DELLA RISARCIBILITA' DEL DANNO NON PATRIMONIALE E DEI SUOI LIMITI Autore: Barcellona Mario Relazione al Convegno su "Funzione normativa della giurisprudenza di legittimità e commisurazione del danno non patrimoniale" svoltosi a Roma il 23/05/2012 presso l'Aula Magna della Corte di Cassazione Tratto da: Danno e Responsabiltà, n. 8-9/2012, pag. 817 Un esame disincantato dell'argomento, con cui la giurisprudenza ha superato il disposto normativo a proposito del danno non patrimoniale, mostra l'incontenibilità costituzionale del suo risarcimento e la necessità di prender atto dell'esaurimento della funzione selettiva dell'art. 2059. E tuttavia questo non implica che sia venuto meno ogni limite alla generale risarcibilità del danno alla persona: limiti permangono ma discendono dall'incrocio di tale generale risarcibilità con altri principi sistemici dell'ordinamento, che occorre, perciò, mettere a fuoco ed implementare in modo adeguato chiarendo ove non ne ricorrano le rationes. Sommario: 1. Un'importante operazione della giurisprudenza di legittimità: il ritorno del danno non patrimoniale sotto la regola dell'art. 2059 e il limite dei diritti costituzionalmente protetti 2. L'incontenibilità costituzionale del danno non patrimoniale: di alcune riserve sul dispositivo limitativo immaginato dalla giurisprudenza 3. Il carattere socialmente evolutivo del principio di patrimonialità e l'esaurimento dell'efficacia selettiva dell'art. 2059 - 4. I limiti sistemici alla risarcibilità del danno alla persona 1. Un'importante operazione della giurisprudenza di legittimità: il ritorno del danno non patrimoniale sotto la regola dell'art. 2059 e il limite dei diritti costizionalmente protetti L'operazione avviata dalle c.d. sentenze gemelle del 2003 e precisata dalle Sezioni unite nel 2008 ha il grande merito di avere posto la questione del risarcimento del danno non patrimoniale nei suoi giusti termini: il risarcimento di questo danno non passa affatto attraverso manipolazioni del contenuto normativo dell'art. 2043, ma dipende esclusivamente dall'interpretazione, che si opera, dell'art. 2059. Con questa corretta impostazione, la via per superare l'ostacolo frapposto dal dettato di questa norma è stata indicata dalla Corte Suprema nella sua interpretazione costituzionalmente orientata: il dispositivo della tutela minima dei diritti costituzionali fondamentali integra il requisito della espressa previsione normativa richiesto dall'art. 2059 e conserva al danno non patrimoniale il carattere tipico che questa norma gli aveva conferito. Bisogna riconoscere che quest'argomento costituzionale presenta un tasso di persuasività molto elevato. E tuttavia a me sembra possa suscitare perplessità, che investono il dispositivo dogmatico su cui si fonda, il modo nel quale dovrebbe funzionare e il regime di tipicità cui dovrebbe metter capo. 2. L'incontenibilità costituzionale del danno non patrimoniale: di alcune riserve sul dispositivo limitativo immaginato dalla giurisprudenza Proverò ad esporre brevemente queste perplessità, che si possono sistemare attorno a tre questioni fondamentali. In primo luogo, non mi sembra che il dispositivo della tutela minima, costruito attraverso la combinazione del "contenuto minimo" dei diritti costituzionali e della loro "efficacia orizzontale", sia in grado di reggere la "disattivazione" selettiva del limite dell'art. 2059 che si propone. E ciò per due ragioni alquanto diverse tra loro. La prima ragione si può riassumere nei termini che seguono. Questo dispositivo si regge sul presupposto dell'assenza di ogni altra tutela: esso, infatti, fa scattare la tutela minima risarcitoria solo quando il diritto leso non trovi nell'ordinamento altra protezione. Ma Cass. civ. n. 7632 del 2003 aveva già ricordato che - cito - «il sistema risarcitorio non è l'unico mezzo di tutela e che nel nostro ordinamento il diritto alla vita è ampiamente tutelato in sede penale e la sanzione penale è la massima forma di reazione dell'ordinamento ad un illecito». Poiché è tutt'altro che facile trovare un diritto costituzionale fondamentale che non abbia già nell'ordinamento una qualche altra forma di tutela, l'attivazione del dispositivo del risarcimento come sua tutela minima appare, in pratica, tutt'altro che agevole da implementare. La seconda ragione si può riepilogare nei seguenti passaggi. Il principio di irrisarcibilità del danno non patrimoniale si fondava su una vecchia e nobile ragione, quella che il valori personali e spirituali non tollerano di essere ponderati e tramutati in denaro: di questo principio era, appunto, attuazione l'art. 2059. L'argomento costituzionale che varrebbe a disattivare tale principio, perciò, potrebbe essere costituito solo da un principio costituzionale di segno opposto, il quale, cioè, disponesse che la conversione in denaro dei valori personali e spirituali non subisce di queste remore etiche. Ma di una norma costituzionale, espressa o implicita, la quale sancisca l'incostituzionalità del principio di intramutabilità in denaro dei valori personali e spirituali non sembra facile trovare traccia nella Carta del «48. In secondo luogo, non sembra sicuro che questo dispositivo sia sempre fatto funzionare e possa sempre funzionare nei termini in cui si vorrebbe che funzionasse. Si legge che l'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 istituisce una "ingiustizia costituzionalmente qualificata". L'ingiustizia, però, è un requisito deputato a discernere gli interessi, il rischio della cui lesione avrebbe dovuto indurre l'agente ad astenersi dal comportamento dannoso, ossia è un criterio che esaurisce il compito suo proprio nell'operare come filtro dell'accesso di un bene/interesse alla tutela aquiliana e che non investe, invece, la diversa questione della trasposizione della sua lesione nel relativo equivalente pecuniario. Così intesa, allora, l'"ingiustizia costituzionalmente qualificata" dovrebbe operare limitando la risarcibilità del danno non patrimoniale a quelle fattispecie in cui un tal danno proviene da un "fatto dannoso" che si qualifica ingiusto perché incorpora la lesione di un diritto costituzionalmente protetto: il limite, che l'art. 2059 pone alla trasposizione del pregiudizio personale in un equivalente pecuniario, non opera solo quando la fattispecie aquiliana si dà a partire dalla lesione di un diritto costituzionalmente protetto. E d'altronde, questo è il modo in cui funziona l'ipotesi dell'art. 185 c.p. e, soprattutto, questo è il senso di quell'orientamento che intendeva il danno esistenziale come "proiezione dinamica" del danno biologico e che ha contribuito all'adozione di quella formulazione restrittiva delle Sezioni Unite che assume la tipicità del danno non patrimoniale. Solo che non è questo il modo in cui l'art. 2059 costituzionalmente interpretato vien fatto funzionare, ad es., quando viene riferito al danno non patrimoniale da inadempimento: nella responsabilità contrattuale, infatti, si dice sia scontato che il risarcimento del danno non sia subordinato alla sua ingiustizia, sicché non si dà neanche un giudizio di ingiustizia che si possa volere costituzionalmente qualificata. Ciò significa, allora, che il riferimento costituzionale non opera integrando il giudizio di ingiustizia e conferendole carattere di tipicità, bensì introducendo un regime generale della convertibilità in denaro del pregiudizio personale: il danno non patrimoniale è risarcibile solo quando - quale che sia il "fatto" che ha dato origine alla responsabilità e quale che sia l'interesse la cui lesione consente di predicarne l'ingiustizia - si tratti di convertire in denaro un pregiudizio che attiene ad una dimensione della persona costituzionalmente protetta. Così intesa, però, l'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 regge, sì, l'estensione di questa norma al danno da inadempimento, ma rende inspiegabile perché si debba negare il risarcimento del danno non patrimoniale scaturente, ad es., dall'uccisione di un animale d'affezione, visto che l'oggetto del pregiudizio personale che si deduce (e cioè la qualità della vita o le condizioni di esistenza) non è qualitativamente diverso (e talvolta non lo è neanche quantitativamente: si ricordi quel vecchio film di Vittorio De Sica: Umberto D) da quello che fa valere la vittima secondaria dell'uccisione di una persona. In terzo luogo, e soprattutto, non sembra affatto sicuro che questo dispositivo permetta effettivamente la chiusura del danno alla persona entro un regime di reale tipicità. Da tempo, infatti, la migliore dottrina costituzionalistica ha avvertito: - che l'art. 2 Cost. costituisce - cito - una «clausola aperta» e che ad esso va ascritta «natura generativa di nuovi infiniti diritti»; - e che, se mai qualche dubbio si dovesse in proposito nutrire, questo verrebbe dalla considerazione che «le potenzialità normative [dei diritti fondamentali enumerati] sono talmente ampie ed elastiche da ricomprendere qualsiasi ulteriore ipotesi che lo sviluppo della coscienza sociale o della civiltà o, come altri preferisce dire, la costituzione materiale propongano come nuovi diritti». Ma, evidentemente, un regime di tipicità non può costruirsi su di una "clausola aperta" o su di un tessuto normativo che si alimenta della "coscienza sociale" o dello "sviluppo della civiltà". Se queste considerazioni hanno un qualche fondamento, allora, da esse debbono farsi discendere due conseguenze: - la prima conseguenza è che l'ambito di rilevanza del danno non patrimoniale coincide tendenzialmente con l'intero raggio del pregiudizio alla sfera materiale e spirituale della persona: tutto il danno alla persona, quale che ne sia l'origine, può virtualmente ambire al risarcimento; - la seconda conseguenza è che il superamento del limite dell'art. 2059 non può farsi discendere dall'esterno, neanche dal dettato costituzionale, ma si origina al suo interno, ossia muove dal carattere intrinsecamente evolutivo del criterio di patrimonialità e dalla costitutiva deperibilità della barriera che esso istituisce. 3. Il carattere socialmente evolutivo del principio di patrimonialità e l'esaurimento dell'efficacia selettiva dell'art. 2059 Questa tesi può essere qui solo accennata in poche - e non so fino a che punto comprensibili - battute: L'art. 2059 sanciva le conclusioni raggiunte da dottrina e giurisprudenza nella vigenza dell'art. 1151 c.c. ab., per le quali la irrisarcibilità del c.d. danno morale (che in quel tempo designava tutto l'odierno danno non patrimoniale) non dipendeva affatto da una sua intrinseca refrattarietà alla tecnica risarcitoria, bensì da una ragione etica: l'inconvertibilità "morale" dei valori personali in denaro. La non-patrimonialità, con cui l'art. 2059 ha tradotto questo limite artificiale, designa, perciò, il limite "morale" della trasponibilità di un quid in denaro, nella matrice monetaria. Questa non-patrimonialità, pertanto, finisce dove comincia la patrimonialità, ossia giunge fin dove si ammette che un quid possa tramutarsi in denaro. Come da sempre insegna la dottrina, negli artt. 814, 1174 e 1321, dove fondamentalmente viene contemplata, la patrimonialità coincide con la scambiabilità: è patrimoniale tutto ciò che può essere immaginato come scambiabile, ossia che può essere immaginato come ponderabile e virtualmente sottoponibile al mercato. La scambiabilità, dunque, è un limite non solo artificiale (= creato dal diritto), ma anche socialmente evolutivo, in quanto con esso il diritto rimette alla società di decidere ciò che è ponderabile e che, perciò, può essere proposto al mercato ed assumere la forma di merce. La ponderabilità, che costituisce, perciò, il senso primario della scambiabilità, dipende, allora, dalla concepibilità sociale che un quid sia trasformato in denaro, la quale a sua volta, proprio per essere sociale, muta con il mutare della società. Ciò comporta che - quello che sociologicamente è definito - il c.d. "imperialismo della matrice economica" può giungere, ed è ora giunto, fino ad universalizzare la ponderabilità: non c'è più quid di cui non si ammetta la tramutabilità in denaro, la commisurabilità pecuniaria. Questa universalizzazione, appunto, abroga "fisiologicamente" il limite, socialmente evolutivo e quindi socialmente deperibile, dell'art. 2059. L'attuale estensione della risarcibilità a tutto il danno alla persona rappresenta, dunque, l'abrogazione sociale di un limite positivamente costruito come deperibile: l'interpretazione ha, perciò, coerentemente abrogato l'art. 2059 nel nome del dispositivo istituito dallo stesso art. 2059 (che, già in origine, si concepiva come un limite mobile, perciò deperibile e, dunque, virtualmente estinguibile, quando l'intrinseca espansività della "matrice economica" avesse travolto ogni remora alla convertibilità in denaro di quel che si inscrive nella sfera spirituale). Capisco bene che una simile comprensione, forse, non si addice molto all'argomentare di una sentenza e alle forme comunicative che essa esige (ancorché la Cassazione ci abbia ormai abituato a ragionamenti sofisticati). E tuttavia, la comprensione del processo, in forza del quale si è giunti all'odierna risarcibilità del danno non patrimoniale, serve a governarne adeguatamente l'estensione e a trovare le reali ragioni dei suoi limiti. La generale risarcibilità del danno alla persona, cui questo processo - bisogna riconoscerlo - ha condotto, non significa, infatti, che il danno non patrimoniale non abbia limiti. Significa, piuttosto, che questi limiti gli vengono dall'esterno, e cioè da altri principi del sistema giuridico. Il problema di questi limiti si dà, perciò, come composizione dell'antinomia tra il principio della virtuale rilevanza risarcitoria del pregiudizio personale ed i diversi principi sistemici che in altri campi ne ingiungono l'irrilevanza. 4. I limiti sistemici alla risarcibilità del danno alla persona Questi principi sono, essenzialmente, tre: 4.1. Il primo di questi principi è il principio di necessaria latenza del valore personale/spirituale delle "cose" Le fattispecie nelle quali questo problema è venuto in considerazione sono, soprattutto, quelle della risarcibilità del danno esistenziale per la perdita di un "animale di affezione". Ma evidentemente il problema ha una portata ben più generale. Nel 2002 una sentenza del Tribunale di Roma ha ritenuto che «l'interruzione della relazione affettiva con l'animale ucciso può avere rilevanza sul piano della tutela aquiliana ove sia in concreto allegato e provato un peggioramento della qualità della vita». Dopo qualche anno, nel 2005, lo stesso Tribunale di Roma ha sconfessato tale principio sull'argomento che «tra i diritti della persona di rango costituzionale non rientra l'affezione pur intensa che si possa provare per un animale». Cass. civ. n. 14846, nel 2007, ha confermato tale principio sulla considerazione che «la perdita di un animale di affezione non è qualificabile come danno esistenziale consequenziale alla protezione di un interesse della persona alla conservazione di una sfera di integrità affettiva costituzionalmente tutelata». Queste argomentazioni negative non sembrano, però, molto convincenti. Quel che in simili ipotesi si deduce è, in fondo, il dolore e/o il deterioramento della qualità della vita, e cioè una dimensione del tutto inerente alla persona della quale non può dirsi in sé che non abbia dignità costituzionale. E, se così è, non sembra appropriato far dipendere la tutela di una tale dimensione della persona dalla "causa" che ne abbia procurato la lesione. Ciò che, invece, giustifica tale conclusione è altro. è il principio sistemico che le "cose" valgono per quel che il mercato dice che valgono. Questo principio dice che la soggettività del personale valore attribuito dal danneggiato al bene o alla prestazione non può scalzare l'oggettiva universalità della sua misura mercantile: il valore d'uso rilevante delle "cose" è solo quello che si oggettivizza nel loro valore di scambio. Il dolore e/o il deterioramento della qualità della vita, che la perdita di un bene possono procurare, invece, darebbe rilevanza alla relazione affettiva tra il bene ed il suo titolare, e cioè al valore soggettivo che questi gli attribuiva. La risarcibilità del valore di affezione e del danno c.d. esistenziale, che - si badi - di questo valore è semplicemente il rovescio manifestato dalla sua perdita, perciò, renderebbe visibile quel valore spirituale che il mercato vuole, invece, rimanga latente. Ma questa ratio mostra anche i suoi limiti, e dunque le condizioni alle quali essa non ricorre e, perciò, un tal danno può riacquisire rilevanza. Queste condizioni, grosso modo, si danno nei tre casi che seguono. Il primo è il caso in cui il valore d'uso sociale del bene includa la dimensione personale dell'esistere: così si spiega, ad es., una decisione del Tribunale di Milano, che, nel 2003, ha ritenuto risarcibile «il danno alla vita di relazione subito dai proprietari di un appartamento afflitto da gravi infiltrazioni d'umido sotto il profilo del disagio di abitare». Il secondo è il caso in cui il pregiudizio del valore d'uso personale trabocca in una reale patologia, e cioè in cui il mero "malvivere" giunge ad assume il carattere, ad es., di una vera sindrome depressiva e si configura, perciò, come un "danno ulteriore" che non sottostà alla logica economica prima illustrata: al quale caso può ritenersi si riferisca, ad es., l'implicita riserva di Cass. civ. n. 14846 del 2007, quando, per giustificare l'irrisarcibilità del danno esistenziale dovuto alla perdita di un cavallo, avverte la necessità di aggiungere che «non può essere sufficiente a tale fine la deduzione di un danno in re ipsa con il generico riferimento alla perdita della qualità della vita»; la qual motivazione lascia intendere che la conclusione potrebbe essere diversa ove quello dedotto non venisse configurato come "un danno in re ipsa" e non si risolvesse in un "generico riferimento" alla qualità della vita. Il terzo è il caso in cui il pregiudizio alla "cosa" è intenzionalmente strumentale al pregiudizio spirituale del suo titolare (come suggerisce l'ipotesi dell'uccisione dell'animale d'affezione per vendetta o ritorsione): così si spiegano (anche se qui si verte propriamente nel danno da inadempimento di un'obbligazione legale), ad es., Cass. civ. n. 7713 del 2000, che ha ritenuto risarcibile il danno esistenziale subito da un figlio naturale per l'accanito rifiuto del genitore di corrispondergli i dovuti mezzi di sussistenza, e la più recente Cass. civ. n. 25691 del 2011, che ha ritenuto virtualmente risarcibile il danno non patrimoniale determinato dal comportamento ostruzionistico di chi costringa ad un'azione legale. Dunque, tanto il principio che, in linea di massima, fa escludere la risarcibilità del danno non patrimoniale da perdita delle "cose", che le rationes che richiedono di superarlo non sembra interpellino i valori costituzionali ma richiedono piuttosto di interrogare, di volta in volta, o il valore d'uso della "cosa" perduta o i termini concreti in cui si è sviluppato il fatto dannoso (dal punto di vista della natura delle conseguenze subite dalla vittima e dal punto di vista della qualità del comportamento di chi vi ha dato causa). 4.2. Il secondo di questi principi è il principio di patrimonialità/calcolabilità delle relazioni negoziali Le fattispecie nelle quali questo problema è venuto in considerazione sono, soprattutto, quelle della risarcibilità del danno personale/esistenziale dipendente dall'inadempimento di un'obbligazione contrattuale. Quello che, non sempre rendendosene conto, ha spinto dottrina e giurisprudenza ad escludere la risarcibilità di un tal danno, prim'ancora che la previsione dell'art. 2059 (ossia anche quando - come nel codice del 1865 - questa norma non c'era), è stato il combinato disposto di due principi cruciali del sistema dell'autonomia privata. Da un lato, il principio che deve rimanere estraneo alle relazioni negoziali l'imponderabile, ossia tutto ciò che costituisce un rischio non calcolabile e, perciò, non previamente monetizzabile (= principio della necessaria patrimonialità della prestazione dell'art. 1174 e principio della circoscrizione del potere di autonomia ai rapporti patrimoniali dell'art. 1321). Dall'altro, e soprattutto, il principio che, in ogni caso, le ragioni di scambio fissate nel contratto segnano anche i limiti del rischio posto a carico dei contraenti (= principio della risarcibilità del solo danno prevedibile dell'art. 1225). La somma di questi due principi, infatti, comporta che l'ambito di rilevanza delle aspettative contrattuali sia strettamente limitato al valore d'uso dedotto nello scambio e che, perciò, il "soffrire" della loro delusione o l'averne stravolte le "abitudini di vita" fuoriesca dal rischio contrattualizzato, ossia da ciò di cui soltanto l'inadempimento ed il suo risarcimento si possono occupare. In questa logica, che è quella logica del contratto per cui non si ha da mettere di mezzo il pathos nelle questioni di denaro, la "sofferenza" per l'inadempimento appartiene all'imponderabile soggettività del contraente che la subisce, semmai denota l'inadeguatezza di chi entra nel mercato senza averne la tempra e, proprio per questo, si situa nell'area del rischio incalcolabile e non monetizzato nello scambio. Ma anche in tal caso questa ratio mostra i suoi stessi limiti, e dunque le condizioni ove essa non ricorre. Anche qui queste condizioni, grosso modo, si danno in due casi che, però, sono sintomatici di due generali rationes alternative. Il primo caso è quello in cui il cattivo esercizio un potere contrattuale costituisce solo l'occasione, il mero veicolo di un pregiudizio che in realtà concerne beni rimasti esterni al contratto, estranei al suo contenuto ed ai poteri che esso istituisce: questo, ad es., è il senso di quella risalente giurisprudenza della Sezione Lavoro che ha argomentato il risarcimento del danno non patrimoniale nelle fattispecie di mobbing, demansionamento, ecc., sulla considerazione del disposto dell'art. 2087; il quale argomento, perciò, non concerne tanto uno specifico "contenuto protettivo" del contratto di lavoro, ma consiste propriamente in ciò, che integrità fisica e personalità morale del lavoratore rimangono fuori dallo scambio contrattuale e che, perciò, i poteri del datore di lavoro, che il contratto istituisce, non possono essere esercitati in modo da ledere ciò che non ne costituisce oggetto. Il secondo caso è quello in cui, al contrario, l'oggetto del contratto investe proprio la stessa integrità psico-fisica del contraente: questo, ad es., è il senso della scontata responsabilità del medico per il danno non patrimoniale subito dal cliente a causa della sua negligente prestazione professionale. Ma in questo secondo caso rientrano anche i contratti in cui lo scambio concerne le condizioni di un valore d'uso che interessa, per l'appunto, la sfera esistenziale: come nelle fattispecie di responsabilità per c.d. vacanza rovinata, dove ciò che si risarcisce è proprio ciò che con il contratto tipicamente si acquista e che il suo inadempimento fa mancare, e cioè le condizioni di una temporanea dimensione ludica dell'esistenza. Ma la logica che presiede alla comprensione di questi casi può ricorrere anche al di fuori di essi. Vi ricorre quando la negligente esecuzione delle obbligazioni contrattuali eccede il mero rischio della mancanza della prestazione principale e coinvolge le "esterne" condizioni esistenziali dei contraenti: come, ad es., può avvenire nel caso in cui i passeggeri di una compagnia aerea siano lasciati per ore e ore senza informazioni puntuali ed assistenza; dove, allora, il discrimen si dà tra "rischio contrattuale" del ritardo del volo e modalità di gestione della "condizione esistenziale" del cliente quando l'attesa ecceda tale "rischio contrattuale". E vi ricorre anche quando l'oggetto stesso della prestazione intrinsecamente investe la dimensione esistenziale di un contraente: non ha senso giuridico, infatti, ammettere il risarcimento per l'inadempimento che abbia rovinato una vacanza e negarlo per l'inadempimento che, consistendo ad es. nella mancata consegna dell'abito di nozze, abbia rovinato una cerimonia nuziale. Dunque, tanto il principio che, in linea di massima, fa escludere la risarcibilità del danno non patrimoniale da inadempimento, che le rationes che richiedono di superarlo non sembra interpellino i valori costituzionali ma richiedono piuttosto di interrogare il contratto e il suo oggetto. 4.3. Il terzo di questi principi è il principio di indifferenza giuridica delle interazioni personali affettive Le fattispecie nelle quali questo problema viene in considerazione sono, essenzialmente, quelle della risarcibilità del danno non patrimoniale subito dalle c.d. vittime secondarie. Le questioni che tali fattispecie sollevano sono di due ordini. La prima questione è quella di una "cerchia" delle vittime secondarie che non sembra si possa determinare soltanto sulla base del rapporto coniugale e di quello parentale: e perché non si sa fino a che punto si spinga la rilevanza di quest'ultimo, e perché il primo appare oltrepassato dalle c.d. unioni di fatto. Esemplificativa di queste difficoltà è, da un lato, Cass. civ. n. 14019 del 2005, che non si sente di limitare la tutela ai "parenti conviventi" e che si affida al criterio della - cito - «sussistenza di un legame basato sulla frequentazione in atto»: non avvertendo, però, che il dar così rilievo al "fatto" soffre, poi, come arbitrario il limite del rapporto parentale, a misura che un legame siffatto può darsi, con la stessa e a volte maggiore intensità, anche in dipendenza di un rapporto amicale. E, dall'altro, Cass. civ. n. 12278 del 2011, che ammette la tutela del/la convivente more uxorio quando la relazione di convivenza abbia le stesse caratteristiche del vincolo coniugale: non avvertendo, però, che così si pone un limite che è comprensibile, ma che non si può certo mutuare dalla Costituzione (alla quale la considerazione delle unioni di fatto si potrebbe imputare non dal punto di vista della tutela della famiglia, ma da quello della tutela delle libertà) e che, proprio per questo, presenta carattere discriminatorio ove, ad es., non ricomprenda anche le unioni omosessuali. Queste difficoltà, dunque, non si sciolgono aggrappandosi al parametro costituzionale e si tematizzano, piuttosto, nella seguente questione: come può darsi che la stessa cosa sia per taluno (ad es., congiunti prossimi e conviventi) danno risarcibile e per altri (ad es., congiunti non conviventi e amici anche fraterni) sia, invece, fato/disgrazia, ossia qual è la logica che consente di discernere quel che, a prima vista, sembra eguale. La seconda questione è quella della soglia che una modificazione peggiorativa delle condizioni di esistenza deve attingere per conseguire la consistenza di un danno risarcibile. In proposito, infatti, la giurisprudenza sembra oscillare tra un'idea del danno c.d. esistenziale che è fatto consistere - cito - nel «deterioramento delmodus vivendi essenziale per l'espressione e lo sviluppo della persona» e l'idea che esso consista piuttosto - cito - nello «stravolgimento di scelte di vita consolidate», che è, evidentemente, una cosa affatto diversa e ben più pesante. Un esame delle fattispecie concrete mostra che, in linea di massima, il parametro più permissivo è adottato quando un tal danno è dedotto dalla c.d. vittima primaria e che, invece, il parametro più restrittivo è utilizzato quando si tratta di apprezzare le domande delle c.d. vittime secondarie. Ma questo mostra che il riferimento al parametro costituzionale non è risolutivo, visto che un valore costituzionale è tale ed è sempre lo stesso in capo a chiunque sia leso. E mostra che, invece, queste difficoltà si tematizzano nella seguente questione: come si può dare che quel che è danno per taluno (= vittima primaria) non lo è per altri (= vittime secondarie), ossia quale sia la logica che consente di adottare due pesi e due misure. Le due questioni, che si sono così tematizzate, cominciano a lasciarsi comprendere se si muove da due principi del sistema giuridico. Il primo principio consiste in ciò, che il risarcimento del danno attua uno spostamento di ricchezza, che il sistema giuridico non consente trasferimenti di ricchezza che non siano giustificati e che il danno, di per sé, non è una giustificazione sufficiente, finché non si dimostri una qualche "spettanza" di quel che si è perduto. Il secondo principio consiste in ciò che le interazioni personali affettive, in linea di massima, sono estranee al sistema giuridico e rimangono assegnate ad altri sistemi parziali della società che governano l'affettività, quali, ad es., i sistemi delle relazioni domestiche, delle relazioni amorose, delle relazioni amicali, ecc. In tali altri sistemi non solo l'organizzazione ma anche la nascita e la fine di una relazione affettiva rimangono, di norma, confinate nella dimensione dell'imponderabile, del destino/fatalità. L'indifferenza giuridica di queste interazioni e la dimensione "fatalistica" in cui sono socialmente comprese le loro vicende determinano l'irrilevanza del pregiudizio dipendente dalla fine, anche traumatica, di una relazione personale, e perciò il suo darsi come causa insufficiente di uno spostamento di ricchezza. Ciò, in qualche modo, fa capire perché sia diverso, e più indulgente, il parametro di pregiudizio che si adotta verso le c.d. vittime primarie rispetto a quello, più restrittivo, utilizzato per le c.d. vittime secondarie: nel primo caso, infatti, non si dà quel problema di conferire rilevanza ad una relazione interpersonale che, invece, si dà nel secondo caso, e dunque il risarcimento non soffre il limite generale della irrilevanza delle interazioni personali. Ma questo può spiegare anche come si può discernere tra danno e fatalità. Dal principio di generale irrilevanza dei legami affettivi fuoriescono quelle interazioni personali che superano la soglia dell'indifferenza giuridica. Superano questa soglia le "interazioni obbliganti". Si possono definire interazioni obbliganti quelle che il diritto considera "giusta causa" di spostamenti di ricchezza indipendentemente dalla presenza di un'obbligazione coercibile. Il paradigma di queste interazioni obbliganti è offerto, per l'appunto, dall'art. 2034. Per tale norma il "dovere morale o sociale" è il criterio di accesso ad una rilevanza giuridica non solo extra-negoziale, ma anche extra-legale, nel duplice senso che opera ex post giacché non è preceduta dalla coercibilità e che dipende da una fonte, da una misura che si dà fuori dal diritto, nella socialità, e che, perciò, è anche intrinsecamente mutevole. Fanno, perciò, eccezione al principio di indifferenza delle interazioni sociali i rapporti produttivi di una "doverosità non coercibile", che si colloca all'esterno del diritto e si conforma al mutamento sociale. La rilevanza attributiva di questa "doverosità incoercibile" rileva, per l'appunto, sul piano risarcitorio, rendendo "giustificato" il trasferimento di ricchezza che l'obbligo risarcitorio determina: in sua presenza il risarcimento può operare in rapporto ad una dimensione che legittima spostamenti di ricchezza. Segnatamente, questa rilevanza risarcitoria di una tal "doverosità incoercibile" si dà in due direzioni: La prima direzione è quella della perdita di un fare moralmente o socialmente dovuto dalla vittima primaria: la vittima secondaria, qui, deduce il venir meno di un modo di esistere che dipendeva dalla vittima primaria e corrispondeva ad un'aspettativa (verso di essa) moralmente o socialmente fondata; ed a questa condizione, per l'appunto, soddisfa il requisito giurisprudenziale della "delusione di una scelta di vita consolidata". La seconda direzione è quella della perdita di un fare gratificante impedito dall'adempimento di un dovere morale o sociale (verso la vittima primaria): la vittima secondaria deduce, qui, il radicale deterioramento del suo modo di esistere che dipende dalla cura della vittima primaria a cui la costringe un debito moralmente o socialmente riconosciuto; ed a questa condizione, per l'appunto, soddisfa il requisito giurisprudenziale del "radicale cambiamento dello stile di vita". Il parametro che decide queste questioni non è, dunque, costituzionale, e neanche giuridico: è intrinsecamente sociale, dipende da come gli uomini si concepiscono e concepiscono i loro rapporti con gli altri e, così, l'ambito e la misura dei vincoli reciproci che ne scaturiscono; e proprio per questo può mutare nel tempo dando rilevanza a quel che prima sembrava inconcepibile. Note: Per indicazioni bibliografiche ed approfondimenti si rinvia a M. Barcellona, Trattato della responsabilità civile, Torino, 2011. |