Riflessioni sul valore delle dichiarazioni anticipate di trattamento (testamento biologico)  

 

1. Uno dei problemi di estrema attualità, posti sulla linea di confine tra le competenze mediche e quelle giuridiche, è oggi rappresentato dall'atteggiamento da assumere nei confronti della possibilità di eseguire trattamenti sanitari su pazienti che si presentano privi di capacità decisionale.

Ciò si verifica, in particolare, per il malato oncologico, o più genericamente terminale, che può trovarsi in condizioni di non poter più esprimere una volontà in ordine alle terapie cui dovrebbe sottoporsi.

L'obiettivo di queste breve riflessioni è, allora, quello di provare a delineare lo stato dell'arte circa il se il medico possa o meno essere autorizzato, sulla base di una volontà pregressa, a proseguire dette terapie, pur mancando una volontà attuale del malato.

Preliminarmente all'esame della problematica indicata, si presenta opportuno soffermarsi sulla rilevanza del consenso informato del paziente oncologico/terminale, e, comunque, di ogni altro paziente che voglia accettare o rifiutare un trattamento sanitario nel caso in cui venisse a trovarsi in una situazione di incapacità.

2. Risulta principio generale dell'ordinamento giuridico quello secondo cui la persona ha un diritto di autodeterminazione, di assumere, cioè, da sé tutte le decisioni riguardanti la sfera dei propri interessi.

Il diritto della persona di decidere liberamente raggiunge la sua più alta espressione, in effetti, in materia di tutela della salute psico-fisica.

Ed infatti ogni trattamento sanitario deve essere subordinato ad un consenso prestato dalla persona interessata in modo libero e consapevole, e preceduto da una adeguata informazione medica relativa agli scopi e alla natura del trattamento proposto, alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici, ai rischi e agli effetti collaterali implicati.

L'acquisizione del consenso informato, che oggi ci sembra così "naturale", tanto che, nella prassi, la sottoscrizione dei moduli e dei formulari contenenti le dichiarazioni di consenso del paziente al trattamento sanitario avviene in modo del tutto automatico e - si aggiunge- talora quasi inconsapevole, ha un importante significato culturale e giuridico.

Sotto il primo profilo, quello culturale, la necessità del consenso informato all'atto medico segna il tramonto di una visione gerarchica del rapporto medico-paziente, ove il medico, come impenetrabile specialista detentore dell'ars medica oppure come un buon padre di famiglia, decideva in modo autonomo se e in che modo intervenire sul paziente.

A questo tramonto segue il sorgere di una visione collaborativa e personalista del rapporto medico-paziente, ove il paziente diventa, al pari del medico, persona in grado di valutare da sé, sulla base delle informazioni sanitarie, se e a quali condizioni sottoporsi ad un trattamento medico.

Sotto il secondo profilo, quello giuridico, la necessità di acquisire il consenso informato al trattamento sanitario trova un fondamento normativo nei principi costituzionali che dispongono l'inviolabilità della libertà personale (art. 13 Cost.) ed il divieto di trattamenti sanitari obbligatori se non per disposizione di legge e nei casi espressamente previsti dalla medesima (art. 32 Cost.).

A prescindere dalle disposizioni costituzionali appena ricordate, va segnalato che nel nostro ordinamento giuridico il consenso informato all'atto medico non trova una generale regolamentazione in una legge, ma soltanto specifici richiami in singole disposizioni normative.

Tra di esse si segnala la norma di legge ordinaria che, per prima nel nostro ordinamento, fa espresso riferimento alla necessità di un consenso all'atto medico: è l'art. 33 della nota legge 23 dicembre 1978 n. 833, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, che esclude la possibilità di accertamenti e di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente se questi non è in grado di prestarlo e non ricorrono i presupposti dello stato di necessità previsto dagli artt. 54 del codice penale e 2045 del codice civile.

Una più dettagliata disciplina del consenso informato all'atto medico si rinviene, poi, in alcuni articoli della Convenzione sui diritti dell'uomo e la biomedicina, indicata più brevemente come Convenzione di Oviedo , che è stata approvata nel 1997 in sede di Consiglio d'Europa e ratificata in Italia nel 2001(artt. 5-9).

Anche nel Trattato che adotta una Costituzione per l'Europa, generalmente indicato come la Costituzione europea, firmato a Roma nel 2004 e ratificato in Italia l'anno successivo, emerge un consenso libero e informato del paziente all'atto medico inteso non solo come un requisito di liceità del trattamento, ma anche considerato come un vero e proprio diritto fondamentale del cittadino europeo, afferente al più generale diritto all'integrità della persona (art. II-63, paragrafo 2, lett. a) ).

E' tuttavia noto come la più completa disciplina del consenso all'atto medico si rinvenga nel Codice di Deontologia Medica del 1998 che, in generale, dispone l'obbligo di acquisire il consenso del paziente e l'obbligo del medico, a sua volta, di fornire al paziente le informazioni relative al trattamento medico (Titolo III, Capo IV, artt. 30-35).

Da queste sintetiche indicazioni normative risulta evidente che alla persona spetta decidere se sottoporsi o meno ad un trattamento sanitario, sicché la tutela della salute psico-fisica di ciascun individuo è subordinata alla volontà dello stesso interessato, da esprimersi al momento del trattamento sanitario, ossia attualmente, ed in modo libero e consapevole, ossia in condizioni di piena autonomia e capacità.

3. La volontà attuale libera e consapevole della persona è dunque un elemento essenziale del rapporto che intercorre tra il medico ed il paziente dal quale non si può prescindere.

Ma se questa conclusione non sembra incontrare alcun ostacolo sotto il profilo etico e giuridico, proseguendo nel nostro discorso in modo più approfondito, si pone più concretamente il problema circa l'effettiva possibilità e liceità, sul piano giuridico, di una volontà espressa dalla persona in ordine alle cure che si renderanno necessarie in futuro, ossia in un momento successivo rispetto a quello in cui la volontà è stata manifestata.

Sono ammissibili, in sostanza, le dichiarazioni (o direttive) anticipate di trattamento sanitario?

Al riguardo e sul piano del diritto positivo, occorre segnalare l'art. 9 della citata Convenzione di Oviedo prima citata, secondo cui "i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell'intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione".

La formula utilizzata dalla Convenzione, in effetti, difficilmente pare potersi invocare per legittimare un consenso anticipato al trattamento medico.

Ciò in considerazione del fatto per cui, certo è vero che di fronte all'inciso "i desideri precedentemente espressi [.] saranno tenuti in considerazione", esclude certamente che un intervento medico possa effettuarsi ignorando completamente la volontà precedentemente espressa dal paziente, che, appunto, dovrà essere "tenuta in considerazione".

Tuttavia, il "tenere in considerazione" non consente che i desideri del paziente "precedentemente espressi a proposito di un intervento medico", possano avere una qualche efficacia vincolante nei confronti del medico.

Quindi il medico non potrà essere costretto a seguire quanto il paziente ha soltanto "desiderato", e potrà decidere per una diversa opzione terapeutica semplicemente motivandone la scelta.

In conclusione, in base alla Convenzione di Oviedo sul medico sembrerebbe gravare soltanto un tendenziale vincolo di rispetto della volontà del paziente espressa prima del trattamento sanitario ed un eventuale obbligo di motivazione in caso di scelte terapeutiche diverse da quelle desiderate dal paziente.

Analoghe conclusioni si ricavano dall'interpretazione del Codice di Deontologia Medica del 1998 che, nell'art.34, in tema di "autonomia del cittadino", dopo aver disposto che "il medico deve attenersi, nel rispetto della dignità, della libertà e dell'indipendenza professionale, alla volontà di curarsi, liberamente espressa dalla persona" (1° comma), aggiunge che "se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà in caso di grave pericolo di vita", il medico "non può non tenere conto di quanto precedentemente manifestato dallo stesso" paziente (2° comma).

Ed infatti queste "dichiarazioni anticipate di trattamento", oltre a risultare da una norma deontologica, cui la giurisprudenza potrà certamente fare riferimento, ma dalla quale non discendono diritti, obblighi e responsabilità civili e penali, sono comunque limitate solo al "caso di grave pericolo di vita" del paziente e prive, pertanto, di una portata generale.

Nel quadro del diritto positivo e nella prospettiva di valorizzazione della volontà della persona in ordine alle scelte attinenti la sfera della propria salute, occorre considerare il nuovo istituto dell'amministrazione di sostegno, introdotto con L. n.6/2004 nel codice civile nell'ottica di una protezione della persone prive di autonomia.

In virtù di questo istituto, la tutela delle persone impossibilitate a provvedere ai propri interessi avviene con la minore limitazione possibile della loro capacità, in modo più agile, concreto ed efficace, rispetto a quanto si realizza con i tradizionali istituti dell'inabilitazione e dell'interdizione, che tendono a limitare o ad escludere la capacità del soggetto.

La persona sottoposta ad amministrazione di sostegno per il patrimonio conserva, al pari di un soggetto capace, l'autonomia decisionale in ogni altro campo compreso quello riguardante le scelte terapeutiche, sicché in luogo dell'interessato non può decidere altra persona.

In linea generale sembrerebbe, dunque, che l'amministratore di sostegno non possa, in sostituzione dell'interessato, manifestare un consenso ad un trattamento sanitario in assenza ovvero in contrasto con le scelte dell'interessato espresse quando questi si trova in condizioni di capacità e consapevolezza.

Alla luce del quadro del diritto positivo, come sopra descritto, non sembrerebbe potersi desumere la rilevanza giuridica di un atto contenente dichiarazioni anticipate di trattamento, l'esistenza, cioè, di un testamento biologico.

4. In generale, il testamento biologico può essere definito come un documento scritto e sottoscritto dall'interessato, in modo libero e consapevole, in cui sono contenute dichiarazioni anticipate di trattamento con le quali la persona, dotata di piena capacità, esprime la sua volontà sui trattamenti che intende ricevere o rifiutare nel caso in cui, a causa di una malattia o di traumi improvvisi, non fosse più in grado di esprimere il proprio consenso o il proprio dissenso informato.

Spesso tale atto è indicato anche come testamento di vita, oppure, con espressione inglese, living will.

Come si nota, rispetto al "normale" consenso all'atto medico, le direttive anticipate mancano del carattere dell'attualità , perché la volontà dell'interessato viene manifestata in un momento anteriore e solo in previsione di un futuro ed eventuale trattamento sanitario.

Precisamente tali dichiarazioni vengono espresse quando il soggetto è pienamente capace, ma la loro efficacia non è immediata, ma differita al momento in cui la persona, colpita da malattia o da infortunio, non sia più in grado di manifestare alcuna volontà in ordine ai trattamenti sanitari.

Quando si verifica questa situazione di incapacità, dunque, il medico dovrà provvedere secondo quanto la persona ha, in piena consapevolezza, già anticipatamente manifestato.

Ciò assicura che un intervento sanitario o il rifiuto di questo continui a trovare la fonte nella volontà del paziente, salvaguardando il principio di autodeterminazione della persona ed il suo potere di "programmare" comportamenti futuri mediante dichiarazioni espresse in un testamento biologico (o di vita).

Posto che, poi, nonostante i diversi progetti di legge presentati in materia, attualmente manca una normativa in materia, deve ritenersi che questa dichiarazione di volontà anticipata di un trattamento sanitario non abbia ancora una rilevanza giuridica pienamente riconosciuta nel nostro ordinamento.

Tuttavia, è stato autorevolmente sostenuto, come si possa ammettere la validità di un testamento biologico "già sotto il profilo della liceità degli atti di disposizione del corpo e dell'integrità personale che rispettino i limiti della legge (nel senso che non ne derivi una diminuzione permanente dell'integrità e non si abbia lesione dell'ordine pubblico e del buon costume), e altresì la tutela della privacy e del potere di autodeterminazione in una materia che tocca profondamente la libertà e il destino della persona".

Diversi sono, comunque, i problemi etici e giuridici che sorgono anche in relazione al testamento biologico, tanto che il Comitato Nazionale per la Bioetica, organo istituito nel 1990 per discutere, tra l'altro, sui temi legati alla vita e alla morte, in questo vuoto normativo, ha dedicato uno specifico documento sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento il 18 dicembre 2003.

Tale documento ha preso le mosse dalla premessa che se il testamento biologico va interpretato come una estensione del principio del consenso informato, allora il suo ambito di validità deve essere coincidente con quello del consenso informato attuale, che è nella disponibilità di un paziente "competente" ed esprimerlo.

In questa prospettiva, il Comitato per la Bioetica ha ritenuto che "il principio generale al quale il contenuto delle dichiarazioni anticipate dovrebbe ispirarsi può quindi essere così formulato: ogni persona ha il diritto di esprimere i propri desideri anche in modo anticipato in relazione a tutti i trattamenti terapeutici e a tutti gli interventi medici circa i quali può lecitamente esprimere la propria volontà attuale" (§ 6).

Dato lo spazio consentito in questa sede, sia solo consentito dire che il tema non risulta coincidente con la ben distante problematica rappresentata dall'eutanasia, ciò in quanto occorre considerare che con le dichiarazioni anticipate di trattamento non si pretende che un terzo tenga un comportamento attivo o passivo che miri direttamente a porre fine alla vita del dichiarante, quanto piuttosto si esprime un rifiuto ad un trattamento sanitario che è esercizio negativo del diritto alla salute previsto all'art. 32 Cost.

In sostanza, si vuole riconoscere al paziente il diritto di orientare i trattamenti a cui potrebbe essere sottoposto, ove divenuto incapace di intendere e di volere, ossia il diritto di richiedere ai medici la sospensione o la non attivazione di pratiche terapeutiche, ma non un diritto all'eutanasia né un diritto soggettivo a morire.

Sono, quindi, estranee alla problematica del testamento biologico quelle relative alla cessazione di trattamenti terapeutici su persone che, trovandosi in uno stato vegetativo permanente, sono alimentate artificialmente e non hanno espresso una volontà sui loro trattamenti sanitari.

5. Con riferimento ad alcuni interventi non strettamente legislativi, ma testimoni dell'importanza via via assunta dal tema, occorre rammentare come il Consiglio Nazionale del Notariato, accogliendo la proposta lanciata all'inizio del marzo 2006 da Umberto Veronesi, fondatore dell'Istituto Europeo di Oncologia (IEO) ed ex ministro della Sanità, abbia approvato il 23 giugno 2006 un documento in tema di testamento di vita o biologico che ha inviato in e-mail ai cinquemila notai iscritti nell'albo.

In attesa di una definizione legislativa, è oggi dunque possibile, dopo avere indicato i propri dati anagrafici, sottoscrivere un documento, insieme con un testimone ed un fiduciario nominato per l'esecuzione delle proprie volontà, nel quale il firmatario "nel pieno delle facoltà mentali ed in totale libertà" dispone "di non essere sottoposto ad alcun trattamento terapeutico né a idratazione e alimentazione forzate e artificiali in caso di impossibilità ad alimentarsi autonomamente".

Una tale volontà può, tuttavia, esprimersi solo quando si verifica una malattia o una lesione traumatica cerebrale irreversibile e invalidante; oppure quando si verifica una malattia che costringe il dichiarante a trattamenti permanenti con macchine o sistemi artificiali che impediscono una normale vita di relazione.

Nel medesimo documento di testamento di vita è anche possibile prevedere disposizioni particolari con le quali il dichiarante può autorizzare o meno la donazione dei propri organi per trapianti e l'uso del proprio corpo per scopi scientifici e didattici.

Questa volontà è revocabile e modificabile dal dichiarante in ogni momento con una o più successive dichiarazioni.

Per quanto riguarda la reperibilità dei documenti di testamenti di vita, sarà predisposto un archivio in un Registro generale dei testamenti di vita, realizzato con un sistema telematico e gestito dal Consiglio Nazionale del Notariato.

Da un ultimo, un accenno è doveroso al fatto che, attualmente, è all'esame del Senato della Repubblica un Disegno di legge (n. 773 presentato il 7 luglio 2006) espressamente intitolato "Disposizioni in materia di dichiarazione anticipata di trattamento". Appare significativo evidenziare che, tra l'altro, in tale disegno si esclude (Art. 4, co. 4) che l'idratazione e l'alimentazione forzata possano considerarsi accanimento terapeutico e quindi oggetto di dichiarazioni anticipate, con ciò frustrando, se il Disegno dovesse tradursi in legge, il desiderio di chi non intenda proseguire una vita in tal modo assistita, laddove non sia in grado di esprimere tale volontà nel momento le dette cure siano effettuate.

Autore: Avv. Gianfrancesco Vecchio - tratto dal "Quotidiano Giuridico" - 05/04/07