I SINDACI DI S.P.A.
TRA DOVERI DI SORVEGLIANZA E POSIZIONI DI GARANZIA
Sommario:
1. Considerazioni introduttive.
2. Il reato omissivo improprio.
3. Obblighi di garanzia, di sorveglianza e di mera attivazione.
4. Posizioni di garanzia, doveri di sorveglianza e obbligo di impedimento del reato altrui.
5. Responsabilità dei "sindaci" per omesso controllo: è reato omissivo improprio? - 5.1. I sindaci di s.p.a. quali garanti del reato commesso dagli amministratori: critica alla tesi tradizionale. - 5.2. Poteri sindacali ante riforma e posizione di sorveglianza. - 5.3. I nuovi poteri del collegio sindacale nel sistema latino: rilevanza ai fini di una posizione di garanzia? - 5.4. I poteri reattivi dei consiglieri di sorveglianza: costituzione di una posizione di garanzia. - 5.5. Il comitato per il controllo sulla gestione: insussistenza di una posizione di garanzia.
6. Considerazioni conclusive.
1. Il tema della responsabilità dei sindaci è argomento non nuovo, la cui analisi è stata fortemente influenzata dai grandi scandali economici italiani (della Banca Tiberina e della Banca Romana di fine ottocento, della Banca Privata Italiana di Michele Sindona e, più recentemente, di Cirio e Parmalat), che hanno dimostrato l'inefficienza o, secondo altri, l'incapacità strutturale degli organi di controllo di impedire comportamenti illeciti da parte degli amministratori [Per un approfondimento storico degli scandali finanziari del Novecento in Italia cfr. Mazzotta, Premessa, in Mazzotta-D'Avirro, Profili penali del controllo nelle società commerciali, Milano, 2006, XVII].
Anteriormente al d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, in giurisprudenza non si è mai dubitato che sui sindaci incombesse una posizione di garanzia rispetto agli illeciti compiuti dai gestori: "individuato l'ambito dei compiti e dei poteri dei sindaci, può concludersi che ad essi è attribuita una posizione di controllo e di garanzia che impone loro, in ogni caso (...) di impedire che gli amministratori (...) compiano atti contrari alla legge" [In questi termini Cass. pen., sez. V, 28 febbraio 1991, Cultrera, in Cass. pen., 1991, 1849; analogamente Cass. pen., sez. V, 21 novembre 1989, Piras, ivi, 1991, 2046; Cass. pen., 26 giugno 1990, Bordoni ed altri, con nota di Carceri, Nuova prospettazione di una vecchia questione sulla controversa natura del reato di bancarotta, ivi, 1991, 828; Cass. pen., sez. fer., 31 agosto 1993, Minelli, ivi, 1994, 716; Cass. pen., sez. V, 22 aprile 1998, De Benedetti, ivi, 1999, 651; Cass. pen., sez. V, 18 dicembre 2001, Vaccaro, con nota di Ardia, La responsabilità penale dei sindaci di società di capitali per l'omesso impedimento dei reati degli amministratori, in Dir. pen. proc., 2002, 1251 e in Giur. it., I, 998, con nota di Voltan, Bancarotta semplice e responsabilità dei sindaci; Cass. pen., sez. V, 19 giugno 2007, n. 23838, in Guida dir., 2007, n. 35, 71. Nella giurisprudenza di merito v. Trib. Milano, 16 aprile 1992, Annibaldi ed altri, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1995, 1477; Trib. Ancona, G.I.P., 5 dicembre 1997, Venturini, con nota di Torre, Posizione di garanzia e obblighi di vigilanza nell'attività del collegio sindacale, in Ind. pen., 2000, 269].
Sulla base di tale assunto, la nozione di controllo sindacale delineato dagli artt. 2403 ss. c.c. veniva dilatata fino a comprendere una nutrita serie di doveri di intervento di cui, a ben vedere, non v'era traccia nel dettato normativo.
Se questo era, in linea generale, il panorama giurisprudenziale, più dibattuta era invece in dottrina la configurabilità di una posizione di garanzia sindacale, registrandosi difformità di vedute in ordine non solo ai limiti di una siffatta posizione ma, ancora prima, alla sua stessa sussistenza.
Il tema acquista oggi nuovo interesse in virtù delle modifiche apportate dal d.lgs. n. 6 del 2003 e, in particolare, dell'introduzione di nuovi apparati di controllo che si discostano significativamente dalla tradizionale fisionomia del collegio sindacale [Parte della dottrina ha salutato in termini fortemente negativi la triplice articolazione dell'organo di controllo della s.p.a., ritenendo che si sia trattato di una "riproduzione acritica" di modelli già criticati nei loro paesi di origine ed attuata per esterofilia, se non per eliminare ogni forma di controllo: in questo senso, tra gli altri, Bianchi, Il controllo dell'amministrazione nella riforma del diritto societario, in Società, 2002, 91. Per un approfondimento sugli organi di controllo introdotti dalla riforma societaria, per tutti, Fortunato, I « controlli » nella riforma del diritto societario, in Riv. soc., 2003, 877].
Come è noto, infatti, tanto il sistema dualistico quanto quello monistico si caratterizzano per una disciplina peculiare, che solo in parte rinvia alle norme dettate per il modello tradizionale e che, per altra parte, configura un organo di controllo atipico rispetto alla nostra tradizione giuridica. Senza qui procedere ad un'analitica disamina della disciplina dettata per i diversi organi di controllo che la s.p.a. può statutariamente scegliere, a riprova del cambio di rotta impresso dalla riforma del 2003 basti menzionare la rinuncia ad una caratteristica in passato ritenuta imprescindibile per gli organi di controllo, ossia la distinzione - funzionale e organica - tra controllori e controllati, da sempre considerata garanzia per la stessa indipendenza dei sorveglianti [Così Rordorf, La società per azioni dopo la riforma: il sistema dei controlli, in Foro it., 2003, V, 185]: tanto il consiglio di sorveglianza quanto il comitato per il controllo sulla gestione si caratterizzano infatti, seppur in diversa misura, per una certa commistione tra organo gestorio e di controllo.
Intuibili le conseguenze che una riforma civilistica così penetrante ha prodotto sul fronte penalistico, ove le fattispecie incriminatrici riformate nel 2002 annoverano tra i soggetti attivi i sindaci. Il problema, che sconta in nuce l'errore metodologico in cui è incorso il legislatore innovando dapprima il diritto penal-commerciale e solo successivamente la disciplina societaria, sta dunque nel verificare chi - tra i membri dei nuovi apparati di controllo - sia oggi definibile come "sindaco".
Sul punto, infatti, le norme estensive dettate prima dal legislatore penale (art. 2639 c.c.) e successivamente da quello civile (art. 223-septies disp. att. c.c.) hanno lasciato insoluti i problemi di sovrapposizione di funzioni, o addirittura commistione, in capo a un medesimo organo [Per la disamina delle clausole di estensione soggettiva v. Alessandri, I soggetti, in Alessandri (a cura di), Il nuovo diritto penale delle società, Milano, 2002, 37 ss.; Di Giovine, L'estensione delle qualifiche soggettive, in Giarda-Seminara (a cura di), I nuovi reati societari: diritto e processo, Milano, 2002, 2; Bianconi, Art. 2639, in Padovani (a cura di), Le leggi penali d'udienza, Milano, 2003, 1336 ss.; Morgante, Art. 2639 - Estensione delle qualifiche soggettive, in Leg. pen., 2003, 551 ss. Più recentemente, Rossi, I criteri per l'individuazione dei soggetti responsabili nell'ambito delle società, in Rossi (a cura di), Reati societari, Torino, 2005, 82 ss.; Id., I soggetti, in Antolisei, Manuale di diritto penale. Leggi complementari13, a cura di Grosso, Milano, 2007, 67 ss.; Foffani, Art. 2639, in Palazzo-Paliero (a cura di), Commentario breve alle leggi penali complementari2, Padova, 2007, 2559 ss.; Santoriello, Profili generali del diritto penale societario dopo la riforma del 2001, in Santoriello (a cura di), La disciplina penale dell'economia, I, 2008, 11 ss.].
In particolare, l'art. 2639 c.c. - secondo cui "per i reati previsti dal presente titolo al soggetto formalmente investito della qualifica o titolare della funzione prevista dalla legge civile è equiparato (...) chi è tenuto a svolgere la stessa funzione, diversamente qualificata" - appare così generico da attribuire all'interprete un ruolo quasi creativo, non chiarendo né cosa debba intendersi per "funzione", né se occorra guardare alla singola attribuzione devoluta ex lege ovvero al complessivo ruolo delineato dalla normativa civilistica. Se già all'indomani della novella penalistica si sottolineava l'ambiguità di una simile clausola [In questo senso Alessandri (nt. 6), 40; Bianconi (nt. 6), 1336 ss.; Morgante (nt. 6), 551 ss.], il problema non pare definitivamente risolto neppure dall'art. 223-septies disp. att. c.c.
Quest'ultima disposizione stabilisce al primo comma che, "se non diversamente disposto, le norme del codice civile che fanno riferimento agli amministratori e ai sindaci trovano applicazione, in quanto compatibili, anche ai componenti del consiglio di gestione e del consiglio di sorveglianza, per le società che abbiano adottato il sistema dualistico, e ai componenti del consiglio di amministrazione e ai componenti del comitato per il controllo sulla gestione, per le società che abbiano adottato il sistema monistico". Come si vede, lungi da qualsiasi automatismo, la clausola di compatibilità contenuta nella norma postula anche in questo caso un'operazione di raffronto delle attribuzioni dei diversi organi di controllo al fine di stabilire la loro riconducibilità alla qualifica sindacale.
Con riferimento alla disciplina penalistica, la valutazione di compatibilità non può peraltro essere effettuata con esclusivo riguardo alla singola fattispecie incriminatrice, giacché un simile approccio trascura che l'art. 223-septies disp. att. c.c., alla stregua dei criteri cronologico e gerarchico, si configura quale specificazione della norma introdotta nel 2003, imponendo quindi un esame congiunto delle due disposizioni al fine di verificare la possibilità di estendere l'operatività degli artt. 2621 ss. c.c. anche ai nuovi organi di amministrazione e controllo.
L'introduzione dell'art. 223-septies non ha dunque reso superflua l'indagine circa l'identità funzionale tra i diversi organi di controllo, operando al più in termini sottrattivi. Per esempio, ritenuto ex art. 2639 c.c. funzionalmente equiparabile il consigliere di sorveglianza al sindaco - così da ritenerlo imputabile ai sensi degli artt. 2621 ss. c.c. -, la valutazione di compatibilità può imporre un ulteriore raffronto tra la funzione esercitata e la condotta tipizzata dalla singola fattispecie incriminatrice, onde escludere la responsabilità penale del controllore in relazione a concrete azioni od omissioni che non rientrino nelle sue competenze legali o statutarie; di contro, una volta esclusa l'identità funzionale tra il sindaco e il membro dell'organo di controllo sulla gestione, risulta inibita qualsiasi valutazione di compatibilità alla stregua dell'art. 223-septies, preclusa ab origine dall'inapplicabilità della clausola estensiva di cui all'art. 2639 c.c.
I problemi di coordinamento tra la disciplina civilistica e quella penalistica si palesano anche in relazione al tema della posizione di garanzia sindacale giacché, in difetto della tipizzazione di una fattispecie omissiva propria e a fronte di una responsabilità sindacale da sempre configurata come reato omissivo improprio ai sensi del combinato disposto dell'art. 40, cpv., c.p. e delle fattispecie incriminatrici di cui agli artt. 2621 ss. c.c., si deve ora verificare se i poteri e i doveri attribuiti dalla disciplina civilistica all'organo di controllo possano qualificarsi come obblighi giuridici di impedire l'evento, rilevanti ai sensi dell'art. 40, cpv., c.p. Siffatta indagine deve tuttavia essere preceduta da un inquadramento dogmatico del reato omissivo improprio, giacché proprio la non corretta ricostruzione dei suoi elementi costitutivi ha sovente dato vita a orientamenti dottrinali e giurisprudenziali difformi in tema di responsabilità dei sindaci per l'omesso impedimento del reato altrui.
2. Come è noto, il tradizionale modello di illecito penale è costituito dal reato di azione: l'ideologia liberale, con i connessi principi di libertà di azione del cittadino, relega infatti la responsabilità penale per omissione ad ipotesi eccezionali fino a gran parte dell'ottocento.
All'affermarsi dei principi solidaristici corrisponde, invece, un significativo incremento del modello di responsabilità omissiva, giacché al consociato non si chiede più solamente di non aggredire gli interessi altrui, ma in talune ipotesi anche di attivarsi per la loro salvaguardia (con la previsione di reati omissivi c.d. propri) ovvero di impedirne la lesione (attraverso reati omissivi c.d. impropri) [Per un approfondimento sulla distinzione tra reati omissivi propri e impropri Grasso, Il reato omissivo improprio, Milano, 1983, 9; Leoncini, Obbligo di attivarsi, obbligo di garanzia e obbligo di sorveglianza, Torino, 1999, 5; Fiandaca-Musco, Diritto penale. Parte generale5, Bologna, 2007, 578; Pulitanò, Diritto penale2, Torino, 2007, 259].
Concentrando l'attenzione sui reati omissivi c.d. impropri, che sono indubbiamente i più problematici e anche i più ricorrenti nel settore del diritto penale societario, occorre procedere all'individuazione del tipo di obbligo idoneo a fondare l'equiparazione tra mancato impedimento e causazione dell'evento. Una simile indagine rileva, ancor prima che sul fronte della causalità, sulla stessa tipicità del reato omissivo improprio.
In questa prospettiva, l'art. 40, cpv., c.p. non offre però criteri selettivi efficaci fin quando la riflessione si esaurisce nella giuridicità dell'obbligo, ciò che vale solo ad escludere che la responsabilità omissiva impropria possa originare dalla violazione di un precetto morale, ma non spiega perché non tutti gli obblighi di attivazione siano idonei a fondare una responsabilità per omissione.
Il reato omissivo improprio si caratterizza piuttosto alla luce della posizione di garanzia, cioè del rapporto di 'particolare prossimità' intercorrente fra un bene e un soggetto, cui viene affidata la tutela del bene stesso mediante l'imposizione dell'obbligo di agire [In questo senso Palazzo, Corso di diritto penale. Parte generale2, Torino, 2006, 263].
Proprio la specificità di un simile affidamento al soggetto garante, palesata dalla sussistenza di un obbligo giuridico di impedire l'evento, segna il discrimen tra obblighi penalmente rilevanti e posizioni giuridiche inidonee a fondare l'equivalenza di cui all'art. 40, cpv., c.p.
Al fine di individuare i presupposti della responsabilità omissiva impropria, occorre dunque preliminarmente fissare i criteri alla stregua dei quali identificare la posizione di garanzia. Può dirsi oggi prevalente in dottrina una tesi ispirata ad elementi sia formali che contenutistici, che cioè ammette come fonti dell'obbligo giuridico di impedimento solo le norme giuridiche e i contratti, richiedendo però che tale obbligo corrisponda ad una funzione di garanzia.
Onde si tratta di verificare, tra i diversi obblighi di attivazione previsti dal nostro ordinamento, quale sia idoneo a fondare l'equiparazione di cui all'art. 40, cpv., c.p., occorrendo altresì che esso sia finalizzato ad una tutela "rafforzata" di determinati beni giuridici.
Se sul punto converge la dominante dottrina, i problemi cominciano tuttavia allorché dall'elaborazione dogmatica si passi al terreno della concreta individuazione degli obblighi di impedimento.
Ai fini di questa indagine, occorre accertare anzitutto se l'obbligo legale sia finalizzato all'impedimento di "eventi del « tipo » di quello verificatosi" [Così Grasso, 252 s.], giacché proprio un simile collegamento postula un rapporto sostanziale tra violazione della regola comportamentale e accadimento esterno; in secondo luogo, se l'ordinamento configuri un particolare rapporto di protezione tra garante e bene, in considerazione sia dell'incapacità del titolare del bene di proteggerlo adeguatamente, sia della "specialità" dell'obbligo di impedimento che deve gravare su soggetti predeterminati a vantaggio di altri soggetti e beni specifici [Sul punto Mantovani, L'obbligo di garanzia ricostruito alla luce dei principi di legalità, solidarietà, di libertà e responsabilità penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001, 341, secondo il quale la specificità dei soggetti beneficiari discende dal principio di solidarietà, mentre la predeterminazione dei garanti dal principio di libertà]; infine, se la protezione del bene giuridico sia oggetto immediato della situazione tipica, non potendosi imputare una responsabilità omissiva impropria sulla base di obblighi indeterminati o accessori.
Per venire al tema che ci occupa, può qualificarsi come impeditivo un obbligo di denuncia all'autorità giudiziaria, quale quello ora posto a carico dei "sindaci" dall'art. 2409 c.c., o un siffatto dovere deve invece essere ritenuto irrilevante ai sensi dell'art. 40, cpv., c.p.? La questione richiede un approfondimento.
3. Una volta riconosciuto che esistono nel nostro ordinamento differenti tipi di obblighi di attivazione, non tutti fonte di una posizione di garanzia, v'è da chiedersi cosa distingue l'obbligo impeditivo penalmente rilevante dagli altri doveri.
Al fine di apprezzare la diversità ontologica tra le diverse situazioni, autorevole dottrina ha sottolineato come, se è vero che la responsabilità per omissione presuppone sempre che un bene venga affidato ad un soggetto, non è tuttavia vero il contrario: non in ogni caso di affidamento di un bene ad un soggetto, cioè, l'omissione può dirsi equivalente all'azione. Perché tale equivalenza sussista occorre un quid pluris, e cioè che il bene venga affidato al garante in modo pressoché completo, sì che la condotta del soggetto si riveli essenziale al fine di impedire la lesione dell'interesse tutelato. Il bene deve, in sostanza, essere "« nelle mani » del titolare dell'obbligo" [Cfr. Fiorella, Il trasferimento di funzioni nel diritto penale dell'impresa, Firenze, 1985, 200].
Una simile precisazione, che riflette l'elaborazione dogmatica della Garantenstellung, impone quindi di distinguere a seconda che il rapporto di dipendenza fra titolare dell'obbligo di protezione e bene si delinei come potere direttamente impeditivo in capo al garante, ovvero come mero obbligo di adoperarsi per l'impedimento: dinanzi all'alternativa tra un'obbligazione di risultato e un'obbligazione di mezzi [Sul punto Fiorella (nt. 17), 201; nella medesima prospettiva, ma differenziando l'obbligo generico da quello specifico, Crespi, La pretesa « posizione di garanzia » del revisore contabile, in Riv. soc., 2006, 380], l'assunto che la posizione di garanzia postula un affidamento completo del bene al garante, in modo che la salvezza dell'interesse "dipenda" dall'azione del garante, impone di assegnare rilevanza, ai sensi dell'art. 40, cpv., c.p., alla sola obbligazione di risultato e, in definitiva, alla sola azione direttamente impeditiva [Secondo Grasso, 261, la sussistenza di un potere impeditivo è necessaria per le sole posizioni di garanzia aventi ad oggetto il controllo di fonti di pericolo, mentre sarebbe estranea a quelle aventi ad oggetto la protezione di un determinato interesse o l'impedimento di azioni illecite da parte di terzi., escludendo invece la sussistenza di una posizione di garanzia ogniqualvolta in capo ad un soggetto sia posta una mera obbligazione di mezzi, propedeutica ma non decisiva per la salvezza del bene giuridico. In breve: ciò che fonda l'equivalenza tra azione ed omissione è il possesso in capo al garante, accanto all'obbligo di impedire l'evento, di un correlato potere impeditivo su cui si fonda la Garantenstellung].
Considerato, inoltre, che l'intervento del garante deve essere previsto dall'ordinamento in modo funzionale alla protezione del bene, il dovere-potere impeditivo, lungi dal delinearsi quale mera signoria di fatto, in ossequio al principio di legalità deve preesistere ex lege ed inoltre apparire come risolutivo già astrattamente.
È evidente che l'impostazione ora riferita limita significativamente l'operatività dell'art. 40, cpv., c.p., escludendo la sussistenza di una posizione di garanzia ogniqualvolta la legge extrapenale preveda obblighi di attivazione in capo a determinati soggetti senza però attribuire loro poteri direttamente risolutivi.
Così, ad esempio, non potrà dirsi impeditivo l'obbligo di denuncia all'autorità giudiziaria, giacché in tale ipotesi l'ordinamento configura un dovere di mera segnalazione, senza investire il soggetto di alcun potere direttamente risolutivo e in assenza, dunque, di un completo affidamento del bene al garante.
Questa ricostruzione della posizione di garanzia appare meritevole di accoglimento alla luce di almeno tre ragioni.
Anzitutto essa risulta più aderente al principio di legalità: già da un punto di vista terminologico, infatti, è evidente che "impedire" non è sinonimo di "ostacolare" o di "agevolare l'impedimento". Tale osservazione trova una conferma sistematica negli artt. 2625 e 2638 c.c.: l'incriminazione della condotta di ostacolo di cui all'art. 2638 c.c. assegna rilevanza a condotte di incidenza meno significativa di quelle di impedimento, come peraltro si ricava dalla previsione disgiunta dell'art. 2625 c.c., riferita alle condotte che "impediscono o comunque ostacolano lo svolgimento delle attività di controllo" [Sottolineano la differenza terminologica Foffani, Art. 2638, in Palazzo-Paliero (nt. 6), 2558; Rossi, Ostacolo all'esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza, in Antolisei (nt. 6), 500].
Se cosè è, se cioè il concetto di impedimento postula un quid pluris rispetto alla condotta di ostacolo, speculari conclusioni valgono con riguardo all'art. 40, cpv., c.p., rispetto al quale la necessità di un'interpretazione restrittiva è motivata anche dalla sua natura di clausola moltiplicatrice di incriminazioni: donde la necessità di escludere dall'operatività della clausola di equivalenza quelle situazioni in cui il soggetto è titolare di obblighi di attivazione, certamente idonei ad ostacolare il verificarsi dell'evento, ma non di poteri-doveri di intervento diretto, gli unici direttamente impeditivi.
La soluzione qui sostenuta vale inoltre a spiegare la diversità ontologica dei differenti tipi di obblighi extrapenali e ad assegnare un fondamento univoco alla posizione di garanzia. Di contro, l'orientamento che non assegna all'obbligo extrapenale un contenuto direttamente risolutivo finisce con l'equiparare irragionevolmente situazioni diverse, ponendo sullo stesso piano, per esempio, l'obbligo di denunciare all'autorità giudiziaria la commissione di un determinato reato e quello invece di impedirne la commissione, sebbene la prima ipotesi sia riconducibile ad un'obbligazione di mezzi (sicché all'omittente potrà essere rimproverata la mancata attivazione solo se espressamente punita) e la seconda richieda invece il raggiungimento di un risultato. L'equiparazione tra obbligo di impedimento e dovere di vigilanza contrasta, in altri termini, con i principi di proporzionalità e di eguaglianza, giacché la previsione di una medesima cornice di pena per condotte portatrici di un disvalore differente dà vita ad un'irragionevole disparità di trattamento.
Infine, non può trascurarsi che, se l'intervento del soggetto non fosse ricostruito in termini direttamente risolutivi, non solo l'azione omessa non potrebbe dirsi conditio sine qua non dell'evento lesivo, ma l'evento sarebbe altresì imputato al soggetto agente in violazione dell'art. 27 cost.: la personalità della responsabilità penale implica che dal punto di vista causale vi sia, nei reati commissivi, un'effettiva incidenza fattuale dell'agente sul decorso causale, che nei reati omissivi - ove il nesso eziologico è sostituito dal suo equivalente normativo - è integrata dal "« potere giuridico » di impedire l'evento. Per assolvere l'obbligo di garanzia, infatti, il soggetto deve essere munito di un simmetrico ed idoneo potere, sul quale soltanto può legittimarsi la pretesa dell'ordinamento al compimento dell'azione impeditiva doverosa". Solo a queste condizioni il reato può essere considerato "proprio" del soggetto attivo.
La sussistenza di un potere giuridico di intervento risolutivo e diretto, attribuito dall'ordinamento al garante in funzione della tutela del bene giuridico è, in definitiva, connotato essenziale della posizione di garanzia.
Le caratteristiche così delineate valgono a segnare la differenza tra posizione di garanzia, rilevante ai sensi dell'art. 40, cpv., c.p., e obblighi di sorveglianza e di attivazione, rispetto ai quali la clausola di equiparazione di parte generale non può trovare applicazione.
In particolare, nella nozione di obbligo di attivazione rientrano le ipotesi in cui il soggetto deve sì agire per la tutela di certi beni, in virtù non già di un obbligo giuridico preesistente, ma del verificarsi di un presupposto di fatto tipizzato dalla stessa norma incriminatrice, la quale non postula, rispetto al titolare dell'obbligo di attivazione, poteri né impeditivi né di sorveglianza [A riprova della fondatezza della distinzione tra posizione di garanzia, dovere di sorveglianza e obbligo di attivazione si menziona la fattispecie di omissione di soccorso di cui all'art. 593, comma 2°, c.p., che sanziona espressamente, con la tipizzazione di un reato omissivo proprio, "chi, trovando un corpo umano, che sia o sembri inanimato, ovvero una persona ferita o altrimenti in pericolo, omette di prestare l'assistenza occorrente o di darne immediato avviso all'Autorità". In tale ipotesi l'obbligo di attivazione in capo al soggetto, privo di qualunque qualifica soggettiva, sorge esclusivamente per effetto del ritrovamento della persona in pericolo, difettando sia un potere giuridico di inibire la situazione pericolosa che un pregresso affidamento del bene al soggetto. L'omissione in esame rileva dunque penalmente non già in virtù della clausola di cui all'art. 40, cpv., c.p., ma solo perché oggetto di espressa incriminazione come reato omissivo proprio. Analogamente, nell'ipotesi in cui dall'omessa attivazione del soggetto derivi la lesione o la morte della persona in pericolo, l'assenza di una specifica posizione di garanzia esclude la possibilità di imputare l'evento ai sensi dell'art. 40, cpv., c.p. e il soggetto attivo risponderà solo in virtù dell'art. 593, comma 3°, c.p. Per un approfondimento Mantovani (nt. 15), 343; Leoncini (nt. 9), 56].
La posizione di garanzia si differenzia altresì dalla c.d. posizione di sorveglianza. In particolare, il discrimen tra i due obblighi sta nell'assenza in capo al sorvegliante di poteri giuridici di impedimento direttamente risolutivi, essendo egli investito dall'ordinamento di doveri di vigilanza e di controllo e di doveri-poteri di informativa nei confronti del titolare del bene [In questo senso Mantovani (nt. 15), 343; Leoncini (nt. 9), passim; Pisani (nt. 23), 50. Condividono la distinzione tra posizione di garanzia e di sorveglianza anche Fiorella (nt. 17); Giunta, La posizione di garanzia nel contesto della fattispecie omissiva impropria, in Dir. pen. proc., 1999, 626; Melchionda, La responsabilità penale dei sindaci di società commerciali: problemi attuali e prospettive di soluzione, in Ind. pen., 2000, 69; Palazzo (nt. 11), 266; Vassalli, La responsabilità penale per il "fatto dell'impresa", in Iori, Organizzazione dell'impresa e responsabilità penale nella giurisprudenza, Firenze, 1981, 34. Più recentemente, Mezzetti, Criteri oggettivi e soggettivi di imputazione della responsabilità, in Ambrosetti- Mezzetti-Ronco, Diritto penale dell'impresa, Bologna, 2008, 86].
Analogamente a quanto osservato per l'obbligo di attivazione, anche la violazione della posizione di sorveglianza non può fondare una responsabilità omissiva impropria ai sensi dell'art. 40, cpv., c.p., potendo al più essere autonomamente incriminata con la previsione di fattispecie ad hoc.
Una conferma sistematica della necessaria distinzione tra posizione di garanzia e di sorveglianza appare rinvenibile nel sistema di imputazione soggettiva previsto dal d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, in tema di responsabilità degli enti, strutturato diversamente a seconda che il soggetto sia in posizione apicale ovvero subordinato. In quest'ultimo caso, essendo la punibilità della persona giuridica vincolata alla condizione che la commissione dell'illecito sia stata resa possibile dall'inosservanza degli obblighi di direzione e di sorveglianza, occorre che l'inosservanza si ponga quale condicio sine qua non rispetto all'illecito commesso. Per questa via si pone una significativa differenza rispetto al sistema di imputazione previsto nel caso di illeciti compiuti da soggetti in posizione apicale e si delinea, in definitiva, un sistema che distingue tra doveri di sorveglianza e posizioni di garanzia, modulando gli obblighi civilistici e i livelli di garanzia a seconda della maggiore o minore prossimità del soggetto rispetto al bene tutelato.
Chiarito dunque che la posizione di garanzia si distingue dagli obblighi di attivazione e di sorveglianza, prima di spostare l'attenzione sugli obblighi sindacali si impongono alcune precisazioni in merito all'ipotesi in cui l'evento da impedire sia il reato altrui.
4. In questa sede si muove dalla premessa che l'"evento" di cui all'art. 40, cpv., c.p. possa essere costituito dal fatto di reato. L'orientamento dottrinale che a tale espressione riconduce il solo accadimento naturalistico, con la conseguenza di ritenere operativa la clausola di equivalenza causale esclusivamente in relazione ai reati causali puri [In questo senso Fiandaca, Reati omissivi e responsabilità penale per omissione, in Arch. pen., 1983, 42; Risicato, La partecipazione mediante omissione a reato commissivo, in Riv. it. dir. proc. pen., 1995, 1276], trascura infatti che il legislatore penale utilizza il termine "evento" in più accezioni, tra le quali riveste particolare importanza quella di fatto di reato nel suo complesso, come è negli artt. 57 e 116 c.p. e nell'art. 138 c.p.m.p.
Ammessa dunque la configurabilità del concorso mediante omissione al reato commissivo (di evento, ma anche di condotta) compiuto da terzi, si può quindi definire come obbligo di garanzia, avente ad oggetto l'impedimento dell'altrui reato, quello in capo ad un soggetto "dotato del potere-dovere giuridico di vigilare sull'operato di terzi e, al contempo, di impedire il compimento di azioni penalmente illecite da parte di tali soggetti".
Il soggetto deve dunque essere destinatario di uno specifico obbligo giuridico di impedimento dalla cui violazione discende, in presenza degli altri requisiti soggettivi e oggettivi, una responsabilità concorsuale nel reato non impedito.
La peculiarità di una simile posizione, che vede l'operare congiunto della clausola di equivalenza di cui all'art. 40, cpv., c.p. e delle regole del concorso di persone, induce a enucleare un'autonoma situazione, diversa dalle posizioni di controllo e di protezione. L'autonomia della categoria si apprezza del resto anche in considerazione del fatto che la previsione di un dovere di impedimento del reato altrui può giustificarsi ora con la necessità di apprestare presidi a contenimento della pericolosità di determinati soggetti (con un fondamento sostanziale analogo alla posizione di controllo), ora invece per il peculiare bisogno di tutela di alcuni beni (analogamente a quanto avviene per la posizione di protezione).
Il problema più rilevante che si pone in relazione ai diversi poteri finalizzati al contrasto dell'altrui condotta illecita (si citano, ad esempio, il dovere di intervento degli appartenenti alle forze dell'ordine e l'obbligo di garanzia gravante reciprocamente in capo agli amministratori) sta nel verificare se si tratti di una posizione di garanzia ovvero di sorveglianza.
La differente qualificazione comporta conseguenze di non poco momento, giacché l'obbligo di mera sorveglianza esclude la responsabilità concorsuale omissiva del sorvegliante rispetto all'illecito compiuto dal terzo proprio a causa dell'assenza di quei poteri impeditivi che - come si è precedentemente osservato - sono a fondamento della equivalenza causale di cui all'art. 40, cpv., c.p.: l'adempimento dei doveri di controllo e di vigilanza attribuiti al sorvegliante può infatti al più ostacolare la commissione del reato altrui, non certo impedirla. Allorché, inoltre, la condotta di omessa sorveglianza si colleghi alla commissione di un reato da parte di terzi, acquista nuova evidenza il già sottolineato contrasto con i principi di proporzionalità, di eguaglianza e di personalità della responsabilità penale: l'applicazione della medesima pena, per effetto della regola unitaria del concorso di persone, a condotte portatrici di un disvalore così differente (la commissione del reato e l'omissione di controlli) condurrebbe infatti ad un'irragionevole disparità di trattamento, in violazione dell'art. 3 cost.
Di contro, la chiamata in correità del sorvegliante si giustifica allorché costui abbia il potere di impedire l'illecito compiuto dal terzo e possa dunque essere qualificato come garante. Si noti che la sussistenza nel nostro ordinamento del principio di autoresponsabilità caratterizza in termini peculiari il potere impeditivo di cui il garante deve disporre, esigendo che l'autore della condotta commissiva illecita sia un soggetto incapace (come è nell'ipotesi del vincolo tra genitori e figli minori), ovvero che sussistano tra garante e terzo particolari rapporti giuridici.
In particolare, concentrando l'analisi al caso in cui il terzo sia un soggetto capace - come è nei rapporti societari interorganici -, il sorvegliante deve rivestire un ruolo di comando o di autorità nei confronti del sorvegliato onde poterne impedire l'azione illecita, giacché solo il possesso in capo al sorvegliante di prerogative di impedimento-comando in grado di interferire direttamente sulla condotta di reato del terzo (di talché gli atti dell'uno possano essere inficiati o inibiti dall'altro) può spiegare la sussistenza di una posizione di garanzia avente ad oggetto l'impedimento del reato altrui.
5. Così ricostruita la posizione di garanzia e delineatane la differenza rispetto agli obblighi di attivazione e ai doveri di sorveglianza, occorre verificare se le prerogative "sindacali" siano idonee a qualificare i sindaci come garanti rispetto al reato compiuto dagli amministratori, rendendoli penalmente responsabili per non averne impedito la realizzazione.
L'indagine prenderà le mosse dalle pronunce giurisprudenziali e dalle elaborazioni dottrinali relative al collegio sindacale ante riforma [Con riguardo al collegio sindacale ante riforma cfr. Cocito, Il collegio sindacale, Milano, 1970; Cavalli, I sindaci, in Trattato Colombo-Portale, Torino, 1988; Tedeschi, Il collegio sindacale.Artt. 2397-2408 c.c., in Commentario Schlesinger, Milano, 1992; Quatraro-Picone, La responsabilità di amministratori, sindaci, direttori e liquidatori di società, Milano, 1998], per poi valutare se le medesime conclusioni possano valere anche con riguardo agli organi di controllo del sistema novellato dal d.lgs. n. 6 del 2003.
Come anticipato, la giurisprudenza non aveva mai dubitato della sussistenza di una posizione di garanzia sindacale: secondo un unanime orientamento, infatti, gli artt. 2403 ss. c.c. configuravano in capo ai sindaci un dovere di controllo, esteso ad ogni aspetto della vita sociale e anche al merito delle scelte gestionali, così penetrante da delineare una posizione di controllo e di garanzia dalla quale conseguiva "in ogni caso - e siamo al minimum - l'obbligo giuridico di impedire che gli amministratori, nell'esercizio delle loro funzioni, compiano atti contrari alla legge o, addirittura, sanzionati dalla legge penale" [In questi termini Cass. pen., sez. V, 28 febbraio 1991, Cultrera, cit., 1863; analogamente Cass. pen., sez. V, 22 aprile 1998, De Benedetti, cit., 693; Trib. Milano, 16 aprile 1992, Annibaldi, cit., 1491]. Stante l'ampiezza della posizione di garanzia così delineata, non può sorprendere che la responsabilità concorsuale omissiva in capo ai sindaci fosse affermata non solo per i reati propri degli amministratori, ma financo per la costruzione di un'opera abusiva [V. Cass. pen., sez. fer., 31 agosto 1993, Minelli, cit., 1994, 716].
Insensibile alla distinzione tra posizione di garanzia e posizione di sorveglianza, la giurisprudenza aveva dunque eluso ogni indagine circa la sussistenza di effettivi poteri impeditivi in capo ai sindaci, costruendo la responsabilità concorsuale omissiva dei membri dell'organo di vigilanza quale automatica proiezione degli obblighi di controllo di cui agli artt. 2403 ss. c.c. Al fine di qualificare i sindaci come garanti, in altri termini, era ritenuta necessaria e sufficiente la "latitudine" dei loro doveri di controllo - che dall'osservanza della legge spaziava alla vigilanza contabile -, senza alcuna verifica sulla "profondità" degli stessi, ossia sulla loro idoneità risolutiva e impeditiva dell'evento.
Coerentemente con questa impostazione, si affermava la sussistenza del nesso eziologico tra il mancato esercizio dei poteri sindacali e il reato degli amministratori alla luce di una presunzione secondo cui l'attivazione da parte dei sindaci avrebbe impedito con probabilità vicina alla certezza la commissione dell'illecito [Secondo Melchionda (nt. 25), 55, l'accertamento del nesso causale tra omissione sindacale e reato degli amministratori è stata dalla giurisprudenza "spesso risolto in base ad una semplice (...) equazione logica, di fatto improntata al noto brocardo « post hoc propter hoc »"]; donde, in definitiva, l'esenzione da responsabilità solo nell'ipotesi in cui il membro dell'organo di vigilanza avesse esercitato tutti i poteri in suo possesso e, nondimeno, l'evento si fosse realizzato [Per tutte, Cass. pen., sez. V, 18 dicembre 2001, Vaccaro, cit., 1253. In senso difforme, una sola pronuncia di merito - a quanto consta -, pur non dubitando della sussistenza di una posizione di garanzia sindacale, aveva valorizzato l'accertamento del nesso causale, giungendo per questa via ad escludere la responsabilità concorsuale omissiva dei sindaci rispetto al reato degli amministratori nell'ipotesi di controllo cronologicamente successivo rispetto alla realizzazione dell'illecito e, come tale, inidoneo a "integrare un'attività causalmente rilevante ai fini della consumazione dei reati": cfr. G.I.P. Ancona, 5 dicembre 1997, Venturini, cit., 269, che ha escluso la responsabilità omissiva concorsuale dei sindaci rispetto al reato di emissione e utilizzazione di fatture inesistenti compiuto dagli amministratori].
Con analogo rigore la giurisprudenza aveva proceduto all'accertamento dell'elemento soggettivo, ritenendo la mancata attivazione dei sindaci, in presenza di "indicatori di crisi" o "segnali d'allarme" delle condotte illecite degli amministratori, quale sicuro indice della sussistenza del dolo (eventuale) in capo all'omittente, giungendo per questa via ad un'inaccettabile equiparazione di dolo e colpa.
Dinanzi a questo uniforme panorama giurisprudenziale, in dottrina si registrava una significativa difformità di vedute.
5.1. La tesi favorevole alla sussistenza in capo ai sindaci di una posizione di garanzia rispetto al reato compiuto dagli amministratori prendeva le mosse dalla considerazione che l'ordinamento, nel prevedere gli obblighi di vigilanza e di controllo sindacali, ha per questa via delineato una "presa di posizione difensiva" degli interessi collegati alla gestione della società.
In particolare, il codice civile sanciva una serie di doveri di vigilanza - la cui massima estensione si registrava nella responsabilità civile di cui all'art. 2407 c.c. - cui si riconnettevano poteri di intervento in capo ai sindaci: tra gli altri, la possibilità di procedere ad atti di ispezione e di controllo (art. 2403 ante riforma), l'obbligo di indagare sui fatti denunciati dai soci ai sensi del previgente art. 2408 c.c., il dovere di convocare l'assemblea dei soci (art. 2406). Onde, secondo la tesi in esame, la posizione di garanzia sindacale si atteggiava come dovere di controllo generale, avente ad oggetto l'attività degli amministratori e più latamente ogni aspetto della vita sociale, a salvaguardia degli interessi patrimoniali della società e dei soci.
Così definito il terreno comune da cui prendeva le mosse l'orientamento favorevole alla responsabilità concorsuale omissiva dei sindaci per il fatto compiuto dagli amministratori, le posizioni si differenziavano però in ordine al tipo di reato che i sindaci erano tenuti ad impedire. Per taluni, la responsabilità concorsuale omissiva dei sindaci doveva essere circoscritta ai soli reati propri degli amministratori [Sul punto, Stella-Pulitanò (nt. 41), 561; Iadecola, Il problema del rapporto tra responsabilità civile e responsabilità penale degli amministratori e dei sindaci, in Giust. pen., 1995, II, 246; Rossi (nt. 6), 137; D'Avirro, I sindaci ed il reato di false comunicazioni sociali, in Mazzotta-D'Avirro (nt. 1), 300]; altri, criticando la precedente tesi per l'eccessivo formalismo, sostenevano invece che oggetto della garanzia sindacale erano indifferentemente reati propri o comuni, purché attinenti all'esercizio "dell'attività istituzionale degli amministratori".
In entrambi i casi, l'impostazione in esame rivelava la propria fragilità rispetto all'accertamento del nesso causale tra omissione ed evento-fatto di reato e alla conseguente qualificazione di doveri di mera attivazione come poteri impeditivi. Pur ammettendo l'assenza in capo ai sindaci di generali poteri interdittivi rispetto all'attività gestoria, si sosteneva infatti che il corretto esercizio di tutte le prerogative sindacali fosse condizione necessaria, anche se non sufficiente, ad impedire il reato così come concretamente realizzato dagli amministratori. In altri termini, al fine di adempiere il dovere di controllo sindacale, i membri dell'organo di vigilanza dovevano esercitare tutti i poteri in loro possesso, giacché l'attivazione di solo alcune delle prerogative dei controllori "comporta (...) l'omesso esercizio di altri poteri intesi ed idonei ad impedire l'evento; e questo basta a fondare la responsabilità ex art. 40, cpv., c.p.".
Come si vede, l'orientamento in esame finiva dunque con l'introdurre inammissibili presunzioni e inversioni in tema di accertamento del nesso causale, attraverso una ricostruzione dell'omissione tipica non già partendo dall'obbligo specifico in capo al sindaco ma, al contrario, procedendo a ritroso dall'accertamento della commissione del reato per poi individuare il contenuto specifico dell'obbligo giuridico violato.
Alla critica ora riferita si esponeva pure la tesi che, sottolineando la mancata rispondenza tra i doveri di controllo, riferiti per lo più ad un'attività amministrativa già conclusa, e i poteri di impedimento rispetto ad un evento futuro, circoscriveva la responsabilità concorsuale omissiva in capo ai sindaci ai soli illeciti in fieri ancora improduttivi di un danno, come nell'ipotesi di falso in bilancio ovvero di infedeltà patrimoniale. Tale soluzione, se per un verso aveva il pregio di circoscrivere significativamente la portata dell'art. 40, cpv., c.p. in relazione alla responsabilità sindacale, per altro verso non risolveva infatti i problemi di accertamento del nesso causale, giacché non individuava quale potere i sindaci potessero esercitare per impedire l'illecito in itinere degli amministratori; più in generale, inoltre, essa confondeva un potere ostativo di fatto con il potere risolutivo di diritto, dimenticando che ai fini della sussistenza di una posizione di garanzia rileva non già la mera signoria fattuale, ma la previsione ex lege di un potere (non ostativo, ma) direttamente impeditivo dell'evento.
5.2. Gli orientamenti ora esaminati erano accomunati da un difetto metodologico: basandosi sui generici doveri di controllo sindacali di cui agli artt. 2403 e 2407 c.c. e, da un punto di vista sostanziale, muovendo dall'esigenza di apprestare una tutela rafforzata agli interessi coinvolti nell'attività sociale, essi pervenivano a ravvisare poteri interdittivi in capo ai sindaci e una loro responsabilità concorsuale omissiva rispetto all'illecito compiuto dagli amministratori, così svilendo l'accertamento del nesso causale che, come osservato, veniva presunto ex post.
La prospettiva muta decisamente una volta che la posizione di garanzia sia differenziata dalla posizione di sorveglianza in virtù della presenza di poteri direttamente risolutivi e impeditivi dell'evento e, ai fini della sussistenza di una posizione di garanzia avente ad oggetto l'impedimento del reato altrui, sia stabilita la necessità di un quid pluris, ossia di un rapporto di comando e di soggezione tra controllore e controllato.
Alla luce di questa impostazione occorre dunque verificare se, nel sistema precedente la riforma operata dal d.lgs. n. 6 del 2003, il controllo delineato dall'art. 2403, comma 1°, c.c. - concernente la vigilanza sull'osservanza della legge e dell'atto costitutivo e l'accertamento della regolare tenuta della contabilità sociale, la corrispondenza del bilancio alle risultanze dei libri e delle scritture contabili e l'osservanza delle norme stabilite dall'art. 2426 c.c. per la valutazione del patrimonio sociale -, fosse accompagnato dall'attribuzione al collegio sindacale di poteri direttamente impeditivi rispetto all'illecito operare degli amministratori.
Ai fini di questa indagine appare utile la tradizionale tripartizione del controllo sindacale in una fase ricognitivo-ispettiva, una valutativa e una comminatoria [Per tutti, Vassalli, voce Sindaci (dir. comm.), in Enc. dir., Milano, 1990, 735. A dimostrazione della persistente utilità della tripartizione v. Furgiuele, La responsabilità da controllo, in Alessi-Abriani-Morera (a cura di), Il collegio sindacale. Le nuove regole, Milano, 2007, 429].
Certamente non impeditivi erano i poteri sindacali riconducibili alla fase ricognitivo-ispettiva del controllo, giacché per definizione finalizzati alla mera acquisizione di informazioni sulla vita sociale: così era per il dovere di assistere alle adunanze del c.d.a. e delle assemblee, per l'obbligo di accertare almeno trimestralmente la consistenza di cassa e per il potere di procedere ad atti di ispezione e di controllo (art. 2403, comma 1°) e di chiedere agli amministratori notizie sull'andamento della gestione sociale (art. 2403, comma 4°), cui corrispondeva il dovere dell'organo gestorio di riferire al collegio su fatti di rilievo.
Del pari non risolutivi erano i poteri riconducibili alla fase valutativa del controllo, giacché le norme che prescrivevano la registrazione degli accertamenti eseguiti sul libro delle adunanze (art. 2403 cpv. e art. 2404, comma 3°) e l'annotazione del dissenso del singolo sindaco alla deliberazione collegiale (art. 2404, cpv.) si ponevano ancora in una fase di accertamento della legittimità dell'operato gestorio, sebbene funzionale ad un eventuale intervento del collegio sindacale.
La sussistenza di una posizione di garanzia sindacale, nel sistema ante riforma, va dunque ricercata nella fase c.d. comminatoria, caratterizzata dal potere-dovere del collegio sindacale di convocare l'assemblea in caso di omissioni da parte degli amministratori (art. 2406) ovvero in caso di denunzia "qualificata" di fatti censurabili da parte di soci rappresentanti almeno un ventesimo del capitale sociale (art. 2408), dal potere di impugnare le delibere assembleari invalide (art. 2377) e, infine, da una serie di obblighi concernenti l'intervento del collegio in ipotesi di "crisi" sociale (si pensi alla richiesta al tribunale di riduzione del capitale per perdite o per la nomina dei liquidatori).
Come si vede, i poteri-doveri comminatori del collegio sindacale ante riforma ora riassunti ponevano l'organo di vigilanza della s.p.a. come una sorta di ente collettore, avente la funzione di valutare la legittimità dell'operato dei gestori per poi deferire ogni decisione o all'assemblea dei soci o ad un organo esterno quale il tribunale. Un simile status si spiegava, del resto, con la funzione privatistica del collegio sindacale, il cui dovere di vigilanza era funzionale all'efficienza della gestione sociale e non già della prevenzione di illeciti da parte degli amministratori. Del pari in termini strettamente privatistici andava interpretata l'art. 2407 c.c., giacché la responsabilità solidale dei sindaci con gli amministratori "quando il danno non si sarebbe prodotto se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi della loro carica" non mirava certo ad affermare, sul piano penalistico, un'equivalenza causale tra azione ed omissione, valendo di contro solo a circoscrivere civilisticamente la responsabilità dei sindaci agli atti da loro controllabili.
Così inquadrati i doveri di controllo, ben si vede come l'art. 2403 c.c. conferisse sì un'ampia latitudine alla vigilanza sindacale - comunemente intesa quale verifica non già del merito gestionale, ma di legittimità sostanziale [Cfr. Quatraro-Picone (nt. 34), 1100; conformi anche Cocito (nt. 34), 112; Cavalli (nt. 34), 97. Più recentemente, Valensise, Il "nuovo" collegio sindacale nel progetto di corporate governance, Torino, 2000, 103; Franzoni (nt. 49), 614; Pisani (nt. 23), 190. In giurisprudenza, Trib. Milano, 16 aprile 1994, Annibaldi ed altri, cit., 1477], senza però prevedere poteri di intervento diretto. Rispetto al controllo contabile, dovere tipico del tradizionale collegio sindacale, inoltre, l'assenza di poteri sindacali direttamente risolutivi si univa alla circostanza che il riscontro sul bilancio fosse successivo rispetto alla sua redazione. Onde il sindaco poteva rispondere penalmente della falsità non già per l'operare del combinato disposto degli artt. 40 cpv. e 110 c.p., ma solo nel caso in cui, omettendo informazioni dovute, falsamente ne certificasse la veridicità.
Nel sistema precedente la riforma del 2003, dunque, difettava in capo ai sindaci quel potere di supremazia rispetto agli amministratori necessario ai fini della sussistenza di una posizione di garanzia avente ad oggetto l'impedimento del reato altrui: il collegio sindacale non era infatti in grado né di sostituire l'organo gestorio né di inibire direttamente le decisioni da questo assunte. Lo status dei sindaci andava pertanto inquadrato come mera posizione di sorveglianza, inidonea a convertirsi in responsabilità concorsuale omissiva ai sensi del combinato disposto degli artt. 40, cpv., e 110 c.p.
Le medesime conclusioni valgono per le società quotate, la cui disciplina, solo marginalmente modificata, ha anzi costituito il modello per il legislatore riformatore del 2003. Se pure è vero che i poteri sindacali erano qui arricchiti su ogni fronte del controllo - da quello ricognitivo a quello comminatorio, passando per il momento valutativo -, la maggiore incidenza delle prerogative lato sensu sanzionatorie non consentiva di assegnare ai sindaci un ruolo di garanti: tanto la facoltà di convocazione dell'assemblea, quanto il potere-dovere di comunicare alla Consob le irregolarità riscontrate ai sensi dell'art. 149 t.u.f., quanto infine la legittimazione alla denunzia al tribunale di cui all'art. 152 t.u.f. si configuravano infatti quali poteri meramente ostativi, giacché postulavano l'intervento di un terzo ai fini dell'effettivo impedimento dell'evento.
Esclusa, dunque, la sussistenza di una posizione di garanzia in capo al collegio sindacale tradizionale tanto nelle società chiuse quanto in quelle c.d. aperte, occorre ora rimeditare le conclusioni raggiunte alla luce delle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 6 del 2003. Stante la portata fortemente innovativa della riforma commercialistica - che, come è noto, ha non solo introdotto sistemi alternativi di amministrazione e di controllo, ma ha modificato anche significativamente le tradizionali funzioni dell'organo di vigilanza della s.p.a. -, si deve in particolare verificare se tali nuovi poteri conducano ad attribuire ai membri degli apparati di controllo una posizione di garanzia.
5.3. L'analisi del ruolo dei controllori nel sistema post riforma deve prendere le mosse dal modello latino, che è quello legalmente previsto in assenza di deroga statutaria della società.
Se è vero che il sistema monistico si pone quale erede più prossimo del tradizionale collegio sindacale [Per le marginali modifiche in tema di vigilanza sull'osservanza della legge e dello statuto, per tutti, Rigotti, Art. 2403, in Ghezzi (a cura di), Collegio sindacale. Controllo contabile. Artt. 2397-2409-septies c.c., Milano, 2005, 174], nondimeno occorre registrare una prima significativa differenza con riguardo all'ambito di vigilanza, giacché da esso è escluso il dovere di controllo contabile, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2403, comma 2°, e 2409-bis c.c., salvo deroga statutaria per le sole società c.d. chiuse. È ben vero che i sindaci non possono disinteressarsi di tale controllo, residuando in capo ad essi la vigilanza sull'adeguatezza del sistema contabile, ma è evidente che una verifica contabile in termini di mera sovrintendenza sulle metodiche di controllo esclude che il collegio possa avere una visione completa della situazione e, per questa via, efficacemente valutare la regolare tenuta della contabilità e la corretta redazione del bilancio. Onde anche i sostenitori della posizione di garanzia sindacale ammettono che non potranno essere imputati ai sindaci "quei fatti illeciti la cui conoscenza presuppone la vigilanza analitica della contabilità, ora estranea alle attribuzioni del collegio sindacale".
Delimitato l'ambito della vigilanza, occorre verificare se rispetto all'ampia sfera di controllo i membri dell'organo sindacale godano ora di strumenti di controllo e di intervento idonei ad elevarli a garanti rispetto all'illecito compiuto dagli amministratori. L'indagine deve quindi avere riguardo ai nuovi poteri reattivi attribuiti ai sindaci e, in particolare, alla legittimazione all'impugnazione delle delibere del c.d.a. non conformi alla legge o allo statuto ex art. 2388, comma 4°, c.c., ovvero adottate in conflitto di interessi ai sensi dell'art. 2391 c.c., alla possibilità di promuovere l'azione di responsabilità nei confronti degli amministratori (art. 2393, comma 3°), all'accresciuto potere di convocare l'assemblea sociale ai sensi dell'art. 2406 e, infine, alla legittimazione alla denunzia al tribunale di cui al novellato art. 2409 c.c.
Sicuramente è da escludere ogni efficacia impeditiva rispetto al primo degli strumenti menzionati, ossia la legittimazione all'impugnazione delle delibere del c.d.a. ex artt. 2388 e 2391. Anche considerando solo le delibere del c.d.a. propedeutiche alla realizzazione di un reato non ancora consumato o i cui effetti non siano giunti a compimento, resta ferma in ogni caso la natura mediata delle conseguenze innescate dall'esercizio del potere: se, come ripetutamente evidenziato, il potere inibitorio rilevante ai sensi dell'art. 40, cpv., c.p. deve atteggiarsi come possibilità di incidere direttamente sul decorso causale, alla luce di uno status di supremazia rispetto al soggetto controllato, è evidente che non può qualificarsi come impeditiva la possibilità di rimettere la decisione al tribunale, giacché l'annullamento della delibera illecita è nelle mani non già del garante, ma dell'organo giurisdizionale.
Considerazioni analoghe devono rassegnarsi per la legittimazione a promuovere l'azione di responsabilità nei confronti degli amministratori, di cui all'art. 2393, comma 3°: le osservazioni circa l'efficacia strumentale di un simile meccanismo reattivo sono anzi in tal caso evidenziate dal rigido onere probatorio che incombe sul collegio sindacale, chiamato a provare la mala gestio degli amministratori, il pregiudizio sociale da essa derivante e il nesso causale tra l'illecita condotta amministrativa e il danno arrecato alla società.
L'attenzione deve quindi spostarsi sui più pregnanti poteri attribuiti dalla riforma, ossia il potere di convocazione di cui al capoverso dell'art. 2406 e la novellata legittimazione alla denunzia al tribunale ai sensi dell'art. 2409 c.c.
Quanto al potere di convocazione dell'assemblea, occorre sottolineare come, accanto al tradizionale dovere di sollecitare i soci di fronte ad una "inerzia qualificata" degli amministratori ai sensi del primo comma dell'art. 2406, il capoverso introdotto dalla riforma del 2003 ha previsto un potere di convocazione iure proprio, stabilendo che "il collegio sindacale può altresì, previa comunicazione al presidente del consiglio di amministrazione, convocare l'assemblea qualora nell'espletamento dell'incarico ravvisi fatti censurabili di rilevante gravità e vi sia urgente necessità di provvedere". Di fronte ad accadimenti anomali nella vita societaria, la legge consente dunque che i sindaci si sostituiscano agli amministratori in una loro ordinaria prerogativa, ossia la convocazione dell'assemblea dei soci.
Taluni hanno valorizzato siffatta previsione sino a ritenere che, stante la strumentalità del potere di cui al capoverso dell'art. 2406 c.c. rispetto ai provvedimenti adottabili dall'assemblea, tra i quali vi è la revoca degli amministratori, sarebbe ipotizzabile una responsabilità concorsuale omissiva dell'organo di vigilanza nel reato commesso dagli amministratori.
In senso contrario depongono, tuttavia, due considerazioni. Anzitutto è da sottolineare che il potere di convocazione, essendo subordinato alla sussistenza di ragioni di urgenza - e in ciò differenziandosi dalla prerogativa di più ampio respiro di cui all'art. 151 t.u.f. - appare di portata circoscritta e non già quale generale strumento reattivo dell'organo di controllo. Inoltre, la facoltà di cui all'art. 2406 c.c. non si configura quale potere reattivo diretto nei confronti dell'organo gestorio ma, prevedendo che ogni decisione e provvedimento sia rimessa all'assemblea, appare espressiva solo di una funzione referente del collegio sindacale, escludendo così anche quel rapporto di supremazia del controllore rispetto al controllato necessario ai fini della sussistenza di una posizione di garanzia. L'atteggiarsi dell'obbligo in esame quale dovere di mera sollecitazione rispetto al titolare del bene, ossia l'assemblea dei soci, induce in definitiva a configurare pure in questa ipotesi non già una posizione di garanzia, ma un dovere di sorveglianza, la cui violazione è peraltro espressamente punita, seppur in via amministrativa, dall'art. 2631 c.c.
Guardando, infine, all'ultimo strumento reattivo introdotto con la riforma all'art. 2409 c.c. - cioè la legittimazione del collegio sindacale alla denunzia al tribunale in caso di fondato sospetto "che gli amministratori, in violazione dei loro doveri, abbiano compiuto gravi irregolarità nella gestione che possono arrecare danno alla società o ad una o più società controllate" -, è bene sottolineare che in tal caso l'organo di vigilanza della s.p.a. può adire l'autorità giudiziaria sulla base di un mero sospetto di gravi irregolarità compiute dagli amministratori, in ciò differenziandosi dal rigido onere probatorio previsto dall'art. 2393 c.c. [Per una disamina del potere-dovere di denuncia di cui all'art. 2409 c.c. cfr. Nazzicone, La denunzia al tribunale per gravi irregolarità ex art. 2409: le novità della riforma, in Società, 2003, 1078 ss.. La maggiore ampiezza di tale potere sindacale è tuttavia immediatamente arginata dalla considerazione che la denuncia, avendo ad oggetto gravi irregolarità "compiute", guarda per lo più a un illecito penale già consumato e non può dunque inibire il reato degli amministratori. Anche poi ipotizzando la denuncia rispetto a reati in fieri, non può ritenersi che la legittimazione di cui al novellato art. 2409 c.c. valga ad assegnare all'organo di controllo un potere direttamente impeditivo rispetto all'illecito dei gestori. In senso contrario occorre infatti notare che la denunzia trova come suo limite l'interesse sociale, risultando quindi esclusa per quelle violazioni che, seppur gravi, non incidano direttamente sul patrimonio sociale. Più in generale, inoltre, la denuncia si configura non già quale condicio sine qua non rispetto alla realizzazione del delitto, ma come un mero potere mediato, posto che l'impedimento è in realtà rimesso ad un organo estraneo al collegio sindacale quale il tribunale.
Nonostante i nuovi poteri reattivi attribuiti ai sindaci, è in definitiva da escludere che i membri dell'organo di vigilanza del sistema c.d. latino possano essere qualificati come garanti del fatto illecito degli amministratori, difettando sia strumenti direttamente impeditivi e risolutivi che un rapporto di supremazia rispetto all'apparato gestorio.
5.4. Diverse conclusioni si impongono con riguardo all'organo di vigilanza del sistema dualistico [Per una panoramica delle peculiarità del sistema dualistico, tali da renderlo adatto a realtà imprenditoriali derivanti da processi aggregativi o, comunque, caratterizzate da una spiccata dissociazione tra titolarità e gestione v. Zamperetti, Prime significative applicazioni del sistema dualistico, in Società, 2006, 1193], definito da autorevole dottrina quale "« ircocervo » a mezzo fra le regole dell'organo di controllo e dell'organo gestorio" in virtù delle peculiari competenze attribuitegli dal legislatore, accostabili in parte ai tradizionali doveri del collegio sindacale e per altra parte a poteri assembleari e di amministrazione.
Quanto alle competenze e ai poteri comuni al tradizionale organo di controllo - quali le funzioni di vigilanza sull'osservanza della legge e dello statuto, sul rispetto dei principi di corretta amministrazione e in particolare sull'adeguatezza dell'assetto organizzativo, amministrativo e contabile, la legittimazione all'impugnazione delle delibere illegittime del c.d.a. e all'azione di responsabilità contro gli amministratori e alla denunzia al tribunale ex art. 2409 c.c., nonché il dovere di relazionare annualmente all'assemblea sull'attività di vigilanza svolta -, valgono le conclusioni già raggiunte per il collegio sindacale in merito alla loro inidoneità impeditiva.
Ciò che, invece, ora maggiormente rileva è la disamina delle competenze peculiari del consiglio di sorveglianza che, diversamente dal sistema latino, non esercita le funzioni di controllo contabile, ma è tuttavia competente all'approvazione del bilancio; onde è da verificare se una simile attribuzione valga a connotare i consiglieri di sorveglianza in termini differenti dai sindaci.
A questo proposito non basta evidenziare come l'approvazione del bilancio, unita al già sottolineato maggiore coinvolgimento dell'organo di vigilanza nella gestione della società, vale potenzialmente a delineare uno strumento incisivo nelle mani dei consiglieri di sorveglianza e a rendere più efficace il controllo sulla contabilità della società; ciò che, invece, occorre verificare è se i membri dell'organo di controllo del sistema dualistico dispongano di poteri impeditivi. Al quesito deve darsi risposta affermativa in considerazione del potere di nomina e di revoca ad nutum degli amministratori, di cui all'art. 2409-terdecies, comma 1°, lett. a), c.c.
È ben vero che una simile prerogativa sarà di fatto raramente esercitabile, giacché l'organo gestorio eviterà di sottoporre al controllo preventivo del consiglio di sorveglianza ogni suo atto anche per scongiurare il rischio di revoca ad nutum; nondimeno, tralasciando il concreto atteggiarsi dei rapporti tra organo di amministrazione e di controllo, pare indubitabile che la possibilità di revocare l'organo gestorio valga a costituire un potere direttamente impeditivo dell'evento nei casi di illeciti in fieri, giacché per questa via si inibirebbe la consumazione del reato. Al contempo, l'attribuzione al consiglio di sorveglianza del potere di nomina e di revoca ad nutum degli amministratori (rectius, consiglieri di gestione) denota in termini di soggezione il rapporto tra organo di controllo e di amministrazione, giacché la possibilità per i sorveglianti di revocare l'incarico amministrativo anche in assenza di giusta causa sottolinea la supremazia del consiglio di sorveglianza, il quale può impedire il prodursi degli effetti tipici dell'attività in cui si concreta il reato.
Il potere attribuito all'organo di vigilanza dall'art. 2409-terdecies, comma 1°, lett. a), risulta dunque idoneo a delineare, per un verso, quel potere di supremazia tra controllore e controllato a fondamento della posizione di garanzia avente ad oggetto l'impedimento del reato altrui e, per altro verso, a qualificare in termini astrattamente impeditivi il potere di intervento del consiglio di sorveglianza, così rendendo l'organo di vigilanza del sistema dualistico garante rispetto al reato compiuto dai consiglieri di gestione, purché l'illecito sia in fieri (difettando altrimenti qualsiasi possibilità impeditiva) e a patto che ricorrano i requisiti soggettivi del reato.
Ancora una precisazione è opportuna in riferimento all'imputazione soggettiva. A fronte delle modifiche di cui al d.lgs. n. 61 del 2002, che hanno inciso anche sull'elemento soggettivo dei reati, richiedendo in molti casi il dolo intenzionale unito al dolo specifico, v'è da chiedersi se in tali ipotesi l'omissione del consigliere di sorveglianza debba essere sorretta dallo stesso elemento psicologico che sostiene l'azione dei consiglieri di gestione. In altri termini, ipotizzando il reato di cui all'art. 2622 c.c. realizzato dagli "amministratori" intenzionalmente e al fine di ingiusto profitto, il quesito che si pone attiene alla possibilità di imputare ai membri dell'organo di vigilanza una responsabilità concorsuale omissiva anche quando costoro versino in dolo generico e financo sub specie di dolo eventuale.
In proposito, non pare accoglibile la tesi secondo cui, "per evitare (...) incomprensibili diversità di applicazione della norma tra amministratori e sindaci, all'accertamento del dolo intenzionale degli amministratori dovrà corrispondere l'accertamento di un intenzionale omesso controllo del sindaco, finalizzato a consentire la realizzazione dell'illecito".
Come infatti ormai chiarito, in capo al concorrente è sufficiente il dolo di partecipazione, non dovendo invece necessariamente sussistere anche la stessa species di elemento soggettivo che sorregge la condotta principale. Onde deve concludersi che i consiglieri di sorveglianza possano rispondere anche a titolo di dolo eventuale, ai sensi del combinato disposto degli artt. 40, cpv., e 110 c.p., del reato compiuto intenzionalmente dai consiglieri di gestione.
5.5. L'organo di controllo del sistema monistico si pone in netta controtendenza rispetto alla nostra tradizione giuridica poiché, scardinando un principio tradizionale del sistema di controllo della società per azioni, con esso si rinuncia dichiaratamente ad un organo di vigilanza "altro" e indipendente rispetto al consiglio di amministrazione. Nel sistema monistico, infatti, sono gli stessi controllati a scegliere, all'interno del c.d.a., i membri del comitato per il controllo sulla gestione e a revocarli, anche senza giusta causa. Già da queste prime osservazioni può dubitarsi della possibilità di qualificare i membri del comitato per il controllo sulla gestione come garanti rispetto al fatto compiuto dagli amministratori, giacché il sistema di nomina e revoca previsto dal codice civile esclude una posizione di supremazia dei controllori sui sorvegliati, presupposto della posizione di garanzia avente ad oggetto l'impedimento del reato altrui, e anzi si caratterizza sulla base di un rapporto inverso.
Ad escludere la posizione di garanzia in capo ai membri del comitato per il controllo sulla gestione stanno in ogni caso le funzioni e i poteri previsti dall'art. 2409-octiesdecies c.c. (dovere di riunione almeno ogni novanta giorni ex art. 2404, obbligo di assistere alle adunanze del c.d.a., alle assemblee e alle riunioni del comitato esecutivo ai sensi dell'art. 2405 e obbligo di denunzia al tribunale di cui all'art. 2409 c.c.), che si connotano in termini di strumentalità senza delineare in nessun caso poteri di intervento diretto.
In senso contrario, si potrebbe osservare che la partecipazione dei controllori alle delibere del c.d.a. consente ai membri del comitato per il controllo sulla gestione un coinvolgimento nelle scelte degli "amministratori" ben più incisivo che per gli altri organi di controllo. Ma per questa via non può comunque ipotizzarsi una posizione di garanzia, poiché al comitato per il controllo è affidato il dovere di vigilare non già sull'osservanza della legge e dello statuto, né sul rispetto dei principi di corretta amministrazione, né infine sulla contabilità sociale, ma solo sulla "adeguatezza della struttura organizzativa della società, del sistema di controllo interno e del sistema amministrativo e contabile, nonché sulla sua idoneità a rappresentare correttamente i fatti di gestione". Onde, si è correttamente affermato, "mentre è tradizione che la disciplina del funzionamento degli organi di controllo sconti, proprio sul terreno dell'individuazione dei garanti, il deficit di poteri giuridici di intervento, a fronte dell'ampiezza dell'obbligo di vigilanza sul modello dei 'controlli generici', in questo caso si assiste ad un'innegabile inversione di tendenza: all'attribuzione di poteri di 'amministrazione' ai membri del comitato di controllo, fa riscontro una decisa limitazione dell'oggetto del controllo-vigilanza, che si riflette in una parziale 'sterilizzazione' di tale funzione".
In altri termini, anche a voler ammettere che il coinvolgimento dei membri del comitato per il controllo nella funzione gestoria valga a porli astrattamente in condizione di inibire l'illecito operare degli amministratori esecutivi, nondimeno la sussistenza di una posizione di garanzia è da escludersi in ragione dell'angusto ambito del controllo loro affidato. Siffatta limitazione dell'oggetto della vigilanza vale inoltre a rendere il comitato, più che organo di vigilanza, una sorta di audit committee e, in definitiva, un organo intermedio con funzioni serventi al c.d.a.
Se il comitato per il controllo sulla gestione è longa manus del c.d.a., privo sia di strumenti impeditivi che di un potere di supremazia nei confronti degli amministratori, è evidente che in nessun caso i membri del comitato potranno rispondere quali "sindaci" a titolo di concorso omissivo nel reato degli amministratori.
Resta da verificare, per completezza, se i componenti il comitato possano essere garanti, rispetto all'illecito compiuto dai gestori, in quanto amministratori non esecutivi. In tal senso si è espressa una parte della dottrina, sostenendo che, "se (...) fosse vero che nel sistema monistico si è addivenuti ad una deresponsabilizzazione civilistica dell'organo di controllo, la posizione di garanzia potrebbe derivare dalla loro posizione di amministratori, allorquando vi fosse nello specifico l'attribuzione di poteri necessari per l'effettivo espletamento del ruolo di garante ai sensi, però, dell'art. 2392 cod. civ.".
La tesi appare suggestiva, in ragione anche delle gravi lacune di tutela che essa colmerebbe. In senso contrario orienta però la considerazione che i membri del comitato per il controllo sulla gestione sono amministratori non esecutivi, investiti di poteri-doveri di controllo non solo, come rilevato, di latitudine assai circoscritta, ma anche cronologicamente successivi.
L'assenza di univoche soluzioni sul punto deriva anche dalle già esaminate incertezze interpretative originate dalle clausole estensive di cui agli artt. 2639 c.c. e 223-septies disp. att. c.c. che, come precedentemente osservato, postulano un esame critico delle attribuzioni dei diversi organi al fine di stabilire la loro riconducibilità alla corrispondente qualifica tipizzata dagli artt. 2621 ss. c.c. Tale valutazione di compatibilità è assai ardua nel caso dell'organo di controllo del sistema monistico, giacché la presenza di una sola disposizione codicistica ad esso dedicata rende ancor più difficile verificare la sussistenza di quell'identità funzionale che giustificherebbe l'applicazione della disciplina dettata per gli amministratori.
6. L'analisi condotta ha dimostrato come non sia configurabile in capo ai sindaci di s.p.a. alcuna posizione di garanzia rispetto all'illecito compiuto dagli amministratori. Come si è visto, di Garantenstellung potrà parlarsi solo con riguardo ai consiglieri di sorveglianza, in ragione delle prerogative attribuite a tale organo e dello status di supremazia di cui gode nei confronti dei consiglieri di gestione. Di contro, in capo ai sindaci e ai membri del comitato per il controllo sulla gestione deve ritenersi sussistente una mera posizione di sorveglianza, con la conseguente impossibilità di imputare l'evento delittuoso compiuto dagli amministratori ai sensi del combinato disposto degli artt. 110 e 40, cpv., c.p.
Un conto è però sostenere l'impossibilità di punire il sindaco alla stregua della disciplina vigente. Altro conto, invece, è escludere la meritevolezza della pena tout-court: l'organo di controllo della s.p.a. svolge infatti una funzione centrale per la correttezza della gestione sociale e l'omessa vigilanza certamente agevola la commissione di illeciti all'interno della società; donde la necessità di modulare l'intervento penale attraverso previsioni ad hoc che sottopongano a pena anche le omissioni sindacali.
La questione si appunta, in definitiva, sul modello di incriminazione più idoneo a tali fini. Esclusa la previsione di un reato omissivo improprio espressamente codificato in ragione dell'assenza di poteri impeditivi in capo al sorvegliante, in linea astratta il legislatore potrebbe intervenire sia con la tipizzazione di fattispecie omissive proprie che con la positivizzazione di un reato di agevolazione colposa.
Nella prima prospettiva si era mosso il progetto di riforma del codice penale elaborato nel 1992, il cui art. 11, individuando il discrimen tra posizione di sorveglianza e posizione di garanzia nel possesso di poteri impeditivi, sanciva la punibilità del sorvegliante solo se espressamente prevista come reato [L'art. 11 sottolineava la necessità di "equiparare il non impedire l'evento al cagionarlo solo sotto il presupposto di un obbligo giuridico attuale di garanzia dello interesse tutelato dalla legge. Prevedere che la violazione degli obblighi giuridici di sorveglianza sia punibile solo in quanto espressamente prevista come reato". Specificava inoltre che "titolare dell'obbligo di garanzia è la persona che, munita dei relativi poteri, è giuridicamente tenuta ad impedire l'evento offensivo di interessi affidati alla sua tutela", in contrapposizione alla definizione di titolare dell'obbligo di sorveglianza come la "persona che, priva dei suddetti poteri impeditivi, è giuridicamente tenuta a sorvegliare per conoscere della commissione di reati e comunque a informarne il titolare del bene o il garante". Il testo integrale dello "Schema di delega legislativa per l'emanazione di un nuovo codice penale" redatto dalla Commissione presieduta dal prof. Pagliaro, è riportato in Ind. pen., 1992, 579 ss.; per un commento favorevole alle disposizioni di cui all'art. 11 del progetto v. Leoncini, (nt. 9), 383 ss.].
La soluzione ora riferita, che consentiva di ricondurre ad unità le eterogenee ricostruzioni dottrinali della posizione di garanzia, delineando apprezzabili criteri di differenziazione rispetto ai doveri di sorveglianza, venne poi abbandonata dal progetto del 2001, che rinunciava alla clausola di parte generale di cui al vigente art. 40, cpv., c.p. in favore di una tipizzazione espressa delle posizioni di garanzia rilevanti ai fini della responsabilità penale dell'omissione.
In questo modo, si sosteneva, sarebbe stato garantito il rispetto dei principi di legalità e di determinatezza, giacché il vincolo posto in capo al legislatore di dichiarare formalmente la natura di posizione di garanzia avrebbe escluso il rischio di creazioni giurisprudenziali.
A ben vedere, tuttavia, una simile opzione si esponeva a riserve anzitutto di ordine generale giacché, non evidenziando il possesso di astratti poteri impeditivi quale portato fondamentale della posizione di garanzia, né codificando la diversa categoria dogmatica del dovere di sorveglianza, rinunciava ad ancorare l'interpretazione giurisprudenziale e dottrinale a riferimenti univoci. Donde possibili incertezze interpretative allorché, nei casi di obblighi di attivazione posti in sede extrapenale come appunto quelli sindacali, il legislatore avesse scelto non già di individuare espressamente quali tra i doveri degli organi di controllo fossero idonei a fondare una posizione di garanzia (relegando la violazione degli altri obblighi nell'ambito di una responsabilità esclusivamente civilistica), ma di definire lo status sindacale, secondo una valutazione complessiva, come posizione di garanzia, lasciando però all'interprete la concreta individuazione di quei doveri definibili come impeditivi dell'evento e, in definitiva, la delimitazione dei limiti contenutistici della posizione di garanzia.
È dunque apprezzabile la scelta dei più recenti progetti di riforma del codice penale, rispettivamente elaborati nel 2005 e nel 2007, che - oltre a stabilire che l'obbligo di garanzia sia previsto dalla legge e che ai fini dell'imputazione omissiva sussistano in capo al garante di poteri giuridici e di fatto idonei ad impedire l'evento - recuperano la distinzione tra posizioni di garanzia e di sorveglianza e prevedono la punibilità della violazione degli obblighi giuridici di mera vigilanza solo in quanto espressamente prevista dalla legge come reato.
Ferma questa distinzione e la necessità di sottoporre a pena la violazione di obblighi di sorveglianza, si impone poi di scegliere, sotto il profilo della tecnica di tipizzazione, tra reato omissivo proprio ovvero di agevolazione colposa.
La prima opzione, pur apprezzabile sotto il profilo del rispetto dei principi di legalità e tassatività, non pare tuttavia cogliere che il disvalore dell'omissione sindacale risiede non tanto nella violazione dei doveri di sorveglianza, quanto nel fatto che essa consente la commissione di illeciti da parte degli amministratori. Alla stregua della soluzione in esame, in altre parole, sarebbero punite tutte le condotte di inerzia da parte dei sindaci, indipendentemente dall'evento conseguitone nella gestione societaria: ciò che si risolve in un travisamento del significato della fattispecie, che le conferisce un'offensività fondata sulla violazione del dovere e svincolata dal danno che ne è derivato.
Di contro, la previsione di un reato di agevolazione colposa avrebbe il pregio di evitare l'equiparazione di condotte portatrici di un diverso disvalore quali l'omissione sindacale e l'illecito commesso dagli amministratori, consentendo invece di distinguere, anche sul fronte punitivo, la condotta colposamente inerte dell'organo di vigilanza dalla realizzazione dolosa del reato da parte dei gestori. Inoltre, essa vale a caratterizzare l'atteggiamento psicologico tipico del sindaco che, negligentemente, non vigili sull'operato illecito degli amministratori, escludendo uno scivolamento verso concorrenti imputazioni a titolo di dolo e così evitando il pericolo di derive giurisprudenziali che, come già in passato, conducano ad un'equiparazione di fatto tra colpa e dolo eventuale.
Autrice: Dott.ssa Laura Mandelli. In Banca borsa tit. cred., 2009, 04, 444
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