Riduzione del capitale per recesso del socio

 

Il recesso nella riforma introdotta dal D.Lgs. n. 6/2003

La riforma del diritto societario ha ampliato le cause di recesso nelle società, alcune delle quali sono insopprimibili, con la possibilità per l'atto costitutivo di prevederne di ulteriori; ha chiarito e reso meno onerose le modalità di esercizio del diritto. Infatti, i criteri di liquidazione della quota del socio recedente, al contrario di quanto precedentemente previsto, dovrebbero consentire un disinvestimento a condizioni vantaggiose o, quanto meno, non penalizzanti. Al disfavore nei confronti dell'istituto espressa nelle disposizioni novellate, il legislatore della riforma ha sostituito una disciplina che fa del recesso uno dei diritti qualificanti del socio, pervenendo a considerare il recesso come uno strumento centrale di tutela del socio, sia in presenza di mutamenti significativi della società decisi dalla maggioranza sia in situazioni di conflittualità nella compagine sociale. Sotto quest'ultimo profilo, d'altra parte, il rafforzamento dell'istituto del recesso sembra anche funzionale a consentire la continuazione dell'impresa sociale laddove la conflittualità tra i soci lo impedirebbe. Molte sono naturalmente le questioni aperte: tra altre, importanti anche sotto il profilo pratico, è da segnalare quella relativa al grado di libertà dell'autonomia privata circa la possibilità di prevedere cause di recesso aggiuntive a quelle di legge (Toffoletto, Srl, più forza al diritto di recesso dei soci in Nuovo dir. soc., 3/2003, 5).
Le numerose cause di recesso, previste dalla riforma del diritto societario, se, da una parte, costituiscono una garanzia per il socio al verificarsi di una situazione, introdotta da altri soci, che modifica sostanzialmente il contratto sociale cui ha aderito acquisendo la partecipazione, dall'altra parte può causare, se il recesso viene esercitato in particolari momenti della vita sociale, una condizione di incertezza sulla composizione effettiva della compagine sociale e, in taluni casi, un ostacolo a concludere affari, per l'indeterminatezza che assumono i rapporti con i terzi nel corso della procedura di recesso, la cui definizione può richiedere tempi che, nell'economia della gestione societaria, possono risultare troppo lunghi. In determinate circostanze, per le conseguenze perverse che l'esercizio del diritto può provocare sul patrimonio sociale, si può legittimamente dubitare della opportunità che il legislatore della riforma ha concesso, dilatando oltre misura le condizioni in cui può essere esercitato.

Cause del recesso

Una causa autonoma di riduzione del capitale sociale può essere rappresentata dal recesso del socio nei casi in cui ciò sia consentito dalla legge.
Il recesso può essere esercitato nelle società per azioni (art. 2437 c.c.), oltre che in tutti i casi eventualmente previsti nello statuto, dai soci che non hanno consentito:
- al cambiamento rilevante dell'oggetto o del tipo di società;
- alla sua fusione o scissione;
- al trasferimento della sede sociale all'estero;
- alla eliminazione di una o più cause di recesso previste nell'atto costitutivo o la modifica dei diritti di voto o di partecipazione.

Inoltre, salvo che lo statuto disponga diversamente, hanno diritto di recedere i soci che non hanno consentito:
- alla proroga del termine;
- all'introduzione o alla rimozione di vincoli alla circolazione dei titoli azionari.

Società a tempo indeterminato

Il diritto di recesso è sempre consentito quando la società è contratta a tempo indeterminato. All'ipotesi in cui la durata della società non sia indicata nell'atto costitutivo, è da assimilare la diversa, ma, agli effetti pratici, ipotesi corrispondente in cui la durata sia prevista in tempi lontanissimi. Poiché lo statuto può prevedere altre cause di recesso, ma non può eliminare quelle previste dalla legge, che quindi sono inderogabili, tale carattere non può che essere riservata anche alla possibilità di recesso per indeterminatezza del termine. Costituirebbe quindi un'elusione della norma la disposizione statutaria che prevedesse, ad esempio, la durata fino all'anno 2100. Più difficile può essere determinare quando la durata debba essere considerata idonea a bloccare il recesso libero. In proposito possono soccorrere principi di ragionevolezza, in base ai quali si potrebbe determinare che i limiti sono superati quando la durata sorpassi irragionevolmente la vita umana dei soci.
Nel caso di società contratta a tempo indeterminato, il recesso compete al socio in ogni momento e può essere esercitato con un preavviso di centoottanta giorni. Lo statuto può prevedere un termine maggiore (che potrebbe apparire, in molti casi, più opportuno per gli interessi societari), che comunque non può superare l'anno.

Modalità per l'esercizio del recesso

La legge affida allo statuto il compito di fissare le modalità procedurali per l'esercizio del diritto di recesso.
Le modalità per l'esercizio del recesso riguardano il procedimento con cui l'intenzione del socio recedente deve essere comunicato alla società, il termine entro cui deve essere resa nota e gli eventuali provvedimenti da assumere da parte della società.
L'art. 2437 c.c. stabilisce che il recesso può essere esercitato dai soci «per tutte o parte delle loro azioni».
La comunicazione di recesso deve espressamente riguardare l'intenzione di avvalersi del diritto di recesso. Non deve limitarsi a preannunciarlo o a minacciarlo.
Non costituisce pertanto un mero «atto prodromico» formulato nel rispetto del termine di decadenza, perché non sarebbe concepibile che esso venga inteso come semplice preannuncio (quasi in guisa di prenotazione) dell'esercizio di un diritto da far valere poi al di fuori del termine decadenziale. La dichiarazione di recesso, in quanto atto unilaterale recettizio, si perfeziona e produce effetti sin dal momento in cui la dichiarazione giunge a conoscenza del destinatario.

Termine

Il termine per l'esercizio del recesso deve essere sufficientemente ampio per consentire che il diritto stesso possa essere esercitato consapevolmente. La normativa precedente, palesemente orientata a limitare il diritto, prevedeva che la comunicazione dovesse pervenire alla società entro tre giorni dalla deliberazione che ne consentiva l'esercizio. La nuova normativa (per le società per azioni) fissa un termine più ragionevole, per cui la comunicazione deve essere spedita per lettera raccomandata entro quindici giorni dall'iscrizione nel registro delle imprese della delibera che legittima il recesso o, se il diritto sorge per causa diversa da una deliberazione, entro trenta giorni dalla sua conoscenza da parte del socio (art. 2437-bis).

Il rimborso

Il socio che ha esercitato il diritto di recesso ha diritto ad ottenere il rimborso della propria partecipazione in proporzione del patrimonio sociale, tenuto conto del valore di mercato al momento della dichiarazione di recesso (art. 2437-ter).
I due parametri (patrimonio sociale e valore di mercato) non sono sempre idonei a rappresentare il valore della partecipazione. Il primo perché deriva da valutazioni operate nel bilancio, documento idoneo a rappresentare il valore di funzionamento dell'azienda, ma non certamente il suo valore effettivo: basti pensare alle valutazioni al costo, che possono differire anche di molto, dal valore reale o alla mancata evidenziazione dell'avviamento, che, in quanto avviamento proprio, non può essere evidenziato nel bilancio. Al secondo parametro, relativo al valore di mercato, non si potrà ricorrere nella maggior parte dei casi per il semplice fatto che esso manca.
Per la difficile determinazione del corrispettivo, il legislatore ha implicitamente ammesso una possibilità di accordo stragiudiziale e «in caso di disaccordo» l'intervento di un esperto nominato dal tribunale. Tale ultima procedura, costosa e con la previsione delle spese che non può che essere a carico della parte soccombente, dovrebbe dissuadere da pure manifestazioni di eccessiva litigiosità o da pretese troppo lontane dalla ragionevolezza.
Niente viene previsto per l'eventuale controversia che insorgesse, anziché sull'ammontare da riconoscere al socio recedente, sull'idoneità della causa a legittimare il recesso, come quando, ad esempio, dovesse essere discutibile se la modifica intervenuta sull'oggetto sociale fosse tale da costituire una variazione significativa.

Intervento dei soci o di terzi

In prima istanza l'operazione dovrà avvenire senza ridurre il patrimonio sociale. È cioè previsto che gli altri soci, proporzionalmente alla loro partecipazione, acquistino le quote del socio che ha esercitato il recesso, oppure l'intervento di un terzo che rilevi le quote stesse (art. 2437-quater).
L'acquisto da parte degli altri soci costituisce l'esercizio di un diritto, un'opzione che il socio può o meno esercitare: non sembra escluso che, qualora un socio rinunci a rilevare la sua parte, il diritto di prelazione sulla stessa spetti agli altri soci, sempre in proporzione delle rispettive partecipazioni.
Se i soci non intendono acquistare la quota, questa può essere rilevata da un terzo, ma occorre il consenso unanime («concordemente») dei soci.
Il prezzo di acquisto delle quote deve corrispondere a quello riconosciuto al socio che ha esercitato il recesso: in caso contrario si verificherebbe un disconoscimento del criterio utilizzato per il rimborso.
Nel caso che né i soci rimasti, né un terzo intendano riacquistare le quote, si dovrà intervenire sulle riserve disponibili, riducendole dello stesso importo rimborsato al socio. Se le riserve risultassero incapienti, si dovrà operare una riduzione del capitale sociale.
Qualora quest'ultima operazione venisse fondatamente contrastata dai creditori sociali, e non si rendesse quindi praticabile, la società viene posta in liquidazione. Tale conseguenza si verificherebbe anche nell'ipotesi che il rimborso riducesse il capitale al di sotto del limite legale.
L'ultima conseguenza potrebbe essere motivo sufficiente per i soci per rivedere la delibera che ha legittimato il recesso e valutare l'opportunità di revocarla, di fronte al più drastico evento della liquidazione.

Termine per il rimborso

Compete all'assemblea l'esercizio del potere di determinare le modalità per l'adempimento dell'obbligazione di rimborso. Se l'assemblea non provvede, non può ritenersi che il credito resti definitivamente inesigibile, perché deve giudicarsi applicabile la disciplina generale in materia di adempimento delle obbligazioni (art. 1183, c.c.).
In caso di inadempimento, la società è tenuta a corrispondere sulla somma da liquidare gli interessi moratori, mentre non può essere disposta la rivalutazione monetaria, trattandosi di obbligazione pecuniaria disciplinata dal principio nominalistico e non di debito di valore.

Relazione dell'esperto

Il socio recedente ha diritto alla liquidazione della sua quota. In caso di disaccordo l'art. 2437 c.c. affida la determinazione del valore di rimborso ad una relazione giurata prodotta da un esperto nominato dal tribunale. È probabile che l'accordo non sia raggiunto immediatamente, anche perché il recesso è il più delle volte ha radici oltre che nel motivo previsto dalla norma, in una situazione di conflittualità. Tuttavia la procedura prevista dalla legge che, in caso di disaccordo dispone il ricorso al tribunale per la nomina di un esperto, non costituisce un incentivo ad insistere su questioni di principio. La perizia infatti rappresenta un costo non indifferente e si presenta sempre con esito incerto: pertanto oltre al rischio di non vedersi in essa riconosciute le proprie pretese, non c'è chi non veda il pericolo di vedersi addebitare le spese che, naturalmente, seguono la regola della soccombenza.
Il ricorso, opzionale, alla clausola compromissoria, se prevista dallo statuto, non sfugge all'onerosità che è propria della perizia e, anzi, in alcuni casi, può presentarsi con uno sviluppo più lento e più costoso.
Il dover instaurare una delle due procedure, può essere perciò un elemento che, almeno nei casi in cui le rispettive posizioni non siano molto distanti, può essere motivo per raggiungere l'accordo.

Entità del rimborso e della conseguente riduzione del capitale

Il rimborso da operare a favore del socio recedente risulterà dalla stima operata dall'esperto.
La relazione dell'esperto deve indicare i metodi seguiti per la determinazione del valore economico della società e quindi delle singole quote. Il metodo di riferimento può anche essere unico, ma rientra nelle normali cautele dell'esperto mettere a confronto i diversi risultati che scaturiscono da due o più metodi alternativi, anche a riprova dell'attendibilità dei risultati ottenuti. In questo caso i diversi metodi (e i diversi risultati) devono essere esposti nella relazione.
L'indicazione del metodo (o dei metodi) non deve essere limitata all'individuazione del criterio generale usato per pervenire alla valutazione finale. Devono essere specificate le varie alternative adottate in tutti i passaggi del lavoro di valutazione, quali i tassi di rivalutazione impiegati, la rata stimata degli effetti fiscali, i riferimenti a parametri prestabiliti, i criteri per ottenere medie e approssimazioni, ecc.
Il risultato della valutazione effettuata dall'esperto o, il contenuto dell'accordo intervenuto tra gli amministratori e il socio recedente, costituisce l'importo da liquidare al socio. Non viene compiutamente regolato normativamente l'effetto che l'operazione ha sulla situazione patrimoniale e finanziaria della società. L'art. 2437 c.c. si limita a prevedere alcune ipotesi, tra le più semplici e meno probabili, che, per di più, non richiedono alcuna modalità particolare di trattamento, come nell'ipotesi che la quota rinunciata sia acquistata dagli altri soci «proporzionalmente» alle loro partecipazioni o, da un terzo, «concordemente individuato dai soci». Sembra esclusa l'acquisto da parte di un solo socio o da alcuni soci, in misura non proporzionale alla loro partecipazione. Il divieto appare disponibile da parte dei soci, ma, se così fosse, non si capisce quale esigenza abbia suggerito l'inserimento dell'avverbio. Né l'accordo unanime dei soci sembra condizione tale da assumere il carattere dell'imperatività, in assenza di clausole statutarie che limitino la circolazione delle azioni. L'unanimità richiesta dal dettato normativo, improvvido in quanto rende più disagevole la soluzione del problema aperto con il recesso, dovrebbe riguardare anche il socio recedente, considerando che la sua situazione resta in sospeso fino al momento del rimborso e che l'efficacia del recesso può cadere nel nulla se la società revoca la delibera che lo legittima o delibera lo scioglimento della società.
Esauriti i due casi di scuola, la norma non può non regolare, l'ipotesi residua, quella cioè in cui né i soci, né i terzi siano interessati a rilevare la quota. Ma lo fa tracciando un sentiero che, in molte circostanze, risulta impraticabile. La prima soluzione proposta è l'utilizzo di riserve disponibili in quanto esistenti. Ma non intervenendo su di esse solo per l'eventuale sovrapprezzo, stimato dall'esperto o concordato dalle parti, ma sull'intero importo del rimborso, comprensivo cioè di valore nominale della quota receduta e sovrapprezzo. Cioè, con un esempio, se la quota rinunciata corrisponde, in valore nominale, a 100 e il valore complessivo di rimborso è valutato 200, l'intero importo deve essere stornato dalle riserve disponibili, anziché, come sembrerebbe più logico, parzialmente dal capitale sociale (per il valore nominale di 100) il resto (per il sovrapprezzo) dalla riserva. Operando come richiesto dalla legge, i soci rimasti si vedrebbero attribuire una quota di capitale che non hanno mai sottoscritto né versato.
Che il capitale risulti ridotto è incontrovertibile: il socio receduto lo ha incassato quale quota parte del rimborso ricevuto. Tuttavia il legislatore ha preferito far apparire, formalmente, una situazione che non modifichi la situazione del capitale esistente, preferendo il mantenimento dell'apparenza anche a detrimento della trasparenza.
La situazione appare insolubile quando la società non ha riserve disponibili. In tal caso deve essere deliberata una riduzione del capitale. Non si fa riferimento alle riserve indisponibili, per cui sembra che, anche in presenza della riserva legale, si debba aggredire direttamente il capitale.
Espressamente, l'art. 2437 c.c. dispone che in caso di riduzione del capitale sociale, si applica l'art. 2445. e, qualora sulla base di esso non risulti possibile il rimborso della partecipazione del socio receduto, la società viene posta in liquidazione. La messa in liquidazione della società entro novanta giorni dal recesso (o la revoca della deliberazione che lo ha provocato), priva di efficacia il recesso stesso.

Disponibilità finanziaria per eseguire il rimborso

La misura del rimborso può anche essere di entità ingente o, per lo meno, superiore alla disponibilità liquida della società, normalmente in dotazione per fronteggiare le normali necessità della gestione.
Contabilmente, anche se non sempre senza dubbi interpretativi, è possibile far pesare o sulle riserve o sul capitale sociale l'importo del rimborso.
Ma per il pagamento del rimborso non basta ricorrere a giri contabili, ma bisogna disporre delle somme necessarie, non sempre reperibili tra i fondi della società e, in qualche caso, non facilmente ottenibili tramite il ricorso al credito.
Il pagamento deve avvenire entro una scadenza precisa, sei mesi dalla comunicazione fatta alla società. L'impossibilità di adempiere nei termini costituisce motivo di insolvenza.

Autore: Dott. Giorgio Bianchi - tratto dal "Quotidiano Giuridico" 15/03/2007