Rapporti tra genitori e figli, illecito civile e responsabilità: la rivoluzione giurisprudenziale degli ultimi anni

 
Sommario:

1. Premessa
2. I doveri dei genitori
3. Atti illeciti commessi dai genitori nei confronti dei figli e responsabilità civile
4. La responsabilità del genitore non affidatario per mancato esercizio del diritto - dovere di visita (prima parte)
5. La responsabilità del genitore affidatario che ostacola i rapporti con l'altro genitore
6. Responsabilità da riconoscimento non veritiero di paternità. Il disconoscimento di paternità
7. La responsabilità da procreazione (seconda parte)

1. Premessa

I doveri genitoriali trovano la loro fonte, oltre che a livello costituzionale, mediante la previsione dell'art. 30 Cost, anche nell'art. 147 c.c.

L'attuale formulazione dell'art. 147 c.c. (Doveri verso i figli) prevede il dovere dei genitori di provvedere al mantenimento, all'istruzione e all'educazione dei figli, anche se nati al di fuori del matrimonio, assecondandone le inclinazioni, le capacità e le aspirazioni.

La norma codicistica è chiaramente ispirata dal principio sancito all'art. 2 Cost. che tutela i diritti inviolabili della persona sia come singolo che "nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità".

Tra esse rientra in modo preminente la famiglia -legittima o meno- intesa come "formazione sociale di cui la prole è parte avente dignità di grado uguale a quello di ogni altro componente" (Fraccon).

I doveri dei genitori nei riguardi dei figli, dunque, nascono per il semplice fatto della procreazione, indipendentemente dallo status filiationis, ossia dalla circostanza se siano nati o meno in costanza di matrimonio.

Prima di giungere alla riforma del 1975 la filiazione legittima, concepita in costanza di matrimonio, era nettamente contrapposta a quella "illegittima". Soltanto la prima godeva di considerazione sociale e di una integrale tutela, e la ratio era quella di conferire dignità e rafforzare la sola famiglia legittima, intesa quale unica entità sociale e giuridica - vera e propria istituzione - capace di assolvere ai compiti di mantenimento, istruzione ed educazione necessari per assicurare una ordinata vita sociale; ed altresì come struttura in grado di garantire la conservazione e la trasmissione del patrimonio (Rescigno).

Il modello familiare accettato e ritenuto legittimo - in quanto conforme al diritto ed al costume - era quello fondato sul matrimonio, che rappresentava l'unico ambito in cui la filiazione trovava dignità e piena protezione; il presupposto implicito del sistema - ben avvertito nel costume sociale - era che la filiazione per essere lecita dovesse sempre originare da genitori uniti in matrimonio (Sesta).

Oggi la prospettiva è radicalmente cambiata: in primis alla filiazione naturale non è più attribuita l'espressione "illegittima"; inoltre, in seguito alla riforma del diritto di famiglia del 1975, il legislatore ha provveduto ad una sostanziale equiparazione della filiazione naturale a quella legittima, sia nell'ambito dei rapporti di carattere personale- mediante la previsione dell'art. 261 c.c. (Diritti e doveri derivanti al genitore dal riconoscimento)- sia nell'ambito dei rapporti di tipo successorio, attraverso l'introduzione degli artt. 468, 536 e 537 c.c.

Inoltre le norme che hanno rimosso il divieto dell'accertamento nei riguardi dei figli adulterini e quelle che hanno fissato i principi della libertà della prova (art.269 c.c.) e dell'imprescrittibilità dell'azione (270 c.c.) consentono al figlio naturale di conseguire agevolmente l'accertamento del proprio status giuridico (Sesta).

L'individuazione codicistica dei doveri "mantenere, istruire ed educare"- ripresa in maniera puntuale- dalla formulazione dell'art. 30 Cost., si ritiene vada integrata con il dato normativo contenuto nell'art. 12 della L. n. 184/1983, in cui alla triade viene anteposta "l'assistenzamorale", locuzione significante una relazione rispettosa della persona del minore, ricca di interscambi di natura affettiva e del sostegno necessario per una crescita sana ed equilibrata (Fraccon).

Quanto alla natura giuridica dei doveri dei genitori nei riguardi dei figli, si può senz'altro affermare che essi hanno contenuto giuridico, visto che l'ordinamento predispone strumenti specifici- in primis l'art. 330 e 333 c.c.- per soddisfare le esigenze filiali, violate in seguito a comportamenti inadempienti dei genitori.

Infatti, ai sensi dell'art. 330 c.c., qualora i genitori violino o trascurino i doveri inerenti alla prole o abusino dei poteri ad essi relativi, con grave pregiudizio per i figli, il giudice (Tribunale per i minorenni) può pronunziare la decadenza dalla potestà genitoriale (che è venuta a sostituire la patria potestas consistente nel potere del capofamiglia nei confronti della prole generata da lui). Invece, nell'ipotesi in cui, ex art. 333 c.c., il comportamento del genitore non sia tanto grave da comportare la pronuncia della decadenza dalla potestà genitoriale, il giudice (Tribunale per i minorenni) potrà adottare i provvedimenti che riterrà convenienti e disporre eventualmente anche l'allontanamento del figlio dalla residenza familiare.

Inoltre, sia nell'ipotesi contemplata dall'art. 330 che in quello dell'art. 333 c.c., - novità, questa, introdotta dall'art.37 della L. n. 149/01 con lo scopo di proteggere il minore senza comportare un suo sradicamento dal contesto familiare - è stata prevista anche la possibilità per il giudice di disporre l'allontanamento dalla casa familiare del genitore/convivente che maltratta o abusa del minore stesso.

In passato gli istituti di cui agli artt. 330 e 333 c.c si riteneva avessero natura sanzionatoria rispetto alla condotta dei genitori, mentre attualmente hanno perso tale connotazione per assumere funzione preventiva: tali misure, infatti, mirano ad evitare il perpetuarsi di situazioni dannose e pregiudizievoli per il figlio o a prevenire probabili lesioni successive (Villa, Bucciante).

2. I doveri dei genitori

I doveri dei genitori nei confronti dei figli, elencati nell'art. 30 Cost. e richiamati pedissequamente dall'art. 147 c.c. sono quelli al mantenimento all'istruzione e all'educazione.

Essi, tuttavia, non esauriscono l'ambito dei doveri genitoriali verso la prole. Esistono, infatti, una serie di precetti normativi destinati a soddisfare gli interessi del nucleo familiare che si riferiscono, anche se indirettamente, pure ai figli. Inoltre, come sopra accennato, l'art. 12 della L. n. 184/83 prevede un dovere di assistenza morale del minore che, anche se non espressamente enunciato nell'elencazione dell'art. 147 c.c., si ritiene applicabile non soltanto alla filiazione adottiva ma anche nell'ambito della famiglia d'origine (Villa, Trabucchi).

In linea generale può, dunque, affermarsi che i genitori hanno il dovere di provvedere alla cura dei figli, facendo tutto il possibile per soddisfare le loro esigenze e realizzare i loro interessi. Deve tenersi conto del fatto che, nell'ambito del dovere di curare la prole, gli obblighi di mantenimento, di istruzione e di educazione costituiscono delle manifestazioni tipiche, traducibili in specificazioni ulteriori, come il dovere di custodire il figlio, evitando che arrechi danno a sé o a terzi, oppure il dovere di correggerlo (Villa).

Il dovere di mantenimento deve essere commisurato ai redditi, alla consistenza del patrimonio ed alla idoneità lavorativa e professionale dei genitori; in particolare si ritiene che non possa esaurirsi nelle cure prestate al figlio nella normale convivenza, ma riguardi anche la sfera della vita di relazione e le esigenze di sviluppo della personalità (Sesta).

L'obbligo di mantenimento, a differenza di quello alimentare, non è limitata al soddisfacimento dei bisogni elementari di vita, ma comprende anche ogni altra spesa necessaria per arricchire la personalità del beneficiario; non è subordinato allo stato di bisogno del beneficiario, ma discende automaticamente dalla posizione del singolo all'interno della famiglia, a prescindere da qualsiasi altro presupposto; inoltre l'onerato per essere esonerato deve dimostrare, oltre alla mancanza di mezzi, anche l'incolpevole impossibilità di procurarseli (Dogliotti).

Il mantenimento dei figli grava su ciascun genitore, il quale dovrà contribuirvi in proporzione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro, professionale o casalingo.

Nell'eventualità in cui soltanto uno dei genitori abbia integralmente adempiuto l'obbligo di mantenimento dei figli, facendosi carico anche della quota gravante sull'altro, lo stesso sarà legittimato ad agire iure proprio nei confronti di quest'ultimo per il rimborso di detta quota, anche per il periodo anteriore alla domanda

Il genitore affidatario il quale continui a provvedere direttamente ed integralmente al mantenimento dei figli divenuti maggiorenni e non ancora economicamente autosufficienti resta legittimato non solo ad ottenere "iure proprio", e non già " capite filiorum", il rimborso di quanto da lui anticipato a titolo di contributo dovuto dall'altro genitore, ma anche a pretendere detto contributo per il mantenimento futuro dei figli stessi (Cass. civ., sez. I, 16.2.01, n. 2289).

Il coniuge che abbia integralmente adempiuto l'obbligo di mantenimento dei figli, pure per la quota facente carico all'altro coniuge, è legittimato ad agire "iure proprio" nei confronti di quest'ultimo per il rimborso di detta quota, anche per il periodo anteriore alla domanda, atteso che l'obbligo di mantenimento dei figli sorge per effetto della filiazione e che nell'indicato comportamento del genitore adempiente è ravvisabile un caso di gestione di affari, produttiva a carico dell'altro genitore degli effetti di cui all'art. 2031 cod. civ. (Cass. civ., sez. I, 4.9.99, n. 9386).

Il coniuge che abbia integralmente adempiuto l'obbligo di mantenimento dei figli, pure per la quota facente carico all'altro coniuge, è legittimato ad agire "iure proprio" nei confronti di quest'ultimo per il rimborso di detta quota, anche per il periodo anteriore alla domanda, atteso che l'obbligo di mantenimento dei figli sorge per effetto della filiazione e che nell'indicato comportamento del genitore adempiente è ravvisabile un caso di gestione di affari, produttiva a carico dell'altro genitore degli effetti di cui all'art. 2031 cod. civ. (Cass. civ., sez. I, 5.12.96, n. 10849).

Tale principio si ritiene applicabile anche con riferimento alla filiazione naturale qualora il genitore che abbia provveduto al mantenimento del figlio intenda agire nei confronti dell'altro, una volta che sia emersa la genitorialità, a seguito di riconoscimento o dichiarazione giudiziale.

Il riconoscimento del figlio naturale comporta l'assunzione di tutti i diritti e doveri propri della procreazione legittima, ivi compreso l'obbligo di mantenimento, che, per il suo carattere essenzialmente patrimoniale, esula dallo stretto contenuto della potestà genitoriale, e in relazione al quale, pertanto, non rileva, come, invece, avviene con riguardo a quest'ultima, a norma dell'art. 317 bis cod. civ., la circostanza che i genitori siano o no conviventi, incombendo detto obbligo su entrambi, in quanto nascente dal fatto stesso della procreazione. Ne consegue che, nell'ipotesi in cui al mantenimento abbia provveduto, integralmente o comunque al di là delle proprie sostanze, uno soltanto dei genitori, a lui spetta il diritto di agire in regresso, per il recupero della quota del genitore inadempiente, secondo le regole generali del rapporto tra condebitori solidali, come si desume, in particolare, dall'art. 148 cod. civ., richiamato dall'art. 261 cod. civ., che prevede l'azione giudiziaria contro il genitore inadempiente, e senza, pertanto, che sia configurabile un caso di gestione di affari altrui. L'obbligo in esame, non avendo natura alimentare, e decorrendo dalla nascita, dalla stessa data deve essere rimborsato "pro quota" (Cass. civ., sez. I, 22.11.00, n. 15063).

Il dovere di mantenimento non viene meno con il raggiungimento della maggiore età da parte del figlio, ma si protrae fino a quando il figlio stesso abbia raggiunto una propria indipendenza economica, ovvero versi in colpa per non essersi messo in condizione di conseguire un proprio reddito.

L'obbligo dei genitori di concorrere tra loro al mantenimento dei figli secondo le regole dell'art. 148 cod. civ. non cessa, "ipso facto", con il raggiungimento della maggiore età da parte di questi ultimi, ma perdura, immutato, finché il genitore interessato alla declaratoria della cessazione dell'obbligo stesso non dia la prova che il figlio ha raggiunto l'indipendenza economica, ovvero che il mancato svolgimento di un'attività economica dipende da un atteggiamento di inerzia ovvero di rifiuto ingiustificato dello stesso, il cui accertamento non può che ispirarsi a criteri di relatività, in quanto necessariamente ancorato alle aspirazioni, al percorso scolastico, universitario e post - universitario del soggetto ed alla situazione attuale del mercato del lavoro, con specifico riguardo al settore nel quale il soggetto abbia indirizzato la propria formazione e la propria specializzazione. Deve, pertanto, in via generale escludersi che siano ravvisabili profili di colpa nella condotta del figlio che rifiuti una sistemazione lavorativa non adeguata rispetto a quella cui la sua specifica preparazione, le sue attitudini ed i suoi effettivi interessi siano rivolti, quanto meno nei limiti temporali in cui dette aspirazioni abbiano una ragionevole possibilità di essere realizzate, e sempre che tale atteggiamento di rifiuto sia compatibile con le condizioni economiche della famiglia (Cass. civ., sez. I, 3.4.02, n. 4765).

L'obbligo dei genitori di concorrere tra loro al mantenimento dei figli secondo le regole dell'art. 148 cod. civ. non cessa, "ipso facto", con il raggiungimento della maggiore età da parte di questi ultimi, ma perdura, immutato, finché il genitore interessato alla declaratoria della cessazione dell'obbligo stesso non dia la prova che il figlio ha raggiunto l'indipendenza economica, ovvero è stato posto nelle concrete condizioni per poter essere economicamente autosufficiente, senza trarne utilmente profitto per sua colpa o per sua (discutibile) scelta. (Nella specie, è stato escluso la persistenza dell'obbligo di mantenimento di un figlio trentacinquenne - e convivente con la madre - a carico del padre separato per essere il figlio stesso ben lontano dal conseguimento della laurea in medicina nonostante risultasse iscritto presso tale facoltà da quindici anni, e senza che il suo comportamento potesse in qualche modo derivare o risentire della presenza paterna, essendo trascorso un periodo pressoché equivalente a quello necessario per l'utile completamento dell'intero corso di studi da quando il padre aveva cessato di convivere con moglie e figli) (Cass. civ., sez. I, 30.8.99, n. 9109).

L'obbligo di mantenere il figlio non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età, ma si protrae, qualora questi, senza sua colpa, divenuto maggiorenne, sia tuttavia ancora dipendente dai genitori. Ne consegue che, in tale ipotesi, il coniuge separato o divorziato, già affidatario è legittimato, iure proprio (ed in via concorrente con la diversa legittimazione del figlio, che trova fondamento nella titolarità, in capo a quest'ultimo, del diritto al mantenimento), ad ottenere dall'altro coniuge un contributo per il mantenimento del figlio maggiorenne (Cass. civ., sez. I, 18.2.99, n. 1353).

Anche in caso di separazione personale tra coniugi, l'obbligo dei genitori di concorrere tra loro, secondo le regole di cui all'art. 148 cod. civ., al mantenimento dei figli non cessa automaticamente con il raggiungimento, da parte di questi, della maggiore età, ma persiste finché il figlio stesso non abbia raggiunto l'indipendenza economica (o sia stato avviato ad attività lavorativa con concreta prospettiva di indipendenza economica), ovvero finché non sia provato che, posto nelle concrete condizioni per poter addivenire alla autosufficienza economica, egli non ne abbia, poi, tratto profitto per sua colpa. Non può ritenersi, peraltro, idonea ad esonerare il genitore non convivente dall'obbligo di mantenimento la profferta di una qualsiasi occasione di lavoro eventualmente rifiutata dal figlio, dovendo essa risultare, per converso, del tutto idonea rispetto alle concrete e ragionevoli aspettative del giovane, sì da far ritenere il suo eventuale rifiuto privo di qualsivoglia, accettabile giustificazione (principio affermato dalla S.C. in relazione al rifiuto - ritenuto, nella specie, legittimo, contrariamente a quanto stabilito dal giudice di merito - opposto dal figlio ventenne di genitori separati ad una offerta di ingaggio per un anno, e per la somma di ottocentomila lire mensili più vitto ed alloggio, ricevuto da una società di pallacanestro. La corte di legittimità, nel cassare la sentenza, ha, ancora, osservato che, in essa, mancava ogni valutazione tanto in ordine alla precarietà dell'offerta quanto alla ragionevolezza delle aspirazioni del giovane, che vi aveva rinunciato per non sacrificare l'anno scolastico - V liceo scientifico - da lui frequentato) (Cass. civ., sez. I, 7. 5.98, n. 4616).

Poiché l'obbligo di mantenimento a carico dei genitori permane fino al momento in cui il figlio maggiorenne abbia raggiunto una propria indipendenza economica, sussiste la legittimazione processuale del genitore (in via alternativa con quella del figlio maggiorenne) ad ottenere - "iure proprio" - dall'altro coniuge, nel giudizio di separazione personale, un contributo per il mantenimento del figlio maggiorenne con esso convivente il quale non sia ancora in grado di procurarsi autonomi mezzi di sostentamento (Trib. Cagliari, 11.3.97).

In caso di inadempimento dell'obbligo di mantenimento, il comma 2, dell'art. 148 c.c., prevede che il Presidente del Tribunale possa ordinare, con decreto, che una quota dei redditi dell'obbligato venga versata direttamente all'altro coniuge o a chi (ascendenti legittimi o naturali, in ordine di prossimità) sopporta le spese per il mantenimento, l'istruzione e l'educazione dei figli.

Potranno trovare, inoltre, applicazione, le limitazioni della potestà previste negli artt. 330 e 333 c.c., e potrà anche giungersi alla dichiarazione dello stato di adottabilità se dovesse emergere la condizione di abbandono- morale e materiale- del minore, da parte di entrambi i genitori.

Inoltre la condotta omissiva del genitore, che non provvede al dovere di mantenimento dei figli, su lui incombente, può integrare gli estremi del delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiare, di cui all'art. 570 c.p., anche qualora i figli non vengano a trovarsi in stato di bisogno, perché ad essi provvede l'altro genitore o altri parenti (Cass. pen., sez. VI, 12.11.02, n. 57; Cass.pen.,sez. VI, 21.3.96; Trib. Genova, 9.10.03; contra in dottrina Villa).

Nell'elencazione contenuta nell'art. 147 c.c., al dovere di mantenimento seguono i doveri di istruzione e di educazione della prole.

La Costituzione riconosce e tutela un diritto all'istruzione non soltanto in relazione al rapporto tra genitori e figli (art. 30, comma 1, Cost.), ma anche con riguardo a quello tra minore e istituzioni esterne alla famiglia (art. 34 Cost.).

Si evidenzia come la responsabilità per l'istruzione dei figli fino ai quattordici anni venga sanzionata dall'art. 731 c.p., che punisce chiunque, rivestito di autorità o incaricato della vigilanza sopra un minore, ometta senza giusto motivo di impartirgli o di fargli impartire l'istruzione elementare (da estendersi anche a quella media alla luce dell'art. 34 Cost.) (Moro).

Più complessa, invece, risulta essere l'analisi relativa al dovere di educazione, poiché trattasi di un concetto difficilmente definibile, il cui contenuto è strettamente connesso con l'evoluzione sociale.

Una conferma di tale evoluzione è rappresentata dal confronto con il previgente testo dell'art. 147 c.c., in base al quale l'educazione doveva essere conforme "ai principi della morale", concetto alquanto indeterminato. Attualmente l'art. 147 c.c. è incentrato sul soggetto nei confronti del quale va realizzata la funzione educativa, in quanto è fatto obbligo ai genitori di tenere conto "delle capacità, dell' inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli". Il riferimento ai principi morali è stato soppresso, ma ciò non significa che nell'educare il figlio non si debba fare ricorso ai valori etici che disciplinano una vita corretta e regolare (Finocchiaro).

La giurisprudenza di merito ha riconosciuto, già da tempo, un dovere dei genitori di rispettare le scelte dei figli, soprattutto con riferimento allo studio, alla formazione professionale, all'impegno politico-sociale, alla fede religiosa (Trib. Min. Genova, 9.2.59; Trib. Min. Bologna, 13.5.72; trib. Min. Bologna, 26.10.73).

Si ritiene comunemente che debbano essere considerati leciti soltanto quei mezzi correttivi e disciplinari che, nel più profondo e sacro rispetto dell'incolumità fisica e della personalità psichica e morale, risultino necessari al raggiungimento del fine che il rapporto disciplinare si propone, purchè vengano usati nella misura e nella entità richiesta.

Non può assolutamente ritenersi lecito - e quindi è bandito dalla jus corrigendi - l'uso della violenza finalizzato a scopi educativi. Ciò sia per il primato che l'ordinamento attribuisce alla dignità della persona, anche del "minore"- oramai considerato un soggetto titolare di diritti e non più, come in passato, semplice oggetto di protezione (se non addirittura di disposizione) da parte degli adulti-, sia perché, usando mezzi violenti, non potrebbe perseguirsi l'obiettivo di realizzare un armonico sviluppo della personalità sensibile ai valori di pace, di tolleranza, di convivenza (Bonamore, Finocchiaro).

Con riguardo ai bambini il termine "correzione" va assunto come sinonimo di educazione, con riferimento ai connotati intrinsecamente conformativi di ogni processo educativo. In ogni caso non può ritenersi tale l'uso della violenza finalizzato a scopi educativi: ciò sia per il primato che l'ordinamento attribuisce alla dignità della persona, anche del minore, ormai soggetto titolare di diritti e non più, come in passato, semplice oggetto di protezione (se non addirittura di disposizione) da parte degli adulti; sia perché non può perseguirsi,quale meta educativa, un risultato di armonico sviluppo di personalità, sensibile ai valori di pace, di tolleranza, di connivenza utilizzando un mezzo violento che tali fini contraddice. Ne consegue che l'eccesso di mezzi di correzione violenti non rientra nella fattispecie dell'art. 571 cod. pen. (abuso di mezzi di correzione) giacché intanto è ipotizzabile un abuso (punibile in maniera attenuata) in quanto sia lecito l'uso (Cass. pen., sez.VI, 16.5.96).

3. Atti illeciti commessi dai genitori nei confronti dei figli e responsabilità civile

In ordine alle relazioni intercorrenti tra genitori e figli, prima della riforma del diritto di famiglia del 1975, esisteva, nell'area privatistica, una normativa relativamente immunitaria, considerata una logica conseguenza della concezione della patria potestas accolta nel codice del 1942 e dei poteri ad essa connessi.

In sostanza la legge consentiva al genitore l'uso dei mezzi correzionali adeguati alle diverse situazioni concrete. Ad una cattiva condotta del figlio, qualora fosse necessario, poteva seguire una violenta reazione del padre, che rappresentava esercizio legittimo della potestà e come tale non poteva determinare alcun tipo di responsabilità (Patti).

L'immunità anche nei rapporti tra genitori e figli non dipendeva da principi di diritto, ma era ancorata a regole del costume che esprimevano una concezione della famiglia come gruppo chiuso, che non lasciava trapelare le crisi che avvenivano al suo interno ma le risolveva in base a regole proprie (Patti).

I figli venivano trattati non alla stregua di soggetti di diritto, bensì come componenti di un gruppo che si autodisciplinava e, in definitiva, soggetti all'autorità paterna (Fraccon).

Con la riforma del diritto di famiglia si è ridefinito il ruolo genitoriale in funzione dell'interesse morale e materiale della prole, anche se ci si è astenuti- in applicazione del principio di libertà e di autonomia della famiglia - dal proporre modelli, limitandosi, pertanto, a fornire la direttiva contenuta nell'art. 147 c.c. che impone di tenere conto, nell'adempimento dei doveri verso i figli, delle loro capacità, dell'inclinazione naturale e delle aspirazioni (Fraccon).

Dunque, anche nei rapporti tra genitori e figli, la mutata concezione della famiglia impone che il danneggiato non venga privato della tutela garantita dalla legge, solamente perché un vincolo di parentela lo lega a chi ha causato il danno.

Un limite al potere discrezionale dei genitori nell'educazione della prole è, dunque, rappresentato dal divieto di abusare delle proprie funzioni: la condotta vietata, cioè, deve consistere nell'abuso, ovvero nell'eccesso, nel superamento dei limiti consentiti e tale abuso deve provocare la trasformazione della modalità lecita di correzione e disciplina in mezzo illecito (Ingrascì).

L'abuso, infatti, oltre che dar luogo ai provvedimenti di cui agli artt. 330 e 333 c.c. può integrare gli estremi del reato di cui all'art. 571 c.p. che punisce proprio l'abuso dei mezzi di correzione.

Se, dunque, oggi può ancora parlarsi di jus corrigendi dei genitori, certamente questo presenta connotazioni diverse rispetto al passato e, inoltre, ad esso, sono connessi poteri coercitivi molto sfumati (Patti).

Integra il reato di cui all'art. 571 cod. pen. l'uso della violenza nei rapporti educativi come mezzo di correzione e disciplina, comunque non consentito, qualora dal fatto derivi il pericolo di una malattia del corpo e della mente o una lesione o la morte (Cass. pen., sez. VI, 29.11.90).

Lo jus corrigendi attribuito ai genitori non può mai giustificare condotte che sovente provocano anche gravi lesioni ai malcapitati ragazzi e che, comunque, non hanno una positiva valenza educativa (Cass. pen., sez. V, 7224/2000).

L'abuso dei mezzi di correzione può commettersi trasmodando nell'impiego di un mezzo lecito. Perciò anche un solo schiaffo, quando sia vibrato con tale violenza da cagionare pericolo di malattia è sufficiente a far avverare l'ipotesi criminosa dall'art. 571 c.p. (Cass. pen., sez. I, n. 11935/1966).

Dunque manifestazioni brutali, eccessi o violenze dei genitori- comportamenti ancora oggi parecchio diffusi- non possono ricevere alcuna forma di tutela, né lasciano sopravvivere l'armonia domestica che non si vorrebbe turbare ammettendo l'azione in giudizio per il risarcimento dei danni subiti.

Infatti si ritiene (Fraccon) che la rinuncia a far valere in giudizio il diritto al risarcimento non è una soluzione normalmente "sana" di un conflitto- spesso profondo e grave- che incide sul vissuto della vittima e pregiudica la possibilità di recuperare una relazione equilibrata con il familiare responsabile di un illecito ai suoi danni.

Dunque, dalla violazione dei doveri che ciascun genitore ha nei confronti dei propri figli possono derivare non soltanto i provvedimenti di cui agli artt. 330 e ss. c.c., ma anche l'obbligo di risarcire i danni che sono stati causati alla prole.

In modo particolare suscita interesse una pronuncia della Suprema Corte (7.6.00, n. 7713), la quale ha confermato la decisione dei giudici di merito, di condanna al risarcimento del danno non patrimoniale di un genitore il quale, per lunghi periodi di tempo, aveva sistematicamente e ostinatamente rifiutato di corrispondere i mezzi di sussistenza al figlio giudizialmente dichiarato. Nel caso di specie, non viene risarcito il danno morale da reato, in quanto il padre era stato assolto, in sede penale, dal reato di cui all'art. 570 c.p., essendosi accertato che aveva corrisposto, anche se in ritardo, tutto quanto da lui dovuto a titolo di mantenimento o di concorso nel mantenimento nei confronti del minore.

I giudici civili, invece, riconoscono che la condotta del padre abbia determinato la lesione di fondamentali diritti della persona, inerenti, in particolare, alla qualità di figlio e di minore.

In particolare la Suprema Corte nella pronuncia citata, precisa che il pagamento effettuato a molti anni di distanza non avrebbe escluso comunque il risarcimento della lesione in sé, che dal comportamento del ricorrente è scaturita, di fondamentali diritti della persona, in particolare di quelli inerenti alla qualità di figlio e di minore.

 

La Cassazione ricollega, quindi, l'art. 2043 c.c. agli artt. 2ss Cost., estendendo così l'area operativa del primo, fino a ricomprendere il risarcimento di tutti i danni ostacolanti le attività realizzatrici della persona umana.

Poiché l'articolo 2043 c.c., correlato agli articoli 2 ss. Costituzione, va necessariamente esteso fino a ricomprendere il risarcimento non solo dei danni in senso stretto patrimoniali ma di tutti i danni che almeno potenzialmente ostacolano le attività realizzatrici della persona umana, la lesione di diritti di rilevanza costituzionale va incontro alla sanzione risarcitoria per il fatto in sé della lesione (danno evento) indipendentemente dalle eventuali ricadute patrimoniali che la stessa possa comportare (danno conseguenza). (Nella specie, in applicazione di tale principio la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva riconosciuto il diritto al risarcimento del danno, liquidato in via equitativa, del figlio naturale in conseguenza della condotta del genitore, tale riconosciuto a seguito di dichiarazione giudiziale, che per anni aveva ostinatamente rifiutato di corrispondere al figlio i mezzi di sussistenza con conseguente "lesione in sé" di fondamentali diritti della persona inerenti alla qualità di figlio e di minore) (Cass. civ., sez. I, 7.6.00, n. 7713).

La sentenza su citata è ritenuta di enorme rilievo proprio per l'importanza del principio che si può trarre da essa, secondo il quale la violazione dei doveri genitoriali è idonea a determinare un danno ingiusto, allorché tale condotta leda interessi costituzionalmente rilevanti della prole. Di conseguenza non è la semplice violazione del dovere genitoriale a rappresentare il danno ingiusto, quanto piuttosto la lesione di un interesse ulteriore, ravvisato, nel caso di specie, nella violazione di doveri fondamentali della persona, inerenti in particolare alla qualità di figlio e di minore (Facci).

Di estremo rilievo è anche una pronuncia del Tribunale di Venezia (30.6.04) che ha in sostanza sancito il principio secondo il quale la figlia che, abbandonata dal padre, abbia vissuto nella totale assenza del ruolo paterno, ha diritto al risarcimento del danno in ragione della lesione del suo diritto all'assistenza morale e materiale da parte di ciascun genitore.

Costituisce un fatto illecito che obbliga al risarcimento dei danni, il comportamento del padre che si rifiuta di riconoscere il figlio e si rende inadempiente agli obblighi alimentari imposti dal tribunale. Pertanto, il figlio ha diritto al risarcimento del danno morale subito quale conseguenza del reato di violazione degli obblighi familiari; ed ha altresì diritto al risarcimento del danno legato alla totale assenza della figura paterna, considerato l'obbligo, di rango costituzionale, che incombe sul genitore di occuparsi, non solo economicamente, della prole e di educarla (Trib. Venezia 30.6.04).

A differenza della pronuncia della S.C. n. 7713\2000, tuttavia, il danno non è ravvisato in re ipsa, coincidente, cioè, con la lesione dell'interesse di rilievo costituzionale. Il Tribunale di Venezia, infatti, mette in evidenza i pregiudizi causati dal comportamento omissivo del genitore, sottolineando come la mancanza della figura paterna si sia manifestata, in modo negativo, "nello sviluppo della personalità" della figlia e nel "coacervo delle scelte esistenziali della crescita" della stessa.

Viene evidenziato, poi, che la condotta illecita del padre ha provocato ulteriore pregiudizio- meritevole di una riparazione riequilibratoria -, rappresentato dalla consapevolezza raggiunta dalla figlia di essere stata rifiutata ed abbandonata dal padre e di "essere stata trattata come il figlio di un mammifero di specie diversa da quella umana".

Viene dunque riconosciuto dal Tribunale di Venezia il risarcimento del danno esistenziale, qualificato anche come "danno non patrimoniale non coincidente con il mero danno morale" (Facci).

Il convenuto, pervicace nel disinteresse verso la figlia naturale anche in questo procedimento, è il padre di F.V.; non se ne è mai interessato da alcun punto di vista; ignorandone, sin dalla gravidanza dell'allora compagna, la nascita, le sorti, la vita, le esigenze economiche, maturando, per così dire, un debito per omessi contributi alimentari, certo non oggetto del presente procedimento, di cospicua entità.

Ciò premesso in fatto la domanda risarcitoria come svolta va qualificata e riferita dal Tribunale adito al danno morale conseguente alla consumazione del reato p.e.p. dall'art. 570 c.p., certo quivi astrattamente valutabile, nonché alle ulteriori conseguenze lesive che le predette condotte, illecite ex art. 2043 c.c., avrebbero determinato nella sfera psico fisica e in ogni caso esistenziale dell'attrice F. (.)

A tutt'oggi, dunque, quand'anche si assuma che raggiunta la maggiore età F. goda o possa godere di relativa autonomia patrimoniale, in effetti secondo l'esito della istruttoria abbandonata l'università lavora come cameriera, il L. continua, malgrado il detto esistente titolo giudiziale, a consumare il reato, non avendo, in fatto, adempiuto all'adempimento dell'obbligo per circa vent'anni (Trib. Venezia, 30.6.2004).

In ordine alla liquidazione dei danni la sentenza ha previsto che:
"Ciò premesso, tenuto conto della durata dell'inadempimento, della assenza di ragionevole motivazione alcuna, della detta intensità del dolo, il Tribunale, anche in via equitativa, liquida il danno morale in commento nella somma, espressa in valori attualizzati e comprensiva degli interessi compensativi maturati, di Euro 80.000,00.
Nessuna conseguenza direttamente apprezzabile dal punto di vista del danno patrimoniale è in effetti allegata in causa.
E' vero che la domanda, nella sua genericità, consente il riferimento al coacervo di ogni astratta possibile voce risarcitoria.
E' vero tuttavia che S.V. possiede relativo titolo esecutivo per l'omessa contribuzione alimentare.
Quanto ad ulteriori voci di danno patrimoniale astrattamente correlabili all'inadempimento descritto, riguardanti anche F., come riferibili, in sostanza, alle possibili occasioni perdute, dal punto di vista della scolarizzazione e dell'inserimento concorrenziale nella vita, ebbene nulla viene di fatto allegato (aut richiesto).
L'interessata, per sua fortuna, ha in effetti goduto dell'aiuto ed apporto economico della madre, di cui s'è detto, e di terzi, estranei al presente giudizio.
La mancata prosecuzione negli studi universitari non è seriamente correlata, in punto allegazioni e offerta di prova, alla condotta del convenuto.
Si venga dunque, come anticipato, alle ulteriori implicazione lesive della condotta del convenuto.
L'espletata consulenza esclude, piuttosto categoricamente che F.V. a tutt'oggi presenti un quadro psico-fisico apprezzabile dal punto di vista della esistenza di un danno biologico.
Si tratta di valutazioni complete ed accurate che il Tribunale ritiene senz'altro di fare proprie.
Quasi paradossalmente, d'altra parte, proprio l'esistenza di congrue figure sostitutive, i nonni e l'attuale marito della attrice, poi, e naturalmente l'impegno ed il coraggio della stessa madre, hanno posto l'interessata nella condizione di crescere secondo un percorso sostanzialmente regolare, con una regolare evoluzione" (Trib. Venezia, 30.6.2004).

Sostanzialmente si afferma che la mancanza di un padre, del vero padre, non rende la condizione della figlia assimilabile alla posizione di chi abbia goduto della presenza fattiva, costruttiva ed affettuosa del genitore naturale.

Si tratta di una valutazione tanto ovvia quanto irrilevante ai fini di causa dal punto di vista del lamentato danno biologico: e tanto poiché non esistono elementi apprezzabili dal punto di vista di un danno permanente quale lesione eclatante all'integrità psico fisica della interessata.

Dette considerazioni aprono la strada al tema ragionevolmente più delicato della controversia.

Liquidato il danno morale da reato, accertata l'esistenza di un titolo esecutivo che copre il danno patrimoniale sofferto dalla madre che, da sola, e comunque con l'aiuto di terzi, ha sopperito all'obbligo alimentare e di mantenimento, esclusi ulteriori profili di danni patrimoniali apprezzabili dal punto di vista delle chances perdute dalla figlia, perché non allegate aut non provate; escluso, ulteriormente, un danno biologico in senso stretto, per l'accertata capacità di F. di correlazionarsi con la vita e con i rapporti sociali e sentimentali senza presentare profili apprezzabili in punto disagi clinicamente manifesti, resta da accertare se la condotta palesemente illecita del L. abbia arrecato un danno ulteriore, non apprezzabile in senso strettamente patrimoniale alla figlia, danno non coincidente con le mere conseguenze risarcitorie del consumato reato ovvero con il liquidato danno morale.

Va premesso, quanto alla fonte dell'illecito le cui ulteriori conseguenze lesive sono in discussione, che diritti soggettivi assoluti di rango costituzionale appaiono pacificamente violati: perché il concepimento, che piaccia o meno, non si riduca a fatto meramente materiale, come accade invece in buona parte del regno animale; la nostra carta costituzionale obbliga i genitori, anche naturali e senza distinzione alcuna sulla natura del vincolo che li lega, ad assistere materialmente e moralmente la prole, dunque un obbligo non meramente patrimoniale ma esteso, come è ovvio, alla assistenza educativa.

Solo in assenza aut incapacità di costoro la stessa fonte costituzionale prevede forme sostitutive di assistenza.

Inutile ricordare che si tratta di una scelta assai chiara ed univoca, non essendo estranea alla esperienza di ordinamenti pur vigenti nel ventesimo secolo l'individuazione di un ruolo non solo meramente sostitutivo ovvero vicario e necessitato dello Stato nell'assistenza ed educazione dei minori e della prole.

Non assolvere tale obbligo, anzi omettere ogni condotta assimilabile all'assolvimento in questione, come nel caso di specie, ove non si controverte di una non corretta gestione del ruolo paterno ma della assoluta obliterazione del medesimo, è dunque un fatto illecito.

La sanzione penale che lo tipicizza e punisce ne è ulteriore riprova (Trib. Venezia 30.6.2004).

Interessante anche il successivo passo della sentenza:
"Il danno non patrimoniale sofferto da F. è interamente assorbito ovvero coincide con il liquidato danno morale?
O v'è piuttosto un ambito di ulteriori conseguenze lesive che, se ed in quanto provate, anche per presunzioni semplici, meritano tutela risarcitoria?
I noti recenti approdi della S.C. e della stessa Corte Costituzionale, in una lettura congiunta, tendono, certamente riproponendo chiavi di lettura non del tutto innovative, a proporre all'interprete, anche con riferimento al c.d. danno esistenziale (ma non solo e non perspicuamente) le seguenti linee guida: riconoscere un danno non strettamente patrimoniale ulteriore e diverso dal danno morale, quale tradizionalmente inteso; individuare, ben oltre le ipotesi previste dalla legge (sostanzialmente quelle di cui all'art. 185 c.p.), situazioni giuridiche suscettibili di una lesione-danno conseguenza - appunto monetizzabile ma non patrimoniale; restringere all'ambito dei diritti soggettivi costituzionalmente tutelati e come tali riconosciuti detta tutela.
I detti recenti approdi, come accennato, si inseriscono in un tema la cui soluzione è periodicamente oscillante nella giurisprudenza delle corti superiori e, anche in alternativa, di merito: ora l'utilizzazione dell'art. 2059 c.c. in termini elastici; ora l'interpretazione costituzionalmente orientata del disposto dell'art. 2043 c.c. (come fu nel rapporto con l'art. 32 della Costituzione; ovvero, in altri meno noti approdi, come fu nel rapporto con l'art. 29 della stessa), tanto al fine di estendere l'ambito delle situazioni giuridiche soggettive tutelabili dal punto di vista del danno non strettamente patrimoniale.
Quale che sia il percorso da scegliere, rileva, piuttosto, in tema, un altro decisivo e non più confutabile approdo della stessa giurisprudenza di legittimità: quello per il quale l'ingiustizia del danno, salvo il criterio di imputazione della condotta, sia esso schiettamente colposo o meno, giammai va strettamente riferito alla natura della situazione legittimante (e che si assume illecitamente compressa aut violata). Ecco allora gli estremi per una ennesima pericolosa involuzione (da altro punto di vista argomentativo, ecco i presupposti per un passo indietro rispetto all'approdo predetto)" (Trib. Venezia 30.6.2004).

Secondo il Tribunale il fine degli autorevoli precedenti citati è quello di ampliare l'ambito della tutela, ancorandola, tuttavia, in senso che può apparire limitativo (salvo assumere che la detta rilevanza costituzionale legittimante la risarcibilità del danno non patrimoniale vada riferita appunto al danno in quanto tale, rectius al diritto costituzionale alla tutela risarcitoria), a situazioni giuridiche degne della medesima ovvero i soli diritti fondamentali.

Altro, in realtà, è il tema dell'ambito delle situazioni giuridicamente apprezzabili e meritevoli di tutela (tutte tranne le aspettative di mero fatto), rispetto al tema, più accademico che altro, della giusta collocazione del danno non patrimoniale, ulteriore e diverso dal danno morale strettamente inteso.

Chi scrive, dunque, non ritiene che i citati recenti approdi della giurisprudenza della S.C. e della Corte Costituzionale tolgano o aggiungano alcunché ad un dibattito che la giurisprudenza di merito da molti anni ha pienamente scevrato e colto nei suoi termini essenziali.

In ogni caso, anche alla luce dei detti citati pronunciamenti, non v'è dubbio che anche astrattamente il caso di specie rientri a pieno titolo nelle ipotesi descritte: si tratta in tesi di un danno non strettamente morale; fa capo ad un diritto soggettivo assoluto certamente di valenza costituzionale, appunto il diritto di ogni figlio all'assistenza morale e materiale di ciascun genitore.

Che nella specie detta assistenza non vi sia stata, non ve ne sia stata parvenza, è fuor di dubbio.

Non rileva in questa sede tentarne di dedurne le ragioni.

Invero tale impostazione può essere utile ai soli fini, non certamente etici, di individuare l'ambito di una lesione, salva la relativa qualificazione, e tentare, assumendone provati i fatti costitutivi, una quantificazione possibile, anche in via ineludibilmente equitativa.

In effetti l'attrice allega detta voce di danno: il danno, che lo si definisca pure esistenziale (le parole e le definizioni servono alla dottrina più che agli uomini e alle donne che agiscono per la tutela dei propri diritti), derivante dalla totale ed immotivata privazione dell'apporto paterno, qualsiasi ne fosse stato, se esercitato, il contenuto e il precipitato.

Non lamenta, per così dire, il cattivo esercizio di un obbligo: lamenta la totale assenza dell'adempimento dell'obbligo medesimo.

Lamenta, dunque, la privazione assoluta di un padre, quello vero, reiterata e consumatasi negli anni, sino alla maggiore età e, a ben vedere, perdurante (Trib. Venezia, 30.6.2004).

La domanda che il Tribunale si pone è se l'assenza di un padre comporti di per sé un danno?

La risposta non può essere univoca, ferma l'azionabilità, per quanto osservato, della pretesa.

In tesi la presenza di un padre oppressivo o particolarmente ignorante, ovvero culturalmente violento, ovvero ancora palesemente immaturo rispetto alla funzione che la natura gli ha dato (se non imposto, perché no?), può costituire presenza ben più alienante di una mera assenza: tanto più nel caso, come nella specie, in cui altri abbiano preso sostanzialmente cura della interessata.

Se l'art. 30 della Costituzione fosse eticamente interpretato nessun genitore, ragionevolmente, andrebbe, astrattamente, esente da censure.

Il rischio, palese per chi scrive, è, allora, la lettura distorta delle norme citate.

L'art. 30 II comma non si limita ad imporre allo Stato una funzione assistenziale sostitutiva.

Dice, cosa ben più importante, che i figli non appartengono, come sarebbe argomentando nazionalsocialisticamente, allo Stato medesimo; che ad esso e alle sue diramazioni autoritative, anche alla giurisdizione, certo non è dato un potere di valutazione, in chiave di dover essere, per così dire eticheggiante, delle modalità dell'esercizio delle funzioni genitoriali.

In sostanza è del mondo che sono i figli: ai genitori l'obbligo, forse meglio dire il compito, di contribuire, per quanto possibile, alla loro educazione, con progressivo prudente inserimento di dati, utili, per quanto di ragione, ad uno sviluppo sereno del bambino.

Non si esige una costante qualificata presenza (quali i parametri di valutazione?); non si esige l'appropriazione di un ruolo (come valutarne l'apporto concreto in termini di contributo fattivo; forse alla mera luce delle ore trascorse insieme senza alcuna valutazione qualitativa?); non si esige un risultato.

Più semplicemente, ex art. 30 Costituzione, si esige lo spiegamento di forze, qualunque ne sia l'esito: in altri termini tutto, o quasi tutto, salvi i maltrattamenti, purché al fatto naturale del concepimento, proprio ad ogni specie animale, non consegua il mero disinteresse, la morte presunta, per così dire, della figura genitoriale.

Ed ecco allora, poiché detta morte presunta, nella specie, si è consumata per certo con tutto quanto ne consegue in termini schiettamente privativi, che il tema si sposta sul piano probatorio e ancor prima eziologico.

Date le predette coordinate (il dovere genitoriale di essere in qualche modo presente; nella specie la totale immotivata reiterata e perdurante assenza del padre quivi convenuto), ebbene F.V. ha sofferto conseguenze lesive, manifeste e apprezzabili, nel suo percorso di maturazione e crescita evolutiva, fossero anche esse, come è ovvio nella specie, fortemente legate alle stesse valutazioni soggettive dell'interessata?

Soccorre, in primo luogo, il dato tanto ovvio quanto empirico per il quale la circostanza, comprovata, di una totale assenza di contributo assistenziale, oltre l'ambito strettamente patrimoniale, sia, ragionevolmente, foriera di conseguenze lesive.

F. ebbe negli anni, ma solo progressivamente, l'apporto, anche affettivo, dei nonni e del marito della madre: ma appunto solo progressivamente.

Come riferito al c.t.u., e non v'è ragione di non credere alla interessata, (d'altra parte il convenuto contumace nulla ci dice in merito), la bambina conosceva sin dall'età di tre anni l'esistenza di un padre naturale che non viveva con la famiglia; a tutt'oggi, su domanda del perito, indica nella madre la persona di riferimento, con la quale sostituì, in sostanza, il padre; nega di avere maturato, ma sarebbe strano il contrario, sentimenti affettivi negativi verso la figura assente; ricorda, con senso critico, osserva il c.t.u. sufficientemente elaborato, un senso di diversità rispetto ai compagni ai tempi della frequentazione delle scuole elementari, un qual certo disagio ovvero disorientamento nel dover riferire il cognome della madre; l'attrice, F., è, a tutt'oggi, a conoscenza del tentativo del padre naturale di inviare, senza successo, la madre ad una interruzione della gravidanza; ricorda di avere sostanzialmente fantasticato sulla figura paterna, non avendo altri dati a disposizione, sino, tuttavia, alla maturata e determinata decisione di rintracciarlo; descrive, e si tratta di fatti interessanti ai fini di causa, l'ansia che ha accompagnato la ricerca, la brevità del colloquio infine ottenuto; la maturazione di aspettative per altri incontri costruttivi, sino allo scambio dei rispettivi numeri di telefono; l'esito sostanzialmente negativo di tale tentato contatto, sino all'abbandono del relativo disegno; la delusione provata nella constatazione, affatto scontata, a ben vedere, del detto esito così deludente.

Quanto al resto, ma per ogni altra valutazione per così dire storica, si fa espresso rinvio alla c.t.u. e alla relativa anamnesi aut colloquio, la perizianda vive con serenità, oggi, un proprio autonomo rapporto affettivo (Trib. Venezia, 30.6.2004).

Come spesso accade in questi casi non si discute di un danno biologico, non rilevandosi alcuna apprezzabile patologia (non emergendo elemento alcuno dal punto di vista di alterazione psicopatologicamente apprezzabile, data l'assenza, appunto, di sintomi di disturbi comportamentali), ma di danno esistenziale.

Ma non è di questo, di un danno biologico chiaramente da escludersi, che si va ora discorrendo.

Dunque, anche alla luce delle dichiarazioni della interessata, ma si legga anche l'esito dell'indagine istruttoria testimoniale, il convenuto non ha mai contattato né tentato di contattare la figlia; una volta trovato, sembra proprio la parola giusta, con ogni ragionevolezza, non ha messo la giovane nelle condizioni di maturare un seppur tardivo contatto.

F. è consapevolmente cresciuta nella consapevolezza di avere un padre (quello vero) completamente assente; il marito della madre ha avuto un ruolo certo positivo, peraltro mai vissuto come sostitutivo.

Non si è verificato, e questo appare ragionevole, come osservato dal c.t.u., un improvviso distacco: bensì, più realisticamente, una totale assenza, tuttavia nota, consapevolmente nota, all'attrice.

Con specifico riferimento a tale descritto ultimo deludente esito della annosa vicenda, non trascurando certo il lungo tempo trascorso, ritiene dunque provato il Tribunale che la totale assenza della figura paterna sia stata avvertita e sofferta, seppur con la fortunata esistenza di strumenti compensativi che hanno consentito alla giovane di sviluppare con sostanziale equilibrio la propria personalità.

Ciò detto, malgrado l'assenza di esiti apprezzabili sul piano psicopatologico, nonché valutato, anche sulla base della c.t.u., il relativo predetto equilibrio complessivo e l'assenza di turbe comportamentali, vi è stata e v'è lesione del diritto fondamentale dell'attrice all'apporto anche morale ed assistenziale chiaramente mancato.

Trattasi di un coacervo di situazioni e fatti, apporti concreti, i quali, a prescindere dalla qualità del di loro contenuto, certo non giudicabile dallo scrivente, non sono stati forniti, malgrado l'obbligo di legge relativo.

L'effetto privativo, tanto premesso, è eclatante: nello sviluppo della propria personalità, nel coacervo delle scelte esistenziali della crescita di cui l'attrice avrebbe potuto godere, con un contributo, con le modalità, i tempi ed i criteri, sostanzialmente non sindacabili, offribili dal convenuto, F. non ha in sostanza ricevuto alcunché.

La violazione del detto diritto fondamentale - il diritto alla educazione, alla assistenza non solo economica, comunque mancata - è stato in effetti reiteratamente violato: in effetti ne perdura, senza nessuna giustificazione, la violazione.

La percezione di quanto sopra da parte della interessata, che in tutti questi anni non ha ricevuto alcun segnale da chi aveva, volente o nolente, che importa, contribuito alla di lei generazione, ne è la prima prova, in uno con elementi presuntivi di intuibile comprensione.

La consapevolezza, infine raggiunta, dalla attrice di essere stata trattata come il figlio di un mammifero di specie diversa da quella umana (sebbene molti mammiferi, a ben vedere, pongono a lungo cura alla prole), è in sé una conseguenza lesiva della altrui condotta illecita e merita un risarcimento riequilibratorio.

La relativa domanda va dunque accolta.

Quanto alla non semplice entificazione del danno soccorre, nell'economia di liquidazione equitativa, il coacervo degli elementi di fatto ricordati, anche con riferimento all'intensità del dolo, riflesse nella percezione della danneggiata.

Il convenuto, a quanto è dato di conoscere in causa, una volta rifiutata la paternità, per ragioni che, si ribadisce, non hanno rilievo, si è creato una famiglia e una professionalità: la circostanza aggrava, per così dire, la valutazione della di lui condotta dal punto di vista della percezione negativa che della stessa ha avuto l'attrice, con quanto ne consegue in punto intensità dell'immotivata dolorosa privazione di un apporto che la Costituzione le garantiva (le avrebbe dovuto garantire) (Trib. Venezia, 30.6.2004).

In conclusione possiamo, quindi affermare che il genitore sarà tenuto al risarcimento del danno non per la violazione in sè dei doveri genitoriali, ma piuttosto qualora, violando i propri obblighi nei confronti dei figli, abbia inciso negativamente sul corretto sviluppo della loro personalità (segue).

 
Autore: Avv. Giuseppe Cassano - tratto da "Il Quotidiano Giuridico" 27/11/2006