sentenza 281/94 è stata negata l'adozione ad una coppia sposata da due anni, ma con una convivenza di dieci anni alle spalle. La motivazione della Corte è consistita nel fatto che mancava un anno (la legge richiede minimo tre anni di matrimonio) per poter richiedere l'adozione, a nulla rilevando la precedente convivenza A livello di legislazione ordinaria e speciale sono stati attribuiti degli effetti giuridici alla convivenza more uxorio, ma solo relativamente ad alcuni ambiti circoscritti. Le fonti di diritto interessate sono le seguenti: 1. D.L. n. 1726 del 27.10.1918: è possibile ottenere la corresponsione della pensione di guerra, in presenza di specifici requisiti, per la vedova, la promessa sposa, la convivente more uxorio; 2. art. 6 L. n. 356 del 13.03.1958: è riconosciuta assistenza, per i figli naturali non riconosciuti dal padre caduto in guerra, quando questo e la madre abbiano convissuto "more uxorio", nel periodo del concepimento; 3. art. 2 D.p.r. n. 136 del 31.01.1958: considera famiglia anagrafica non solo quella fondata sul matrimonio e legata da rapporti di parentela, affinità, affiliazione ed adozione ma, ogni altro nucleo che si fonda su legami affettivi, caratterizzato dalla convivenza e dalla comunione di tutto o parte del reddito dei componenti per soddisfare le esigenze comuni, quindi anche la famiglia di fatto; 4. art. 1 L. n. 405/1975 (istitutiva dei consultori familiari): ricomprende tra gli aventi diritto alle prestazioni assistenziali anche le "coppie"; 5. art. 30 L. n. 354/1975 (Riforma dell'ordinamento penitenziario): attribuisce un permesso al condannato, in caso di imminente pericolo di vita di un familiare, indicando anche il convivente; 6. art. 5 L. n. 194/1978 (interruzione di gravidanza): permette la partecipazione al procedimento di chi è indicato "padre del concepito", quindi anche in presenza di convivenza more uxorio; 7. art. 44 L. n. 184/1983: permette in alcuni casi, l'adozione a chi non è coniugato, concessione attribuita quindi, anche alla famiglia di fatto; 8. art. 17 L. n. 179/1992: permette la sostituzione, al socio assegnatario defunto del convivente, purché documenti lo stato di convivenza da almeno due anni dal decesso. Una maggiore equiparazione della famiglia di fatto alla famiglia legittima si è verificata anche in ambito penale, e precisamente: 1. art. 199, 3° co. lettera A) c.p. (obbligo di testimoniare): è prevista la facoltà di astenersi dal testimoniare anche per il convivente more uxorio; 2. art. 572 c.p. (maltrattamenti in famiglia): vi è equiparazione alla disciplina applicata alla famiglia legittima; 3. artt. 342 bis e ter, L. 154/2001 (abusi familiari): la condotta anche del convivente more uxorio che determini un grave pregiudizio al nucleo familiare, comporta l'allontanamento del soggetto e l'obbligo al versamento di un assegno, se i familiari restano privi di mezzi adeguati per il loro sostentamento; 4. art. 680 c.p. (domanda di grazia): permette al convivente more uxorio di proporre domanda di grazia. Quello di convivere senza alcun vincolo formale idoneo ad assicurare certezza al rapporto è una libera scelta di ogni individuo. Oggi aumentano le separazioni ed i divorzi e si moltiplicano le convivenze, mentre la famiglia fondata sul matrimonio sta attraversando una crisi profonda che ha determinato la rottura dei tradizionali equilibri e delle dinamiche che da sempre sono state fondamento dei rapporti familiari. Non sussiste,tuttavia, una regolamentazione ordinaria generale, né speciale, da applicare alla famiglia di fatto. L'unico modo per ottenere una tutela, ad oggi, è quello di autoregolamentarsi mediante la stipulazione di patti, diretti a disciplinare taluni aspetti di natura patrimoniale al fine di evitare conflitti durante il menage oppure al momento della cessazione del rapporto e in modo da garantire i diritti successori anche al partner. La Cassazione, con la sentenza in commento,aggiunge,quindi,un importante tassello al confronto in atto tra favorevoli e contrari ad una regolamentazione giuridica delle convivenze more uxorio. NOTE: (1) v.Corte Costituzionale, sentenza 25/7/2000 n.352, Limo (2) v.Corte Costituzionale 3/11/2000 n.461 , Giorgetti (3) v.Corte Costituzionale,ordinanza 14/11/2000 n.491,Bonanese (4) v.Corte Costituzionale ordinanza 20/7/2000 n.313,Klyta (5) v.Corte Costituzionale 352/2000 cit. (6) v.Corte Costituzionale sentenza 13/5/1998 n.166 (7) v.Corte Costituzionale sentenza 29/1/1998 n.2,Rovari (8) v.Corte Costituzionale 6/7/1994 n.281,Parodi (9) v.Corte Costituzionale 7/4/1988 n.404,Ratto (10) v.Corte Costituzionale 20/11/1989 n.559,Anglisani (11) v. Cass. Sez. III 1/8/2000 n.10034,Tosti (12) v. Cass. Sez. III 10/10/1997 n.9868,Alba (13) v. Cass. Sez. I 2/6/2000 n.7328 (14) v. Cass. Sez. I 4/4/1998 n.3503 (15) v. Cass. Sez. Lav.19/12/1994 n.10927 (16) v. Cass. Sez. III 8/6/1993 n.6381,Grimaldi (17) v. Cass. Sez. I 22/4/1993 n.4671 (18) v. Santarelli, Breve analisi della situazione patrimoniale della convivenza more uxorio in Rivista Diritto & Famiglia (19) v. Evangelista,La Famiglia di Fatto, in Rivista Familex (20) v. Saccà , La Famiglia non coniugale, in Rivista Servizio Sociale | | Le questioni patrimoniali derivanti dai rapporti di convivenza sono state affrontate più volte dalla Dottrina che ha sostento in proposito come l'analisi dei profili patrimoniali della convivenza more uxorio non possa prescindere da una, sia pur sintetica, riflessione sull'evoluzione delle strutture sociali, politiche ed economiche intervenuta in questi ultimi anni e che ha inciso sullo stesso modo di essere delle comunità familiari ed alla trasformazione della società che ha messo in crisi i ruoli all'interno del nucleo familiare ed in cui il matrimonio non è più considerato l'unico mezzo di realizzazione della personalità femminile, ma uno dei possibili modi attraverso cui la donna e l'uomo possono svolgere insieme un utile ruolo sociale. Si ritiene che, in tale ottica, sia l'uomo sia la donna possano realizzarsi anche in un rapporto di convivenza di fatto se vissuto con responsabilità, partecipazione affettiva, spirito di dedizione verso il partner e, se presenti, verso i figli. Il mutato atteggiamento della società verso la famiglia di fatto richiederebbe,in conseguenza,una valutazione dei risultati raggiunti in tema di rapporti patrimoniali fra conviventi,ma soprattutto l'individuazione di nuovi criteri per risolvere i problemi di ordine patrimoniale derivanti da un rapporto non legalizzato. Si sostiene in proposito che l'unione familiare non fondata sul matrimonio non è più riprovata dalla coscienza sociale e sebbene, in conseguenza delle tradizioni etico - religiose del nostro Paese,continui ad essere privilegiata l'unione legittima, quella di fatto riceve parziale e limitata tutela, in primo luogo quale formazione sociale in cui gli individui esprimono la loro personalità, secondo l'art. 2 Costituzione,e, poi, in conseguenza dell'influenza delle legislazioni straniere che sono rivolte ad ammetterne pieno riconoscimento . In tale ambito vanno ricondotte le proposte di legge tendenti ad una regolamentazione completa delle unioni di fatto e tra loro ve ne sono alcune che aprono la via alla convivenza tra soggetti di eguale sesso, non richiedendo come requisito di riconoscimento dell'unione la diversità di sesso. Per ciò che concerne,in particolare,le unioni tra coppie omosessuali, pur riconoscendosi in via astratta la possibilità che esse rappresentino una valida comunità di vita ed affetti, si afferma come sia di fatto difficile ottenere un'effettiva tutela giuridica a causa della riprovazione sociale che ancor oggi spesso accompagna tali legami con la conseguenza che, esclusa una rilevanza esterna di tali unioni,sarebbe difficile conseguire una regolamentazione interna dei rapporti patrimoniali. La Dottrina pone in evidenza, a sostegno di una maggiore tutela della convivenza more uxorio, l'indubbia rilevanza che nell'ambito sociale ha assunto la convivenza tra due persone. Nell'ordinamento italiano - si sostiene da parte di alcuni autori - non c'è famiglia se non in presenza del matrimonio,ai sensi dell'art. 29 della Costituzione. Quello che contraddistingue in modo inequivoco la cosiddetta famiglia di fatto da quella legale è la circostanza che in quest'ultima sia stato contratto matrimonio: la sola differenza, cioè, fra le due unioni è la presenza dell'elemento del matrimonio, quale atto giuridico solenne da cui discendono diritti e doveri codificati dal legislatore. L'attuale disciplina del matrimonio risponde a finalità di interesse pubblico e rende lo stesso tecnicamente più idoneo di ogni altra forma di convivenza a garantire l'adempimento di alcune funzioni, come la pubblicità del rapporto, l'attribuzione di diritti, l'imposizione di obblighi e la stabilità dell'unione. Tuttavia la tutela che la convivenza more uxorio ha ricevuto per similitudine con la famiglia fondata sul matrimonio, trova il suo contrappeso in una tutela denegata proprio sul presupposto di siffatta assimilabilità :il timore, cioè, di svilire la famiglia legittima, di delegittimarla, ha indotto spesso giurisprudenza e dottrina a negare tutela ai conviventi more uxorio, anche laddove l'esigenza di garanzie per tali soggetti era indispensabile. La convivenza, di norma, è frutto di una libera scelta della coppia, determinata - al livello più elevato - dal desiderio di un rapporto che non sia fissato e vincolato da condizionamenti giuridici e religiosi, ma si rinnovi e si rafforzi nella costante volontà dei soggetti. Ciò non toglie che ci si trovi dinanzi ad un fenomeno rilevante nel contesto sociale che - come tale -richiede esame e disciplina ed opportuni interventi legislativi. A conforto di tale opinione alcuni Autori sostengono che la stessa riforma del diritto di famiglia è stata innovativa in materia con l'introduzione dell'art. 317 bis cod. civ. che prevede come il riconoscimento del figlio naturale fatto da entrambi i genitori comporti l'esercizio congiunto della potestà qualora essi risultino conviventi. Altri riferimenti diretti alla convivenza more uxorio sarebbero riscontrabili in tutta una serie di norme sparse nell'ordinamento,come,ad esempio, il D.P.R. 30/5/89, n° 223, che ai fini anagrafici qualifica famiglia non solo quella legittima ma anche quella fondata su vincoli affettivi, sulla coabitazione e sulla messa in comune del reddito per provvedere al soddisfacimento dei propri bisogni. Si sottolinea pure,nei commenti dottrinali,come di notevole importanza in tale direzione deve ritenersi la legge n. 184 del 4/5/83 in materia di adozione, che ha introdotto - all'art. 2 - l'importante istituto dell'affidamento presso un'altra famiglia, non ponendo distinzioni tra quella legittima e quella di fatto: e se all'art. 6 delle disposizioni generali è previsto che l'adozione sia consentita ai coniugi uniti in matrimonio, nel titolo IV - dedicato all'adozione in casi particolari - è ammessa anche l'adozione per coloro che non siano coniugati. La Dottrina non manca di lamentare la mancanza,nel nostro ordinamento, di una disciplina organica del fenomeno della famiglia di fatto, nonostante alcune proposte siano state presentate in Parlamento. L'intervento legislativo non dovrebbe tuttavia prevedere una disciplina organica volta a creare una famiglia di fatto sanzionata da un atto ufficiale, quale può essere l'iscrizione anagrafica, e del tutto simile a quella legittima; in tal modo sarebbe snaturata l'essenza stessa della famiglia di fatto, fondata come già evidenziato, sulla libera scelta dei conviventi. Sarebbe invece auspicabile un intervento del legislatore che,oltre ad eliminare ogni residua differenza tra figli legittimi e naturali, tuteli il convivente in tutti quei problemi che la coppia pone, così come sono stati posti all'attenzione della giurisprudenza nel corso di questi ultimi anni. Ciò posto, va ribadito come la famiglia è istituto sociale e giuridico costituzionalmente riconosciuto e tutelato (articoli 29-30-31 Cost.). Il modello di riferimento riconosciuto dalla Costituzione Italiana, ai sensi dell'art. 29,è quello della famiglia basata sul matrimonio cui la normativa introdotta in materia è costantemente improntata. La Famiglia è ritenuta dalla Dottrina come "cellula di base dell'organizzazione sociale nonché [quale]luogo di integrazione globale e socializzazione della persona",organismo istituzionalizzato, ben definito nei suoi contenuti giuridici, sociali e culturali che svolge per la collettività "ruoli educativi, affettivi e di sostegno economico [...] in un clima di reciproca solidarietà". Affinché si abbia la famiglia nel senso appena delineato, occorrono tre condizioni essenziali: a) una relazione di reciprocità piena fra persone che stanno fra di loro in rapporti di coppia stabile ; b) la celebrazione in forma solenne del matrimonio,quale atto giuridico solenne da cui discendono diritti e doveri tali da garantirne la stabilità; c) la convivenza stabile e quotidiana nella condivisione degli aspetti materiali e spirituali del rapporto e nella predilezione delle relazioni sessuali pressoché esclusive che ne consentono la riproduzione. In conseguenza, il riferimento al matrimonio segna un sicuro limite rispetto alla famiglia di fatto, intendendosi come tale un rapporto di convivenza coniugale familiare fondato o su un matrimonio di diritto canonico non trascritto o in cui manca un valido matrimonio civile o come modo concreto di organizzare la convivenza more uxorio secondo lo stesso modello della società familiare. Il significato di questo limite non può tuttavia essere ritenuto quello della totale irrilevanza o peggio, della riprovazione dell'ordinamento verso il fenomeno della convivenza non formalizzata nel matrimonio. Se l'ordinamento tutela l'interesse essenziale della persona a realizzarsi nella famiglia, quale prima forma di convivenza umana, quale società naturale, l'opinione secondo la quale anche la famiglia more uxorio rientra tra le formazioni sociali, previste dalla Costituzione (art. 2), può essere condivisa dato che consente il processo di sviluppo e di crescita della persona, propria della famiglia nella fase di evoluzione della società. Del resto, in un mutato contesto storico, connotato dai caratteri del pluralismo culturale, della diversità sociale, dell'autonomia degli individui, il legame familiare legittimo non costituisce più l'unico ed esclusivo modello di strutturazione della società e la famiglia di fatto si pone come modello alternativo di aggregazione individuale, come struttura sociale alternativa alla famiglia legittima. A differenza della famiglia legittima che si costituisce con un atto formale, il matrimonio, quella di fatto si fonda su una manifestazione di volontà priva di qualsiasi crisma giuridico i cui elementi base sono la coabitazione e l'intenzione di realizzare un progetto comune di vita ed affetti. Inoltre, fra i conviventi di fatto non esistono i diritti e i doveri reciproci alla coabitazione, fedeltà, assistenza morale e materiale, collaborazione, contribuzione, così come sono previsti fra coniugi dalla disciplina codicistica (art. 143 ss. cod. civ.). La coppia che non legalizza la propria unione esercita una libertà che la sottrae anche sul piano sociale al complesso d'impegni e diritti che caratterizzano l'unione solennizzata dal matrimonio. In conseguenza, la mancanza dell'atto di matrimonio ha da sempre posto il problema dell'ampiezza e dei limiti della tutela giuridica della famiglia di fatto. Le opzioni proposte dalla dottrina si possono ricondurre in sintesi a tre orientamenti principali, rispettivamente indirizzati a: 1. l'emanazione di un'apposita legislazione; 2. l'applicazione in via analogica delle norme relative alla famiglia legittima; 3. l'utilizzazione di schemi e strutture, già presenti nell'ordinamento, attraverso il ricorso all'autonomia privata. 1. L'emanazione di un'apposita regolamentazione giuridica Con riguardo al primo punto, l'intervento del legislatore è ritenuto non procrastinabile da quanti ritengono che la crescente diffusione sociale del fenomeno, la rilevanza degli interessi perseguiti, la complessità dei problemi renda sempre più urgente l'esigenza di regolare i rapporti sorti al di fuori del matrimonio, al fine soprattutto di apprestare forme rafforzate di garanzia alle posizioni più deboli. E ciò nell'intento di fornire una più efficace tutela a situazioni che, pur svolgendosi su un piano di mera fattualità, non possono essere ignorate dal diritto, per la prospettazione di interessi rilevanti che reclamano una più incisiva ed articolata protezione giuridica . Tuttavia un tale intervento è avversato da chi considera fondamentale la scelta di libertà dei conviventi, che risulterebbe frustrata da una normazione propositiva di regole e coercizioni, che essi hanno volontariamente eluso, dando luogo alla creazione di una nuova struttura istituzionalizzata di grado inferiore rispetto alla famiglia legittima. Una posizione più moderata è sostenuta da coloro che, pur riconoscendo che la formalizzazione della famiglia di fatto potrebbe essere avvertita come un'indebita ingerenza dell'ordinamento in un ambito che rifiuta, per sua connotazione intrinseca, ogni formalismo, ritengono comunque legittimo un intervento del legislatore, che, pur senza predisporre una disciplina organica e compiuta, si limiti a regolamentare alcuni problemi specifici al fine di fornire loro un'adeguata soluzione, nell'ottica generale di tutela di specifiche posizioni emergenti all'interno del nucleo familiare. Ed è proprio in quest'ultima direzione che sono state presentate in Parlamento numerose proposte di legge in ordine alle principali questioni di carattere patrimoniale che, in questi ultimi anni, sono state oggetto di decisioni giurisprudenziali, sia nel corso della convivenza sia all'atto della sua cessazione. Pur nell'inevitabile diversità di contenuti, esse risultano accomunate da una logica unitaria, che si presta comunque a chiavi di lettura diverse, potendo essere valutate per un verso come una doverosa presa di coscienza da parte del legislatore di una fenomenologia assai rilevante e meritevole di tutela, per altro verso, come un'ulteriore forma di destabilizzazione della famiglia legittima. 2. L'orientamento della Chiesa cattolica Quest'ultima è l'opinione sostenuta più volte dalla Chiesa cattolica,poiché - si sostiene-,in primo luogo, accordando un riconoscimento pubblico alle unioni di fatto, si creerebbe un quadro giuridico asimmetrico: mentre la Società assume obblighi rispetto ai conviventi delle unioni di fatto, questi non assumono verso la stessa gli obblighi propri del matrimonio. L'equiparazione tra le due situazioni aggraverebbe questa situazione poiché finirebbe con il privilegiare le unioni di fatto rispetto al matrimonio, esonerandole dai doveri essenziali verso la Società. Per la Chiesa,quindi,si avrebbe in tal modo una dissociazione paradossale che si tradurrebbe in pregiudizio per l'istituzione familiare. In secondo luogo, la Chiesa si oppone con fermezza alle proposte legislative volte ad equiparare le unioni di fatto, incluso quelle omosessuali, alla famiglia, in quanto questo tipo di legislazione sarebbe contraria al bene comune e alla verità dell'uomo e quindi veramente iniqua ". Si ritiene sul punto che tali iniziative legislative presenterebbero tutte le caratteristiche di non conformità alla legge naturale che le renderebbero incompatibili con la dignità di legge. Non si tratterebbe,pertanto, di pretendere di imporre un determinato "modello" di comportamento all'insieme della società, ma unicamente il riconoscimento,nell'ordinamento,del contributo imprescindibile apportato al bene comune della famiglia fondata sul matrimonio. A conforto di tale opinione,la Chiesa ha più volte ribadito come il matrimonio sia un'istituzione e come il non tener conto di ciò divenga spesso origine di una grave confusione tra il matrimonio cristiano e le unioni di fatto: quanti convivono in un'unione di fatto possono affermare che la loro relazione è fondata sull' "amore" (ma si tratta di un amore che il Concilio Vaticano II qualifica come sic dicto libero), e che formano una comunità di vita e d'amore, ma questa comunità si distingue sostanzialmente dalla communitas vitae et amoris coniugalis, presente nel matrimonio . Inoltre,la dimensione sociale della condizione di coniuge implicherebbe un principio di sicurezza giuridica: il fatto di divenire coniuge appartiene all'essere - e non soltanto all'agire -, la dignità di questo nuovo segno di identità personale deve essere oggetto di un riconoscimento pubblico, e il bene che costituisce per la società deve essere stimato nel suo giusto valore. È evidente che il buon ordine della società è facilitato quando il matrimonio e la famiglia si presentano come ciò che realmente sono: una realtà stabile . 3. Considerazioni sull'adozione E' proprio l'elemento della stabilità della famiglia che è alla base delle considerazioni espresse dalla Dottrina in tema di adozione. In proposito si è sempre sostenuto la contemporanea indispensabile presenza delle due figure coniugali ( materna e paterna), per la corretta strutturazione del carattere e per la crescita del minore; solo la necessaria integralità della donazione dell'uomo e della donna nella loro potenziale paternità e maternità, e l'unione che ne deriva - anch'essa esclusiva e permanente - tra genitori e figli, esprimono una fiducia incondizionata che si traduce in forza e arricchimento per tutti. I fondamenti di tutela per l'equilibrio del minore adottato che sono alla base di tale orientamento, sono stati pienamente condivisi dal legislatore nella legge n.184 del 1983 sulle adozioni che non consente la possibilità di adozione a coloro che non siano uniti dal vincolo matrimoniale andando così a infrangere i sogni di adozione non solo dei single (che non possono pertanto formare una famiglia, sebbene a metà), ma anche delle coppie di fatto. Questo orientamento, che appare conforme alla Convenzione di Strasburgo (in quanto consente l'adozione di un minore tra due persone solo se sposate e non anche ai non coniugati) è stato oggetto di aspre critiche da parte di un filone della dottrina, in quanto si è ritenuto che il celibe o la nubile sono pienamente idonei all'allevamento dei minori bisognosi. Si è obiettato inoltre che, se al centro dell'interesse vi è la sicurezza del bambino, la previsione della adozione da parte esclusivamente di una coppia coniugata appare notevolmente restrittiva e lo stesso legislatore ha riconosciuto come il concetto di famiglia negli ultimi tempi abbia subìto una forte evoluzione, tant'è che ha riconosciuto la possibilità di adottare - oltre che ai soli coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni (termine reputato sufficiente per assicurare al minore una famiglia già collaudata) e che non si siano mai separati negli ultimi tre (neanche temporaneamente), - anche a quelle coppie che abbiano convissuto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio ma che si siano sposate prima di accedere alle pratiche adottive; la decisione spetta tuttavia al tribunale per i minori che ha l'obbligo di accertare la stabilità del rapporto. In questo contesto si eviterebbe la creazione di < >, e cioè una famiglia, legittima per l'adottato, e di fatto ma equiparata quoad effectum a quella legittima per gli adottanti. Infatti, l'assunzione dello status di figlio legittimo da parte dell'adottato nei confronti di entrambi i genitori adottanti finirebbe con il comportare che i rapporti fra questi ultimi non sarebbero più di mero fatto,configurandosi l'adozione come una sorta di assunzione, in termini giuridici, del vincolo matrimoniale. 4. L'inadeguatezza del ricorso analogico alle norme relative alla famiglia legittima L'altra soluzione proposta dalla Dottrina per risolvere i problemi di tutela della famiglia di fatto, riguarderebbe la possibilità di applicare le norme dettate per la famiglia legittima alla famiglia di fatto, sul presupposto di una sostanziale identità (strutturale e funzionale dei due istituti). Occorre sottolineare a tal proposito come l'identità tra i due istituti sarebbe solo apparente, già sotto il profilo strutturale, per l'assenza del matrimonio, quale atto costitutivo della famiglia legittima (art. 29, c. 1°, Cost.), mentre sarebbe valorizzato il momento del rapporto,la cui fonte primaria è rinvenibile in un sentimento interpersonale che si manifesterebbe nella sua essenza con la realizzazione della communio omnis vitae . Secondo tale opinione l'art. 29 Cost. non costituirebbe un ostacolo alla rilevanza giuridica della famiglia di fatto, avendo il costituente espresso soltanto una scelta preferenziale per la famiglia fondata sul matrimonio a cui è riconosciuta una maggiore dignità in forza dei caratteri di stabilità, certezza, corrispettività di diritti e doveri che caratterizzano il vincolo familiare. Pur tuttavia,secondo alcuni Autori, non sarebbe da escludere che una forma di società naturale possa esistere ed essere garantita anche secondo modelli giuridici diversi, indipendentemente dall'esistenza di quell'atto, sebbene l'ordinamento debba tutelare l'interesse essenziale della persona a realizzarsi in primo luogo nell'ambito di un nucleo di tipo familiare, quale prima forma di convivenza umana, e cioè quale società naturale. Pertanto,la diversità strutturale (e per alcuni versi anche funzionale) della famiglia di fatto rispetto alla famiglia fondata sul matrimonio escluderebbe che la tipologia della regolamentazione si possa rinvenire attraverso il ricorso alla analogia atteso che nella specie difetterebbe il presupposto del caso simile e/o della materia analoga. Appare discutibile pure l'opinione espressa sulla utizzazione in materia del criterio residuale del ricorso ai principi generali dell'ordinamento giuridico in quanto, nella specie, la fonte principale di regolamentazione è l'autonomia delle parti sul presupposto che la rilevanza costituzionale della convivenza more uxorio sarebbe rinvenibile oltre che nell'art. 2 anche nell'art. 18 Cost. che, sancendo il principio della libertà associativa per finalità che non sono vietate dalla legge penale, escluderebbe in tal modo la sussistenza di limiti ulteriori a questa libertà che potrebbe estrinsecarsi anche nella costituzione di una famiglia di fatto, quale scelta alternativa a quella legittima. Altra parte della Dottrina, alla ricerca di forme più ampie di tutela, è andata ben oltre, ritenendo di poter utilizzare per radicare la rilevanza della famiglia di fatto anche il ricorso agli artt. 31, 36 e 37 Cost. In sostanza verrebbe in tal modo delineato un quadro di rilevanza costituzionale della libera unione, da cui trarrebbe origine non solo una tutela in senso negativo,nel senso,cioè, di una garanzia minima di esistenza, che si tradurrebbe nella impossibilità per il legislatore di vietarne la creazione, ma ancora forme più incisive di protezione dei diritti della persona, quale membro di un nucleo sociale comunque istituzionalizzato. In questo quadro la tutela di tale situazione giuridica andrebbe ricercata con il ricorso agli strumenti utilizzati nella regolamentazione dei rapporti interprivati, tipici degli atti di autonomia, con la specificazione che la protezione di tale interesse, siccome meritevole di tutela,non potrebbe non avere come parametri i principi generali di libertà, uguaglianza e solidarietà operanti nel settore specificamente familiare. 5. Il ricorso all'autonomia privata Dall'inquadramento della famiglia di fatto nell'ambito delle formazioni sociali è stato desunto da alcuni Autori il potere, per i privati, di disciplinare la vita che si svolge al suo interno con l'autoregolamentazione, utilizzando lo strumento di cui all'art. 1322, cpv, del Codice Civile, idoneo, secondo tale opinione, a regolare tali situazioni in concreto. Sul punto occorre sottolineare che tali forme convenzionali di autoregolamentazione sono diffuse in alcuni Stati europei, come in Francia ( definite contracts de cohabitation) e nei Paesi della common law (note come contracts of agreements), e tendono a disciplinare in maniera pressoché completa ed uniforme i rapporti personali e patrimoniali tra soggetti conviventi, demandano, inoltre, ogni altro profilo di tutela alla elaborazione dottrinale e giurisprudenziale. In questi ultimi anni, anche nel nostro Ordinamento si sono registrate significative tendenze in tal senso, tant'è che sono stati predisposti da notai modelli contrattuali atipici di convivenza ispirati alle esperienze straniere. In merito a tali contratti, un filone dottrinale, in realtà minoritario, ha ritenuto di poter desumere il contenuto degli accordi, ove manchi la forma scritta, dal comportamento reale dei conviventi nella loro vita comune come espressione di una loro volontà concorde. Maggior seguito ha invece avuto la opinione di chi ritiene che qualsiasi accordo diretto a regolare gli aspetti della vita in comune deve risultare da un'esplicita manifestazione di volontà. Sebbene non sia necessario il rispetto di formalità particolari, è preferibile la redazione di un documento scritto, per ragioni probatorie e ai fini di una puntuale determinazione dell'oggetto. La dottrina è concorde nell'escludere dall'autoregolamentazione i profili personali sia per l'impossibilità, ai sensi dell'art. 1321, di dedurre comportamenti personali in contratto, in quanto idonei a costituire prestazione ex art. 1174 Codice Civile, sia perché la violazione del principio di libertà personale ne determinerebbe irrimediabilmente la nullità. In conseguenza gli specifici obblighi che gravano sui coniugi (quello di coabitazione, fedeltà, collaborazione, assistenza morale) sarebbero rimessi all'attuazione spontanea da parte degli interessati e la loro inosservanza, data l'assenza di qualsiasi coercibilità, potrebbe comportare la rottura del rapporto senza, peraltro, dar luogo a particolari responsabilità. In base a tale opinione,l'oggetto dei contratti di convivenza si ridurrebbe ai soli rapporti di natura patrimoniale ed, in particolare, al dovere di contribuzione reciproca, di spese comuni, alle obbligazioni di assistenza, all'abitazione familiare, alla disponibilità e all'amministrazione dei beni personali, alla previsione della costituzione di un patrimonio comune, alla cessazione della convivenza e alle conseguenze sul piano economico. In siffatta maniera,in sostanza, sarebbe riprodotto da parte dei conviventi in via pattizia quello che è il regime primario della famiglia legittima e del regime convenzionale, sia pure con gli adattamenti richiesti dalla diversità del rapporto. In proposito sarebbe possibile individuare nelle formule notarili un contenuto minimale, consistente nella previsione di un dovere di contribuzione ed un regime eventuale,riferibile a tutte le altre clausole contrattuali, a conferma della vitalità dello strumento contrattuale, capace di essere utilizzato anche in ambiti tradizionalmente ritenuti estranei alla sua operatività. La specificità di questa tipologia contrattuale costituirebbe secondo tale opinione certamente un quid novum sebbene non abbia raggiunto livelli di generalità conseguiti in altri Ordinamenti atteso che con i contratti di convivenza non si darebbe origine alla famiglia di fatto, già costituita sulla base di un comportamento posto in essere dai soggetti interessati, ma varrebbe a stabilire quelle che sono le concrete modalità di attuazione di tale rapporto, predisponendo il programma economico di massima da realizzare, nel rispetto dei principi basilari di libertà, uguaglianza, solidarietà. 6. Le ragioni delle unioni di fatto. A questo punto,non va sottaciuta una breve disamina delle effettive ragioni delle unioni di fatto attualmente esistenti. Partendo dalla premessa che per unioni di fatto si intendono quelle che presuppongono una coabitazione accompagnata da una relazione sessuale (il che le contraddistingue da altri tipi di convivenza) e da una relativa tendenza alla stabilità (che le distingue da altri legami con coabitazioni sporadiche o occasionali), occorre in primo luogo sottolineare che le unioni di fatto non hanno tutte la stessa portata sociale né le stesse motivazioni. In primo luogo,del tutto condivisibili appaiono quelle di coloro che progettano di sposarsi nel futuro ma che condizionano il loro matrimonio all'esperienza di un'unione senza vincolo matrimoniale specie se lo si concepisce, alla stregua della morale cattolica, quale vincolo unico e indissolubile. La convivenza more uxorio costituisce una tappa necessaria per verificare la predisposizione e la compatibilità verso la vita di coppia ed uno strumento finalizzato ad evitare < >. Altri soggetti che convivono giustificano la loro scelta di vita in comune con il ricorso a motivazioni di carattere economico o per evitare difficoltà legali. In altri casi, il ricorso alle unioni di fatto riguarda persone divorziate o coloro che sono profondamente sfiduciati verso l'istituzione matrimoniale ed in altri casi la convivenza può nascere, a volte, dall'esperienza negativa e traumatica subita a causa di un divorzio precedente ovvero dal divorzio dei propri genitori. La complessità e la diversità della problematica delle unioni di fatto, appare chiaramente ove si consideri che , ad esempio, a volte la causa più immediata può rinvenirsi in motivi assistenziali. È il caso, ad esempio, di persone in età avanzata che stabiliscono relazioni solo di fatto per paura che il matrimonio comporti maggiori carichi fiscali o la perdita della pensione. Molto meno comprensibili appaiono le scelte di coloro che decidono di convivere in un'unione di fatto rifiutando esplicitamente il matrimonio per motivi ideologici. Si tratta allora della scelta di un'alternativa di vita in comune, di un modo ben preciso di vivere la propria sessualità. Tali soggetti considerano il matrimonio inaccettabile,contrario alle proprie scelte ideologiche, come pure una "violenza inammissibile al loro benessere personale" o persino la "tomba dell'amore tra due individui". 7. Conclusioni Sin qui l'opinione espressa da varie correnti dottrinali che meritano tutte di essere analizzate e che esprimono concezioni diverse dell'istituto della famiglia legittima e di della di fatto. Nel corso di questi ultimi decenni le convinenze more uxorio hanno assunto maggior rilievo nella realtà sociale, ponendosi all'attenzione di giuristi e studiosi delle vicende umane, con nuove forme di relazioni familiari che reclamano a gran voce un riconoscimento sul piano sociale e giuridico. Di conseguenza, sebbene non sia possibile penalizzare od ignorare l'esistenza di rapporti nella Società contemporanea che si concretizzano in una comunione spirituale e materiale di vita non fondata su un atto formale e da cui possono sorgere una serie di conflitti meritevoli di regolamentazione, le divisioni della Dottrina sulla questione, riflettono l'evolversi della coscienza sociale atteso che da una opinione dottrinale meno recente rivolta ad un atteggiamento ostile verso tali forme di convivenza si è passati alle posizioni della dottrina oggi prevalente che finiscono per riconoscere sotto alcuni aspetti la rilevanza giuridica del fenomeno della famiglia di fatto. In definitiva,posto che una regolamentazione legislativa della famiglia di fatto non contrasterebbe con i diritti sanciti dalla Costituzione in tema di formazioni sociali (art.2) e di famiglia in particolare (artt.29, 30, 31), appare necessario, secondo la Dottrina prevalente, ricondurre entrambi i concetti di famiglia legittima (come forma istituzionalizzata) e di famiglia di fatto (quid facti che assurge a quid iuris) nel più ampio concetto di < >, idoneo ad abbracciare l'intero ambito delle relazioni familiari che si sviluppano nella Società contemporanea, prese in esame nelle varie forme in cui esse si estrinsecano e che andrebbero tutte disciplinate dal Legislatore secondo il loro diverso ambito di operatività. La breve analisi dei rapporti della famiglia non fondata sul matrimonio sin qui delineata è volta semplicemente a porre l'accento su una situazione che sta prendendo sempre più una connotazione sociale reale pur nell'assenza o quasi di riconoscimenti normativi. Va sottolineato pure che,di fronte alle relazione familiari, lo Stato e il diritto tendono ad assumere un' atteggiamento di crescente indifferenza ideologica poiché rinunciano ad imporre alla coppia modelli etici precostituiti ed evitano interferenze nelle zone più personali del rapporto uomo-donna,lasciando margini sempre più ampi all'organizzazione ed al funzionamento della vita in comune;in altre parole estendono gli spazi di libertà. Parallelamente, tuttavia, Stato e diritto debbono garantire che determinati valori ed interessi della coppia, non inerenti strettamente alla sfera personale, vengano comunque salvaguardati. In sintesi, deve suscitare preoccupazione nel Legislatore il fatto che la famiglia stia attraversando un processo di deregulation con la conseguenza che la diffusione ed il parziale riconoscimento della famiglia di fatto da parte della stessa giurisprudenza documentano un effettivo quanto attuale processo di liberazione delle relazioni di coppia da ogni schema giuridico precostituito e lasciano aperti indeterminati quanto pericolosi spazi di vuoto normativo in materia. Autore: Avv. Mario Pavone - tratto da: www.ergaomnes.net | |