La Transazione:
2. impugnazione, risoluzione e recesso


Possibilità di impugnazione e cause di risoluzione

In linea di principio la transazione non può essere impugnata dalla parte che si convinca che avrebbe potuto affrontare vittoriosamente un giudizio sulla lite, invece di accettare di comporla: ben si comprende, perciò, che l'art. 1969 cod. civ. stabilisca che non si può impugnare una transazione invocando un errore di diritto relativo alle questioni che sono state oggetto di controversia fra le parti.

Tuttavia, se una parte era consapevole non solo di aver torto, ma addirittura che la lite era, da parte sua, temeraria, l'altra può chiedere l'annullamento dell'accordo transattivo (art. 1971 cod. civ.). Com'è facile intuire, in ipotesi siffatte l'onere probatorio non sarà facilmente assolvibile da quella tra le parti che abbia interesse ad agire per l'annullamento (Cass. 3/4/2003, n. 5139, richiede in proposito la totale infondatezza della pretesa fatta valere e la mala fede).

Altre ipotesi di annullamento della transazione raggiunta tra le parti, sono previste dagli artt. 1973, 1974 e 1975 cod. civ.
Trattasi dei casi in cui la transazione sia stata stipulata in base a documenti che in seguito sono stati riconosciuti falsi (art. 1973 c.c.); oppure per l'esistenza di un precedente giudicato ignoto ad una o ad entrambe le parti (art. 1974 cod. civ.) od, infine, qualora la transazione riguardi un determinato affare, allorché posteriormente all'accordo transattivo vengano alla luce documenti che provino che una delle parti non aveva alcun diritto (art. 1975 cod. civ. 2° comma).

Quest'ultima ipotesi di annullabilità non è tuttavia ritenuta applicabile ai contratti di transazione riguardanti generalmente tutti gli affari intercorsi tra le parti, a meno che i documenti successivamente scoperti non siano stati occultati da una di esse.

La natura e la funzione della transazione giustificano anche la norma che ne esclude l'impugnabilità per causa di lesione (art. 1970 cod. civ.). Difatti, per valutare se vi sia stata lesione a carico di una delle parti occorrerebbe previamente accertare quale fosse realmente la situazione giuridica contestata, accertamento che la transazione mira ad evitare.

Infine, è nulla la transazione relativa ad un contratto illecito, ancorché le parti abbiano transatto della nullità di questo (art. 1972 cod. civ.).

Diversamente, negli altri casi di nullità del titolo sul quale è stato raggiunto l'accordo transattivo, la transazione è semplicemente annullabile e l'impugnazione può essere proposta solo dalla parte che ignorava la causa di nullità (art. 1972, 2° comma cod. civ.).

 

Inadempimento ed ipotesi di risoluzione

L'unica causa di risoluzione esplicitamente disciplinata in tema di transazione è l'inadempimento (art. 1976 c.c.). La risoluzione per inadempimento restituisce il rapporto oggetto dell'accordo transattivo nella situazione giuridica preesistente.

In ordine alle altre cause di risoluzione del contratto previste in via generale dal Codice civile, si ritiene senz'altro ammissibile la risoluzione per mutuo consenso dei contraenti (art. 1372 c.c.), la risoluzione per impossibilità totale (art. 1463 c.c.) e si riconosce pure la possibilità di recedere dal contratto, per la parte che non abbia interesse ad un adempimento parziale, nel caso di sopravvenuta impossibilità parziale (art. 1464 c.c.).

Il prevalente orientamento ammette infine l'applicabilità al contratto di transazione anche dell'art. 1467 c.c. per l'ipotesi di sopravvenuta eccessiva onerosità della prestazione di una delle parti.

La risoluzione

La risoluzione ed il recesso sono due tra le più importanti modalità di cessazione dei rapporti contrattuali.

In primo luogo va detto che il recesso, al contrario della risoluzione, non trova una sua disciplina specifica nelle norme sul contratto in genere, ma è regolato nella quasi totalità dei contratti tipici. In termini generali si parla di recesso nell'art. 1373 cod. civ., in ordine agli effetti del contratto, tra le cause di scioglimento previste dalla legge, dove si precisa che qualora sia attribuita ad una delle parti la facoltà di recedere, questa potrà essere esercitata fino a che il contratto (a prestazioni istantanee) non abbia avuto un principio di esecuzione. Fa eccezione al predetto principio di carattere generale l'ipotesi in cui il contratto sia a esecuzione continuata o periodica, dove il recesso può essere esercitato in qualunque momento ed è però privo di efficacia, come d'altronde la risoluzione (art. 1458 cod. civ.), per le prestazioni già eseguite o in corso di esecuzione.
Ancora, in termini di efficacia del recesso, l'art. 1373 c.c. prevede l'ipotesi che a fronte del diritto di recesso riconosciuto ad una delle parti sia previsto un corrispettivo, e subordina l'efficacia dell'atto unilaterale di recesso all'avvenuta prestazione del corrispettivo (salvo che le parti si siano accordate diversamente).
Altra differenza di carattere generale è costituita dall'efficacia, retroattiva (Cass. 11/03/03 n. 3555) nei casi di risoluzione (salva l'ipotesi dei contratti ad esecuzione continuata o periodica) e sempre ex nunc per quanto attiene all'atto di recesso.

Inoltre la risoluzione, eccettuati i casi di risoluzione di diritto per l'operatività di una clausola risolutiva espressa o in caso di inadempimento con l'utilizzo dello schema della diffida ad adempiere ex art. 1454 c.c. (Cass. 28/06/01 n. 8844), presuppone comunque l'intervento di una pronuncia di carattere costitutivo da parte dell'autorità giudiziaria, mentre gli effetti del recesso conseguono alla dichiarazione di volontà della sola parte recedente.

Esaminate queste caratteristiche di carattere generale passo all'analisi delle varie forme di risoluzione e recesso riscontrabili nella disciplina di parte generale e nella regolamentazione dei singoli tipi contrattuali.

La risoluzione è prevista nella disciplina generale del contratto quale modalità di cessazione degli effetti dello stesso e si può suddividere in tre ipotesi principali a seconda delle motivazioni sulle quali la stessa si basa.

La prima e di gran lunga la più frequente nella prassi contrattuale è costituita dalla risoluzione per inadempimento, prevista dagli artt. 1453 e ss. cod. civ., con ulteriori tre sotto categorie (dotate di peculiari caratteristiche): la diffida ad adempiere (art. 1454 c.c.), il termine essenziale (art. 1457 c.c.) e la clausola risolutiva espressa (art. 1456 c.c.).

Altre ipotesi di risoluzione sono quelle contemplate nella disciplina generale dell'impossibilità sopravvenuta di cui agli artt. da 1463 a 1466 c.c. e dell'eccessiva onerosità sopravvenuta (artt. 1467 - 1469 c.c.).

Infine, sempre in termini di normativa generale, va menzionata la cosiddetta eccezione di inadempimento e la possibilità riconosciuta a ciascuna delle parti, nei contratti a prestazioni corrispettive, di sospendere l'esecuzione della propria prestazione qualora si verifichino mutamenti sostanziali nelle condizioni patrimoniali dell'altra parte.

La risoluzione per inadempimento

Tra le ipotesi di risoluzione, quella per inadempimento riveste senza dubbio la maggiore importanza data la frequenza nella prassi di questa causa di cessazione dei rapporti obbligatori.

La disciplina generale della risoluzione per inadempimento è contenuta nell'art. 1453 c.c. che stabilisce come nei contratti a prestazioni corrispettive (contratti bilaterali - o plurilaterali con comunanza di scopo ex art. 1459 cod. civ.- laddove quindi si riscontri una correlazione diretta tra le prestazioni oggetto delle obbligazioni reciprocamente assunte dalle parti con il vincolo contrattuale) in caso di inadempimento di una delle parti alle proprie obbligazioni contrattuali, l'altra può a sua scelta richiedere l'adempimento o la risoluzione del contratto, sempre salvo il risarcimento del danno subito.

Si è tuttavia osservato in dottrina (Sacco), ferma la necessaria esistenza di un rapporto contrattuale tra le parti, che non necessariamente il riferimento a prestazioni corrispettive implichi che gli effetti del contratto debbano essere di natura obbligatoria (si pensi ad esempio all'alienazione di un immobile contro la promessa del pagamento del prezzo).

E' evidente tuttavia che il rimedio risolutorio sarà esperibile solo nei confronti di colui che, avendo assunto determinate obbligazioni, risulti inadempiente.

La domanda giudiziale di risoluzione per inadempimento, la cui proposizione preclude l'adempimento tardivo, ha quale caratteristica specifica quella di impedire altresì il mutamento di domanda in richiesta di adempimento (Cass. 04/12/99 n. 13563).

D'altra parte, qualora sia invece richiesto giudizialmente l'adempimento dell'obbligazione, è fatta salva la possibilità per il creditore della prestazione di determinarsi successivamente alla proposizione di una domanda di risoluzione.

Trattasi in sostanza di un potere di reazione attribuito alla parte che subisce l'inadempimento, alla quale è consentito di porre termine al contratto a condizione tuttavia che l'evento scatenante (ovvero l'inadempimento dell'altra parte) risulti particolarmente qualificato ed abbia determinate caratteristiche.

Deve trattarsi anzitutto di inadempimento imputabile all'altra parte (escludendo quindi la fortuita impossibilità della prestazione, fatto salvo il necessario distinguo in relazione all'impossibilità parziale e temporanea, da dirimersi anche sulla base dell'interesse del creditore), e secondariamente di inadempimento rilevante.

Precisa infatti l'art. 1455 c.c. che affinché l'inadempimento sulla cui base si agisce per ottenere la risoluzione dell'intero contratto sia sufficiente a determinarla è necessario che si tratti di un inadempimento di non scarsa importanza, avuto riguardo all'interesse della parte che lo subisce (Cass. 06/11/02 n. 15553).

E' quindi necessario effettuare una valutazione sulla gravità dell'inadempimento, non dissimile da quella compiuta in altri ambiti, al fine per esempio di legittimare il recesso per giusta causa nel contratto di agenzia applicando analogicamente l'art. 2119 c.c., con gli opportuni aggiustamenti rispetto alla ordinaria disciplina applicabile al rapporto di lavoro subordinato (basata anche su differenti presupposti).

Valutazione di gravità (o importanza dell'inadempimento) che viene rimessa al giudizio discrezionale del giudice, che dovrà esaminare elementi di carattere oggettivo (costituiti dall'oggetto in sé dell'inadempimento ma nell'ambito complessivo del contratto) ed elementi soggettivi, indagando dunque sulle intenzioni delle parti, anche al fine di ricostruire quell'interesse del creditore della prestazione cui espressamente si riferisce l'art. 1455 c.c.

Rinviando alla raccolta di giurisprudenza il diverso atteggiarsi dei vari orientamenti giurisprudenziali sul punto, può dirsi in linea generale che, di norma, viene ritenuto sufficiente per la risoluzione l'inadempimento sulla base del quale possa ritenersi che chi lo subisce non avrebbe concluso il contratto qualora lo avesse previsto.

E' inoltre il caso di sottolineare che in taluni tipi contrattuali il potere discrezionale del giudice risulta limitato da disposizioni espresse contenute nella disciplina codicistica, che stabiliscono criteri precisi per la valutazione dell'inadempimento. Mi riferisco in particolare alla disciplina della vendita (art. 1497 c.c.) dove la mancanza delle qualità promesse della cosa venduta, o di quelle essenziali all'uso al quale è destinata, è sufficiente a legittimare la risoluzione del contratto solo qualora il difetto ecceda i limiti di tolleranza stabiliti dagli usi.

Lo stesso è a dirsi nell'ambito del contratto di appalto per difformità e vizi dell'opera ex art. 1668 c.c., dove il committente ha la facoltà di chiedere la risoluzione del contratto solo nel caso in cui difformità e vizi siano tali da renderla completamente inadatta alla sua destinazione.

Ancora, nella disciplina dell'indennità di fine rapporto prevista per il contratto di agenzia, l'art. 1751 c.c. precisa che l'indennità non è dovuta qualora il preponente risolva il contratto per un'inadempienza imputabile all'agente che, per la sua gravità, non consenta la prosecuzione anche provvisoria del rapporto. Anche nella vendita a rate con riserva della proprietà (art. 1525 c.c.), e nonostante l'eventuale esistenza di un patto contrario (quale potrebbe essere una clausola risolutiva espressa), è esclusa la possibilità di risoluzione del contratto laddove il mancato pagamento di una rata non superi l'ottava parte del prezzo.

 

Ritardo

In tema di inadempimento è d'obbligo un riferimento anche al ritardo, certamente suscettibile di essere preso in considerazione anche ai fini della risoluzione, fermo restando il rispetto dei requisiti di cui all'art. 1455 c.c.

Si pone a questo punto il problema di quando il ritardo possa dirsi tale da legittimare la risoluzione e correlativamente sino a che punto sia ammissibile l'adempimento tardivo Cass. 19/11/02 n. 16291). La disciplina della risoluzione non si occupa direttamente di queste problematiche, anche se precisa, in parte risolvendo il problema dei limiti dell'adempimento tardivo, che la domanda di risoluzione preclude il successivo adempimento.

Pertanto, una volta presentata la domanda di risoluzione l'adempimento tardivo non sarà più consentito.

In tema di ritardo molto si è discusso in dottrina sulla necessità della costituzione in mora ai fini della qualificazione del ritardo quale base per ottenere una pronuncia di risoluzione, anche se appare valutabile anche il ritardo puro e semplice ancorché caratterizzato dalla eccedenza dei normali limiti di tollerabilità. In ordine alla costituzione in mora la dottrina (Sacco) ha tuttavia effettuato una serie di utili distinzioni, precisando che, laddove non sia previsto, neppure implicitamente, un termine per l'adempimento, la costituzione in mora (costituita da una intimazione o richiesta esplicita di adempimento effettuata per iscritto, ex art. 1219 c.c.)risulta necessaria affinché possa configurarsi una ipotesi di inadempimento. Costituzione in mora che, una volta effettuata, ha come effetto da un lato l'aumento della gravità dell'inadempimento e dall'altro l'eliminazione di ogni equivoco in ordine all'eventuale tolleranza del creditore della prestazione.

Quanto sopra esposto in ordine al problema fondamentale della rilevanza dell'inadempimento non significa tuttavia che, anche qualora lo stesso non sia sufficiente a giustificare la risoluzione del contratto, il contraente che lo subisce resti privo di tutela.

In tutte queste ipotesi infatti (si pensi ad esempio all'inadempimento parziale oppure all'inadempimento di una intera obbligazione nell'ambito però di un contratto che ne preveda molteplici, con la conseguente non essenzialità di quella inadempiuta) il contraente che subisce l'inadempimento avrà pur sempre la possibilità di esperire un'azione al fine di ottenere l'esatto adempimento e, quale che ne sia l'esito, un'ulteriore azione tesa ad ottenere il risarcimento del danno subito.

 

Effetti della risoluzione

Per quanto attiene agli effetti della risoluzione, la disciplina generale (art. 1458 c.c.), come già rilevato nelle premesse in tema di recesso, distingue tra contratti a esecuzione istantanea e ad esecuzione continuata o periodica.

Nella prima ipotesi la risoluzione ha efficacia retroattiva ponendo fine ab origine al vincolo contrattuale, che non è dunque suscettibile di produrre alcun effetto tra le parti, né sul piano obbligatorio né dal punto di vista degli effetti reali.

In ordine agli effetti obbligatori, la risoluzione comporta la liberazione delle parti dagli obblighi connessi all'esecuzione delle rispettive prestazioni (qualora non siano state ancora eseguite) e correlativamente un obbligo restitutorio in favore di chi già abbia prestato in adempimento del contratto.

Per quanto attiene agli effetti reali, anche questi vengono eliminati ab origine tra le parti, con effetto dunque retroattivo, ma solo ex nunc in relazione ai terzi, non pregiudicando quindi i diritti dagli stessi eventualmente acquisiti prima dalla risoluzione. L'art. 1458 c.c. precisa tuttavia che sono fatti salvi gli effetti della trascrizione della domanda di risoluzione, destinata dunque a prevalere qualora anteriore alla trascrizione del terzo che abbia acquistato (beni immobili o mobili registrati) da una delle parti.

Per i contratti ad esecuzione periodica o continuata, ovvero quei contratti in relazione ai quali sorgono obbligazioni di durata per entrambe le parti, l'art. 1458 c.c. detta una disciplina differente, che esclude la retroattività della risoluzione del contratto per tutte le prestazioni già eseguite. Affinché con l'applicazione di questa norma non si realizzi uno squilibrio tra le posizioni delle parti è tuttavia necessario che si tratti di prestazioni di durata bilaterali, cioè di prestazioni che vengano poste in essere dalle parti con corrispettiva ripetitività.

 

Eccezione di inadempimento

Ancora in tema di inadempimento è appena il caso di soffermarsi su di un rimedio differente e certamente meno incisivo sul rapporto contrattuale, costituito dall'eccezione di inadempimento, che può definirsi come una eccezione dilatoria, che non travolge dunque l'intero regolamento negoziale, ma consente di posticipare l'adempimento qualora ricorrano determinate circostanze.

Precisa infatti l'art. 1460 c.c. che, nei contratti a prestazioni corrispettive, e laddove non siano previsti (sia contrattualmente che sulla base della natura del contratto) termini sfalsati per l'adempimento delle parti alle rispettive obbligazioni, ciascuna di esse può rifiutarsi di adempiere qualora l'altra parte non adempia o ometta di offrire l'adempimento contemporaneamente.

Tuttavia, come stabilito dal secondo comma della norma, l'esecuzione della prestazione non può essere negata qualora il rifiuto, avuto riguardo alle circostanze, risulti contrario a buona fede.

Trattasi di un rimedio dilatorio concesso alla parte che deve adempiere alla propria prestazione contemporaneamente o successivamente rispetto all'altro contraente. Presupposto fondamentale dell'eccezione di inadempimento è costituito dal perfezionamento dell'inadempimento dell'altra parte (sia qualora ciò risulti in modo esplicito, sia nel caso in cui lo si deduca dal comportamento dell'altra parte) nel momento in cui deve adempiere il contraente che si avvale dell'eccezione.

In ordine poi al secondo comma dell'art. 1460 c.c., si ritiene in dottrina (Sacco) che debba considerarsi contrario a buona fede il rifiuto di adempiere basato su di un inadempimento non grave Cass. 07/01/04 n. 58). Motivo di questa qualificazione è l'evidente fine ritorsivo connesso a tale utilizzo dell'eccezione.

Va segnalato altresì  l'orientamento secondo il quale, in applicazione del principio di buona fede, il vizio nell'adempimento dell'altra parte non può più essere opposto per evitare l'adempimento (con l'utilizzo dell'eccezione di inadempimento), qualora possa considerarsi irrilevante anche alla luce del comportamento della parte che deve successivamente adempiere (che non abbia in ipotesi effettuato alcuna contestazione).

 

Le condizioni patrimoniali delle parti

Da ultimo, ulteriore rimedio dilatorio e con effetti certamente meno drastici della risoluzione è costituito dalla facoltà di sospensione nell'esecuzione della prestazione, qualora le condizioni patrimoniali dell'altro contraente siano tali da porre in evidente pericolo il futuro conseguimento della controprestazione.

Trattasi evidentemente di un'ipotesi riferibile esclusivamente alla parte che, nell'economia del contratto, debba adempiere per prima, in quanto altrimenti potrebbe utilizzarsi l'eccezione di inadempimento di cui si è detto poc'anzi.

Osserva in proposito la dottrina che la variazione delle condizioni patrimoniali di una delle parti deve essere valutata in maniera obbiettiva, a nulla rilevando profili di carattere soggettivo quali la colpa.

L'art. 1461 c.c., che si occupa della fattispecie, precisa peraltro che l'effetto sospensivo è precluso qualora sia fornita, da colui il quale versi in condizioni patrimoniali preoccupanti, idonea garanzia a tutela del creditore della controprestazione. Trattasi di un onere che impedisce l'eventuale sospensione, ma che è del tutto indipendente rispetto ai requisiti necessari per la pronuncia di risoluzione del contratto.

 

La diffida ad adempiere ed il termine essenziale

All'interno della categoria generale della risoluzione per inadempimento è possibile riscontrare due ipotesi nelle quali il soggetto che subisce l'inadempimento può prescindere dal ricorso all'autorità giudiziaria per ottenere una pronuncia che stabilisca la risoluzione del rapporto, ricorrendo ad una risoluzione di diritto attraverso la diffida ad adempiere o con l'utilizzo del "termine essenziale".

Altra ipotesi assimilabile, oggetto del successivo paragrafo, è quella della clausola risolutiva espressa.

In tutti questi casi è possibile per colui che subisce l'inadempimento arrivare alla risoluzione del contratto senza dover ricorrere al giudice.

Con la diffida ad adempiere (art. 1454 c.c.) la parte intima al contraente inadempiente di adempiere entro un termine, di norma non inferiore a 15 giorni, decorso il quale il contratto dovrà considerarsi risolto di diritto Cass. 28/06/01 n. 8844).

Qualora il termine assegnato per l'adempimento risulti troppo breve il giudice avrà tuttavia la possibilità di sostituirlo con un altro ritenuto congruo.

In questo modo il contraente inadempiente viene sostanzialmente rimesso in termini dalla diffida ed avrà quindi la possibilità di uniformarsi alle proprie obbligazioni nonostante l'intervenuto inadempimento. Si consente in sostanza a quest'ultimo di effettuare un adempimento tardivo delle proprie obbligazioni. Non è cioè possibile, come avverrebbe con la presentazione della domanda giudiziale di risoluzione, impedire il successivo adempimento, quanto meno sino a che il termine concesso non risulti scaduto.

Perché tale rimedio risulti efficace è peraltro necessario che sussistano gli altri elementi menzionati nel paragrafo 2 per giustificare la risoluzione per inadempimento e più precisamente la gravità dello stesso, l'imputabilità alla controparte del difetto di esecuzione e l'assenza di censure imputabili a colui che intima l'adempimento.

La diffida è considerata come un atto unilaterale recettizio, che esplica dunque i suoi effetti dal momento in cui perviene a conoscenza del destinatario.

Altra e differente ipotesi è invece quella relativa alla scadenza del termine stabilito contrattualmente, o altrimenti desumibile dalle circostanze, per l'adempimento della controparte.

In questi casi, a meno che il ritardo nell'adempimento risulti non imputabile all'altra parte, l'infruttuosa scadenza del termine, il verificarsi dell'inadempimento e la previsione specifica di un termine definito espressamente come essenziale configurano l'ipotesi di risoluzione di diritto del contratto Cass. 17/04/02 n. 5509).

Affinché la fattispecie possa dirsi perfezionata è tuttavia necessario che il soggetto in favore del quale il termine è stato fissato dichiari di voler risolvere il contratto. Qualora ciò non avvenga è ritenuta ammissibile la richiesta della prestazione, da parte del creditore della stessa, nonostante l'intervenuta scadenza del termine.

 

La clausola risolutiva espressa

La clausola risolutiva espressa si inserisce nel più ampio quadro della cessazione dei rapporti contrattuali, ed in particolare nella regolamentazione della risoluzione per inadempimento, costituendo una deroga di carattere negoziale ai suoi principi generali.

Di norma infatti, come detto nel precedente paragrafo 2., affinché in un contratto a prestazioni corrispettive una delle parti possa legittimamente porre termine al rapporto in funzione dell'inadempimento dell'altra, è necessario che l'inadempimento stesso sia particolarmente qualificato, che rivesta cioè il carattere della gravità e sia dunque di non scarsa rilevanza avuto riguardo all'interesse della parte non inadempiente (art. 1455 c.c.). Tali caratteristiche dovranno essere accertate dal giudice la cui pronuncia, in caso di accertamento positivo, avrà carattere costitutivo della risoluzione del rapporto contrattuale.

Questo schema di carattere generale può però essere oggetto di deroga ad opera delle parti, con l'utilizzo dello strumento della clausola risolutiva espressa.

La clausola risolutiva espressa, prevista dall'articolo 1456 c. c., consiste infatti in una pattuizione contrattuale nella quale vengono indicate una o più obbligazioni alle quali le parti conferiscono (singolarmente considerate) una particolare rilevanza, con la conseguenza che qualora anche una soltanto delle predette obbligazioni non venga adempiuta secondo le modalità stabilite, la parte non inadempiente avrà la facoltà di porre termine al rapporto con effetto immediato, manifestando la propria volontà di volersi avvalere della clausola.

Esistenza e validità della clausola risolutiva espressa, così come esistenza dell'inadempimento (cui si accompagna l'imputabilità dell'inadempimento stesso alla parte, quanto meno a titolo di colpa) di almeno una delle obbligazioni ivi contenute, sono dunque le condizioni necessarie, ma non sufficienti per il verificarsi della risoluzione di diritto del contratto: a questo fine è infatti indispensabile che l'altra parte manifesti la propria volontà di avvalersi della clausola (Cass. 26/03/97 n. 2674), così ponendo fine al rapporto.

L'articolo 1456 cod. civ. consente dunque alle parti di inserire nel contratto un meccanismo di risoluzione convenzionale di diritto dello stesso; meccanismo nel quale la valutazione della gravità dell'inadempimento viene effettuata preventivamente dalle parti, senza che residui alcuno spazio per un qualsivoglia sindacato da parte del giudice. Quest'ultimo infatti, in caso di vertenza, dovrà limitarsi ad accertare l'esistenza e validità della pattuizione, l'inadempimento (o il non corretto e totale adempimento) di una delle obbligazioni previste dalle parti, l'imputabilità dell'inadempimento quanto meno a titolo di colpa a carico della parte e l'intenzione dell'altra di avvalersi della clausola.

Sottolineo in proposito che la colpa, in applicazione dell'art. 1218 c.c., si presume sino a prova contraria, invertendo in sostanza l'onere probatorio, che viene a gravare sulla parte inadempiente (per la necessaria esistenza del requisito della colpevolezza dell'inadempimento: Cass. 14/07/00 n. 9356).

Viene meno dunque la regola generale in tema di risoluzione per inadempimento, che comporta la necessità di un accertamento costitutivo in ordine alla gravità dell'inadempimento al fine di legittimare la risoluzione.

La gravità dell'inadempimento è quindi oggetto di una presunzione assoluta, non suscettibile di prova contraria, per il solo fatto dell'indicazione dell'obbligazione nella clausola contrattuale.

A questo proposito la Cassazione (Cass. 17/03/00 n. 3102) ha precisato che, in presenza di una clausola risolutiva espressa, qualunque indagine tesa a stabilire se l'inadempimento sia sufficientemente grave da giustificare l'effetto risolutorio deve considerarsi irrilevante.

L'intervento del giudice avrà quindi, al contrario di quanto avviene in applicazione del meccanismo ordinario di risoluzione per inadempimento, mero fine di accertamento di una risoluzione già avvenuta di diritto (Cass. 10/11/98 n. 11282), a seguito dell'inadempimento di una delle parti e della manifestazione di volontà dell'altra, che subendolo è divenuta titolare, in forza della clausola risolutiva espressa, di una sorta di diritto potestativo di recesso unilaterale per inadempimento Cass. 03/07/00 n. 8881).

E' pacifico in giurisprudenza (Cass. 21/06/00 n. 8429) che la clausola risolutiva espressa non può considerarsi come una clausola vessatoria ai fini della doppia sottoscrizione di cui all'art. 1341 c.c., qualora inserita in condizioni generali di contratto od in un contratto per adesione. Ciò in quanto non costituirebbe una clausola particolarmente onerosa, non potendo essere ricondotta tra quelle che sanciscono limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni, aggravando la condizione di uno dei contraenti, poiché la possibilità di richiedere la risoluzione del contratto sarebbe insita nel contratto stesso a norma dell'articolo 1453 cod. civ., e detta clausola non farebbe altro che rafforzare tale facoltà.

Infine è bene tenere presente che per la corretta operatività della clausola, l'inadempimento deve riferirsi ad una obbligazione determinata, con la conseguenza che nella sua redazione andranno indicate con precisione e chiarezza le obbligazioni contrattuali ritenute rilevanti dalle parti. Per contro, l'eventuale generico riferimento a tutte le obbligazioni nascenti dal contratto potrebbe comportare la nullità della clausola, considerata come una clausola di stile e come tale non suscettibile di determinare una risoluzione di diritto qualora ci si trovi in presenza di uno degli inadempimenti genericamente e complessivamente considerati. In tale ultima ipotesi risulteranno comunque applicabili le regole generali in tema di risoluzione del contratto, con la possibilità dunque di effettuare un'indagine sulla gravità dell'inadempimento.

 

L'eccessiva onerosità  

Nella disciplina dei contratti in generale il codice civile dedica al problema dell'eccessiva onerosità della prestazione gli artt. 1467, 1468 e 1469 cod. civ., individuando due rimedi, in taluni casi alternativi, e cioè la risoluzione del contratto e l'offerta di equa modifica delle condizioni contrattuali, che l'altra parte può effettuare per evitare la risoluzione.

Va detto anzitutto che per sua natura l'eccessiva onerosità di una delle prestazioni, o dell'unica prestazione qualora si verta in tema di contratti con obbligazioni a carico di una sola delle parti, è configurabile solo nell'ipotesi in cui la stessa sia in qualche modo differita e cioè nel caso in cui intervenga dopo un certo periodo di tempo rispetto alla conclusione del contratto, poiché altrimenti sarebbe esclusa in radice la possibilità che la prestazione divenga eccessivamente onerosa.

L'art. 1467 parla infatti di contratti ad esecuzione continuata, periodica o differita, dove vi sia dunque una ripetizione di prestazioni nel tempo o il differimento della loro esecuzione, per consentire appunto che possa realizzarsi l'eccessiva onerosità rispetto al momento di conclusione del contratto.

In queste ipotesi, laddove la prestazione di una delle parti sia divenuta eccessivamente onerosa a causa di avvenimenti straordinari e imprevedibili (Cass. 23/02/01 n. 2661), quest'ultima potrà richiedere la risoluzione del contratto con gli effetti (anche retroattivi) previsti dall'art. 1458 c.c.

La medesima disposizione precisa che la domanda di risoluzione è preclusa qualora l'eccessiva onerosità rientri nell'alea normale del contratto. Oltre a ciò la risoluzione può altresì essere evitata dall'altra parte (ed in ciò sta l'elemento alternativo alla definitiva cessazione di effetti del contratto) qualora offra di modificare equamente le condizioni contrattuali al fine di riequilibrare le rispettive prestazioni.

Qualora si verta invece in tema di contratti con assunzione di obbligazioni ad opera di una soltanto delle parti (art. 1468 c.c.) il rimedio risolutorio non è ammesso. In tali ipotesi infatti l'unico rimedio esperibile è la richiesta di riduzione della prestazione da parte del contraente obbligato o una modificazione nelle sue modalità di esecuzione, tale da ricondurla ad equità.

E' infine esclusa (art. 1469 c.c.) l'applicabilità degli art. 1467 e 1468 per i contratti aleatori, sia per loro natura che in funzione della volontà delle parti.

Occorre a questo punto soffermarsi brevemente sul contenuto dell'art. 1469 c.c. per ricordare una tesi dottrinale (Sacco) che, al fine di stabilire cosa debba intendersi per "contratti aleatori", opta per un'interpretazione che comporta la necessità per il giudice di esaminare l'evento sopravvenuto per accertare se, in concreto, il contratto avesse o meno accollato tale rischio al danneggiato che agisce per ottenere la risoluzione o la riduzione della prestazione.

L'onerosità della prestazione che, qualora sia dovuta ad eventi straordinari ed imprevedibili, consente l'esperibilità dei rimedi anzidetti, deve però essere valutata in maniera obbiettiva, prescindendo quindi dalla situazione soggettiva del debitore.

Dal punto di vista pratico, al fine di porre in essere i rimedi previsti per l'eccessiva onerosità è necessario un impulso di parte. Difatti, le norme esaminate presuppongono che i rimedi vengano esercitati in via processuale con la proposizione di una domanda di risoluzione, alla quale segue l'eventuale offerta di riduzione del contratto ad equità (che non può tuttavia essere imposta alla parte nei cui confronti è presentata la domanda di risoluzione).

 

Il recesso

Il termine recesso è utilizzato dal legislatore in numerose disposizioni, ma non sempre con la stessa funzione ed il medesimo significato. In altri termini, l'utilizzo del termine recesso, così come effettuato dal punto di vista legislativo, non può essere considerato in maniera uniforme (Mancini).
E' infatti generalmente condivisa l'inesistenza di un concetto unitario di recesso.

Dal punto di vista definitorio è tuttavia possibile considerare il recesso come una dichiarazione di volontà recettizia (come tale efficace dal momento in cui perviene all'indirizzo dell'altra parte) che comporta conseguenze normalmente negative sulla validità ed efficacia di un preesistente rapporto contrattuale.

Tali conseguenze sono di norma costituite dal porre termine al rapporto contrattuale di cui si tratta. Le modalità con le quali tale cessazione viene posta in essere sono tuttavia assai differenti.

E' stata dunque proposta in dottrina una classificazione del recesso in due grandi categorie contrapposte: il recesso ordinario (o determinativo) e quello straordinario, anche se quest'ultimo pare talvolta sconfinare nella risoluzione per inadempimento.

Le differenze tra le due categorie sono costituite essenzialmente dalla diversa esigenza alla quale ciascuna di esse intende rispondere e dalla conseguente diversa funzione attribuita al recesso nella struttura dei singoli rapporti.

 

Il recesso ordinario (o determinativo)

Il recesso ordinario è riferito di norma ai rapporti contrattuali di durata a tempo indeterminato, dove quindi non è prevista una scadenza o un termine finale. In questi casi il recesso assume una funzione integrativa di un regolamento contrattuale lacunoso, con la possibilità di inserire un termine di cessazione del rapporto.

Spesso peraltro è lo stesso regolamento negoziale che prevede la possibilità di esercitare il recesso per entrambe le parti in qualunque momento con l'applicazione di un determinato meccanismo, di norma costituito dalla concessione di un termine di preavviso.

Oltre al regolamento contrattuale posto in essere dalle parti, in numerosi contratti tipici di durata è espressamente prevista l'ipotesi del recesso nel contratto a tempo indeterminato.

Mi riferisco in particolare al contratto di somministrazione (art. 1569 c.c., utilizzato in via analogica anche nel contratto atipico di concessione di vendita), al mandato, nell'ipotesi di revoca del mandato oneroso a tempo indeterminato (art. 1725 c.c., 2° comma) e di rinunzia del mandatario (art. 1727 c.c.), al contratto di agenzia a tempo indeterminato (art. 1750 c.c.), al comodato (art. 1810 c.c. - dove è previsto un regime particolare in ragione delle caratteristiche del contratto), alla commissione (art. 1734 c.c.), al contratto d'opera (art. 2227 c.c.) ed al contratto d'opera intellettuale (art. 2237 c.c.).

In tutte queste ipotesi è riconosciuto a ciascuna delle parti il diritto di porre termine al rapporto a tempo indeterminato in qualunque momento, previa concessione di un termine di preavviso.

Fa eccezione il contratto di comodato dove, qualora non sia convenuto un termine e non sia altrimenti desumibile dall'uso della cosa, il comodatario ha l'obbligo di restituirla immediatamente non appena il comodante la richieda. La particolarità della disciplina è senz'altro dovuta alle caratteristiche del contratto in considerazione della sua gratuità e dell'oggetto dello stesso, costituito dalla consegna di una cosa mobile o immobile affinché il comodatario se ne serva per un tempo o per un uso determinato (cfr. per approfondimenti la voce specifica contratto di comodato).

Tornando al termine di preavviso, il legislatore si riferisce di norma al concetto di termine "congruo", non stabilendo dunque in maniera precisa quale sia il termine che la parte recedente deve concedere all'altra per poter porre fine al contratto a tempo indeterminato.

Nel contratto di agenzia, anche a seguito della modifica apportata all'art. 1750 c.c. dal D.Lgs. 303/1991 emesso in attuazione della direttiva 86/653, sono previsti in maniera precisa termini minimi di preavviso, variabili da 1 a 6 mesi, in funzione della concreta durata del rapporto. E' comunque lasciata alla libera disponibilità delle parti la fissazione di termini di preavviso di maggiore durata, con l'unico limite costituito dalla necessità che il preponente osservi termini di preavviso non inferiori rispetto a quelli previsti per l'agente. Nella disciplina del contratto di agenzia, come è noto, la regolamentazione non è tuttavia contenuta solo nel codice civile, ma altresì nella contrattazione collettiva di diritto comune ed erga omnes, che prevede in tema di preavviso termini differenti rispetto a quelli dell'art. 1750 c.c., con conseguenti potenziali problemi di applicabilità, soprattutto con riferimento al cosiddetto agente monomandatario (rimando sul punto per approfondimenti all'esame della singola voce).

Dal punto di vista pratico, il recesso ordinario nei contratti a tempo indeterminato è costituito da una dichiarazione di volontà effettuata da una delle parti (di norma per iscritto, anche al fine di stabilire con certezza la decorrenza del preavviso, e comunque nella forma che sia eventualmente prevista per la validità del contratto cui il recesso accede), con la quale si comunica lo scioglimento del contratto e la concessione del termine di preavviso previsto contrattualmente o stabilito dalla legge.

Il recesso, essendo un atto unilaterale recettizio, si considera efficace dal momento in cui perviene al destinatario e dunque, quale che sia il contenuto letterale della comunicazione, il recesso avrà efficacia dal momento in cui la relativa dichiarazione di volontà pervenga alla controparte. Da tale momento inizia a decorrere il termine di preavviso, con la conseguente cessazione del rapporto una volta terminato il preavviso.

Questa possibilità di porre termine ai contratti di durata a tempo indeterminato è una conseguenza del principio generale tendente ad escludere la perpetuità dei vincoli obbligatori tra le parti.

Il preavviso ha tuttavia, fatto salvo per il contratto di lavoro subordinato, una efficacia meramente obbligatoria, con la conseguenza che, come previsto nel contratto di agenzia e nel mandato, può essere sostituito dal risarcimento del danno subito dalla parte che riceve la comunicazione di recesso.

Efficacia obbligatoria che si contrappone all'efficacia cosiddetta reale del preavviso (riscontrabile tuttavia nel solo rapporto di lavoro subordinato) che comporta la necessaria prosecuzione del rapporto sino alla scadenza del termine di preavviso. In altri termini l'efficacia dell'atto di recesso sarebbe condizionata e differita dalla concessione del preavviso, da intendersi dunque quale elemento costitutivo del recesso stesso.

Quale ulteriore conseguenza, la parte recedente potrebbe essere esposta ad una eventuale richiesta (ove possibile) di esecuzione coattiva in forma specifica della prestazione dovuta, sino allo scadere del pattuito termine di preavviso.

Questa costruzione si scontra tuttavia con la chiara dizione della maggior parte delle disposizioni in tema di recesso dal contratto a tempo indeterminato, dove la mancata concessione del preavviso viene presa espressamente in considerazione non certo per stabilire la prosecuzione del contratto, ma esclusivamente quale fonte dell'obbligo risarcitorio in capo alla parte recedente.

L'efficacia del preavviso, quanto meno nei rapporti considerati, deve quindi essere intesa esclusivamente dal punto di vista obbligatorio.

E' quindi possibile porre termine ai contratti sopra menzionati con effetto immediato dal momento dell'arrivo della comunicazione di recesso, salvo il diritto al risarcimento del danno da parte di chi riceve la comunicazione. Risarcimento che sarà tuttavia escluso qualora la revoca del mandato o la rinuncia del mandatario derivino da una giusta causa o nell'ipotesi in cui il recesso dai contratti di durata sia ascrivibile al grave inadempimento dell'altra parte o ad un'altra causa di risoluzione del rapporto: trattasi peraltro di fattispecie differenti rispetto a quelle riscontrabili nelle ipotesi di recesso di tipo ordinario.

In ordine alla quantificazione del danno vanno applicati i criteri generali in tema di risarcimento, correlati alla sua prevedibilità. Nel contratto di agenzia la contrattazione collettiva prevede un regime particolare che consente di quantificare il danno in maniera molto precisa rapportandolo alle provvigioni di competenza dell'agente nell'anno solare precedente la cessazione o negli ultimi 12 mesi qualora più favorevole alla parte che subisce il recesso. La parte che subisce il recesso ha inoltre la possibilità di rinunciare in tutto o in parte al termine di preavviso, a condizione che tale rinuncia venga comunicata al recedente nel termine di 30 giorni dal ricevimento del recesso.

 

Il recesso straordinario

La seconda categoria generale individuata dalla dottrina (Mancini, Gabrielli) è costituita dal recesso straordinario che, al contrario di quanto sottolineato in tema di recesso ordinario, non si limita ad integrare il regolamento contrattuale originario, ma lo modifica o in taluni casi lo travolge in funzione di vizi del rapporto (che possono essere originari, cioè esistenti sin dalla sua nascita, o sopravvenuti, anche se ipotesi di questo genere si avvicinano in maniera estremamente significativa alla risoluzione per inadempimento) o di un potere di supremazia attribuito ad uno dei contraenti, che gli consente di liberarsi dal vincolo contrattuale.

A quest'ultimo proposito, una ipotesi di potere di supremazia riconosciuto ad una delle parti è certamente ravvisabile nella disciplina del recesso unilaterale in tema di contratto di appalto. L'art. 1671 c.c. prevede infatti il diritto del committente di recedere dal contratto a propria assoluta discrezione, anche qualora l'esecuzione dell'opera o la prestazione del servizio siano già iniziate da parte dell'appaltatore.

Peraltro questa possibilità non è priva di conseguenze per il committente, che dovrà in ogni caso rifondere all'appaltatore le spese sostenute e tenerlo indenne dei lavori già eseguiti e del mancato guadagno conseguente all'anticipata cessazione del contratto di appalto.

Altre ipotesi di recesso straordinario, o risolutivo, da intendersi come mezzi di impugnazione, sono previste nella disciplina del contratto di agenzia, e più precisamente nell'art. 1751 c.c. (come modificato dai d.lgs. 303/91 e 65/99). In questi casi è espressamente consentito ad una delle parti di travolgere il regolamento negoziale in funzione di specifici vizi sopravvenuti nel corso del rapporto. Nella norma è infatti prevista espressamente la possibilità per il preponente di risolvere il rapporto a causa di un'inadempienza attribuibile all'agente che, per la sua gravità non consenta la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto, e con l'esclusione del diritto dell'agente all'indennità. E' dunque garantita al preponente la possibilità di porre termine al rapporto in ragione di un inadempimento che, date le sue caratteristiche, esonera il recedente dalla necessità di concedere il preavviso di cui all'art. 1750 c.c., così configurando una ipotesi di recesso risolutivo.

Ulteriore fattispecie riconducibile al recesso quale mezzo di impugnazione attribuito ad uno dei contraenti in forza di vizi sopravvenuti, è previsto dal successivo capoverso dell'art. 1751 c.c., dove si precisa che l'agente può recedere dal contratto a causa di circostanze attribuibili al preponente, ciò nonostante conservando il diritto all'eventuale indennità di fine rapporto, che avrebbe altrimenti perso in caso di recesso ordinario.

In questa ipotesi, la cui esatta delimitazione è ancora incerta in dottrina ed in giurisprudenza, non essendo allo stato ben chiaro cosa debba intendersi per "circostanze attribuibili al preponente", per la verità non appare scontata la possibilità di non concedere il termine di preavviso dovuto in caso di recesso ordinario, ma piuttosto la sua particolarità è costituita dal mantenimento per l'agente del diritto all'indennità di fine rapporto.

Ancora in tema di contratto di agenzia, la giurisprudenza dominante ritiene, pur con le dovute differenziazioni, applicabile analogicamente il meccanismo di recesso per giusta causa di cui all'art. 2119 c.c.

Differenti modalità operative di recesso e risoluzione in caso di inadempimento

In conclusione, dal punto di vista pratico ed in termini generali, fatti salvi i casi di recesso unilaterale nei contratti di durata privi di termine finale (con il connesso onere di concessione di un termine di preavviso), laddove si verta in tema di inadempimento il legislatore consente alla parte che lo subisce di optare tra differenti possibilità.

Nel caso in cui si prediliga una maggiore rapidità e speditezza, ed ammesso che sia in ipotesi praticabile per un richiamo espresso contrattualmente pattuito o contenuto nella disciplina del singolo tipo contrattuale, la parte potrà ricorrere al recesso o alla risoluzione di diritto (vuoi sulla base di una clausola risolutiva espressa vuoi in applicazione del meccanismo solutorio di cui all'art. 1454 c.c.). Qualora invece si ritengano prevalenti le esigenze di certezza su quelle di rapidità, sarà possibile utilizzare la risoluzione per inadempimento ex art. 1453 c.c. ricorrendo al giudice per ottenere una sentenza costitutiva della cessazione degli effetti del contratto, con efficacia retroattiva (laddove possibile).

Dal punto di vista pratico l'utilizzo ad esempio della diffida ad adempiere, come ho evidenziato in proposito, consente tuttavia al debitore della prestazione un adempimento tardivo, in quanto la stessa costituisce in effetti una sorta di remissione in termini.

Con la clausola risolutiva espressa invece è sufficiente che colui in favore del quale la stessa è predisposta, e sul presupposto che l'inadempimento esista e sia imputabile all'altra parte, dichiari la propria intenzione di volersi avvalere del meccanismo risolutivo ivi previsto. Dal momento del ricevimento della comunicazione, il contratto dovrà considerarsi risolto.

Il ricorso al giudice per l'ottenimento di una pronuncia costitutiva di risoluzione del contratto impedisce invece, con effetto dal momento della proposizione della domanda, l'adempimento tardivo del debitore.

Tuttavia, anche qualora si prediliga l'utilizzo di rimedi solutori stragiudiziali, quali ad esempio la diffida ad adempiere, il termine essenziale e la clausola risolutiva espressa, potrà ciò nonostante risultare comunque necessario ricorrere al giudice (più probabilmente ad opera di chi subisce la risoluzione di diritto) al fine di ottenere una sentenza non più costitutiva, ma dichiarativa dell'intervenuta risoluzione, oltre ad una condanna al risarcimento del danno subito.