A seguito della riforma del diritto fallimentare appare opportuno
effettuare alcune riflessioni sui benefici, da una parte, e gli
inconvenienti, dall'altra, che il trust, quale strumentodell'autonomia
privata, potrebbe apportare alla procedura fallimentare in termini di
semplificazione e maggiore celerità.
La base del trust, istituto ancora semimisterioso nel nostro
diritto, è la fiducia e, come dice il nostro massimo studioso della
materia, la fiducia nasce sempre al di fuori dell'ordinamento giuridico:
"quest'ultimo può ignorarla oppure, a un certo punto del proprio sviluppo,
impossessarsene; quando se ne impossessa si aprono due strade: lo
stravolgimento o il mantenimento dell'essenza pregiuridica del
fenomeno"(1).
Che cosa si intende per trust ?
È ritenuto
ravvisabile un trust quando concorrono i seguenti elementi:
a) un
trasferimento di un diritto da un disponente ( settlor ) a un trustee o la
dichiarazione unilaterale di trust;
b) la non confusione tra il diritto
trasferito al trustee e le altre componenti del suo patrimonio
(segregazione);
c) l'esistenza di beneficiari o di uno scopo e la
conseguente funzionalizzazione dell'esercizio del diritto trasferito al
trustee.
In pratica, una massa di beni viene segregata all'interno del
patrimonio generale di un soggetto ( trustee ) e gli eventuali incrementi
non lasciano la massa segregata se non per essere trasferiti ai
beneficiari.
La Convenzione sottoscritta a L'Aja il 1° luglio 1985,
resa esecutiva in Italia in forza della legge 16 ottobre 1989, n. 364 ha
attribuito piena legittimità al trust, sia pure con qualche riserva
limitatamente ai soli "casi stabiliti dalla legge". Del resto, sarebbe
assurdo, anche al di là della Convenzione, ipotizzare una contrarietà
dell'istituto al nostro ordine pubblico economico con riferimento al
principio di responsabilità patrimoniale di cui all'art. 2740 cod. civ.
(delle proprie obbligazioni il debitore risponde "con tutti i suoi beni
presenti e futuri"), anzitutto perché l'enunciazione di detto principio è
seguita dalla espressa previsione di eccezioni (la responsabilità può
essere limitata solo nei "casi stabiliti dalla legge") e, in secondo
luogo, perché proprio specifici istituti del nostro ordinamento si fondano
sull'effetto segregativo riguardante alcuni particolari beni di un
patrimonio (si pensi al fondo patrimoniale di cui all'art. 167 cod. civ.,
alla rendita vitalizia di cui all'art. 188 cod. civ., ai patrimoni di
società destinati a uno specifico affare di cui all'art. 2447- bis cod.
civ. ecc.).
La compatibilità dell'istituto del
trust con il diritto positivo italiano (compatibilità già più volte
affermata dalla giurisprudenza) (2) non significa che, volta per volta,
non potranno nascere problemi di opponibilità, ma essi troveranno la loro
risposta nelle regole che disciplinano l'efficacia degli atti nei
confronti dei terzi (da quella concernente la data certa a quella
concernente la trascrizione degli atti. Né può escludersi l'esercizio
delle azioni revocatorie (ordinaria e fallimentare: artt. 2901 cod. civ.,
64 e 67 legge fall.). Semmai, si potrebbe dubitare che l'atto di
costituzione di trust sia sempre riconducibile alla categoria degli atti
gratuiti (art. 64 legge fall.), con la conseguenza che talvolta si debba
escludere l'inefficacia ope legis . Ricordiamo al riguardo che la
giurisprudenza, sia ai fini dell'esercizio delle azioni di cui si può
avvalere il curatore fallimentare sia ad altri fini, ha avuto modo di
pronunciarsi ora sulla natura gratuita, ora sulla natura onerosa (quanto
meno nei casi di proporzionalità) della costituzione di fondo patrimoniale
(3).
E in
dottrina c'è chi ha assimilato le due ipotesi del fondo patrimoniale e del
trust (4), tesi che non ci sentiamo di sottoscrivere, sembrando a nostro
avviso che possano verificarsi dei casi in cui debba essere escluso il
connotato della gratuità, come per esempio può succedere quando il trust
intervenga in un giudizio di esecuzione come frutto di un accordo
transattivo tra debitore- settlor e creditori-beneficiari. Comunque, anche
a voler qualificare l'atto come gratuito, rimane aperto il problema più
delicato, che è quello della configurabilità della esenzione da
revocatoria stabilita nell'art. 64 legge fall. per gli atti gratuiti
effettuati "in adempimento di un dovere morale" (sempre che sussista il
requisito della proporzionalità). È noto che la Corte di Cassazione, a
proposito del fondo patrimoniale, ha escluso l'esimente, considerando che
da parte dei genitori l'obbligo morale e giuridico di provvedere al
sostentamento dei figli non deve essere necessariamente soddisfatto
mediante la destinazione di beni a quel fine vincolati e quindi non
potrebbe ravvisarsi nell'atto un vero e proprio "adempimento" (5). Ma
questa argomentazione, già di per sé piuttosto fragile, ci sembra ancor
meno appropriata a un istituto come il trust , che, per la sua elasticità,
si può modellare su una gamma estesa e indeterminabile di
situazioni.
Piuttosto ci sembra opportuno, a proposito
dell'interesse che il trust può sollevare nelle procedure fallimentari,
spostare la nostra riflessione su un altro piano.
Intanto, va rilevato
che anche il fallimento, a partire dalla sentenza dichiarativa che sottrae
i beni al debitore affidandoli al curatore fallimentare, attua una
segregazione del patrimonio del fallito, nel senso che quel patrimonio è
finalizzato al soddisfacimento dei creditori concorsuali (cioè, quelli
sorti anteriormente all'inizio del fallimento). Il fallimento, quindi,
costituisce un esempio di segregazione legale, indipendente dalla volontà
delle parti. Tale segregazione, però, cessa con la chiusura del
fallimento, laddove la costituzione di un trust potrebbe servire a
ripristinare la segregazione per quelle attività che non erano
suscettibili di monetizzazione nel corso del fallimento (le ipotesi più
frequenti riguardano il credito per Iva pagata in eccedenza nel corso del
fallimento e le ritenute d'acconto sugli interessi maturati sui depositi
bancari, che diventano esigibili solo in caso di mancanza di imponibile
evidenziatasi dopo la dichiarazione di fallimento, e, cioè, in esito alla
dichiarazione finale del curatore) e che, quindi, con un trust potrebbero
continuare a essere finalizzate al soddisfacimento dei creditori
concorrenti anche dopo il ritorno in bonis del fallito. Sulla
praticabilità di questa strada si sta cominciando a discutere in Italia da
parte degli operatori e degli studiosi. Il curatore, è pacifico, può
cedere i crediti, magari futuri e non soltanto quelli fiscali, a terzi:
questa è una prassi diffusa, ma di scarsa convenienza giacché il
cessionario, che di solito è una società finanziaria, pretende di pagare i
crediti ceduti a un prezzo stracciato. Altre soluzioni prospettate sono:
a) la sopravvivenza delle funzioni degli organi fallimentari: tesi,
questa, che cozza contro la rigida regolamentazione dei compiti del
curatore fallimentare, la cui ultrattività è prevista in casi tassativi;
b) il mandato attribuito a un terzo: tesi, questa, che non risolve né il
problema di un'eventuale pretesa dell'Amministrazione finanziaria di
compensare il proprio debito alla restituzione con un eventuale credito
verso il fallito tornato in bonis, né quello della concorrenza tra
creditori anteriori al fallimento e creditori successivi, anche a voler
considerare il mandato, in quanto nell'interesse dei creditori
concorsuali, come un mandato in rem propriam e perciò irrevocabile da
parte del fallito subentrante. Il vero vantaggio (per la massa dei
creditori concorsuali) di una segregazione potrebbe derivare dalla
realizzazione di un trust , che preserverebbe il credito integro, a
esclusivo beneficio di tutti i creditori ammessi al passivo.
L'esperimento non è mancato (6), ma la reazione degli studiosi non è
stata univoca. Tutti convengono su quali sarebbero i benefici del ricorso
al trust da parte delle curatele: avvenuta la chiusura del fallimento, i
creditori individualmente non potrebbero agire sui beni sopravvenuti e
l'amministrazione finanziaria non potrebbe eccepire la compensazione dei
propri crediti rimasti insoddisfatti in sede di riparto.
Ed allora quali
sono gli ostacoli che si frappongono? Soprattutto, sembra che l'ostacolo
principale debba ravvisarsi nella specificità della disciplina
fallimentare, oltre che nell'impronta marcatamente pubblicistica della
procedura fallimentare: le norme del foro interno che riguardano la
disciplina della crisi di impresa e la tutela dei creditori non possono
essere derogate convenzionalmente a mezzo di un trust , tanto più che, ove
ciò fosse possibile, in astratto sarebbe allora possibile delegare a un
trustee la realizzazione di tutti i crediti e persino la liquidazione di
tutto l'attivo fallimentare.
A ciò si deve aggiungere:
1. la
circostanza che la stessa Convenzione pone alcuni limiti alla
riconoscibilità del trust allorquando i principi del foro interno
risultino inderogabili, in particolare, in alcune materie, tra le quali
quella che riguarda "la protezione dei creditori in caso di insolvibilità"
e che, tra i principi inderogabili del vigente sistema, vi è quello
dell'aggredibilità del patrimonio del fallito tornato in bonis sia da
parte dei vecchi creditori, sia da parte dei nuovi creditori su un piano
di parità;
2. il fatto che lo stesso istituto della riapertura del
fallimento (artt. 121 e segg. legge fall.) prevista per casi ben
individuati ed entro termini perentori sta a confermare che la
reviviscenza della destinazione dei beni del fallito al soddisfacimento
dei creditori già concorrenti nel fallimento chiuso è stata voluta dal
legislatore solo entro limiti ben precisi.
Insomma, troppi
argomenti, nell'attuale stadio della disciplina fallimentare, depongono
contro la praticabilità del trust al fine di segregare in favore dei
creditori concorrenti crediti che diventano esigibili dopo la chiusura del
fallimento.
Tuttavia, c'è da chiedersi se non sia cambiato lo scenario
a seguito dell'attuata riforma della legge fallimentare (D.Lgs. n.
5/2006), la cui entrata in vigore è prevista per il 16 luglio 2006.
Infatti, nell'ottica della ampliata libertà di forme che governa la fase
della liquidazione, si è riconosciuto al curatore, oggi vero dominus della
gestione della procedura, la possibilità di "cedere i crediti, compresi
quelli di natura fiscale o futuri, anche se oggetto di contestazione" e,
in alternativa, la possibilità di "stipulare contratti di mandato per la
riscossione". C'è da chiedersi se l'aver taciuto della possibilità di
istituire un trust sia indicativo di una volontà negativa o una semplice
dimenticanza. Tra l'altro, tutta la riforma, dall'enorme spazio attribuito
agli accordi negoziali alla rimodulazione dei ruoli degli organi della
procedura, è ispirata a una accentuata privatizzazione dell'insolvenza,
con depotenziamento del giudice delegato e valorizzazione dei poteri del
curatore fallimentare e del comitato dei creditori: perciò, una
utilizzazione del trust come mezzo di rapida conclusione della procedura,
sempreché la sua istituzione fosse prevista nel programma di liquidazione
(che fa carico al curatore) approvato dai creditori e dal giudice
delegato, potrebbe essere perfettamente in linea con le finalità di
velocizzazione e semplificazione delle procedure. A conforto di una tale
interpretazione, si leggano le parole della relazione accompagnatrice con
le quali si sottolinea che questa soluzione (cessione di tutti i crediti)
"è stata dettata dall'esigenza di evitare ritardi nelle chiusure delle
procedure concorsuali che, secondo il sistema previgente, sono spesso
dovuti proprio ai lunghi tempi connessi alla definizione, con sentenza
passata in giudicato, dei contenziosi fiscali e ordinari". Si aggiunga
che, nel nuovo art. 106 L.F., mentre sono state inserite alcune
limitazioni per quello che concerne la cessione di revocatorie (per il
dichiarato timore che un tale tipo di cessione "possa assumere una
connotazione negativa di tipo speculativo"), nulla si dice per le altre
azioni cedibili (che, secondo le parole della Relazione, "sono tutte
quelle comunque dirette a conseguire incrementi di patrimonio del
debitore"), il che costituisce un ulteriore argomento a favore dell'uso
del trust per il soddisfacimento dei creditori. Tutto dipende dal fatto
che un'interpretazione estensiva o analogica dell'art. 106 consenta di
assimilare al mandato il trust e che il legislatore, prevedendo l'uso del
mandato per l'incasso di crediti della procedura, abbia voluto contemplare
anche il mandato che sopravviva alla chiusura del fallimento: ma è proprio
questa l'unica lettura possibile che salvi una qualche utilità della
norma, che altrimenti si rivelerebbe una sottolineatura superflua dei
poteri di scelta attribuiti al curatore, che oggi, nella realizzazione
dell'attivo e nella monetizzazione del patrimonio del fallito, non è più
vincolato all'adozione di particolari modalità. In più, va considerato
che, in conseguenza del nuovo istituto dell'esdebitazione, la
praticabilità del trust si presta a fornire un opportuno correttivo al
sistema, evitando che cespiti maturati durante la procedura sfuggano
definitivamente alle giuste pretese dei creditori. Per concludere, se è
vero - come è stato detto - che l'attuata riforma fallimentare costituisce
una sfida per gli operatori del settore, a cui si richiederanno più che in
passato coraggio e inventiva, non va trascurata questa ulteriore
possibilità che emerge dalle pieghe del nuovo sistema.
_____
(1) M.
Lupoi, I trust nel diritto civile, Torino, 2000, pag. 1.
(2) Cfr., ex
pluribus, Trib. Parma 3 marzo 2005, in Fall., 2005, pag. 553, Cass. 18
dicembre 2004, Sez. IV pen., n. 48708, Trib. Brescia 12 ottobre 2004, in
Trust e attività fiduciarie, 2005, pag. 83.
(3) Cfr. Cass. 18 settembre
1997, n. 9292, e App. Brescia 13 febbraio 1981, in Giust. Pen ., 1989,
pag. 333.
(4) L. Panzani, nota in calce a Trib. Parma 3 marzo 2005,
cit.
(5) Cass. 18 settembre 1997, n. 9292, cit.
(6) Cfr. Trib. Roma
4 marzo 2003, in Fall., 2004, 101, (con nota di) G. Fauceglia, "La
funzione del trust nelle procedure concorsuali".
tratto da "Diritto e Società" - n.
3/2006