Trust e crisi d'impresa
Negli ultimi anni è stato oggetto di ampia diffusione, a livello di prassi, il ricorso all’istituto giuridico del trust anche nella gestione della crisi d’impresa.
Con l’espressione, di uso corrente, ‘trust liquidatorio’ si identifica una particolare tipologia di trust, le cui caratteristiche distintive consistono nell’essere istituito da un imprenditore (indifferentemente, persona fisica o giuridica), nonché nell’essere oggetto del conferimento in trust il patrimonio aziendale o parte di esso.
Dal punto di vista strutturale, il trust liquidatorio può essere costituito nella forma del trust con beneficiari, coincidenti, nello specifico, con i creditori, ovvero nella forma del trust di scopo, rappresentato dalla finalità di soddisfare i creditori del settlor.
1. Le fattispecie astrattamente prospettabili.
Il fine del trust liquidatorio è, generalmente, quello della liquidazione del patrimonio aziendale con l’obiettivo di soddisfare i creditori con i proventi della liquidazione.
Il trust liquidatorio è, tuttavia, funzionalmente idoneo a realizzare anche obiettivi diversi.
Potrebbe, a titolo esemplificativo, essere istituito con l’obiettivo di liquidare il patrimonio sociale segregato con una procedura che sostituisce in toto la ‘classica’ procedura liquidatoria ovvero con una procedura che mira alla realizzazione, con mezzi diversi, del medesimo risultato: recuperare l’attivo, pagare il passivo, ripartire il residuo e cancellare la società.
Il ricorso al trust potrebbe anche porsi quale alternativa alle misure concordate di risoluzione della crisi d’impresa: per il settlor che versi in una situazione di crisi di liquidità, contraddistinta, tuttavia, da margini di ripresa, il ricorso al trust liquidatorio si configurerebbe come astrattamente funzionale ad evitare lo stato di insolvenza e la proposizione dell’istanza di fallimento da parte dei creditori. In tale ipotesi il trust è definito ‘endo-concorsuale’.
Infine, il trust potrebbe essere istituito in sostituzione della procedura fallimentare al fine di impedire lo spossessamento dell’imprenditore insolvente: in tale ipotesi il trust è definito ‘anti-concorsuale’.
2. La fattispecie esaminata da Cass. civ., sez. I, 23 maggio 2017, n. 12925.
La quaestio iuris che maggiormente è stata (e continua ad essere) sottoposta al vaglio della magistratura attiene alla idoneità, da un punto di vista funzionale, del trust liquidatorio alla composizione della crisi d’impresa.
Di recente, la Corte di cassazione si è (nuovamente) pronunciata in materia di trust liquidatorio: i Supremi Giudici, al cui esame è stata sottoposta una controversia relativa alla dichiarazione di fallimento di una società in accomandita semplice, hanno confermato la sentenza impugnata, per aver «puntualmente» ritenuto che in sede di dichiarazione di fallimento della società non rilevasse «in senso contrario la segregazione in trustda parte del socio illimitatamente responsabile della società, visto che alla costituzione del trustnessuna attività di concreta liquidazione aveva fatto seguito».
3. La ricognizione della giurisprudenza di merito e della disciplina del trust.
A livello di giurisprudenza di merito, molti sono stati i casi in cui i Tribunali e le Corti d’Appello hanno negato la validità di trust costituiti nella forma del c.d. trust liquidatorio, in quanto ritenuti - in concreto - privi di finalità liquidatoria per essere l’unico obiettivo perseguito dal settlor quello di segregare il patrimonio in frode ai creditori.
3.1. Il quadro normativo.
L’unica normativa di riferimento è rinvenibile nella legge 16 ottobre 1989 n. 364, mediante la quale l’istituto del trust è stato introdotto, a livello ordinamentale, mediante la ratifica e l’esecuzione della Convenzione adottata a L’Aja il 1° luglio 1985, sulla legge applicabile ai trusts e sul loro riconoscimento: «l’istituto del trust è stato recepito nell’ordinamento italiano, non con una regolamentazione diretta dello stesso, ma con l’adesione alla Convenzione dell’Aja del 1° luglio 1985, ratificata in Italia con legge 16.10.1989, n. 364, in forza della quale lo Stato Italiano si è obbligato al “riconoscimento” di un istituto sicuramente estraneo al proprio ordinamento, soggetto alla legge regolatrice scelta dal disponente, non definito concettualmente, ma descritto nelle sue caratteristiche minime (in particolare si vedano artt. 2 e 11 della Convenzione» (in termini, Corte App. Venezia, 10 luglio 2014).
A seguito della ratifica, senza riserve, della Convenzione de L’Aja, in Italia possono essere riconosciuti effetti giuridici al trust costituito secondo la legge di uno Stato che lo preveda nel proprio ordinamento giuridico come istituto tipico.
La Convenzione de L’Aia, tuttavia, non appronta una disciplina puntuale, né definisce concettualmente l’istituto, ma si limita ad individuarne le caratteristiche strutturali salienti e a stabilire un criterio di riferimento per determinare la legge regolatrice.
Il primo comma dell’art. 2 del testo convenzionale definisce il trust come il complesso dei «rapporti giuridici istituiti da una persona, il disponente – con atto tra vivi o mortis causa– qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trusteenell’interesse di un beneficiario o per un fine determinato».
Il secondo comma del menzionato art. 2 individua i seguenti elementi essenziali del trust, la cui ricorrenza è necessaria al fine della qualificazione giuridica della fattispecie concreta come trust:
(i) la distinzione dei beni del trust dal patrimonio del trustee;
(ii) l’intestazione degli stessi al trustee o ad un altro soggetto per conto del trustee;
(iii) il conferimento al trustee del potere, di cui deve rendere conto, di amministrare, gestire o disporre dei beni in conformità alle disposizioni del trust e secondo le norme imposte dalla legge al trustee.
Requisito essenziale del trust è l’effettivo potere-dovere del trustee di amministrare e disporre dei beni ad esso affidati dal settlor, con la conseguenza che i diritti e le facoltà che il settlor può riservare a sé stesso devono essere tali da non precludere al trustee il pieno esercizio del potere di controllo sui beni (cfr. risoluzione dell’Agenzia delle Entrate, Direzione Centrale Normativa e Contenzioso n. 8/E del 17 gennaio 2003).
Pertanto, rientrano nell’ambito di applicazione della Convenzione de L’Aja unicamente i negozi giuridici riconducibili al concetto di trust come sopra definito, riconducibilità da valutarsi non in astratto, bensì in concreto, caso per caso, anche in considerazione del limite espressamente previsto dall’art. 15 della Convenzione medesima, attinente al rispetto delle norme imperative e dei principi inderogabili dell’ordinamento giuridico.
La citata Convenzione, infatti, prevede una particolare tutela per alcuni settori dell’ordinamento: le disposizioni in essa contenute non possono costituire ostacolo alla «applicazione delle disposizioni di legge previste dalle regole di conflitto del foro, allorché non si possa derogare a dette disposizioni mediante una manifestazione della volontà, in particolare nelle seguenti materie: … e) la protezione di creditori in casi di insolvibilità» (cfr. art. 15, co. 1).
3.2. L’orientamento del Tribunale di Milano: la tesi della nullità.
Uno dei primi fori giudiziari che si è occupato del trust liquidatorio è stato il Tribunale di Milano.
Con l’ordinanza del 16 giugno 2009, Est. Dott. D’Aquino, emessa, peraltro, in un’epoca in cui i Giudici di legittimità non si erano ancora pronunciati ex professo su tale tipologia di trust, il Giudice meneghino ha affrontato la quaestio iuris della sopravvivenza al fallimento del disponente (nel caso specifico, una società in nome collettivo) dell’atto istitutivo di un trust avente ad oggetto il conferimento in trust del patrimonio aziendale e come beneficiari, in via immediata, i creditori sociali e, in via gradata, i creditori postergati, i finanziatori della società e i soci.
Come osservato preliminarmente dal Tribunale, «il problema riguarda la compatibilità del trustcon la disciplina di diritto interno del fallimento sopravvenuto del disponente e la possibilità che il trust che vede come beneficiari i creditori (tutti) di un imprenditore sopravviva alla dichiarazione di fallimento del disponente».
Pregiudiziale, rispetto alla risoluzione della suddetta quaestio iuris, si pone, a giudizio del Giudice meneghino, l’ulteriore (e diversa) questione della riconoscibilità a livello ordinamentale del trust.
Il Tribunale di Milano, con la citata ordinanza, ha ritenuto che «[i]n linea di principio non può ritenersi incompatibile con la disciplina concorsuale … un trustliquidatorio che persegua per conto del disponente in bonisfinalità di tutela dei creditori quali beneficiari del trust», potendo il debitore «conferire in trustalcuni beni laddove tale conferimento assicurasse la migliore utilizzazione di quei beni».
In sostanza, il trust «costituirebbe una alternativa alle procedure concorsuali, come nel caso di concordati stragiudiziali, ovvero di operazioni temporanee che servano a coadiuvare promuovende procedure concorsuali minori».
L’imprenditore potrebbe, secondo il ragionamento del Giudice meneghino, «astrattamente costituire in trustalcuni beni (es. i crediti contenziosi)» a condizione, però, che «tale segregazione consent[a]di perseguire, come in effetti persegue, l’interesse di ottimizzare l’interesse dei beneficiari (i creditori)».
La relativa valutazione, tuttavia, è «condizionata dalla qualità dell’articolazione del programma negoziale contenuto nell’atto istitutivo».
In nessun caso, invece, il trust potrebbe sostituirsi o precludere la liquidazione fallimentare «laddove si ponga come trustliquidatorio dell’intero compendio aziendale della società poi fallita».
Ciò che rileva, secondo il Giudice meneghino, è la causa concreta del negozio posto in essere, da indagare caso per caso e in considerazione della condizione finanziaria in cui versava il settlor all’epoca dell’istituzione del trust: ove il trust risulti essere stato istituito con la finalità di segregare tutti i beni dell’impresa in danno dei creditori del settlor, con l’effetto, concreto, di precluderne l’apprensione da parte della curatela fallimentare del disponente, sarebbe incompatibile con l’ordinamento italiano.
Ciò a maggior ragione nell’ipotesi in cui il disponente versasse, già all’epoca dell’istituzione del trust, in condizione di insolvenza e fosse, in ragione di tale condizione, obbligato, per intervenuta perdita dei mezzi propri, a fare ricorso agli istituti concorsuali.
In altri termini, una volta intervenuta la sentenza dichiarativa del fallimento del settlor «la gestione e liquidazione degli assetdel disponente fallito non può essere più proseguita sulla base di un regolamento negoziale del disponente, ma invito dominosecondo le regole della liquidazione concorsuale».
Gli effetti tipici della dichiarazione di fallimento (quali, a titolo esemplificativo, lo spossessamento del fallito a tutela dei creditori e la speciale regolamentazione della liquidazione dei beni del fallito) si appalesano incompatibili con la conservazione di un istituto fiduciario di fonte privatistica quale è, per l’appunto, il trust.
Con la conseguenza, di ordine giuridico, che «il fallimento sopravvenuto si configura come causa sopravvenuta di scioglimento dell’atto istitutivo del trust, analogamente a quelle ipotesi negoziali la cui prosecuzione è incompatibile con la dichiarazione di fallimento».
Secondo il ragionamento del Tribunale di Milano, pur non essendovi - né nella legge fallimentare né nella Convenzione de L’Aja - una espressa norma di regolazione del conflitto, il cennato effetto di scioglimento costituirebbe il risultato dell’applicazione in via analogica di «quelle disposizioni che prevedono lo scioglimento ex legedi fattispecie negoziali stipulate dall’impresa in bonisla cui prosecuzione non è compatibile con la liquidazione fallimentare (artt. 76, 77 e soprattutto art. 78 l.f.)».
Nell’ipotesi, opposta, in cui all’atto dell’istituzione del trust il settlor fosse già in stato di insolvenza (ovvero nelle condizioni per poter accedere immediatamente, senza l’intermediazione di altri atti negoziali, agli istituti concorsuali), l’atto istitutivo sarebbe da ritenersi «illecito sin dall’origine e, quindi, non riconoscibile ex art. 11 conv. cit. in quanto elusivo della disciplina fallimentare», nonché «incompatibile ab originecon la clausola di salvaguardia di cui all’art. 15, lett. c)», trattandosi, de facto, di «un atto privatistico che mira dissimulatamente a sottrarre agli organi della procedura la liquidazione dei beni in assenza del presupposto sul quale poggia il potere dell’imprenditore di gestire il proprio patrimonio, ossia che l’impresa sia dotata dei mezzi propri».
Sul piano effettuale, poiché «la causa in concreto perseguita dal disponente collide con le norme di cui agli artt. 13, 15 lett. e)» della Convenzione de L’Aja, si ha «la nullità dell’atto istitutivo del truste, conseguentemente, anche la nullità dell’effetto segregativo che ne è scaturito».
Invero, pur essendo lo scopo dichiarato dal settlor quello di protezione del beneficiario, si realizza, in concreto, un «abusivo utilizzo del trustper sottrarre il disponente alla legislazione concorsuale italiana».
Come cennato in precedenza, la valutazione circa la liceità dell’atto istitutivo del trust deve essere effettuata nel caso concreto.
Elemento avente valore indiziante dell’illiceità del trust è ritenuta, a titolo esemplificativo, la circostanza che il trust si sia posto, in maniera generica, lo scopo di operare la liquidazione per tutelare i creditori, conferendo al trustee ogni potere, qualora lo scopo sia accompagnato, de facto, da un programma strategico meramente apparente e con clausole di stile.
Un trust di questo tipo, secondo il Giudice meneghino, è radicalmente nullo in quanto «non persegue interessi meritevoli di tutela, essendo la causa in concreto perseguita dal disponente diretta ad eludere le norme imperative che presiedono alla liquidazione concorsuale in violazione degli artt. 13, 15 lett. e) conv. dell’Aja».
La tesi della nullità ex art. 1418 c.c. del trust liquidatorio (inteso quale segregazione patrimoniale di tutto il patrimonio aziendale finalizzata alla liquidazione, in forme privatistiche, dell’azienda sociale) istituito dall’imprenditore (indifferentemente, persona fisica o giuridica) in stato di insolvenza allorché abbia l’effetto di sottrarre la liquidazione dei beni agli organi della procedura fallimentare, in palese contrasto con le norme imperative concorsuali, costituisce l’orientamento prevalente nella giurisprudenza di merito (cfr. ex multis Corte App. Catania, 16 novembre 2012; Trib. Milano, 27 maggio 2013; Trib. Napoli, 3 marzo 2014).
Degno di menzione, quanto alla giurisprudenza che si discosta dall’orientamento maggioritario, è un provvedimento del Tribunale di Cremona, il quale ha ritenuto la tesi della nullità contrastante con il progressivo ampliamento degli spazi che l’autonomia privata può assolvere nella composizione della crisi d’impresa, ciò sulla base della considerazione che non solo l’ordinamento nazionale «conosce altri strumenti di autonomia privata attraverso i quali il debitore, ivi comprese le società commerciali, possono gestire per via negoziale e stragiudiziale il rapporto con i creditori, tra i quali spicca la cessio bonorum, ex art. 1977 e ss. c.c., rispetto alla quale non ci si è mai sognati di invocare una nullità originaria per il caso che l’impresa si trovasse già in stato d’insolvenza all’epoca della conclusione del contratto de quo», ma anche della considerazione che negli ultimi anni è stata, da parte del legislatore nazionale, «imboccata in misura via via crescente la strada della privatizzazione delle procedure concorsuali» (sentenza 8 ottobre 2013, Est. Borella).
Secondo il provvedimento de quo, il trust liquidatorio istituito da impresa in stato di dissesto non è ab origine nullo (o inefficace) ex art. 13 della Convenzione de L’Aja del 1985, per contrasto con la legge fallimentare ovvero con la liquidazione concorsuale: ricorrendo tale evenienza, la disciplina applicabile sarebbe quella prevista dall’atto istitutivo del trust o, in mancanza, dalla legge regolatrice prescelta per il caso di impossibilità del trust di raggiungimento dello scopo, impossibilità nello specifico «derivante dalla prevalenza della procedura pubblica su quella privata».
In altri termini, «ogni volta che, dopo la costituzione di un trustliquidatorio, sopravvenga il fallimento della società, si verificherà una impossibilità di raggiungimento dello scopo del trust stesso e, allora, dovrà verificarsi di volta in volta cosa prevedano l’atto istitutivo del trusto la legge prescelta per la sua disciplina in ordine alla sorte dei beni conferiti».
Il Tribunale di Cremona ha, tuttavia, precisato che «quand’anche sia l’uno che l’altra prevedano scopi incompatibili con la procedura concorsuale … il Curatore avrà comunque a disposizione lo strumento specifico dell’azione revocatoria per tornare in possesso dei beni conferiti in trust».
Rimedio la cui specificità ed espressa previsione a livello ordinamentale ha condotto il Giudice cremonese ad affermare che «non si vede l’utilità di ipotizzare invalidità originarie o sopravvenute del trustdifficilmente praticabili, salvo solo l’ipotesi dello sharm trust».
4. La fattispecie esaminata da Cass. civ., sez. I, 9 maggio 2014 n. 10105: la tesi della irriconoscibilità del trust e della conseguente nullità dell’atto dispositivo di trasferimento dei beni al trustee.
Il primo pronunciamento della Corte di cassazione nella materia in esame risale ad epoca relativamente recente.
Si tratta della nota sentenza n. 10105 del 9 maggio 2014, Rel. Nazzicone, degna di particolare menzione avendo con essa i Supremi Giudici affrontato ex professo la questione della liceità ed efficacia del trust liquidatorio e degli effetti della sua eventuale illiceità (illiceità «ravvisata dalla corte d’appello, con riguardo al requisito dell’insolvenza della società al fine di fondare la dichiarazione di fallimento»).
La soluzione sanzionatoria adottata dai Supremi Giudici si appalesa solo in apparenza in linea con quella prevalentemente seguita dalla giurisprudenza di merito, essendo stata declinata, in maniera più articolata, sulla base della distinzione tra (ir)riconoscibilità del trust e nullità dell’atto dispositivo di trasferimento dei beni al trustee.
Secondo il complesso ragionamento seguito, la nullità dell’atto dispositivo costituisce l’effetto sanzionatorio prodotto non dalla contrarietà di tale atto alle disposizioni della Convenzione de L’Aja (segnatamente, art. 15, co. 1, lett. e), ma dall’assenza di una causa negoziale (c.d. nullità strutturale ex art. 1418, co. 2, c.c.), assenza derivante dalla non riconoscibilità a livello ordinamentale nazionale di un trust liquidatorio in presenza dello stato di insolvenza del settlor.
In primis la Corte ha precisato che la Convenzione de L’Aja del 1985, quale convenzione di diritto internazionale privato, regola la possibilità del riconoscimento in Italia degli effetti del trust: «[l’]eventuale riconoscimento comporta che il trustsia regolato dalla legge scelta dalle parti o da quella individuata secondo le regole della stessa convenzione (art. 6-10); l’atto di trasferimento dei beni in trustresta, invece, regolato dalla lex fori(art. 4). Peraltro, in ragione della estraneità dello strumento agli istituti giuridici di molti ordinamenti, la Convenzione dell’Aja contiene plurimi limiti di efficacia per il trustnegli art. 13, 15, 1° comma, lett. e), 16 e 18».
In particolare, l’art. 13 della Convenzione de L’Aja, nel regolamentare le condizioni del riconoscimento, stabilisce testualmente che«[n]essuno Stato è tenuto a riconoscere un trusti cui elementi importanti, ad eccezione della scelta della legge da applicare, del luogo di amministrazione e della residenza abituale del trustee, sono più strettamente connessi a Stati che non prevedono l’istituto del trusto la categoria del trustin questione».
Nel procedere all’esame dell’istituto, i Supremi Giudici hanno rilevato che la separazione patrimoniale in vista del soddisfacimento di un interesse del beneficiario o del perseguimento di un fine dato costituisce «la causa astratta» propria dello strumento del trust, il quale «si inserisce nell’ambito della più vasta categoria dei negozi fiduciari».
Il «“programma di segregazione” corrisponde solo allo schema astrattamente previsto dalla Convenzione, laddove il programma concreto non può che risultare sulla base del singolo regolamento d’interessi attuato, la causa concreta del negozio».
Potendo il trust «[q]uale strumento negoziale “astratto”, … essere piegato invero al raggiungimento dei più vari scopi pratici», si pone come imprescindibile «esaminare, al fine di valutarne la liceità, le circostanze del caso di specie, da cui desumere la causa concreta dell’operazione», con l’avvertenza che l’ordinamento nazionale non può «fornire tutela ad un regolamento di interessi che, pur veicolato da negozio in astratto riconoscibile in forza di convenzione internazionale, in concreto contrasti con i fini di cui siano espressione norme imperative interne».
Conseguentemente, «la causa concreta va sottoposta ad un vaglio particolarmente attento».
I Supremi Giudici, pur avendo dichiarato di aderire all’orientamento diffuso tra i giudici di merito (secondo cui «il cd. trustliquidatorio – segregazione patrimoniale di tutto il patrimonio aziendale istituita per provvedere, in forme privatistiche, alla liquidazione dell’azienda sociale – è nullo, ai sensi dell’art. 1418 c.c., allorché abbia l’effetto di sottrarre agli organi della procedura fallimentare la liquidazione dei beni in contrasto con le norme imperative concorsuali, secondo le espresse regole di esclusione previste dagli art. 13 e 15, lett. e), della convenzione dell’Aja del 1° luglio 1985»), hanno, tuttavia, ritenuto di aggiungere alla soluzione prospettata alcune «precisazioni», riferite precipuamente all’ipotesi del c.d. trust anti-concorsuale, ovvero l’ipotesi in cui «il trustviene a sostituirsi alla procedura fallimentare ed impedisce lo spossessamento dell’imprenditore insolvente».
Secondo il ragionamento articolato nella sentenza in commento, nel trust anti-concorsuale - trattandosi di operazione negoziale che, «sotto le vesti di attribuire ai creditori la posizione di beneficiari, non permett[e]loro la condivisione del governo del patrimonio insolvente» - la causa concreta del regolamento consiste nel «segregare tutti i beni dell’impresa, a scapito di forme pubblicistiche quale il fallimento, che detta dettagliate procedure e requisiti a tutela dei creditori del disponente».
Ricorrendo tale ipotesi, il trust, «sottraendo il patrimonio o l’azienda al suo titolare ed impedendo una liquidazione vigilata – in quanto rimette per intero la liquidazione dell’attivo alla discrezionalità del trustee– determina l’effetto, non accettabile per il nostro ordinamento, di sottrarre il patrimonio del debitore ai procedimenti pubblicistici di gestione delle crisi d’impresa ed all’attivo fallimentare della società settloril patrimonio stesso», con la conseguenza che «l’ordinamento non può accordarvi tutela».
Sul piano effettuale, si pone come pregiudiziale «la formulazione di un giudizio di riconoscibilità del trustnel nostro ordinamento, nel raffronto con le norme inderogabili e di ordine pubblico in materia di procedure concorsuali».
Ove il trust risultasse essere stato istituito in una situazione di insolvenza si porrebbe, secondo i Giudici di legittimità, in rapporto di incompatibilità con le norme inderogabili e di ordine pubblico in materia di procedure concorsuali, con la conseguenza che un siffatto trust «sarà “non riconoscibile” ai sensi dell’art. 15 della Convenzione», ovvero ai sensi della clausola di salvaguardia espressamente posta dal citato art. 15, la quale pone una espressa clausola di salvezza dell’applicazione, nel singolo Stato, delle disposizioni poste, a livello ‘locale’, a tutela dei creditori, cui è integralmente demandata sia la qualificazione della fattispecie che l’individuazione dei rimedi attivabili.
Ne consegue che, «una volta accertata la non riconoscibilità, lo strumento non produce alcun effetto giuridico nel nostro ordinamento, in particolare non quello di creare un patrimonio separato, restando tamquam non esset».
Poiché «l’ultimo comma [dell’art. 15 della Convenzione de L’Aja, n.d.r.]aggiunge che «qualora le disposizioni del precedente paragrafo siano si ostacolo al riconoscimento del trust, il giudice cercherà di attuare gli scopi del trust in altro modo»», compete al giudice «denegare il disconoscimento».
Segnatamente, «il giudice che pronuncia la sentenza dichiarativa del fallimento provvede incidenter tantumal disconoscimento del trustliquidatorio, il quale finisce per eludere artificiosamente le disposizioni concorsuali sottraendo al curatore la disponibilità dell’attivo societario».
In termini pratici, il trust «deve essere disconosciuto dal giudice del merito, ogni volta che sia dichiarato il fallimento per essere accertata l’insolvenza del soggetto, ove l’insolvenza preesistesse all’atto istitutivo».
Pertanto, poiché, secondo il ragionamento della Suprema Corte, dalla dichiarazione di fallimento deriva «l’integrale non riconoscimento del trust, ai sensi dell’art. 15, primo comma, lett. e) della Convenzione», il negozio istitutivo del trust è «privo in via assoluta di effetti in quanto non riconosciuto ab origine», ovvero tamquam non esset.
Quanto alla questione della sorte degli atti dispositivi, di trasferimento dei beni o dell’azienda in favore del trustee, essendo espressamente esclusa l’applicabilità della Convenzione de L’Aja alle questioni relative alla validità degli atti giuridici di trasferimento (cfr. art. 4) e dovendo la questione essere risolta in virtù della legge interna, «dal momento che il negozio istitutivo del trustsi pone come antecedente causale (almeno dal punto di vista logico-giuridico, anche qualora contestuale) dell’attribuzione patrimoniale operata con l’atto di trasferimento dei beni, ove non riconoscibile il primo diviene privo di causa il secondo (nullo exart. 1418, secondo comma, prima parte, c.c. perché operato in esecuzione di negozio riconoscibile)».
In estrema sintesi, i Supremi Giudici hanno ritenuto che in presenza di un preesistente stato di insolvenza il trust liquidatorio non sia suscettibile di riconoscimento a livello di ordinamento nazionale e, conseguentemente, il relativo negozio istitutivo non sia idoneo a produrre alcun effetto di segregazione, nonostante il fine dichiarato nell’atto istitutivo sia quello di provvedere alla liquidazione della società nell’esclusivo interesse del ceto creditorio e benché l’atto contenga la clausola che preveda, in caso di procedura concorsuale sopravvenuta, la consegna dei beni ai creditori.
Ne deriva che, essendo l’atto istitutivo del trust tamquam non esset, l’atto dispositivo di trasferimento dei beni o dell’azienda in favore del trustee è affetto da radicale nullità.
Vai alla Sentenza Cassazione Civile, Sez. I, 23/05/2017 n. 12925
Vai alla Sentenza Cassazione Civile, Sez. I, 09/05/2014 n. 10105
Pubblicato su www.altalex.it – Articolo del 07/08/2017