La responsabilità degli organi di amministrazione e di controllo

Commento a sentenza Tribunale di Napoli 31 maggio 2006

 

La decisione del Tribunale di Napoli pone fine ad un complesso contenzioso instaurato dalla Curatela fallimentare di una società nei confronti dei componenti gli organi amministrativo e di controllo.

Gli aspetti che in questa sede interessano e verranno esaminati riguardano il criterio di quantificazione del danno, il concetto di danno in sé, e l'applicabilità o meno del regime di prorogatio, previsto per gli amministratori, anche ai componenti del collegio sindacale.

Secondo alcuni, in materia di responsabilità degli amministratori di società, la quantificazione del danno arrecato al patrimonio sociale a seguito della continuazione, da parte degli amministratori, della gestione nonostante la perdita del capitale sociale, "deve commisurarsi al pregiudizio subito in concreto dalla società" (Tribunale di Milano 28 marzo 2003, in Gius 2003, 2331). Nell'ipotesi in cui sia oggettivamente impossibile valutare l'esatto disavanzo della società al momento della dichiarazione di insolvenza, a causa di carenze gestionali imputabili agli stessi organi responsabili che non hanno tenuto la contabilità in modo da consentirne l'esame a posteriori, "è legittimo il ricorso al criterio equitativo di cui all'art. 1226 e, nell'applicazione di tale criterio, la considerazione del parametro rappresentato dalla differenza tra attivo e passivo della procedura concorsuale" (Tribunale di Catania 29 Settembre 2000, in Foro it. 2001, I, 1729, con nota di FABIANI; Corte di Appello di Roma, 14 Marzo 2000, in Gius 2000, 1879).

Affinché possa essere adottato il suddetto criterio, peraltro, deve anche essere accertata l'impossibilità di ricostruire i dati in modo così analitico da individuare le conseguenza dannose dei singoli atti illegittimi. A tali condizioni, sarà consentita l'applicazione di tale criterio, "che andrà pero puntualmente motivata da parte del giudice di merito, sia in ordine all'impossibilità effettiva di addivenire ad una ricostruzione completa degli specifici effetti pregiudizievoli procurati al patrimonio sociale dall'illegittimo comportamento degli organi della società, sia in ordine alla possibilità logica dell'imputazione causale a detto comportamento dell'intero sbilancio patrimoniale, quale accertato a distanza di tempo in sede concorsuale" (Cass. n. 2538/2005, in Dir. e Prat. Soc. 2005, n. 7-8, 1217).

La decisione in commento si discosta in parte da tale orientamento, ritenendo il criterio della differenza tra attivo e passivo fallimentare "esagerato" sia per difetto che per eccesso:

per difetto "perché il passivo ammesso può essere inferiore al passivo reale, e perché sovente, nelle procedure fallimentari, le poste attive subiscono una notevolissima falcidia a seguito delle vendite concorsuali";

per eccesso "non potendosi immaginare, in un'ottica rispettosa dei principi sul nesso di causalità, che l'intero sbilancio fallimentare sia imputabile all'organo gestorio". In tal modo, secondo i giudici partenopei, "si finirebbe con l'imputare agli amministratori la colpa anche di eventi relativi al mercato, quasi a voler convertire l'azione risarcitoria in azione sanzionatoria".

In ogni caso, l'adozione del criterio di quantificazione esaminato non potrà prescindere dalla corretta applicazione delle ordinarie regole che disciplinano il regime della responsabilità, né potrà, quindi, supplire ad eventuali carenze sotto il profilo probatorio, con particolare riferimento alla condotta, all'evento dannoso ed al nesso di causalità tra i due elementi.

Solo dopo che siano state provate la sussistenza dell'evento dannoso e del nesso di causalità tra questo e la condotta cui il danno viene imputato, e nella residuale ipotesi in cui non sia possibile fornire elementi idonei ad una quantificazione dello stesso, sarà consentito al giudice di ricorrere al criterio equitativo, purché con adeguata motivazione e, secondo la decisione in commento, senza utilizzare il parametro della differenza tra attivo e passivo fallimentare che, come visto, viene ritenuto "esagerato in eccesso e in difetto".

Nella fattispecie concreta definita dalla sentenza in esame, la società poi fallita aveva effettuato un finanziamento in favore di altra società di capitali, senza che ciò fosse consentito dal proprio statuto. L'operazione era stata erroneamente riportata dagli amministratori nel bilancio dell'esercizio sotto la voce "partecipazioni ad altre imprese", anziché tra i crediti. La curatela ha, conseguentemente, richiesto il risarcimento del danno, lamentando, da un lato, l'irregolarità dell'operazione, in quanto non rientrante nell'oggetto sociale, e dall'altro, la mancata restituzione del finanziamento da parte della società che ne era stata beneficiata.

Il collegio giudicante ha analiticamente separato i due concetti, rilevando che "anche a voler configurare, in ipotesi, ingiustificata l'operazione di finanziamento, va rilevato che operazione dannosa e danno non s'identificano, essendo rappresentati l'una dalla violazione degli obblighi inerenti alle cariche sociali e l'altro dal pregiudizio che tale violazione arreca alla consistenza economica della società". Ne deriva che, di per sé, neanche l'erronea appostazione in bilancio dell'operazione può essere considerata fonte di danno.

Conseguentemente, il danno va in tal caso individuato nella mancata restituzione della somma da parte della società mutuataria.

Al fine di integrare compiutamente il requisito del nesso di causalità, però, non è stata ritenuta sufficiente la perdita della somma di denaro, ma si è altresì richiesta la prova circa il diretto rapporto di causa-effetto tra la mancata restituzione del finanziamento e la successiva crisi finanziaria della società mutuante.

La ragione di tale impostazione risiede nel fatto che, trattandosi di responsabilità derivante da rapporto di mandato, "all'amministratore può essere imputato non ogni effetto patrimoniale dannoso che la società sostenga di aver subito, ma solo quello che si ponga come conseguenza immediata e diretta della violazione degli obblighi incombenti sull'amministratore, gravando sulla società che agisca per il risarcimento la prova sia del danno che del nesso di causalità" (Cass. n. 3774/2005, Giur. civ. Mass. 2005, f. 2).

In applicazione di tale principio, il Tribunale di Napoli ha ritenuto che "la distinzione tra operazione lesiva e danno comporta che la condotta dannosa dedotta dal curatore, ossia la condotta idonea a produrre definitive conseguenze dannose immediatamente e direttamente ad essa riannodabili, postuli almeno due passaggi": il definitivo inadempimento della società debitrice, e "l'esistenza, all'epoca del finanziamento di una situazione debitoria di s.p.a. Cogest nei confronti di terzi o, comunque, l'idoneità della condotta ad aggravare il dissesto sfociato nell'insolvenza e, quindi, nel fallimento".

La curatela attrice, però, è risultata carente sotto il profilo probatorio, non avendo allegato alcun elemento idoneo a dimostrare l'esistenza di infruttuosi tentativi di riscossione del credito. Il Tribunale ha quindi rilevato la mancata formazione della prova circa l'irrecuperabilità della somma finanziata, e quindi circa l'esistenza stessa del danno, consistente nella definitività dell'inadempimento della società destinataria del finanziamento.

La domanda è stata, pertanto, respinta, non avendo il curatore provato "di aver subito per effetto della condotta lamentata un irreversibile danno", ed in virtù del principio generale più volte affermato in sede di legittimità (Cass. n. 17340/2003, in Giust. civ. Mass. 2003, f. 11; Cass. n. 1298/1998, in Giust. civ. Mass. 1998, 274; Cass. n. 1641/1997, in Giust. civ. Mass. 1997, 297), che individua una stretta correlazione tra la definitività dell'inadempimento ed il sorgere dell'obbligazione risarcitoria.

Con riferimento al collegio sindacale, dimessosi ma non sostituito dall'assemblea, il Tribunale partenopeo ha ritenuto di seguire la corrente di pensiero (Tribunale di Milano 2 febbraio 2000, in Giur.it., 2000, 1683; Tribunale di Roma 27 aprile 1998, in Società , 1998, 1442) che, prima dell'entrata in vigore della riforma del diritto societario, affermava l'applicazione per analogia dell'art. 2385, secondo comma, cod. civ. anche all'organo di controllo. Si tratta del c.d. regime di prorogatio, in applicazione del quale anche i sindaci scaduti (o dimissionari) resterebbero in carica fino alla ricostituzione dell'organo.

Tale tesi, secondo la decisione in commento, troverebbe la sua logica ed il suo fondamento "nel principio espressione di una regola comune agli organi essenziali della società, in virtù della quale la società non deve restare priva, neppure per un breve periodo di tempo, né dell'organo gestorio, né di quello di controllo".

Non mancano i fautori della tesi opposta (Corte di Appello di Bologna 15 aprile 1988, in Giur.comm.,1990, II, 454; Tribunale di Monza 26 aprile 2001, in Società , 2001, 1229), la quale sembra meritare condivisione per le ragioni che seguono. Anzitutto, giova precisare che l'applicabilità in via analogica, ovviamente, non può avere portata generale, ma deve essere valutata caso per caso. Secondo una recente decisione di merito, ad esempio, "non si ritiene applicabile il principio della prorogatio alla situazione della rinunzia dell'incarico da parte dei sindaci" (Tribunale di Monza 26 aprile 2001, in Società 2001, 1229, con nota di Bianchi, il quale precisa che "non sembra, sul piano pratico, accoglibile una proroga forzata del sindaco dimissionario, cioè di colui che non vuole o non può esercitare le proprie funzioni"). Alla medesima conclusione giunge un altro autore, per il quale "prorogarne il mandato contro la sua volontà significa mantenere in carica un sindaco che non esercita le sue funzioni" (Giorgio, Applicabilità dell'art. 2385, secondo comma, cod. civ. al recesso del sindaco di S.p.A., in Riv. Dir. comm. 1988, I, 533).

D'altro canto, "la presentazione delle dimissioni costituisce spesso proprio la condotta diligentemente dovuta: potrebbe il sindaco non essere soggettivamente in grado di adempiere correttamente i propri doveri del suo ufficio" (Niutta, La funzione di amministrazione attiva del collegio sindacale, in Dir. fall. 1994, I, 432).

Un ulteriore dato, infine, milita in favore della seconda tesi, e consiste nella figura del sindaco supplente, espressamente prevista dall'art. 2397 cod. civ. e disciplinata dall'art. 2401 cod. civ., a mente del quale "in caso di morte, di rinunzia o di decadenza di un sindaco, subentrano i supplenti". Tale meccanismo sembra attenuare, se non escludere a priori, il rischio che venga meno l'organo di controllo, rischio che, in tema di amministratori (per il quali non è contemplata un'ipotesi di supplenza), il secondo comma dell'art. 2385 cod. civ. è volto ad evitare.

Settembre 2006
Autore: Avv. Eugenio Tamborlini - tratto da: www.dottrinaediritto.it