La revocatoria del pagamento del terzo su conto corrente


CASSAZIONE CIVILE, sez. I, 10 settembre 2002, n. 13159

Fallimento - Effetti sugli atti pregiudizievoli - Azione revocatoria fallimentare - Versamenti in conto corrente da parte del terzo - Ammissibilità.

In tema di fallimento, il principio secondo il quale l’atto del terzo che paghi, nel periodo sospetto, il debito dell’imprenditore insolvente ha rilevanza, ai fini dell’azione revocatoria, soltanto se esso incide effettivamente sul patrimonio del fallito, depauperandolo in violazione delle regole della par condicio (e cio' tanto se il terzo abbia eseguito il pagamento con denaro del fallito, quanto se, dopo aver pagato, si sia rivalso verso il fallito stesso prima della dichiarazione di fallimento) non trova applicazione nella (diversa) ipotesi di versamenti effettuati dal terzo sul conto corrente del debitore, inserendosi, in tal caso, nell’operazione il diaframma del rapporto di conto corrente, nel quale il versamento del terzo e' attratto, venendo, per effetto di quello, a costituire una variazione quantitativa del conto (e, cioe', una posta attiva del correntista nella cui titolarita' confluisce l’importo accreditato), con la conseguenza che, in tal caso, le rimesse del terzo sono tout court equiparabili, ai fini dell’azione revocatoria, alle rimesse ed ai versamenti del correntista.

La Corte (omissis).

1. La Corte d’appello - muovendo dalla premessa, non piu' oggetto di discussione tra le parti, che, da un lato, i versamenti per lire 251.291.637 nel conto corrente del fallito erano avvenuti in una situazione di "conto scoperto", ed erano percio' assoggettabili a revocatoria secondo l’orientamento consolidato di questa Corte, e che, dall’altro, la banca era consapevole dello stato di insolvenza del debitore - ha stabilito, sulla base della   consulenza tecnica di ufficio e della prova testimoniale, che i versamenti nel conto corrente della s.a.s. Salvi Filati erano stati effettuati con danaro della stessa societa' fallita, non essendo le tre fideiubenti (le due sorelle e la nonna del legale rappresentante della s.a.s.) nella condizione di effettuare "pagamenti" di ingente importo con danaro proprio.

2. Con l’unico motivo del ricorso, denunciando la violazione e la falsa applicazione dell’art. 67, secondo comma, legge fallimentare, e degli artt. 2697, primo comma, e 2729, primo comma, codice civile, nonché vizi di motivazione, la ricorrente deduce che incombeva al curatore l’onere di provare la provenienza dal patrimonio del fallito del danaro utilizzato dai terzi per soddisfare il creditore dell’imprenditore, e che questa prova non sarebbe stata raggiunta perché ricavata dalla presunzione di impotenza finanziaria delle fideiubenti, a sua volta presunta (praesumtum de praesumpto).

3. La censura non ha pregio perché essa non coglie il punto decisivo della controversia, posto che nella fattispecie l’effetto solutorio si sarebbe realizzato anche indipendentemente dall’apprezzamento fattuale espresso dal giudice del merito in base al diretto esame delle risultanze processuali. Infatti, il principio (invocato dalla ricorrente) secondo cui l’atto del terzo che paghi nel periodo sospetto il debito del soggetto insolvente, ai fini dell’azione revocatoria, rileva soltanto in quanto esso incida effettivamente nel patrimonio del fallito, depauperandolo, in violazione delle regole della par condicio creditorum (sia che il terzo abbia eseguito il pagamento con danaro del fallito: Cass. 22 gennaio 1999, n. 570 e Cass. 24 marzo 1994, n. 2899; sia che il terzo, dopo avere pagato, si sia rivalso verso il fallito prima della dichiarazione di fallimento: Cass. 22 marzo 1991, n. 3110 e Cass. 23 novembre 2001, n. 14869), non trova applicazione nella diversa ipotesi (che è quella di specie) di versamenti effettuati dal terzo sul conto corrente del debitore. In tal caso, infatti, nell’operazione si inserisce - come questa Corte ha gia' precisato con la sentenza 16 novembre 1998, n. 11520 - il diaframma del rapporto di conto corrente, nel quale il versamento del terzo e' attratto, venendo, per effetto di quello, a costituire una variazione quantitativa del conto; e cioè una posta attiva del correntista, nella cui titolarità confluisce l’importo accreditato, perchè gli accrediti che la banca compie sul conto corrente del debitore si inseriscono (salvo patto contrario) nell’ambito dell’unitario rapporto di conto corrente, derivino le relative operazioni da un fatto proprio del fallito o da un fatto del terzo (cfr. Cass. 23 aprile 1987, n. 3919). E ciò comporta che le rimesse del terzo sul conto corrente dell’imprenditore sono equiparabili, ai fini della revocatoria, alle rimesse e ai versamenti del correntista.

4. Alla stregua di tali considerazioni il ricorso, pertanto, non puo' essere accolto.

(omissis).


Commento tratto da: IL FALLIMENTO - IPSOA N. 3/2003

Ad una prima lettura, la sentenza qui pubblicata ribadisce quasi alla lettera l’insegnamento di Cass. 16 novembre 1998, n. 11520 (in questa Rivista 1999, 650, con nota critica di Tarzia, Considerazioni sulla revoca fallimentare del pagamento del terzo), che espressamente richiama. Essa tuttavia merita qualche riflessione, anche alla luce delle critiche che erano state sollevate in dottrina su quell’insegnamento, che vengono ignorate senza una specifica ed esaustiva motivazione, e delle indicazioni contrarie che emergono in altri precedenti della Suprema Corte.

Sullo sfondo sta il principio piu' generale per cui il pagamento del terzo al creditore non e' revocabile, in caso di successivo fallimento del debitore, quando detto pagamento sia stato fatto senza intaccare il patrimonio del fallito, e quindi con mezzi propri del terzo, per spirito di liberalita' o comunque senza che il terzo si sia rivalso nei confronti del debitore prima del suo fallimento (fra le altre, Cass. 24 marzo 1994, n. 2899, in questa Rivista 1994, 842; Cass. 22 marzo 1991, n. 3110, ivi, 1991, 796); se invece il terzo adempie con denari del debitore, esso viene considerato quale semplice nuncius di quest’ultimo ed il pagamento viene conseguentemente imputato al debitore stesso (Cass. 13 aprile 1989, n. 1785, in questa Rivista 1990, 18). Nel primo caso (utilizzo di mezzi del terzo), infatti, non si hanno "atti pregiudizievoli ai creditori", come tali rientranti nell’art. 67 legge fallimentare; nel secondo caso, viene invece lesa la par condicio creditorum e dunque il pagamento e' oggettivamente revocabile.

Ora, la Cassazione - come gia' il suo precedente n. 11520/1998 - precisa che laddove il versamento del terzo transiti sul conto corrente del debitore, invece che giungere direttamente alla banca creditrice, il pagamento di cui usufruisce quest’ultima (ad es. mediante la riduzione del saldo passivo del conto) potrebbe essere imputato al debitore e non al terzo, con conseguente sua revocabilita' nei confronti della banca stessa.

La motivazione, come si diceva, e' piuttosto laconica: "nell’operazione si inserisce ... il diaframma del rapporto di conto corrente, nel quale il versamento del terzo e' attratto, venendo, per effetto di quello, a costituire una variazione quantitativa del conto; e' cioe' una posta attiva del correntista, nella cui titolarita' confluisce l’importo accreditato". Nulla di piu' si dice, se non richiamando una precedente decisione per cui "l’accredito, da parte di una banca, in un conto corrente ... di somme rimesse da terzi o provenienti da distinta posizione debitoria dell’istituto di credito, costituisce un’operazione che, salvo patto contrario, si inserisce nell’ambito dell’unitario e complesso rapporto di conto corrente" e "determina una semplice variazione quantitativa del debito del correntista" (sono le parole di Cass. 23 aprile 1987, n. 3919, in questa Rivista 1987, 1135, che aveva escluso la compensazione fra il saldo passivo del conto ed un debito della banca per la somma ricavata dalla vendita di titoli, accreditata nel conto stesso, senza che peraltro fosse coinvolto alcun terzo).

La dottrina, come si diceva, ha puntualmente messo in luce i limiti e le lacune di tale argomentazione. Essa muove dalla fondamentale considerazione che di per sé l’accreditamento su un conto corrente e' un fatto neutro, che non sempre corrisponde ad un’operazione  giuridicamente rilevante (Ferri, voce Accreditamento, in Enc. del dir., vol. I, Milano 1958, 305); basti considerare le annotazioni per lo storno di errate registrazioni col segno opposto. E l’accredito sul conto di somme provenienti da un terzo potrebbe avere una doppia valenza: o rappresentare un effettivo versamento delle somme a favore del correntista, e poi magari utilizzate a decurtazione del debito verso la banca; oppure, come avviene frequentemente nella prassi, mera annotazione di somme destinate alla banca stessa. Infatti, anche in questo secondo caso, "il pagamento eseguito dal terzo, comportando una correlativa diminuzione del credito della banca verso il debitore, non puo' non essere annotato in conto, in quanto, diversamente, il saldo del conto corrente riporterebbe un dato contabilmente inesatto"; ma cio' non esclude che "nel caso del terzo che intenda adempiere il debito del correntista, il trasferimento bancario non ha come destinatario diretto dell’ordine ... il correntista, bensì la banca; il conto corrente viene interessato dalla registrazione o annotazione del trasferimento disposto soltanto perché non sarebbe possibile non annotare il pagamento in conto, con registrazione recante un segno a favore del correntista" (Trentini, Revocabilita' del pagamento del terzo, in questa Rivista 2002, 854).

Invero, secondo l’insegnamento ormai consolidato, il conto corrente bancario si caratterizza per "il servizio di cassa", che "rappresenta il principale incarico demandato alla banca dal cliente in forma di mandato. La banca e' dunque tenuta ad eseguire ordini di pagamento ... e riscossioni, ai quali corrispondono annotazioni a debito e a credito evidenziate negli estratti conto" (Silvetti, Il conto corrente bancario, in Trattato di diritto commerciale dir. da Cottino, vol. VI, La banca: l’impresa e i contratti, Padova 2001, 487). Tuttavia, tale funzione, derivante dalla prassi contrattuale, non e' esaustiva: l’originaria impostazione del codice civile (artt. 1852-1857) prevedeva "gli effetti del regolamento in conto corrente di operazioni bancarie tipiche; esso e' dunque considerato come un metodo contabile, che puo' applicarsi ad altri contratti" (Silvetti, Il conto corrente bancario, cit., 477). Ecco quindi che un’annotazione a credito non rappresenta necessariamente somme incassate dalla banca su mandato del cliente, ma potrebbe appunto riflettere l’annotazione contabile di altra operazione (diversa da un incasso), qual e' ad esempio la riduzione dell’esposizione del cliente verso la banca per effetto del pagamento di un terzo garante.

La stessa Suprema Corte, in altri suoi precedenti, ha aderito alla suddetta impostazione. Due di essi sono addirittura citati nella sentenza qui pubblicata: nel primo ha riconosciuto che quando il pagamento del terzo derivi dall’escussione da parte della banca di un pegno prestato da quel terzo, "l’eventuale accreditamento sul conto corrente (del debitore poi fallito, n.d.r.) della somma ricavata dal pegno rappresenta soltanto una modalita' di registrazione contabile della partita, al fine di portarla in detrazione del saldo passivo dello stesso conto corrente.
La somma, quindi, non entra nella disponibilita' del debitore, con la conseguenza che non e' invocabile l’esistenza del diaframma del rapporto di conto corrente" affermato da Cass. 11520/1998, cit. (Cass. 23 novembre 2001, n. 14869, in questa Rivista 2002, 849, in motivazione, con nota di Trentini, Revocabilita' ..., cit.). Nel secondo ha espressamente affermato che quando il terzo effettua il pagamento sul conto della società fallita "non puo' giuridicamente desumersi, per cio' solo, che sia stata quest’ultima ad operarlo", trattandosi invece "di una semplice modalità di pagamento che non muta né la provenienza del denaro dal terzo né il destinatario, che rimane pur sempre la banca in virtù del rapporto obbligatorio personale insorto con la fideiussione ..." (Cass. 22 gennaio 1999, n. 570, in questa Rivista 2000, 64). In altra fattispecie ha altrettanto chiaramente stabilito che "il principio di autonomia contrattuale consente che il fideiussore di uno scoperto di conto corrente bancario estingua il proprio debito fideiussorio in modo indiretto, ossia mediante accreditamento della somma sul conto perché la banca se ne giovi, anzichè in modo diretto, ossia mediante versamento alla banca personalmente" (Cass. 6 agosto 1998, n. 7695, in questa Rivista 1999, 602, con nota di Oliva; in tal caso, si trattava di versamento successivo al fallimento, e quindi impugnato nei confronti della banca ex art. 44 legge fallimentare). Per tacere infine della nota teoria delle c.d. ‘‘operazioni bilanciate’’, che esclude dalla revocatoria le rimesse volte a costituire la provvista per una contestuale operazione di segno contrario (Cass. 26 gennaio 1999, n. 686, in questa Rivista 1999, 1323, con nota di Finardi; Cass. 17 dicembre 1994, n. 10869, ivi, 1995, 817, con nota di Tarzia), e quindi ammette che tali accreditamenti non rappresentino un apporto di denaro nella disponibilità del correntista.
Dunque, hanno buon gioco le critiche dottrinali nel censurare "la considerazione per cui il rapporto di conto corrente introdurrebbe una sorta di ‘‘diaframma’’, che attirerebbe (come una sorta di ‘‘buco nero’’) tutti gli importi che ne transitino, per essere quindi acquisiti al patrimonio del debitore": in effetti, tale considerazione di per sè stessa, oltre a non trovare giustificazione nel dato normativo, contrasta con altri precedenti della Corte di legittimita' (Trentini, Revocabilita' ..., cit., 855). E questa posizione critica e' stata da ultimo accolta da Cass. 16 settembre 2002, n. 13479 (in corso di pubblicazione su questa Rivista, con nota di Tarzia), quasi coeva alla sentenza in commento: essa appunto afferma la necessita' di accertare se la rimessa del terzo abbia o no "posto la somma nella disponibilità giuridica e materiale del debitore", in quanto "i meccanismi del  conto corrente possono essere utilizzati dal terzo, in accordo (con il) e su indicazione del creditore, per estinguere l’obbligazione del correntista", e corrispondentemente esclude che "la rimessa (possa) essere valutata indipendentemente dalle ragioni che hanno determinato il terzo ad effettuarla" (posto che "il nostro ordinamento non conosce atti la cui causa sia quella del mero trasferimento").

Pertanto, il tema in discorso non sembra potersi ridurre al principio riportato nella massima ufficiale qui pubblicata, nè può prescindere dall’interpretazione dei fatti. Tant’e' che lo stesso precedente di Cass. 11520/1998 ricorda che "nella specie, lo stabilire se il riferito versamento ... tramite bonifico sul c/c ... avesse riguardo ad un debito personale (ex fideiussione) del bonificante, ovvero al debito del correntista bonificato, nei confronti dell’istituto bancario costituisce non altro che una quaestio facti", che come tale si sottrae al controllo in sede di legittimita' (piuttosto, si puo' opinare se effettivamente potesse ritenersi "congruamente motivato" il giudizio della Corte di merito, nell’escludere l’esistenza di un impegno personale del terzo verso la banca "sulla base della duplice assorbente considerazione che la somma in questione fu versata ... non direttamente alla banca ma, con bonifico, sul conto ... e che in quello stesso bonifico il versamento era espressamente finalizzato a "estinzione del c/c suindicato"). Come a dire che il "diaframma" del conto corrente non è un postulato assoluto, che impone di imputare al debitore correntista anche il versamento fatto dal terzo in virtu' di una sua propria obbligazione fideiussoria verso la banca.

La sentenza in commento pare invece discostarsi da questa impostazione, dando atto che i versamenti in lite erano stati fatti da fideiussori del fallito e ritenendo che tale circostanza sia irrilevante ("nella fattispecie l’effetto solutorio si sarebbe realizzato anche indipendentemente dall’apprezzamento fattuale ..."): forse nel tentativo improprio di chiudere in diritto una vertenza già definita in fatto nel precedente grado di merito ("la corte d’appello ... ha stabilito ... che i versamenti nel conto corrente ... erano stati effettuati con denaro della stessa società fallita"). Ma proprio la particolarita' della fattispecie concreta (fideiussori che versano denaro della fallita), anche se formalmente esclusa dalla ratio decidendi, e la presenza di numerosi precedenti di segno contrario, consentono di dubitare della significatività della massima qui pubblicata.

La problematica del versamento del terzo annotato sul conto del debitore sembra dunque piu' processual-probatoria che sostanziale.

In altri termini, l’esistenza di un accredito sul conto corrente del debitore poi fallito, in quanto di per sè mera annotazione contabile, puo' costituire un indizio, idoneo a dimostrare in via presuntiva che i denari sono stati effettivamente incassati dal debitore stesso, per poi essere impiegati per pagare il credito della banca. Ma non sembra esclusa l’ammissibilità della prova contraria da parte della banca: o dimostrando che il versamento del terzo era diretto alla stessa (e quindi è stato annotato in conto solo per rappresentare doverosamente la diminuzione dell’esposizione del debitore), oppure fornendo altri indizi idonei, quali ad esempio l’esistenza di un impegno del terzo verso la banca a garantire l’esposizione in c/c. Per altro verso, costituisce un indizio a favore della Curatela l’esistenza di un pregresso debito del terzo verso il correntista, tale da giustificare appunto il versamento sul conto: in tal caso, infatti, il versamento, anche se diretto alla banca, incide pur sempre sul patrimonio del fallito (privato del corrispondente credito), e dunque rende il soddisfacimento della banca in contrasto con la par condicio (Tarzia, Considerazioni ..., cit., partic. 655, nel senso che non potrebbe addossarsi alla banca "l’impossibile prova negativa della inesistenza di un debito del solvens verso il fallito").

In attesa di un pronunciamento piu' preciso e completo da parte della Suprema Corte (che magari confermi a Sezioni Unite la presa di posizione di Cass. 13479/2002), conviene raccomandare alle banche una particolare attenzione nella documentazione delle operazioni e nella rappresentazione degli estratti conto delle operazioni che non comportino passaggio di denaro al o dal correntista.


Autore: Alfonso Badini Confalonieri - tratto da: IL FALLIMENTO - IPSOA - N. 3/2003 - pagg. 301 - 304