Il reclamo cautelare dopo la
L. 14/05/05 n. 80
Inquadramento generale dell'istituto
La riforma del 2005 ha provveduto a coordinare il rapporto tra revoca e
reclamo, stabilendo la prevalenza di questo su quello. In particolare, gli
articoli 669-decies e 669-terdecies stabiliscono che finché sono pendenti i
termini per proporre reclamo ovvero è in corso il relativo procedimento, le
parti possono allegare in quella sede non soltanto i fatti sopravvenuti, ma
anche i fatti anteriori, ma di cui si è acquisita conoscenza successivamente.
Come espressamente stabilito dal nuovo articolo 669-terdecies, comma 4, perfino
le «circostanze e i motivi sopravvenuti al momento della proposizione del
reclamo debbono essere propositi ... nel relativo procedimento».
Si
è inoltre già osservato come dalla formulazione del nuovo articolo 669-decies,
comma 2, emerga il riconoscimento espresso che la revoca possa essere chiesta
anche dopo che si sia «esaurita l'eventuale fase del reclamo».
I
rilievi che precedono sembrano sufficienti per chiarire che il reclamo cautelare
non può essere considerato come un vero e proprio mezzo di impugnazione. I mezzi
di impugnazione, infatti, come ben noto, sono funzionali alla formazione del
giudicato formale. Al contrario, elemento essenziale di tutti i provvedimenti
cautelari (sia conservativi sia anticipatori) è la loro incapacità di acquisire
una stabilità definitiva.
Nel contempo, peraltro, non può negarsi
che il reclamo cautelare partecipi di alcuni aspetti propri dei mezzi di
impugnazione. Al pari dei mezzi di impugnazione, infatti, il reclamo:
- è da proporsi avverso un provvedimento;
- è sottoposto a un termine di decadenza;
- provoca un riesame del provvedimento emesso dal giudice di prima istanza.
I provvedimenti reclamabili
La prima innovazione apportata dalla riforma del 2005 all'articolo
669-terdecies riguarda i provvedimenti contro cui è ammesso reclamo: il
novellato comma 1, infatti, stabilisce che sia reclamabile «l'ordinanza con la
quale sia stato concesso o negato il provvedimento cautelare» (e non più
soltanto il provvedimento di accoglimento dell'istanza di concessione della
misura).
In realtà, come ben noto, si tratta di un adeguamento
imposto dalla Corte costituzionale che (con le pronunce ricordate nel box che
segue) non soltanto aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale della norma
nella parte in cui non ammette il reclamo avverso l'ordinanza con cui sia
rigettata la domanda cautelare, ma aveva anche chiarito che il reclamo è
proponibile avverso il provvedimento di rigetto per ragioni di competenza.
In conclusione,
pertanto, come illustrato dallo schema 3 che segue, sembrerebbe doversi ritenere
(secondo quanto previsto espressamente dall'articolo 23, del Dlgs n. 5 del 2003)
che il reclamo sia ammissibile «Contro tutti i provvedimenti in materia
cautelare» emessi dal giudice di prima istanza nelle fasi:
- di concessione, sia di accoglimento, sia di rigetto tanto per motivi di merito, quanto per ragioni di rito, anche diverse dall'incompetenza (ad esempio, per difetto dei presupposti processuali o nullità della domanda cautelare);
- di modifica o revoca (secondo quanto sostenuto dalla prevalente opinione in dottrina), sia che accolgano in tutto o in parte l'istanza ex articolo 669-decies sia che la rigettino;
- di attuazione. Contrariamente alla tesi maggioritaria, infatti, parrebbe potersi riconoscere l'ammissibilità del reclamo anche avverso le ordinanze emesse ai sensi dell'articolo 669-duodecies, considerato che le medesime costituiscono comunque espressione di prerogative proprie del giudice cautelare (salvo soltanto le ordinanze rese nella fase di attuazione dei provvedimenti cautelari contenenti la condanna al pagamento di una somma di denaro, atteso che in tal caso sembrerebbero esperibili i rimedi propri del processo di espropriazione: le opposizioni all'esecuzione, agli atti esecutivi e di terzo all'esecuzione, di cui rispettivamente agli articoli 615, 617 e 619).
In conformità alla lettera di cui all'articolo 669-terdecies (ove si
fa riferimento espresso alla «ordinanza»), risulta in definitiva escluso dal
rimedio del reclamo soltanto il «decreto motivato» pronunciato inaudita altera
parte dal giudice cautelare ai sensi dell'articolo 669-sexies, comma 2.
Questo provvedimento, che può essere pronunciato in deroga al
fondamentale principio costituzionale di cui all'articolo 111 della Costituzione
in via del tutto eccezionale («Quando la convocazione della controparte potrebbe
pregiudicare l'attuazione del provvedimento»), infatti, è già destinato a essere
riesaminato dal giudice che lo ha concesso nel contraddittorio delle parti.
Pur rivestendo la forma di ordinanza, non è neppure reclamabile il
provvedimento che, in mancanza di contestazione tra le parti, dichiara
l'inefficacia della misura cautelare. Questa ordinanza, infatti - al pari della
sentenza ex articolo 669-novies - è espressione non dell'esercizio di poteri
cautelari (implicanti la valutazione e il bilanciamento del fumus boni iuris e
del periculum in mora), bensì di un'attività dichiarativa della sussistenza dei
presupposti stabiliti dalla legge per la pronuncia di inefficacia e dei
provvedimenti conseguenti.
Da
ultimo in ordine all'ambito di applicazione del reclamo cautelare, deve
ricordarsi che la riforma del 2005 lo ha esteso anche a provvedimenti la cui
natura cautelare è dubitabile. In particolare, il reclamo ex articolo
669-terdecies è espressamente richiamato:
- dall'articolo 624, che ne consente la proposizione avverso i provvedimenti con cui è disposta la sospensione del processo di esecuzione per essere stata sollevata opposizione ex articoli 615 o 619, ovvero per essere insorta controversia in sede di distribuzione del ricavato ai sensi dell'articolo 512 del Cpc;
- dall'articolo 703, che rende reclamabile l'ordinanza che accoglie o respinge la domanda di reintegrazione o di manutenzione nel possesso.
L'inammissibilità del reclamo della pronuncia sulle spese
Sempre esclusa dal rimedio del reclamo è inoltre la parte
dell'ordinanza di incompetenza o di rigetto pronunciata prima dell'inizio della
causa di merito, con cui, ai sensi dell'articolo 669-septies, comma 2, «il
giudice provvede definitivamente sulle spese del procedimento cautelare».
In forza del comma successivo, infatti, «La condanna alle spese è ...
opponibile ai sensi degli articoli 645 e seguenti in quanto applicabili, nel
termine perentorio di venti giorni dalla pronuncia dell'ordinanza se avvenuta in
udienza o altrimenti dalla sua comunicazione».
Come è stato
evidenziato in dottrina, questa disciplina, assolutamente coerente nell'impianto
originario del procedimento cautelare uniforme del 1990, in cui era sancita
l'inammissibilità del reclamo cautelare avverso l'ordinanza di rigetto
dell'istanza cautelare, in seguito alla dichiarazione d'illegittimità
costituzionale parziale dell'articolo 669-terdecies (cfr., Corte costituzionale,
sentenza 23 giugno 1994 n. 253, richiamata nel box che precede), ora recepita
dal legislatore del 2005, appare inefficiente.
Avverso il provvedimento ex
articolo 669-septies, comma 2, infatti, secondo la giurisprudenza di legittimità
(cfr. box che segue), la parte soccombente ha onere di esperire due rimedi
diversi:
- da un lato, il reclamo cautelare nei termini di cui all'articolo 669-terdecies,
- dall'altro, secondo quanto previsto dall'ultimo comma dell'articolo 669-septies, l'opposizione «ai sensi degli articoli 645 e seguenti in quanto applicabili, nel termine perentorio di venti giorni dalla pronuncia dell'ordinanza se avvenuta in udienza o altrimenti dalla sua comunicazione».
L'intrinseca irrazionalità di tale conclusione, che si può agevolmente cogliere considerando che in sede di reclamo il provvedimento di rigetto può essere riformato, con la conseguenza che anche la pronuncia sulle spese dovrebbe essere adeguata alla nuova statuizione cautelare, appare ora anche:
- da un lato, in contrasto con la più recente giurisprudenza costituzionale (richiamata nel box che segue), secondo cui la pronuncia sulle spese non ha semplicemente carattere «accessorio», ma addirittura costituisce «corollario» del provvedimento cui accede, atteso che quella, dovendo essere resa d'ufficio, trova il proprio esclusivo «titolo» nel contenuto di questo;
- dall'altro, assolutamente incongruente con il nuovo regime dei provvedimenti cautelari anticipatori. Posto che questi, a ragione dell'attenuazione del carattere strumentale, possono non essere mai seguiti da un ordinario giudizio di merito, appare contrario a ogni più elementare regola di efficienza imporre l'instaurazione di un processo a cognizione piena suscettibile di concludersi con una pronuncia idonea ad acquistare efficacia di giudicato sostanziale soltanto per la pronuncia sulle spese.
In definitiva sembra potersi dubitare della legittimità
costituzionale per irragionevolezza del vigente regime in materie di spese
cautelari.
Il termine per proporre reclamo
La riforma del 2005, come si cerca di illustrare nello schema 4 che
segue, ha provveduto a razionalizzare la disciplina del termine entro cui può
ammissibilmente essere proposto reclamo.
Innanzitutto, il termine è
stato portato da 10 a 15 giorni.
Dissipando alcune incertezze sorte
in applicazione del precedente regime (che richiamava la disciplina di cui
all'articolo 739 per i provvedimenti camerali), ma continuando a serbare il
silenzio in ordine ad altre delicate questioni, la legge n. 80 del 2005 ha
previsto che tale termine decorre «dalla pronuncia in udienza ovvero dalla
comunicazione o dalla notificazione se anteriore».
Sono dunque
stabiliti come momenti iniziali di decorrenza del termine per reclamare tre atti
profondamente diversi, che si pongono tra loro in rapporti differenti. In
particolare:
1. la pronuncia in
udienza del provvedimento esclude in radice l'applicabilità degli altri dies a
quo;
2. ove il provvedimento sia reso
fuori udienza, non potendo operare il precedente momento iniziale, è previsto
che il termine decorra dalla comunicazione dell'ordinanza cautelare avvenuta
d'ufficio ai sensi dell'articolo 136;
3. ma la parte interessata ha la possibilità di escludere
l'operatività del precedente dies a quo, curandone la notificazione alla
controparte. Qualora, peraltro, sia l'ufficio provveda alla comunicazione sia la
parte chieda la notificazione, come espressamente stabilito dal nuovo comma 1
dell'articolo 669-terdecies, il termine decorre dal momento in cui si perfeziona
il primo dei due atti.
In relazione
alle ultime due ipotesi vale segnalare che il momento iniziale del termine può
essere diverso per le parti. In particolare, il termine decorre:
- in caso di comunicazione, dalla data di consegna del biglietto di cancelleria a ciascuna parte;
- dall'istanza rivolta all'ufficiale giudiziario per la parte che ha chiesto la notificazione e per la controparte dalla data di consegna della copia conforme dell'atto ovvero dal perfezionamento di tutte le formalità prescritte dalla legge.
L'applicabilità del termine annuale di decadenza
Diversamente dalla pronuncia in udienza (che si verifica in re ipsa),
gli ultimi due atti indicati dalla norma come dies a quo non operano
automaticamente, ma dipendono dal compimento di un'ulteriore attività a opera,
rispettivamente, dell'ufficio o di una delle parti.
Può, pertanto, accadere che entrambi manchino: in
tale caso, pur non essendo contestabile che i provvedimenti cautelari sono
radicalmente inidonei ad acquistare la stabilità propria del giudicato,
considerato che è altrettanto innegabile che il decorso del termine
(espressamente definito come «perentorio» dalla legge) importa la decadenza dal
potere di proporre il reclamo, sembra possibile colmare la lacuna normativa
applicando in via analogica il termine annuale di cui all'articolo 327, comma 1,
cui va riconosciuto - in una con la giurisprudenza di legittimità ricordata nel
box che segue - carattere generale.
Il termine per il contumace o la parte rimasta
inattiva
Altra questione di particolare complessità e delicatezza non
affrontata dal legislatore del 2005 riguarda il regime applicabile nelle ipotesi
in cui una delle parti (specialmente quella rimasta soccombente) sia contumace
nel giudizio di merito nel corso del quale è stata concessa la misura cautelare
ovvero non abbia partecipato attivamente al procedimento cautelare svoltosi
prima dell'inizio del giudizio di merito (in relazione a questo caso, infatti,
non sembra possibile parlare di «contumacia» in senso proprio e stretto).
L'opinione prevalente in dottrina è orientata nel ritenere che in
entrambi i casi indicati il provvedimento cautelare dovrebbe essere notificato
personalmente al contumace. Questa tesi - rivolta chiaramente ad assicurare le
maggiori garanzie possibili al contumace o alla parte che sia rimasta inattiva
nel procedimento cautelare - non sembra pienamente condivisibile, atteso che
pare scontrarsi non soltanto con la lettera del Cpc, ma anche con il sistema
interamente considerato della tutela cautelare, specie come risultante in
seguito alla riforma del 2005.
Analiticamente, tra le disposizioni che
depongono nel senso che l'ordinanza cautelare non debba essere notificata al
contumace o alla parte rimasta inattiva nel procedimento cautelare possono
ricordarsi:
- sia l'articolo 292 del Cpc, che elenca in modo tassativo gli atti che devono essere notificati personalmente al contumace ed espressamente prevede che «Tutti gli altri atti non sono soggetti a notificazione o comunicazione»;
- sia il nuovo articolo 669-terdecies del Cpc, nella parte in cui stabilisce che la pronuncia in udienza del provvedimento cautelare è atto sufficiente affinché il decorso del termine inizi a decorrere automaticamente, restando irrilevante l'eventuale assenza di una, alcuna o tutte le parti (ai sensi dell'articolo 176, comma 2, del Cpc, infatti, «Le ordinanze pronunciate in udienza si ritengono conosciute dalle parti presenti e da quelle che dovevano comparirvi»).
In una prospettiva sistematica, infine, sembra potersi osservare che i provvedimenti cautelari non pregiudicano mai in via definitiva il destinatario passivo della misura, il quale - senza alcun limite temporale - è sempre legittimato:
- non soltanto a formulare istanza di modifica e di revoca, allegando, ai sensi dell'articolo 669-decies, anche «fatti anteriori di cui si è acquisita conoscenza successivamente al provvedimento cautelare», tra i quali può essere inclusa anche la mancata conoscenza della domanda cautelare derivante da nullità della notificazione;
- ma anche a «iniziare il giudizio di merito», il quale è meramente eventuale per le misure cautelari anticipatorie, sottratte al rapporto di rigida strumentalità dalla causa di merito dalla riforma del 2005.
I motivi che legittimano il reclamo
Come già anticipato, la riforma del 2005 ha positivamente stabilito
l'assorbimento della revoca nel reclamo, prevedendo che nel termine per la
proposizione del reclamo nonché durante la pendenza del relativo procedimento
tutte le difese che normalmente potrebbero essere proposte formulando istanza ex
articolo 669-decies, devono essere fatte valere in sede di reclamo.Il reclamo,
peraltro, come si è già accennato, si distingue dalla revoca - proponibile senza
limiti di tempo - perché è un rimedio che non richiede l'allegazione di fatti
nuovi, ma consente alla parte interessata di chiedere un riesame dell'attività
compiuta dal giudice di prima istanza, censurando non soltanto vizi di
legittimità da cui sia eventualmente affetto il provvedimento cautelare, ma
anche la valutazione dei presupposti compiuta dal giudice di prima istanza.
La cognizione cautelare, fondandosi sul bilanciamento tra fumus boni
iuris e periculum in mora, è per definizione caratterizzata da un amplissimo
margine di discrezionalità: attraverso il reclamo la legge riconosce alla parte
la possibilità di sindacare qualsiasi apprezzamento discrezionale e di lamentare
anche la inopportunità della misura.
Il procedimento di reclamo
Il nuovo comma 4 dell'articolo 669-terdecies fornisce tre importanti
precisazioni in ordine allo svolgimento del procedimento in sede di reclamo,
stabilendo espressamente che:
1. le
parti non soltanto possano, ma addirittura debbano (sembrerebbe doversi ritenere
a pena di decadenza dalla possibilità di farle valere successivamente con
un'istanza di revoca) proporre «Le circostanze e i motivi sopravvenuti al
momento della proposizione del reclamo»;
2. la proposizione di tali circostanze e motivi
sopravvenuti dopo l'instaurazione della fase di reclamo, deve avvenire «nel
rispetto del principio del contraddittorio»;
3. il giudice del reclamo cautelare (come ben noto,
infatti, nonostante la lettera della norma, non soltanto il «tribunale» può
essere investito della competenza a pronunciare sull'istanza di reclamo, ma
anche la corte d'appello) «può sempre assumere informazioni e acquisire nuovi
documenti» (attività che risultano indispensabili in relazione al potere
attribuito alle parti di allegazione di fatti nuovi).
Vale peraltro
ricordare che il riferimento all'acquisizione di «informazioni» non consente di
riconoscere al giudice del reclamo cautelare poteri inquisitori d'ufficio, i
quali sono inconciliabili con il principio di disponibilità delle prove che
governa il giudizio di merito, cui la cautela è strumentale (anche se, in
seguito alla riforma, ove anticipatoria, soltanto in via attenuata).
La formula di cui all'articolo 669-terdecies, comma 4,
infatti, pare dover essere intesa nel senso che in sede di reclamo l'istruzione
si deve svolgere in modo sommario e informale, con esclusione dei mezzi di prova
di lunga indagine, analogamente a quanto stabilito dall'articolo 669-sexies,
comma 1, per la fase di concessione del provvedimento cautelare («Il giudice,
sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio,
procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione
indispensabili in relazione ai presupposti e ai fini del provvedimento
richiesto»).
Il provvedimento che pronuncia sul reclamo
La riforma ha provveduto, infine, a chiarire che in sede di reclamo
«Non è consentita la rimessione al primo giudice».
Questa
precisazione, alla luce dei rilievi svolti in precedenza, appare quasi
superflua, posto che sarebbe stato assolutamente incongruente che il giudice del
reclamo, che può essere investito non soltanto del riesame dell'intero operato
del giudice di prima istanza, ma anche di una nuova valutazione in relazione a
fatti nuovi, potesse limitarsi a rendere una pronuncia rescindente.
Il provvedimento reso in sede di reclamo, dunque, si sostituisce
integralmente a quello reclamato, come stabilito chiaramente anche dal comma 5
(non modificato dalla riforma) dell'articolo 669-terdecies, ai sensi del quale
il collegio «conferma, modifica o revoca il provvedimento cautelare».
L'ordinanza resa in sede di reclamo è indicata espressamente dalla
medesima disposizione come «non impugnabile»; con la conseguenza, che è
inammissibile sia un nuovo reclamo, sia il ricorso straordinario per cassazione
(anche qualora si tratti di un provvedimento cautelare anticipatorio).
Al contrario, come già indicato, sembra doversi
riconoscere l'ammissibilità della successiva revoca o modifica dell'ordinanza
pronunciata ex articolo 669-terdecies.
LA GIURISPRUDENZA DELLA CONSULTA
Spese giudiziali in materia civile - Condanna
alle spese - Sentenza di primo grado di rigetto della domanda o di declaratoria
di incompetenza - Capo accessorio di condanna al pagamento delle spese di lite -
Titolo provvisoriamente esecutivo - Mancata previsione - Questione di
legittimità costituzionale - Non fondatezza. (Costituzione, articoli 3, 24 e
111; Cpc, articoli 3, 91, 282 e 474)
Non è fondata - in riferimento agli
articoli 3, 24 e 111 della Costituzione, nonché all'articolo 6 della Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali - la
questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli
282 e 474 del Cpc, nella parte in cui non prevede che sia titolo
provvisoriamente esecutivo anche il capo della sentenza di primo grado, di
condanna al pagamento delle spese di lite, quando è accessorio a declaratoria di
rigetto della domanda o di incompetenza, atteso che il capo sulle spese, quando
costituisce corollario (più che «accessorio») di una pronuncia di merito non
suscettibile per il suo contenuto di vedere anticipata la sua efficacia rispetto
alla definitività, non chiama in gioco, nonostante sia un capo di condanna,
l'articolo 282 del Cpc, il quale riguarda di per sé esclusivamente la decisione
di merito.
Corte costituzionale, sentenza 16 luglio 2004 n. 232 -
Pres. Onida; Rel. Vaccarella; Presidente del Consiglio dei ministri