RIFLESSIONI SU ALCUNE QUESTIONI CONTROVERSE NEL PROCESSO DEL LAVORO


 

A) Questioni controverse in tema di rito e competenza.
1.-La determinazione della competenza. 2.-Alcuni casi controversi di determinazione della competenza. 2.a-Il caso riguardante i soci delle cooperative. 2.b-Il caso riguardante gli amministratori delle società. 2.c-L'ipotesi dell'opposizione agli atti esecutivi in materia di lavoro. 2.d-Procedure concorsuali e controversie di lavoro.3.-La competenza per territorio nel processo del lavoro.

B) Il ricorso e la memoria: in particolare, il sistema delle preclusioni relative alle allegazioni delle parti negli atti introduttivi.
1.-Il contenuto del ricorso: raffronto tra l'art. 163 e l'art. 414 c.p.c. 1.a-Nullità del ricorso e possibilità di sanatoria. 2.-La costituzione del convenuto. 2.a-Il contenuto della memoria. In particolare, latitudine del principio di non contestazione. 2.b-Mere difese ed eccezioni. In particolare, il regime delle eccezioni in senso lato. 2.c-Eccezioni in senso lato ed eccezioni in senso stretto: possibili revisioni della distinzione tradizionale e ripercussioni in giurisprudenza. 2.d-La proposizione della domanda riconvenzionale.

C) Le preclusioni istruttorie ed i poteri ufficiosi del giudice.  
1.-Orientamenti giurisprudenziali relativi alla prova testimoniale ed alla produzione documentale. 2.-I poteri istruttori del giudice: limiti di applicabilità. 3.-Poteri istruttori del giudice e posizione delle parti. 4.-Poteri di iniziativa officiosa di carattere specifico.

D) Le ordinanze di condanna.

E) La pronuncia della sentenza.
1a.-Ipotesi dell'omessa lettura del dispositivo in udienza. 1b.-Ipotesi di contrasto tra dispositivo letto in udienza e quello della sentenza depositata. 1c.-Ipotesi di inosservanza del termine di legge per il deposito della sentenza: l'esecutorietà del dispositivo. 3.-L'efficacia della sentenza.

 

A) QUESTIONI CONTROVERSE IN TEMA DI RITO E COMPETENZA.

Scorrendo i repertori di giurisprudenza degli ultimi anni, è agevole rilevare che alcuni degli orientamenti tradizionali in tema di rito e di competenza, radicati soprattutto nella giurisprudenza di legittimità, vengono oggi gradualmente scossi da pronunce innovative, che hanno rinfocolato le discussioni dottrinali e la vivacità delle pronunce di merito. Cercherò quindi, sia pure senza pretese di completezza, di fornire una breve rassegna delle novità maggiormente significative.

1.-La determinazione della competenza.
Anche per il processo del lavoro valgono le regole generali enunciate dalla Suprema Corte ai fini della determinazione della competenza (in particolare, della competenza per materia), in applicazione analogica sia dell'art. 386 c.p.c., dettato in tema di determinazione della giurisdizione, sia dell'art. 38, ultimo comma, c.p.c., che indica a fondamento del giudizio sulla competenza <<quello che risulta dagli atti>>. Dunque, in sintesi:
a)  
preminente, anche se non esclusivo, rilievo, ai fini della determinazione della competenza, va conferito all'oggetto della domanda proposta dall'attore ed ai fatti dedotti a suo sostegno, ossia al c.d. petitum sostanziale;
b)          
le contestazioni e le eccezioni del convenuto possono costituire fonte complementare di convincimento, ma non possono fondare l'individuazione di una competenza diversa da quella compiutamente ravvisabile in base al petitum sostanziale della domanda proposta dall'attore [1] ;
c)          
il giudice può assumere <<sommarie informazioni>> soltanto quando ciò appaia strettamente necessario ai fini della decisione che deve essere emessa sulla competenza, poiché l'indagine, di norma, va compiuta <<in base a quello che risulta dagli atti>>, sulla base, quindi, dei fatti dedotti e dei documenti esibiti in giudizio;
d)          
la decisione sulla competenza va compiuta non in base all'interpretazione dei fatti fornita dall'attore, ma, analogamente alle decisioni sulla giurisdizione, tenendo conto della reale consistenza della posizione soggettiva dedotta o della materia alla quale inerisce. Questi principi generali vanno integrati dalla consolidata interpretazione "ampia" della nozione di controversia assoggettata al procedimento di lavoro; è infatti opinione comune che per controversia relativa a rapporti di lavoro subordinato ai sensi dell'art. 409 n. 1 c.p.c., devono intendersi non solo quelle relative ad obblighi caratteristici del rapporto di lavoro, ma anche quelle per le quali la pretesa fatta valere si colleghi direttamente a detto rapporto, nel senso che questo, pur non costituendo la causa petendi della pretesa, si presenti come antecedente e presupposto necessario, non meramente occasionale, della situazione di fatto in ordine alla quale viene invocata la tutela giurisdizionale [2] .Va, peraltro, rilevato che la rilevanza delle questioni relativa alla ripartizione della competenza ratione materiae è destinata a scemare per effetto dell'entrata in vigore della disciplina sul giudice unico di primo grado.
A tal fine, va ricordato che costituiscono ormai ius receptum i seguenti due principi, che potranno trovare applicazione per le sezioni distaccate dei tribunali e per il tribunale in composizione monocratica:
1)
sui rapporti tra pretura e sezioni distaccate, l'ufficio giudiziario competente è esclusivamente la pretura circondariale, costituendo le sezioni distaccate articolazioni dell'ufficio prive di autonomia funzionale [3] ;
2)
il provvedimento di trasformazione di rito non attiene alla competenza e, in conseguenza, non può essere impugnato con regolamento di competenza [4] .

2.- Alcuni casi controversi di determinazione di competenza.
2.a
- Il caso riguardante i soci di cooperative.La giurisprudenza di legittimità, dopo la pronuncia n. 5813 emanata dalle sezioni unite il 28 dicembre 1989, ha a lungo condiviso l'indirizzo secondo cui, nell'ipotesi di attività lavorativa prestata dai soci delle cooperative di produzione e lavoro, le prestazioni del socio, che si svolgano in conformità alle previsioni del patto sociale ed in relazione alle finalità istituzionali della società, integrano un adempimento del contratto societario per l'esercizio in comune dell'impresa e non sono, quindi, riconducibili a due distinti centri d'interesse: ne consegue che la relativa controversia esula dalla competenza del giudice del lavoro, spettando alla cognizione del giudice in sede ordinaria [5] . Questa interpretazione ha ricevuto l'autorevole avallo di Corte cost. 12 febbraio 1996, n. 30, che, nel ritenere non fondata, in riferimento all'art. 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 1, l. 29 maggio 1982, n. 297, nella parte in cui non prevede la tutela del fondo di garanzia per il trattamento di fine rapporto anche in favore dei soci di cooperative di produzione e lavoro, ai quali il diritto a tale trattamento sia attribuito dall'atto costitutivo della società o da una delibera successiva di modificazione del medesimo, ha escluso che la prestazione resa dal socio lavoratore di una cooperativa di produzione e lavoro sia connotata da subordinazione. Ciò in quanto il socio è partecipe dello scopo dell'impresa collettiva ed è titolare di poteri e di diritti di concorrere alla formazione della volontà della società e di controllo sulla gestione sociale, assumendo, in conseguenza, una quota del rischio d'impresa. Altra parte della giurisprudenza, soprattutto di merito, considerando l'evoluzione della realtà cooperativa, ha segnalato l'esigenza di realizzare qualche integrazione fra il profilo societario e quello lavoristico. Sono così venuti individuandosi due differenti filoni: il primo ha indagato lo "sviamento del fine mutualistico", valorizzando il <<modello di lavoro in concreto prescelto>> dall'impresa sociale [6] ; il secondo configura il rapporto di lavoro cooperativo come rapporto di lavoro speciale, caratterizzato dalla coesistenza di due distinte cause contrattuali (quella del contratto di società cooperativa e quella di lavoro subordinato), le quali nel loro insieme descrivono la posizione normativa del socio lavoratore [7] . Va osservato che il fenomeno cooperativo si scompone giuridicamente in una duplicità di rapporti: c'è, da un lato, il rapporto di società, oggetto del quale è -come in ogni società, anche lucrativa- l'esercizio in comune, mediante i conferimenti dei soci, di un'attività imprenditoriale; c'è, dall'altro lato, una molteplicità di rapporti di scambio, che si instaurano  tra la cooperativa ed i singoli soci e che consistono, a seconda dello specifico oggetto della cooperativa, in rapporti di compravendita o di lavoro o di credito o di assicurazione ecc. L'impresa viene esercitata al fine di offrire ai soci più vantaggiose occasioni di acquisto, o di lavoro, ecc. Ma la fruizione da parte dei singoli soci di queste più vantaggiose occasioni non si realizza sulla base del rapporto sociale ed in dipendenza del conferimento da essi effettuato: essa richiede la creazione di rapporti contrattuali ulteriori rispetto al contratto di società cooperativa, con i quali i soci effettuano un esborso ulteriore rispetto al conferimento in società e valutabile come prezzo del bene o del servizio. Anche nel caso delle cooperative di lavoro, dunque, i soci lavoratori effettuano a titolo di lavoro subordinato prestazioni ulteriori rispetto al conferimento. D'altronde, sul piano legislativo è ravvisabile un continuo processo di  assimilazione del socio-cooperatore al lavoratore subordinato, per quanto riguarda il trattamento fiscale (art. 47, lett. a, d.P.R. 29 settembre 1973, n° 597), la tutela antinfortunistica (art. 4, n° 7, d.P.R. 30 giugno 1965, n° 1124), il profilo previdenziale (d.P.R. 30 aprile 1970, n° 602), il diritto agli assegni familiari (art. 1 d.P.R. 30 giugno 1955, n° 797), la durata massima della giornata di lavoro (art. 2 r.d. 23/1995), la tutela delle lavoratrici madri (art. 1 legge n° 1204 del 1971), l'obbligo di consegna del prospetto paga all'atto della corresponsione delle retribuzioni (art. 1 l. 4/35). Primaria importanza assume in tale processo l'art. 8 della legge n° 236 del 1993, che ha esteso le disposizioni degli artt. 1,4 e 24 della legge n° 223 del 1991 anche ai soci lavoratori di cooperative di produzione e lavoro, in tal modo confermando che non esiste alcuna ontologica distinzione tra subordinazione e lavoro cooperativo. Da ultimo, il 3° comma dell'art. 24 della legge n. 196 del 1997 ha equiparato la perdita dello status di socio ad iniziativa della cooperativa (ivi compreso il caso dello scioglimento della società) e il recesso da parte del socio, rispettivamente, al licenziamento o alle dimissioni del lavoratore. Ne consegue l'estensione in favore dei soci lavoratori della possibilità di accedere al Fondo di garanzia per il trattamento di fine rapporto ex art. 2 l. 297/1982 e del diritto alla garanzia dei crediti maturati negli ultimi tre mesi di lavoro, ai sensi degli artt. 1 e 2 del decreto legislativo n. 80/92 di attuazione della direttiva Cee in materia di tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro. Inoltre, la legge 196/97 ha riconosciuto ai soci di cooperativa di lavoro anche la fruibilità dell'integrazione salariale ordinaria, con conseguente soggezione all'assicurazione obbligatoria per la disoccupazione involontaria nonché esteso loro l'indennità di mobilità ed il trattamento speciale di disoccupazione edile.Di recente, Cass. n. 4462 del 26 maggio 1997 ha affermato che la controversia fra il socio e la cooperativa di produzione e lavoro, attinente a prestazioni lavorative comprese fra quelle che il patto sociale pone a carico dei soci per il conseguimento dei fini istituzionali, rientra nella competenza del giudice del lavoro, in quanto il rapporto da cui essa trae origine, pur essendo associativo e non di lavoro subordinato, è comunque equiparabile ai rapporti previsti dall'art. 409 c.p.c. La sentenza ha sostenuto che alla graduale applicazione al socio cooperatore della tutela sostanziale propria del lavoratore subordinato debba corrispondere un'analoga estensione della tutela processuale [8] .
2.b- Il caso riguardante gli amministratori di società.Con la pronuncia n. 10680 resa dalle sezioni unite il 14 dicembre 1994, la Suprema Corte, risolvendo un precedente contrasto manifestatosi nelle sezioni semplici, ha stabilito che la controversia tra una società di capitali ed il proprio amministratore, nella specie riguardante il rimborso di spese a quest'ultimo spettante in relazione all'incarico svolto, rientra nella previsione dell'art. 409, n. 3, c.p.c., ed è quindi attratta nella sfera di competenza del pretore quale giudice del lavoro.
Tale enunciato si articola in quattro essenziali proposizioni:
a)
l'esistenza di un rapporto organico, in virtù del quale l'amministratore impersona la società all'esterno, non esclude la configurabilità, nei rapporti interni, di un vincolo di natura obbligatoria tra il medesimo amministratore e l'ente da lui gestito, né la conseguente distinzione, in quest'ambito, di due centri d'interesse contrapposti facenti rispettivamente capo alle parti di tale ultimo rapporto;
b)
l'attività che l'amministratore è tenuto a prestare in favore della società presenta i caratteri della personalità, della continuazione e della coordinazione, e quindi rientra nella previsione dell'art. 409;
c)
la circostanza che tale attività sia finalizzata al conseguimento dello scopo sociale, ed abbia perciò contenuto imprenditoriale, non impedisce di ritenerla parasubordinata, non foss'altro perché un analogo contenuto è ravvisabile anche nell'attività dell'institore, il quale certamente opera in posizione di lavoratore subordinato;
d)
la difficoltà di ipotizzare una situazione di debolezza contrattuale dell'amministratore nei confronti della società non vale ad escludere il carattere di parasubordinazione, perché l'indicata situazione di debolezza non costituisce un presupposto di applicabilità della disciplina processuale delle controversie di lavoro. La giurisprudenza di merito, peraltro, si è recentemente discostata da tale dictum, sottoponendo a serrata critica le ultime tre proposizioni surriferite. In particolare, ritenendo che l'attività parasubordinata debba apparire soggetta ad un coordinamento che fa capo ad altri, in un rapporto che deve presentare connotati simili a quelli del rapporto gerarchico propriamente subordinato, se ne è dedotto che il rapporto da cui gli amministratori sono legati alla società non è parasubordinato, perché l'attività che essi svolgono non è coordinata da altri che loro stessi [9] . Di recente, anche la giurisprudenza di legittimità ha sostenuto che la domanda dell'amministratore avente ad oggetto l'accertamento dell'inesistenza di una giusta causa di revoca della nomina del consiglio di amministrazione di una società, con conseguente domanda risarcitoria, esula alla competenza del giudice del lavoro, atteso che si risolve in una censura di una delibera societaria e prescinde del tutto dal rapporto di lavoro in base al quale l'amministratore si obbliga a svolgere detta attività [10] .
2.c-
L'ipotesi dell'opposizione agli atti esecutivi in materia di lavoro.

La Corte di Cassazione ha per lungo tempo sostenuto che, ai sensi dell'art. 618 bis c.p.c., nelle esecuzioni forzate instaurate in base a titoli esecutivi costituiti da provvedimenti giurisdizionali emessi dal giudice del lavoro, le opposizioni all'esecuzione ed agli atti esecutivi, proposte a norma degli artt. 615 e 617 c.p.c., rientrano nella competenza del pretore in funzione di giudice del lavoro e ciò in considerazione dell'origine del credito e della natura della relativa causa, restando salva la competenza del giudice dell'esecuzione soltanto nella prima fase del processo, qualora l'opposizione sia proposta dopo l'inizio dell'esecuzione forzata, con ricorso a quel giudice [11] . In contrario, si è di recente affermato, traendo argomento dall'art. 27, 2° comma, c.p.c. 'secondo cui per le cause di opposizione a singoli atti esecutivi è competente il giudice davanti al quale si svolge l'esecuzione- nonché dalla locuzione <<in quanto applicabili>>, contenuta nell'art. 618 bis, primo comma, c.p.c., che le opposizioni agli atti esecutivi, proposte quando è già iniziata l'esecuzione ai sensi del secondo comma dell'art. 617 c.p.c., rientrano nella competenza del giudice dell'esecuzione, espressamente fatta salva dal secondo comma dell'art. 618 bis; si è al riguardo precisato che tale norma non concerne soltanto la prima fase del processo, ma si estende anche alla cognizione del merito dell'opposizione fino alla pronuncia della sentenza, prevista dal secondo comma dell'art. 618 c.p.c., con esclusione, quindi, della competenza del giudice del lavoro. Ciò a differenza dell'opposizione all'esecuzione che, ove l'opposizione sia già iniziata, ricade nella competenza del giudice dell'esecuzione limitatamente alla prima fase, mentre, per la cognizione del merito, la causa va rimessa al giudice del lavoro, ai sensi dell'art. 616 c.p.c. [12]
2.d-
Procedure concorsuali e controversie di lavoro.Costituisce opinione consolidata della giurisprudenza di legittimità l'affermazione della competenza del giudice fallimentare in tutti i casi in cui dalla domanda proposta discendano effetti patrimoniali.Di recente, la Suprema Corte ha circoscritto la portata di tale principio, affermando che la vis attractiva prevista dall'art. 24 della legge fallimentare 'secondo cui il tribunale che ha dichiarato il fallimento è competente a conoscere di tutte le azioni che ne derivano, anche se relative a rapporti di lavoro, eccettuate le azioni reali immobiliari- non opera per le azioni che sono già nel patrimonio del fallito e che sono in rapporto di mera occasionalità col fallimento, a meno che non si tratti di azioni che, per effetto del fallimento, abbiano subito deviazioni dal loro schema legale tipico, ivi comprese quelle derivanti dalla disciplina degli effetti del fallimento sui rapporti giuridici preesistenti, che incidono sulla procedura fallimentare per effetto della particolare disciplina dettata dagli artt. 72 e seguenti della legge fallimentare [13] . Rimangono in ogni caso attribuite alla competenza del giudice del lavoro l'azione diretta alla declaratoria di inefficacia del licenziamento adottato dal curatore fallimentare in violazione della procedura prevista dalla legge n. 223 del 1991 nonché le domande di accertamento della legittimità del licenziamento individuale.

3.- La competenza per territorio nel processo del lavoro.La Corte di Cassazione, con un indirizzo che si è andato affermando a lungo nel tempo, era stata ferma nel sostenere che, ai sensi dell'art. 413 c.p.c., si doveva fare riferimento, oltre che al foro del contratto, al foro dell'azienda ed a quello della dipendenza, fori tra loro alternativi e concorrenti, fra i quali non è compreso quello dello svolgimento dell'attività lavorativa [14] .Questo indirizzo è stato disatteso da due sentenze della Corte, la n. 2618 del 25 marzo 1996 e la n. 4683 del 27 maggio 1997, nelle quali si è asserito che l'art. 413, secondo comma c.p.c., prevede soltanto due fori speciali ed esclusivi, tra loro alternativamente concorrenti, rappresentati il primo dal foro del luogo in cui è sorto il rapporto di lavoro ed il secondo dal foro del luogo in cui si trova l'azienda (in ipotesi di controversia riguardante lavoratore addetto alla sede principale di questa alla data di introduzione della lite o a quella di cessazione del rapporto) ovvero di quello in cui si trova la dipendenza aziendale (nell'ipotesi di controversia riguardante lavoratore addetto a tale dipendenza alla data di introduzione della lite o a quella di cessazione del rapporto), senza che la parte istante possa considerarsi libera di optare per il foro dell'azienda o per quello della dipendenza: ciò in quanto la cognizione della controversia appartiene al giudice del luogo della prestazione di lavoro, ove questo coincida con il luogo della sede principale o di una dipendenza aziendale. Il ragionamento della Corte poggia su tre argomenti: il dato testuale, l'argomento logico sistematico e quello teleologico. Anzitutto, la Corte rileva che il legislatore, nell'elencare i fori alternativamente competenti, adopera la congiunzione <<ovvero>> per contrapporre al forum contractus quello dell'azienda <<o>> della sua dipendenza. La Corte medesima, peraltro, rileva che <<...la dictio legis di per sè non impedisce aprioristicamente nè l'una nè l'altra lettura>>. A tanto va aggiunto che la particella <<o>> ha valore senz'altro disgiuntivo e non coordinante; in altri termini, essa sembra distinguere il foro dell'azienda da quello della dipendenza, anziché coordinare due fattispecie afferenti al medesimo foro.  Sotto il profilo logico-sistematico, la Corte sottolinea che non avrebbe senso la persistenza semestrale del foro della trasferita sede principale nel caso di lite riguardante un lavoratore addetto alla dipendenza. Aggiunge che milita in favore della tesi la disciplina della competenza territoriale nelle controversie individuali attinenti a rapporti di parasubordinazione prevista dalla legge 11 febbraio 1992, n° 128, che ha introdotto nel testo dell'art. 413 c.p.c. il nuovo 4° comma. Va, peraltro, osservato che la persistenza semestrale richiamata dalla Corte, anche se riferita disgiuntamente al foro dell'azienda ed a quello della dipendenza, risponde all'indubbia esigenza di garantire al ricorrente una più ampia scelta tra i fori alternativi, che si riverbera a vantaggio del lavoratore, di norma ricorrente. La disposizione contenuta nel nuovo 4° comma dell'art. 413 c.p.c., poi, si è resa necessaria in quanto, per la prevalente opinione, precedente alla legge n° 128 del 1992, il criterio di collegamento della dipendenza alla quale è addetto il lavoratore o presso la quale egli prestava la propria opera al momento della fine del rapporto non era applicabile all'ipotesi di agenti, autonomi imprenditori, i quali non sono addetti nè prestano la propria opera alle dipendenze del datore di lavoro. La previsione del legislatore, quindi, che disciplina una specifica fattispecie, non pare utilmente richiamabile a conforto della tesi proposta con riguardo ad ipotesi generali. Infine, con riguardo alla ratio, ispirata al principio della maggior tutela del lavoratore, la Corte stessa dà conto del fatto che il dubbio di illegittimità costituzionale dell'art. 413, 2° comma, c.p.c., sotto il profilo che esso permette al datore di lavoro la scelta del foro del contratto o del foro dell'azienda ancorché il lavoratore sia addetto a dipendenza aziendale, è stato ritenuto infondato dalla Corte costituzionale, con sentenza 23 maggio 1991, n° 5797, in termini con la pronuncia 13 marzo 1974, n° 62 concernente l'analogo disposto dell'art. 434 c.p.c. nel testo anteriore alla riforma processuale.  In definitiva, la tesi in esame, argomentando dalla ratio della norma, finisce con l'integrare, con disposizioni aggiuntive, il testo della disposizione: si confronti il punto della sentenza in questione, ove si legge che l'art. 413 c.p.c. va interpretato <<nel senso di ravvisare la competenza del foro dell'azienda allorché il lavoratore sia addetto alla sede principale di essa (o vi abbia prestato la sua opera all'epoca di cessazione del rapporto), e invece la competenza del foro della dipendenza (ovviamente sempre in concorso con quella del forum contractus) allorché il lavoratore sia addetto alla dipendenza aziendale (o lo sia stato contestualmente all'estinzione della locatio operarum)>>.Va segnalato che le pronunce più recenti della Corte di Cassazione hanno ribadito che i fori speciali esclusivi, alternativamente concorrenti tra loro, sono tre, senza che gli ultimi due possano intendersi compendiati unitariamente in quello di svolgimento della prestazione lavorativa e senza che sia dato argomentare diversamente, né in base al disposto della legge 11 febbraio 1992, n. 128, né in base a quello dell'art. 40 d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80 per le controversie relative al pubblico impiego, attese le peculiarità delle situazioni ivi regolate, alla cui stregua sono altresì da escludere dubbi di illegittimità costituzionale del sistema [15] .Infine, con riguardo al rilievo dell'incompetenza territoriale, va rilevato che la Corte di Cassazione, con giurisprudenza pressoché costante, ha stabilito che la norma di cui al primo comma dell'art. 428 c.p.c., relativa al rilievo d'ufficio dell'incompetenza per territorio, deve essere interpretata in senso non rigoroso, nel senso, cioè, che il giudice ben può rilevare d'ufficio l'incompetenza anche in un momento successivo alla prima udienza di discussione, fino al momento in cui, attraverso l'interrogatorio libero delle parti ed il tentativo di conciliazione, non fosse stato delimitato l'oggetto della controversia; in particolare, si è precisato che il potere del giudice è da considerarsi precluso solo dall'adozione di provvedimenti relativi all'istruzione della causa [16] . A seguito dell'entrata in vigore del nuovo testo dell'art. 38 c.p.c., la Cassazione ha sottoposto a revisione critica tale indirizzo, affermando il principio secondo cui, nelle controversie di lavoro e previdenziali, l'incompetenza territoriale del giudice adito può essere rilevata dal giudice non oltre il termine perentorio dell'udienza fissata in base all'art. 415 [17] . La questione, peraltro, necessita di ulteriore approfondimento, soprattutto in considerazione della distinzione, nel rito ordinario, tra udienza di comparizione e udienza di trattazione. Va, infine, segnalato che il pretore di Roma, con ordinanza del 7 gennaio 1998, in Not.giur.lav. 1998, p. 96, ha dubitato della legittimità costituzionale dell'art. 413, 4° comma, in relazione all'art. 3 Cost., nella parte in cui non prevede che al giudice nella cui circoscrizione si trova il suo domicilio possa far ricorso anche il lavoratore subordinato che esplichi la sua attività al di fuori della sede dell'azienda ovvero di una dipendenza di essa. 

B) IL RICORSO E LA MEMORIA: IN PARTICOLARE, IL SISTEMA DELLE PRECLUSIONI RELATIVE ALLE ALLEGAZIONI DELLE PARTI NEGLI ATTI INTRODUTTIVI.


Il meccanismo della preclusione appare uno strumento indispensabile tutte le volte che il legislatore intenda disciplinare l'ordine e la scansione temporale delle attività delle parti nel processo, perseguendo scopi di semplificazione, rapidità ed efficienza del procedimento [18] . Ed infatti, quando il legislatore ha riformato il processo civile, il sistema di preclusioni, modellato, sia pure solo in parte, su quello del processo del lavoro, ha costituito la chiave di volta del rito. Permangono, peraltro, alcune differenze, rilevanti e no, tra le due normative. Per comodità d'esposizione, possono distinguersi le preclusioni relative alle allegazioni delle parti, che definiscono la materia del contendere e le preclusioni c.dd. istruttorie, che delimitano l'attività probatoria.

1.-Il contenuto del ricorso: raffronto tra l'art. 163 e l'art. 414 c.p.c.
L'art. 414 richiede la determinazione, non "della cosa oggetto della domanda" (art. 163 n. 3), ma dell'"oggetto della domanda", e quindi, non del solo petitum "mediato" o bene preteso, ma anche del petitum "immediato", ossia del contenuto del provvedimento richiesto: in altri termini, dell'effetto o degli effetti giuridici che al giudice si chiede di accertare o di produrre. Ciò ben si spiega con la necessità di evitare che l'attore abbia una posizione d'ingiustificato privilegio rispetto al convenuto che deve, nella memoria descritta nell'art. 416, proporre e svolgere tutte le proprie difese, ivi comprese le domande riconvenzionali e le eccezioni non rilevabili d'ufficio. La causa petendi è invece descritta ("l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali si fonda la domanda con le relative conclusioni") in termini sostanzialmente analoghi a quelli impiegati dall'art. 163, n. 4.  Intorno al grado di determinatezza richiesto per considerare soddisfatti i requisiti di cui all'art. 414, nn. 3 e 4, c.p.c. sono sorti un ampio dibattito dottrinale e vivaci contrasti giurisprudenziali. In dottrina, da un lato, distinguendo tra diritti c.d. etero ed autodeterminati, si è sostenuto [19] che l'indicazione dei fatti costitutivi del diritto può essere richiesta a pena di nullità solo se essa sia indispensabile per l'individuazione del petitum, il che accade quando <<la situazione giuridica può riprodursi più volte tra le stesse parti e con identico contenuto>> (tipico il caso di una domanda volta ad ottenere una condanna pecuniaria), mentre è sufficiente dedurre la sola situazione giuridica pretesa, se essa non è ripetibile tra le parti; con la conseguenza, in quest'ultima ipotesi, che l'insufficiente esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda darebbe luogo non già a nullità del ricorso, bensì al suo rigetto nel merito. D'altro lato, si è rilevato che la tesi riferita non appare pienamente consapevole della necessità che le differenze sostanziali tra diritti non comportino irragionevoli disparità nelle garanzie di difesa e nell'adempimento degli oneri di specificare le ragioni della pretesa in giudizio: tali oneri, inerendo al dovere processuale di lealtà e probità, non potrebbero dunque essere appesantiti o attenuati in ragione delle predette differenze sostanziali [20] . In giurisprudenza, secondo un consolidato orientamento della Cassazione, la nullità del ricorso introduttivo per mancata determinazione dell'oggetto della domanda o per omessa esposizione degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto su cui la domanda si fonda, sussiste solo quando l'individuazione di tali elementi sia impossibile anche attraverso l'esame complessivo dell'atto, la cui interpretazione è riservata al giudice di merito [21] .
Da quest'interpretazione discendono le seguenti applicazioni:
a)
la mancata quantificazione della pretesa nel ricorso, in cui però siano indicati i titoli su cui essa si fonda, non rende incerta l'individuazione del diritto fatto valere in giudizio;
b)
è ammissibile nel ricorso rinviare per la quantificazione ad una consulenza tecnica d'ufficio [22] .Di particolare interesse sono poi Cass. 5 giugno 1987, n. 4937 e 28 maggio 1985, n. 3231, secondo cui per l'osservanza dell'onere di determinazione dell'oggetto non è necessaria l'indicazione analitica degli elementi temporali e quantitativi posti a base delle singole spettanze rivendicate, essendo sufficiente, riguardo alla domanda di spettanze retributive, che l'attore ne indichi i titoli (Cass. 4937/87) o l'esposizione sommaria, ma completa dei punti di riferimento per la quantificazione della pretesa, tanto più se accompagnata da analitico conteggio indicato nel ricorso ed allegato ad esso, ancorché solo depositato in cancelleria e non notificato (Cass. 3231/85); Cass. 18 gennaio 1983, n. 426 si spinge oltre, motivando che non occorre affatto un'originaria quantificazione della pretesa, perché il potere integrativo del giudice consente la regolarizzazione d'atti e documenti, potendo il giudice chiedere ai sindacati il testo dei contratti collettivi e liquidare le pretese con valutazione equitativa. Nello stesso senso è anche parte della giurisprudenza di merito [23] . Secondo un diverso orientamento, invece, l'omessa quantificazione del petitum può condurre alla nullità del ricorso introduttivo, essendo al riguardo irrilevante il fatto che il ricorrente abbia contemporaneamente richiesto una consulenza tecnica per la determinazione dell'ammontare esatto del suo credito [24] .
Ne derivano le seguenti conseguenze:
a)
il ricorso è nullo anche quando non sono stati depositati i contratti collettivi ed i conteggi sono formulati in modo generico senza indicare il parametro di base per determinare l'ammontare [25] ;
b)
è indeterminato l'oggetto qualora sia chiesto il riconoscimento di una qualifica superiore senza l'indicazione delle mansioni [26] ;
c)
la mancanza dei requisiti ex art. 414, nn. 3 e 4, c.p.c. determina l'inammissibilità del ricorso e non il rigetto nel merito [27] . In tempi recenti, il dibattito sui requisiti dell'atto introduttivo si è proposto in giurisprudenza con riguardo al ricorso introduttivo del procedimento d'ingiunzione. Da un lato, si è sostenuto che già il ricorso monitorio debba rispondere alle prescrizioni di cui all'art. 414 c.p.c. [28] . Di contro, la Cassazione, con una recente pronunzia [29] , ha ritenuto che al ricorso per ingiunzione non si applichino le prescrizioni dell'art. 414 c.p.c. poiché, a norma del 2° comma dell'art. 645 c.p.c., la disciplina dettata per le controversie di lavoro o previdenziali troverebbe applicazione solo a seguito dell'opposizione a decreto ingiuntivo; in conseguenza, il convenuto opposto, che riveste la posizione sostanziale d'attore, solo nella memoria di costituzione deve articolare la domanda secondo le specificazioni di cui all'art. 414 c.p.c.. Avanzerei, peraltro, dei dubbi in ordine alla posizione assunta dalla Cassazione, considerando che un ricorso monitorio generico e non pienamente conforme alle prescrizioni dell'art. 414 conduce ad un ricorso in opposizione altrettanto generico, virtualmente inottemperante alle prescrizioni dell'art. 416.
1.a-Nullità del ricorso e possibilità di sanatoria.
Qualora il ricorso sia carente degli elementi previsti per la corretta identificazione della domanda nei sensi esplicitati, si esclude l'applicabilità del meccanismo di rinnovazione o d'integrazione previsto dal 5° comma dell'art. 164, che nel rito ordinario consente -sia pure con salvezza dei diritti anteriormente quesiti dal convenuto- la prosecuzione del processo nonostante l'iniziale invalidità dell'atto di citazione: si è segnalato, invero, che quel meccanismo presuppone una struttura del processo non solo articolato in più udienze, ma anche tale da prevedere una successiva integrazione degli atti iniziali, mentre il rito del lavoro è costruito sul presupposto della totale completezza degli atti iniziali e, quindi, sulla possibilità del suo esaurimento in un'unica udienza [30] . Autorevole dottrina [31] lascia il convenuto arbitro della sorte del processo: nel senso che, se egli lamenti l'impossibilità di una sua adeguata difesa a causa delle carenze del ricorso, il giudice dovrà pronunciarsi sulla così eccepita nullità, mentre dovrà decidere sul merito se il convenuto, senza eccepire la nullità, si sia difeso nel merito fidando nelle insufficienze argomentative e probatorie del ricorso e nella preclusione di ogni integrazione. Quanto al vizio attinente alla vocatio in jus, è ormai consolidato in giurisprudenza, dopo il criticatissimo obiter dictum di Cass. sez. un. 1 marzo 1988, n. 2166 -secondo cui la violazione dei termini minimi a difesa è sanabile con la costituzione del convenuto ovvero con la rinnovazione della notificazione soltanto ex nunc- e la successiva sentenza resa dalle sezioni unite, n° 271 del 12 gennaio 1993, il principio articolato nei seguenti passaggi:
a)
carattere non perentorio del termine entro cui l'attore -o l'appellante- deve provvedere entro dieci giorni alla notifica del ricorso;
b)
impossibilità che una nullità inerente ad un atto cronologicamente successivo al ricorso possa estendersi all'atto antecedente;
c)
regola secondo cui la disciplina del processo è tutta congegnata nel senso di prevedere meccanismi idonei a depurare il processo da eventuali vizi formali o extraformali allo scopo di consentire la conclusione con una valida pronuncia di merito sul diritto fatto valere, senza a che ciò siano di intralcio o di ostacolo vizi processuali, pur se addebitabili all'attore [32] . Di recente, Cass. sez. un. 25 ottobre 1996, n. 9331 nonché sez. un. 29 luglio 1996, n. 6841, sia pure rese con riguardo al giudizio di appello, hanno distinto tra notificazione della vocatio in ius come <<fattispecie autonoma>> e come <<elemento di una fattispecie complessa>> (come nel caso, appunto, dell'introduzione dell'appello nel rito del lavoro, ove si combinano più atti elementari, quali il decreto del giudice di fissazione della prima udienza, la comunicazione all'appellante dell'avvenuto deposito del provvedimento e la notificazione all'appellato del ricorso e del decreto): hanno quindi ritenuto che la mancanza dell'elemento notificazione <<determina la nullità>> e non l'inesistenza dell'atto di vocatio in ius da notificare; ne hanno allora ammesso la rinnovazione, con effetti ex tunc, proprio in considerazione del dato che la notificazione costituisce solo uno degli elementi dell'atto introduttivo composito. Da notare che le pronunce si segnalano per l'assoluta equiparazione della notifica nulla con quella omessa o inesistente in ordine alla possibilità ed alle relative modalità di sanatoria [33] .  

2.-La costituzione del convenuto.2.a.-Il contenuto della memoria. In particolare, latitudine del principio di non contestazione.
L'art. 416, che regola il contenuto della memoria difensiva da depositarsi entro il predetto termine di dieci giorni costituisce la norma chiave del sistema di preclusioni fissato dal legislatore nel rito del lavoro. Vi si prevede infatti che in tale memoria il convenuto proponga, a pena di decadenza, le domande riconvenzionali e le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio (comma 2). La disciplina del ricorso introduttivo non prevede espressamente decadenze, ma si ritiene comunemente che anche l'attore incontri le medesime preclusioni che valgono per il convenuto. La giurisprudenza di legittimità ha, peraltro, temperato il rigore del regime delle preclusioni fissate per il convenuto, affermando che non è necessario che il convenuto proponga tutte le eccezioni e indichi tutti i mezzi di prova di cui intenda avvalersi in un unico atto difensivo, ritenendo possibile il deposito di atti integrativi della memoria di costituzione: in conseguenza, la Cassazione ha ritenuto tempestive le eccezioni e le deduzioni di prova contenute in scritti successivi e separati dalla suddetta memoria, purché depositati entro il termine di cui all'art. 416 c.p.c., tranne che per l'eccezione di incompetenza territoriale la quale, dovendo essere proposta nel primo scritto difensivo, va necessariamente esplicitata nella memoria di costituzione [34] .La regola basilare per la valutazione della condotta del convenuto è posta, in particolare, dal 3° comma dell'art. 416, ove è stabilito che <<il convenuto deve prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti affermati dall'attore a fondamento della domanda>>. Per costante opinione giurisprudenziale, infatti, la non contestazione delimita il thema probandum, giusta il principio per cui il fatto pacifico, come tale, non è bisognoso di prova [35] . E' richiesto, al riguardo, un comportamento concludente non equivoco, non risultando rinvenibile nel sistema un onere specifico della parte alla contestazione esplicita [36] ; la giurisprudenza rinviene poi un importante limite al principio di non contestazione nei casi in cui la legge prescriva la forma scritta ad substantiam o ad probationem [37] .Il principio di non contestazione, peraltro, appare "eroso" sia in dottrina sia in giurisprudenza.Da un lato, un settore consistente della dottrina rileva che ad esso si oppone la disposizione del 2° comma dell'art. 116 c.p.c., che fa seguire al contegno processuale delle parti, di cui la mancata contestazione è manifestazione, un argomento di prova e non la prova del fatto non contestato; sottolinea inoltre la difficoltà di coordinare il principio con le regole del processo contumaciale e col regime della contra se declaratio nell'interrogatorio libero [38] : secondo questa tesi, dunque, la non contestazione del fatto sfavorevole è relevatio ab onere probandi solo nei casi eccezionalmente previsti dal legislatore; altrimenti, è oggetto di libero apprezzamento da parte del giudice. In giurisprudenza, si è ritenuto che, poiché l'art. 416 c.p.c. non prevede che la contestazione debba avvenire a pena di decadenza nella memoria di costituzione, essa possa verificarsi anche successivamente [39] . Ovviamente, la circostanza che il convenuto possa contestare i fatti costitutivi dedotti dall'attore anche in epoca successiva alla memoria difensiva pone delicati problemi quando si rende in corso di causa controverso un fatto che alla prima udienza non appariva tale e, pertanto appariva non bisognoso di prova: come nel caso deciso da Cass. 11 luglio 1981, n. 4536, in cui il lavoratore chiedeva le indennità di fine rapporto assumendone la durata per un certo tempo, ed il convenuto solo alla fine dell'istruttoria deduceva, fondandosi su un documento prodotto dall'attore, che, in realtà, ad un primo rapporto di lavoro subordinato era seguito un secondo e distinto rapporto di lavoro autonomo [40] .La giurisprudenza è arrivata a sostenere che non incorre in decadenza la parte che abbia omesso di dedurre tempestivamente il mezzo di prova riguardante una circostanza, pur di valore determinante e che la parte stessa sia onerata di provare, qualora vi fosse una ragionevole presunzione di non contestazione del fatto [41] .Tale opinione pare superata dalla più recente tendenza della giurisprudenza di legittimità: si veda, ad esempio, la pronuncia di cass. 3 ottobre 1998, n. 9826, secondo cui, in tema di conseguenze patrimoniali del licenziamento illegittimo, il datore di lavoro, per poter essere ammesso a dedurre e provare tardivamente circostanze idonee a dimostrare l'aliunde perceptum da parte del lavoratore, deve provare altresì di non averne avuto conoscenza e di avere, una volta conseguita tale conoscenza, formulato le relative deduzioni nell'osservanza del principio, ricavabile dagli artt. 414, 416 e 420 c.p.c., di tempestività di allegazione dei fatti sopravvenuti, all'uopo utilizzando il primo atto utile successivo alla conoscenza dei medesimi.
2.b-Mere difese ed eccezioni. In particolare, il regime delle eccezioni in senso lato.
Va peraltro segnalato che sovente la dottrina e la giurisprudenza fanno assumere a qualsiasi difesa del convenuto il significato generico di eccezione; anche la legge, d'altronde, talvolta usa l'espressione difesa come comprensiva dell'eccezione (è il caso, ad esempio, del vecchio art. 167 c.p.c.) e, talaltra, specie nel codice civile (ad esempio, artt. 1271, 1272, 1273, 1462, 1945 e 1993) impiega il termine eccezione anche per indicare la contestazione dei fatti costitutivi.La necessità di distinguere tra difesa ed eccezione, anche in senso lato, deriva invece non solo dall'art. 416 c.p.c., ma soprattutto dall'art. 2697 c.c., che prevede un regime completamente diverso sul piano probatorio tra la mera difesa e l'eccezione.
A titolo esemplificativo, è stato (od è) controverso in giurisprudenza se abbia natura di difesa o di eccezione la deduzione del datore di lavoro:
a) che contesti il suo obbligo di assumere il lavoratore avviato, in quanto manchi la richiesta di esso datore di lavoro, che costituisce requisito di legittimità del provvedimento dell'ufficio provinciale del lavoro [42] ;
b) che la dimensione dell'impresa e il numero dei dipendenti impediscano l'applicabilità dell'art. 18 dello statuto dei lavoratori [43] . Quanto al regime delle eccezioni in senso lato, parte della dottrina, al fine di evitare smagliature del sistema di preclusioni voluto dalla legge n. 533 del 1973, è giunta a ritenere che il convenuto non possa allegare dopo la memoria difensiva nuovi fatti estintivi, modificativi, impeditivi, anche se integranti eccezioni in senso lato: si è ammesso che tale preclusione possa cadere solo dietro espressa autorizzazione del giudice motivata da reali esigenze del contraddittorio [44] .
Possono quindi essere fissati alcuni punti fermi, secondo l'impostazione suggerita da autorevolissimo autore [45] :
a)
l'art. 416 impone di proporre nella memoria difensiva a pena di decadenza solo le eccezioni in senso stretto. Argomentando a contrario, le eccezioni in senso lato sono deducibili anche con atti successivi alla memoria difensiva;
b)
se sul piano delle allegazioni non vi è decadenza, vi è invece decadenza per la richiesta di mezzi di prova, giacché opera l'art. 416, ultimo comma, c.p.c.;
c) quando l'art. 420 consente la modifica di domande, eccezioni, conclusioni su autorizzazione del giudice e ricorrendo gravi motivi, si riferisce alle eccezioni in senso stretto; queste precauzioni hanno un senso per la rimessione in termini in ordine ad un'attività da cui si è decaduti, non per un'attività che si è tuttora abilitati a compiere;
d) l'art. 420, 1° comma, parla di modifica di eccezioni, escludendo implicitamente che si possa proporre una nuova eccezione.Dunque, il vero problema delle eccezioni in senso lato non è tanto l'allegazione, quanto la loro prova. Ne discende che, se la prova è comunque acquisita al processo, il giudice dovrà rigettare la domanda: e dovrà rigettarla anche quando non vi sia neppure allegazione della parte, purché dagli atti risulti che il fatto estintivo, modificativo, impeditivo integrante eccezione in senso lato si sia verificato.Sembrerebbe invece aperta, nell'ipotesi di proposizione di eccezioni in senso lato successivamente alla memoria di costituzione, solo la via di contare sul potere di ufficio del giudice di disporre nuove prove.
2.c-Eccezioni in senso lato ed eccezioni in senso stretto: possibili revisioni della tradizionale distinzione e ripercussioni in giurisprudenza.
Secondo quanto sostenuto da autorevole dottrina [46] , la natura dell'eccezione va indagata nel quadro dei poteri processuali delle parti di formare l'oggetto della decisione del giudice, disegnati dall'art. 112 c.p.c.. Questa norma stabilisce un principio generale ed una deroga: la regola è che i fatti estintivi, modificativi ed impeditivi sono rilevabili d'ufficio; assumono invece carattere eccezionale le ipotesi in cui il loro rilievo è subordinato all'eccezione di parte. Diviene quindi compito dell'interprete individuare le ipotesi di eccezioni riservate alle parti. Al riguardo è di immediato rilievo che l'assortimento delle eccezioni in senso stretto espressamente previste dal legislatore è molto vario, ricomprendendo meri fatti, diritti di credito, azioni costitutive, situazioni, cioè, il cui elemento comune sembra essere il solo dato estrinseco che al giudice è fatto divieto di rigettare la domanda per uno dei fatti ivi contemplati, se la parte non li ha richiamati espressamente. Ed invero, non sembra decisivo il criterio dell'ordine pubblico, la cui presenza imporrebbe il rilievo di ufficio. Basti osservare che a fondamento che a fondamento della prescrizione si pongono sicuramente esigenze pubbliche, come è reso palese dagli artt. 2936 e 2937, 2° comma, c.c.: eppure, la prescrizione non può essere rilevata d'ufficio. La ratio comune non si può neanche individuare nel fatto che attraverso l'eccezione in senso stretto si deducano gli effetti di un'autonoma fattispecie, che potrebbero costituire oggetto di un autonomo processo: la prescrizione, la decadenza, il beneficium excussionis sono fatti che mai potrebbero costituire oggetto di un autonomo processo.Pare quindi convincente la tesi propugnata dalla dottrina citata che discrimina le eccezioni in senso stretto dalle mere difese e dalle eccezioni in senso lato rilevando che talvolta il legislatore collega immediatamente la produzione di un effetto a certi fatti, per cui, con il semplice verificarsi di questi, sorge la conseguenza prevista dalla norma (norma-fatto-effetto); talaltra costruisce la fattispecie in modo tale che, perchè si realizzi la nuova situazione sostanziale, è necessaria anche una manifestazione di volontà dell'interessato (norma-fatto-potere sull'an-effetto) nonchè, in altre ipotesi, oltre a questa, una pronuncia giurisdizionale che verifichi preliminarmente l'avvenuta integrazione della fattispecie (norma-fatto-potere sull'an-accertamento giudiziale-effetto). Nelle ultime ipotesi, l'ordinamento conferisce al soggetto privato la facoltà di scelta, se creare il nuovo rapporto, previsto a tutela del suo interesse ovvero se conservare lo status esistente: le legge inserisce, all'interno della fattispecie produttiva del rapporto, un atto con il quale l'interessato deve manifestare l'iniziativa di avvalersi della tutela disposta in suo favore.Dunque, secondo l'opinione in esame, in queste situazioni l'atto di volontà della parte, come occorre nel proporre azione, così occorre nell'eccezione. Ne discende che costituiscono eccezioni in senso lato le contestazioni della domanda attrice, basate anche su fatti impeditivi o estintivi efficaci ipso iure, mentre integrano eccezioni in senso stretto i controdiritti del convenuto, arbitro di esercitarli o no, e rilevanti solo a seguito di un atto di volontà dell'eccipiente. Questa conclusione non importa sovrapposizione della volontà del giudice a quella della parte, poiché il giudice si limita a prendere atto degli effettivi e reali termini in cui si è di per sè atteggiata la situazione sul piano sostanziale, evitando così scarti tra la realtà processuale e quella sostanziale. Il processo serve infatti per attuare diritti esistenti, per cui giudice legittimamente rifiuta la protezione di diritti estinti o mai sorti.Secondo questa chiave di lettura, costituirebbero eccezioni in senso lato, e quindi rilevabili d'ufficio, il pagamento, la novazione, la rimessione, la rinuncia al diritto, la risoluzione consensuale del contratto, la presupposizione, la simulazione, la condizione il termine, la legittima difesa, la compensatio lucri cum damno, l'esimente di cui all'art. 1227 c.c., il concorso del fatto colposo del creditore.Nella giurisprudenza del lavoro più recente si avvertono significative aperture in tale direzione. Così, Cass. sez. un. 3 febbraio 1998, n. 1099 ha configurato come eccezione in senso lato quella relativa all'aliunde perceptum [47] , e Cass. 2 gennaio 1998, n. 599 quella relativa al pagamento [48] . Non sembrerebbero, invece, caso di eccezione in senso stretto quelli ritenuti tali, ad esempio, da Cass. 19 gennaio 1995, n. 552, in tema di transazione, da Cass. 26 giugno 1986, n. 4254 (contestazione da parte dell'Inps dell'operatività nei suoi confronti del versamento dei contributi), da Cass. 4 maggio 1990, n. 3768 (asserzione da parte del datore di lavoro, di fronte alla richiesta dei lavoratori di conseguire la retribuzione per il periodo di sospensione dell'attività lavorativa nelle more del procedimento di ammissione alla cassa integrazione guadagni, che tale sospensione era stata concordata), da Cass. 17 dicembre 1986, n. 7647 (allegazione della non avvenuta estinzione del rapporto di lavoro fondata sull'avvenuta accettazione della liquidazione, che nel corso del giudizio di primo grado era stata semplicemente narrata).
2.d-La proposizione della domanda riconvenzionale.
Il convenuto che non osservi il termine di costituzione di cui al 1° comma dell'art. 416 incorrerà invece sicuramente nella decadenza dal potere di proporre domande riconvenzionali.L'art. 418 prevede al riguardo che, quando il convenuto (e tale non è il creditore nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo: Cass. 22 ottobre 1986 n. 6209) proponga una domanda riconvenzionale nei confronti dell'attore: a) deve svolgerla, a pena di decadenza, nella memoria difensiva depositata a norma dell'art. 416, e quindi nei termini ivi previsti; b) deve assolvere agli oneri di completezza imposti al ricorrente dall'art. 414. Sussiste contrasto in giurisprudenza, invece, sulle conseguenze derivanti dall'omissione dell'istanza di fissazione di nuova udienza di discussione prevista dall'art. 418 c.p.c.. Secondo una parte della giurisprudenza [49] , la proposizione della domanda riconvenzionale senza la formulazione dell'istanza comporta l'inammissibilità della domanda, rilevabile d'ufficio, che perdura anche in caso di accettazione del contraddittorio da parte dell'attore. Viceversa, secondo altro orientamento [50] , l'omissione dell'istanza di fissazione di una nuova udienza resterebbe irrilevante, qualora l'attore accettasse di contraddire sulla riconvenzionale.Cass. Sez. un. 4 dicembre 1991, n. 13025, pur dando atto del segnalato contrasto nella giurisprudenza del Supremo collegio in ordine alla rilevabilità d'ufficio della inammissibilità anche nel caso in cui la controparte abbia accettato di contraddire sulla riconvenzionale, non ha preso esplicita posizione sul punto, limitandosi a rilevare che nella specie non vi era stata accettazione del contraddittorio [51] . Pare comunque condividibile la tesi più rigorosa, tenuto conto dell'interesse pubblicistico sotteso al sistema delle preclusioni in funzione del proficuo svolgimento del processo. Costituisce comune opinione dottrinale che il giudice sia tenuto a provvedere ai sensi dell'art. 418 alla fissazione della nuova udienza ogni volta che si trovi davanti ad una domanda formalmente riconvenzionale, senza poter in quella sede neppure sindacare il profilo della connessione: il meccanismo predisposto dalla norma esame si presta certamente ad abusi dilatori, ma non sembra che ad essi sia dato reagire concedendo al giudice poteri decisori prima dell'instaurazione del contraddittorio, bensì utilizzando lo strumento della responsabilità aggravata di cui all'art. 96 c.p.c.. E' stata finora senz'altro prevalente, in dottrina ed in giurisprudenza [52] , la tesi per cui anche la domanda riconvenzionale deve essere fondata su alcuno dei rapporti contemplati dall'art. 409 (sicché il difetto era rilevabile d'ufficio anche se il contraddittorio era stato accettato) [53] . La profonda diversità di struttura tra il rito del lavoro e quello ordinario imponeva di ritenere che il cumulo delle cause in uno stesso processo non potesse realizzarsi se esse non avessero la medesima natura, con la precisazione che rapporti di natura diversa potevano essere invocati soltanto come fonti di eccezioni [54] . Il problema va oggi rimeditato alla luce del nuovo art. 40, 3° comma c.p.c., il quale assegna senz'altro la prevalenza al rito del lavoro ove ad una controversia ex art. 409 sia connessa per riconvenzione una causa soggetta al rito ordinario o ad altro rito speciale: e, forse, la soluzione va ricercata considerando che l'esigenza, olim avuta di mira dalla giurisprudenza e soddisfatta richiedendo che anche la riconvenzionale fosse una causa di lavoro, rispondeva al reale e concreto bisogno di evitare che il processo del lavoro fosse -con intenti dilatori- "inquinato" con l'introduzione di controversie che poco o nulla avevano a che vedere con quelle originarie. Ponendosi in questa prospettiva, merita di essere ripensata la tesi secondo la quale l'art. 36 c.p.c. non definirebbe la domanda riconvenzionale tout court (e quindi i presupposti -dipendenza dal medesimo titolo dell'azione ovvero dell'eccezione, che, soli, consentono al convenuto di ampliare l'oggetto del processo- per ottenere un provvedimento contro l'attore), ma definirebbe soltanto la domanda riconvenzionale che può subire o determinare uno spostamento di competenza: tesi che pone le premesse di quel potenziale "inquinamento" del processo che si cercava di fronteggiare con accorgimenti che, come si è detto, il nuovo art. 40, 3° comma, ha oggi spazzato via.

C)  LE PRECLUSIONI ISTRUTTORIE ED I POTERI UFFICIOSI DEL GIUDICE.


L'uniformità degli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali in ordine all'affermazione che lo speciale rito del lavoro non si sottrae ai principi ordinari della domanda e del monopolio delle parti nella allegazione dei fatti, non è rinvenibile nell'interpretazione del modello offerto dal legislatore in tema di prove. Il tema delle c.dd. preclusioni istruttorie appare sempre strettamente intrecciato con quello relativo all'ampiezza ed all'esercizio dei poteri giudiziari in materia di prove.

1. Orientamenti giurisprudenziali relativi alla prova testimoniale ed alla produzione documentale. Cenni sulla decadenza dall'assunzione della prova.
In relazione alla prova testimoniale, Cass., sez. un. 13 gennaio 1997,  n. 262 [55] ha risolto il contrasto giurisprudenziale sorto in seno alla sezione lavoro circa la necessità o no di indicare sin dalla prima difesa, a pena di inammissibilità dell'istanza istruttoria, le generalità dei testi.L'orientamento volto a ravvisare la necessità dell'indicazione delle generalità [56] faceva leva sull'incompatibilità del termine perentorio di cui all'ultimo comma dell'art. 244 c.p.c. con il regime di preclusioni e concentrazione proprio del rito lavoro e sulla impossibilità di esercizio del potere del giudice, ex art. 421, 2° comma, c.p.c. in funzione sanante di preclusioni già verificatesi o lacune istruttorie; la citata Cass. 8124/92, in particolare, richiama in motivazione l'esigenza di "impedire che la durata del giudizio sia protratta da tattiche dilatorie o da periodi di sostanziale inerzia delle parti e dell'ufficio", consacrata nel divieto di udienze di mero rinvio di cui al 10° comma dell'art. 420 (la decisione, tra l'altro, esclude la possibilità di ricondurre la mancata indicazione dei testi a mera irregolarità sanabile ex art. 421 c.p.c., sia in primo grado che a maggior ragione in appello). L'orientamento meno rigido, al contrario, fermo l'obbligo di articolare i capitoli di prova, escludeva l'inconciliabilità del rimedio ex art. 244, ultimo comma, c.p.c. con il rito speciale, anche in relazione al potere di differimento della prova con termine per deposito di memorie, di cui al 6° comma dell'art. 420, nonché al principio -desumibile dal 2° comma dell'art. 421- del conseguimento della "verità storica>> che ben può legittimare l'integrazione delle deduzioni delle parti [57] .In tale contesto giurisprudenziale, la sentenza delle sezioni unite si segnala per il superamento anche dell'indirizzo meno restrittivo, in quanto ha ravvisato l'ammissibilità dell'indicazione successiva dei testi non alla stregua dell'ultimo comma dell'art. 244 c.p.c. (del resto abrogato a partire dal 30 aprile 1995 dall'art. 89 1. 353/90), ma sulla scorta dell'interpretazione del 6° comma dell'art. 420 e del 1° comma dell'art. 421 c.p.c., in combinato disposto.Ad avviso delle sezioni unite, l'omessa indicazione delle generalità dei testi comporta mera irregolarità dell'istanza istruttoria, sanabile ai sensi del 1° comma dell'art. 421 c.p.c.; il 6° comma dell'art. 420, prevede espressamente la possibilità di differimento della prova con termine perentorio per assegnazione di memorie, che assicura il contraddittorio ed evita (stante la previsione di perentorietà del termine assegnato, non contenuta nell'art. 421, 1° comma) possibili conseguenze dilatorie. La cassazione ha, peraltro, escluso che, nel rito del lavoro, il giudice abbia la facoltà di assegnare alle parti un termine per formulare o meglio articolare i capitoli di prova testimoniale [58] .Nella medesima linea di "sdrammatizzazione" delle formalità proprie della prova testimoniale nel rito del lavoro si pone Cass. 16 aprile 1997, n. 3275, secondo la quale il giudice, all'udienza fissata per la discussione, ammesse le prove testimoniali proposte dalle parti, ne dispone l'immediata assunzione, se resa possibile dalla presenza delle persone da interrogare; altrimenti fissa altra udienza per la quale la parte interessata ha l'onere, a pena di decadenza dalla prova, di richiedere l'intimazione dei testimoni all'ufficiale giudiziario.La sentenza si pone in contrasto con l'orientamento assolutamente costante della giurisprudenza di legittimità, secondo il quale, sul rilievo che il giudice già all'udienza di discussione può e tendenzialmente deve ammettere ed assumere le prove e che l'intimazione dei testimoni deve essere richiesta dalla parte, giunge ad imporre alla parte interessata la citazione dei testimoni già per la prima udienza di discussione; nell'eventualità che il giudice, in tale sede, ammetta la prova e disponga per la sua immediata assunzione, la parte che non abbia richiesto la rituale intimazione dei testimoni, non presenti all'udienza, decade dalla prova [59] .In sintesi, la decisione in questione ha dapprima osservato che, ben essendo possibile procedere all'istruzione del processo in più udienze, la regola per cui la parte ha l'onere di citare i testi per la prima udienza di discussione finisce per tradursi in un formalismo, che, tra l'altro, danneggia la parte debole, costretta ad inutile e dispendiosa attività processuale. La corte ha poi osservato che dalla lettura dei commi 5° e 6° dell'art. 420 -da leggersi in combinazione con il 1° comma dell'art. 202- deve desumersi che il legislatore ha previsto al 5° comma una regola o direttiva (quella dell'assunzione del mezzo di prova nella stessa udienza  in cui è stato ammesso) ed al 6° comma il comportamento da osservare quando  la regola si riveli inapplicabile (ossia il differimento ad altra udienza). Tale soluzione non solo è l'unica coerente con quanto previsto dall'art. 250 c.p.c., che consente l'intimazione dei soli testi già ammessi, ma è anche preferibile sul piano sistematico, in quanto:
a)
con riguardo al principio desumibile dall'art. 156 c.p.c., evita di sanzionare omissione che, sino a quando resti incerto se la prova sarà ammessa o meno, non può ritenersi ostativa al raggiungimento dello scopo;
b)
consente di contemperare il valore dello svolgimento sollecito del processo con quello del procedimento ordinario e leale, evitando che alla parte sia imposto di tenere un comportamento allo scopo di evitare un rischio, quello di decadenza dalla prova, e non di esercitare un diritto, quello di vederla assumere.Va, peraltro, segnalato che l'orientamento in questione suscita perplessità in considerazione del dato che, secondo consolidata opinione, il combinato disposto degli artt. 250 c.p.c. e 104 disp. att. non dovrebbe trovare applicazione nel processo del lavoro, dal momento che all'intimazione dei testi dovrebbe provvedere l'ufficio, ex art. 420, 11° comma.
La prassi è, peraltro, decisamente contraria, in quanto alla citazione dei testi provvedono le parti; e la Cassazione ormai costantemente ritiene applicabile l'art. 104 disp. att., circoscrivendo l'ambito della previsione dell'art. 420, 11° comma, alle sole ipotesi di chiamata di terzi ex artt. 102, 106 e 107 c.p.c. [60] . Quanto, poi, alle prove documentali, è opinione comune che la prassi applicativa in tema di produzione documentale abbia completamente snaturato la seconda parte del terzo comma dell'art. 416, che commina espressamente la sanzione della decadenza per la mancata indicazione e l'omissione del deposito dei documenti.Vanno, peraltro, registrati degli orientamenti volti a circoscrivere l'indiscriminata possibilità di esibire documenti in qualunque fase del giudizio. Così in più occasioni la Cassazione ha affermato che tali prove, in quanto precostituite, e perciò non richiedenti alcuna attività istruttoria contrastante con le esigenze di celerità e di concentrazione del processo del lavoro, non ricadano nel divieto dell'art. 416 c.p.c., e possano quindi essere prodotte anche successivamente alla scadenza del termine di costituzione, soltanto qualora riguardino non già eccezioni processuali o di merito in senso stretto, ma mere difese [61] . Secondo tale orientamento, la produzione tardiva dei documenti sarebbe possibile in ogni momento del giudizio di primo grado ed anche in appello. Secondo un altro orientamento, che fissa il limite temporale per la produzione di documenti all'inizio dell'udienza di discussione, l'ammissibilità delle prove precostituite fino a tale momento sarebbe comunque subordinata alla circostanza che l'altra parte abbia la possibilità di esaminare preventivamente il documento [62] . Anche chi ritiene che i documenti soggiacciano alle preclusioni fissate dall'art. 416 c.p.c., comunque segue la tesi secondo cui il vizio è rilevabile solo su tempestiva eccezione di parte [63] .

2. I poteri istruttori del giudice: limiti di applicabilità.
Può essere stabilito un primo punto fermo: per comune opinione dottrinale e giurisprudenziale, il legislatore ha ancorato il rito speciale alla pietra miliare del principio della domanda e della regola dell'onere di allegazione; ne discende che i poteri officiosi rinvengono un primo limite nei fatti allegati. Si è peraltro precisato al riguardo che il limite di allegazione concerne i soli fatti principali e non quelli secondari, rilevabili dal giudice anche senza una esplicita affermazione delle parti. Quanto all'estensione dei poteri, è tuttora controverso se essi possano essere esercitati in relazione alla fonte di prova o al mezzo di prova.Da un lato, si è sostenuto che nulla possa il giudice di fronte all'inerzia della parte nell'indicazione della fonte di prova (dato dalla realtà materiale da cui desumere la fonte di conoscenza, ad esempio l'individuazione delle persone che conoscono il fatto e possono, pertanto, essere chiamate a deporre): l'impulso officioso concernerebbe solo la realizzazione di tutte le formalità imposte dal rito, attraverso le quali la fonte materiale indicata dalla parte è acquisita agli atti (onere di capitolazione e di indicazione della lista dei testimoni). Quindi, una volta acquisiti agli atti il fatto e la fonte di prova, anche in caso di successiva inerzia della parte, il giudice potrà attivarsi nello scegliere uno dei mezzi tipizzati dall'ordinamento attraverso cui dare accesso al giudizio alla fonte materiale di conoscenza indicata dalla parte. La portata dell'art. 421 si ridurrebbe in tal modo all'esonero della parte dall'osservanza degli oneri minori, di carattere strettamente processuale, che concernono la proposta della prova: onere di richiesta della prova; oneri relativi alle modalità di formulazione dell'oggetto della prova e dell'interrogatorio. Altra dottrina, invece, afferma l'iniziativa autonoma del giudice anche nella ricerca delle fonti materiali di prova [64] .Alle due tesi estreme si oppone un orientamento che si colloca su un piano intermedio. Respingendo l'eccessiva dilatazione dei poteri del giudice sino alla ricerca della fonte materiale di prova, ma nel contempo escludendo l'ipotesi riduttiva di mera articolazione del mezzo di prova, si afferma che il giudice dovrà pur sempre trarre la fonte materiale di prova dagli atti del giudizio, anche se non necessariamente dalle indicazioni delle parti [65] . Quindi, in relazione, ad esempio, alla prova testimoniale, il giudice potrà desumere l'indicazione dei testimoni anche da documenti prodotti o esibiti, da informazioni delle associazioni sindacali, dai rilievi compiuti in occasione dell'accesso sul luogo di lavoro.La giurisprudenza ha dimostrato di esercitare molto cautamente i poteri di iniziativa istruttoria, sempre con l'intento di integrare i poteri della parte nell'assolvimento degli oneri processuali minori. Va segnalato che il principio secondo cui l'esercizio del potere d'ufficio è discrezionale e, pertanto, sottratto al sindacato di legittimità è stato esteso all'ipotesi inversa, nel senso che il giudice non è tenuto a motivare perché non si sia valso di quel potere [66] ; ma la Cassazione ha anche affermato [67] che il giudice non può limitarsi a fare meccanica applicazione del criterio formale dell'onere della prova, ma deve porsi il problema se tale materiale non solleciti l'esercizio dei suoi poteri ufficiosi, dando conto delle ragioni che lo hanno indotto a non esercitare il potere conferitogli dalla legge. Si legge in recenti sentenze della giurisprudenza di legittimità la precisazione che il mancato esercizio del potere-dovere di provvedere d'ufficio agli atti istruttori, pur non essendo direttamente denunziabile in sede di legittimtà, anche in assenza di espressa motivazione sul punto, può, tuttavia, tradursi in un vizio di illogicità della decisione, in particolare quando questa si fondi su di un elemento probatorio offerto da una parte e contrastato dall'altra, non dotato di una sicura affidabilità, qualora dal contesto del provvedimento non possano desumersi le ragioni che hanno indotto ad ometterlo [68] .

3.-Poteri istruttori del giudice e posizione delle parti.
Ulteriore delicato problema è il rapporto tra i poteri ufficiosi del giudice e le preclusioni all'attività difensiva delle parti. Secondo un orientamento, le preclusioni incontrate dalle parti costituiscono limite esterno ai poteri istruttori del giudice [69] . Si rileva al riguardo che in ipotesi di maturazione di una preclusione, l'impulso probatorio dell'ufficio avrebbe come unica fonte da cui desumere l'esistenza della fonte di prova un atto illegittimo (la richiesta tardiva): in conseguenza, illegittimo sarebbe anche il provvedimento giudiziario che dispone la prova, giusta l'art. 159 c.p.c.. Il giudice potrebbe dunque superare le decadenze incontrate dalle parti solo in ipotesi di richiesta relativa a fatti nuovi emersi dalla discussione orale.Altri autori, di converso, rilevano che l'art. 421 ammette l'impulso officioso in qualsiasi momento; in conseguenza, il giudice si porrebbe al di sopra delle preclusioni e delle decadenze [70] .La giurisprudenza è orientata nel senso più restrittivo; è invero ricorrente l'affermazione che l'inosservanza ad opera della parte dei termini preclusivi iniziali impedisce sia all'attore sia al convenuto di dolersi successivamente del mancato esercizio del potere del giudice di ammettere d'ufficio le prove ormai precluse [71] ; in particolare, il giudice non può supplire all'inerzia della parte che è decaduta dalla prova già ammessa [72] . Esiste peraltro un orientamento secondo cui, nel rito del lavoro che, per la particolare natura dei rapporti controversi, tende a contemperare il principio dispositivo con quello della ricerca della verità reale, il potere del giudice di disporre d'ufficio mezzi istruttori -che presuppone l'incertezza e l'incompletezza del materiale istruttorio- può essere esercitato, in presenza di significativi dati di indagine, anche se la parte onerata della prova sia incorsa in preclusioni e decadenze ed anche su sollecitazione di quest'ultima [73] .L'iniziativa probatoria officiosa pone poi il delicato problema del rispetto del principio del contraddittorio, come diritto della parte ad interloquire e replicare, attraverso una propria iniziativa probatoria, all'impulso istruttorio dell'ufficio.Illegittima, perché contrastante col principio del contraddittorio deve dunque ritenersi la prassi di alcune preture di dare svolgimento ad una iniziativa istruttoria ufficiosa nella fase preparatoria dell'udienza di discussione, disponendo già con il decreto in calce al ricorso introduttivo il mezzo istruttorio [74] .

4.-Poteri di iniziativa officiosa di carattere specifico.
Facendo leva sul 2° comma dell'art. 421, si discute se la deroga consentita possa spingersi al punto di disporre mezzi di prova diversi da quelli tipizzati dal legislatore, oppure, più limitatamente, se il giudice possa superare le regole di ammissibilità per ogni singolo mezzo di prova, ma sempre all'interno dei mezzi tipizzati dalla legge.La dottrina ha ritenuto che il rito speciale non innovi il sistema positivo e, in particolare, il divieto di ricercare fonti di conoscenza della verità dei fatti affermati dalle parti diversi da quelli tipizzati dal legislatore, in ossequio ai principi di imparzialità e del contraddittorio. Sono quindi vietati al giudice: l'uso di mezzi probatori tipici esperiti in altro procedimento; intaccare la gerarchia di efficacia tra i mezzi di prova; l'uso di mezzi istruttori ultra legem creati ad hoc dal giudice (acquisizione di testimonianze attraverso scritti provenienti da terzi; utilizzazione di perizie stragiudiziali...).In conseguenza, il 2° comma dell'art. 421 consente al giudice semplicemente di derogare ai limiti di ammissibilità della prova fissati dal codice civile; invalicabili dal giudice sono peraltro ritenuti i limiti di ammissibilità concernenti la confessione ed il giuramento, perché concernenti diritti indisponibili nonché il limite della forma ad substantiam [75] . Sul limite della forma ad probationem la giurisprudenza si è pronunciata in maniera contrastante. Così, nel caso in cui il lavoratore, per ottenere il riscatto di certi periodi lavorativi a fini pensionistici, debba produrre documenti aventi data certa per provare l'esistenza, la durata del rapporto e la misura della retribuzione, la S.C. ha sempre ritenuto invalicabile tale limite sul piano probatorio, anche nel caso di iniziativa officiosa [76] ; ugualmente nei casi in cui si voglia provare l'avvenuta transazione fra lavoratore e datore, ove è imposta la produzione di un documento scritto ex art. 1967 c.c.. Residuano e sono pertanto superabili gli altri limiti di ammissibilità della prova testimoniale: è quindi derogabile il limite concernente il patto contrario al contenuto di un documento ex artt. 2722 e 2723 c.c. [77] ; alcune pronunce hanno ritenuto di disporre prova testimoniale della simulazione derogando l'art. 1417 c.c., stabilendo altresì i limiti fissati dal codice civile possono superarsi anche con riguardo alle presunzioni [78] .

D) LE ORDINANZE DI CONDANNA


La lunghezza dei procedimenti e la conseguente difficoltà di pervenire ad una sentenza hanno stimolato l'introduzione di titoli esecutivi di nuovo tipo da emanare nel corso del procedimento prima della sentenza, con cognizione e con formalità ridotte [79] . L'art. 423 prevede dunque l'emanazione di ordinanze provvisorie, costituenti titolo esecutivo, per il pagamento di somme. In particolare, il 1° comma ha introdotto l'istituto dell'ordinanza di condanna al pagamento di somme non contestate [80] , il 2° comma quello dell'ordinanza di condanna al pagamento delle somme già accertate.Il problema si poneva -ovviamente- anche nel procedimento civile ordinario, ed istituti similari, o, quanto meno, con funzioni analoghe, sono stati introdotti anche all'interno di quest'ultimo.Con il nuovo art. 186-bis è stato previsto anche nel processo ordinario l'istituto dell'ordinanza di condanna al pagamento delle somme non contestate. Nel successivo art. 186-ter, anche esso aggiunto dalla novella, si è introdotto, invece, un istituto differente, quello dell'istanza di in­giunzione in corso di causa. Infine, il D.L. n. 238 del 1995 ha introdotto l'art. 186-quater, che prevede un'ordinanza da emanarsi ad istruttoria esaurita, a seguito, dunque, di cognizione piena e munita di motivazione sommaria.L'analisi strutturale di questi diversi provvedimenti dimostra che l'ordinanza di cui all'art. 186-bis corrisponde sostanzialmente a quella del comma l° dell'art. 423, anche se le due discipline non sono esattamente sovrapponibili.L'istituto dell'ingiunzione in corso di causa, invece, previsto dall'art. 186-ter, non è paragonabile a quello del comma 2° dell'art. 423, poiché introduce la possibilità di inserire all'interno del procedimento ordinario, in via incidentale ed in qualunque stato del processo anteriore alla precisazione delle conclusioni, un ricorso per ingiunzione concernente una domanda già proposta nell'àmbito del medesimo giudizio, o, in ipotesi, parte di essa (quella parte per la quale si sia già in possesso di prova scritta). È di tutta evidenza che si tratta di una forma particolare di decreto di ingiunzione, forse, più esattamente, di un'estensione dell'àmbito di applicabilità di quest'ultimo; basti ricordare che l'art. 186-ter rimanda espressamente agli artt. 633 e 634 c.p.c., che determinano le condizioni di ammissibilità del ricorso per ingiunzione, e, più oltre, ad altre norme relative allo istituto: gli artt. 641, 642, 648, 653, 644 e 647.Come decreto di ingiunzione, quello emanato ai sensi dell'art 186-ter richiede una prova scritta, o, per l'esattezza, una prova scritta idonea ai fini dell'emissione dell'ingiunzione, che può consistere anche in elementi di prova incompleti, purché formalmente regolari: ad esempio, gli estratti delle scritture contabili obbligatorie tenute a norma di legge, che costituiscono elementi di carattere meramente indiziario [81] . Di contro, l'ordinanza di pagamento delle somme che il giudice ritenga accertate presuppone una prova completa, ritenuta sufficiente in quel momento dal giudice (ancorché possa non essere più ritenuta tale successivamente, giusta l'ultimo capoverso dell'art. 423 c.p.c., che prevede la possibilità che questo particolare tipo di ordinanza sia revocata con la sentenza che decide la causa); d'altronde, non è richiesto affatto che si debba necessariamente trattare di una prova scritta. Anzi, la formulazione del testo normativo indica la possibilità che in un certo momento del processo il diritto possa non ritenersi ancora accertato, ma possa divenirlo in un momento successivo, inducendo, quindi, a ritenere che si possa trattare di una prova da acquisire progressivamente nel corso del giudizio, e, quindi, anche orale: si pensi a giudizi di mero fatto, spesso puramente sulle quantità, come quelli di straordinario, di agenzia, di corresponsione di differenze retributive. Del tutto nuovo, infine, è l'istituto previsto dall'art. 186-quater. Riassumendo, si possono distinguere:
1) due istituti, l'ingiunzione in corso di causa e l'ordinanza prevista dall'art. 186-quater, propri del procedimento ordinario, e non previsti specificamente per il processo del lavoro;
2) un istituto, l'ordinanza provvisoria di condanna al pagamento di somme non contestate, disciplinato in maniera non conforme, ma non necessariamente contrastante, dall'art. 186-bis nel processo ordinario e dal comma l dell'art. 423 in quello del lavoro; 3) un istituto, l'ordinanza provvisoria di condanna per le somme già accertate di cui al comma 2° dell'art. 423, previsto solo per il processo del lavoro, ma non in quello ordinario, ed applicato in favore del prestatore di lavoro, non del datore.
1). Il procedimento di ingiunzione in corso di causa è istituto del tutto nuovo, introdotto nel procedimento ordinario e sconosciuto finora al processo del lavoro. Senz'altro l'ingiunzione non appare incompatibile con norme specifiche del rito speciale, o con i criteri che lo ispirano; semmai è in linea con essi, rappresentandone uno sviluppo ulteriore. Non vi è ragione, perciò, per non applicare anche nel rito del lavoro l'ingiunzione in corso di causa quando ne sussistano i presupposti. Potrebbe al riguardo obiettarsi che in questo modo si verrebbe ad introdurre una duplicazione rispetto ad istituti già esistenti. Indubbiamente, non può essere escluso che il medesimo riconoscimento scritto possa servire da base, alternativamente, o per un'ordinanza di condanna al pagamento di somme non contestate, o per un'ingiunzione in corso di causa, ma questo è esattamente quanto avviene oltre che nel processo del lavoro, in cui l'istituto dell'ingiunzione in corso di causa non è espressamente previsto, nel procedimento ordinario, in cui i due istituti dell'ordinanza di condanna al pagamento di non contestate e dell'ingiunzione in corso di causa sono esplicitamente disciplinati. A tanto va aggiunto che l'ingiunzione in corso di causa, potendo essere emessa, come l'ingiunzione ordinaria, anche sulla base di estratti di scritture contabili, e potendo essere diretta non solo ad un pagamento, ma anche ad una consegna, ha un àmbito di applicazione maggiore rispetto all'ordinanza di condanna al pagamento di somme contestate.E' invece inapplicabile al processo del lavoro l'ordinanza prevista dall'art. 186-quater c.p.c., poiché l'art. 429, 1° comma, ai sensi del quale la sentenza è pronunciata immediatamente con la lettura del dispositivo esclude ogni possibilità di sostituzione con la nuova specie di ordinanza [82] .2).-Quanto all'ordinanza prevista dal 1° comma dell'art. 423, va anzitutto rilevato che la non contestazione nasce da un sistema di argomentazioni del difensore o della parte, comparsa di persona, che non sia conciliabile con la verità dei fatti allegati dall'altra parte o dal difensore; né importa che la conciliabilità sia esplicita o implicita. Poiché la non contestazione è un comportamento processuale, l'ordinanza de qua non può essere emessa contro il convenuto non costituito [83] . La contraria opinione [84] , se riesce a rafforzare il dovere di specifica contestazione sancito dall'art. 416, 3° comma, non è sostenibile in considerazione della forma di ordinanza del provvedimento: se l'inerzia totale del convenuto comportasse non contestazione, sarebbe da ritenersi superflua la prosecuzione del giudizio in ordine ai fatti costitutivi dei crediti vantati dall'attore. La esplicita ammissione del difensore della parte o del suo procuratore -anche nell'interrogatorio libero- dei fatti allegati dall'altra parte giustifica certamente, a fortiori, l'ordinanza in discorso. La confessione del datore, invece, giustifica l'ordinanza di cui al 2° comma della norma. Diverso discorso va fatto per la confessione del lavoratore, poiché il datore di lavoro, che proponga domanda riconvenzionale ad oggetto pecuniario, può proporre istanza di anticipato pagamento solo invocando il primo comma, e non l'altro.Questa disciplina dell'ordinanza prevista nell'ambito del rito speciale risulta integrata dall'autonoma disciplina di carattere generale stabilita per il processo ordinario.Tanto la norma propria del rito speciale che quella introdotta nel rito ordinario richiedono l'espressa richiesta di parte. Va anzitutto chiarito, peraltro, che la prima delle due limitazioni introdotte dal 1° comma dell'art. 186-bis (nel processo ordinario l'ordinanza può essere chiesta fino al momento della precisazione delle conclusioni, non dopo) non sembra possa estendere al rito speciale. Ciò in quanto il comma 1° dell'art. 423 dispone espressamente che l'ordinanza possa essere emanata "in ogni stato del giudizio", e per l'ulteriore ragione che il rito speciale non prevede la scansione di un'udienza apposita di precisazione delle conclusioni, consentendo anzi la definizione del giudizio nell'àmbito di un'unica udienza.E' invece da ritenersi applicabile all'ordinanza in questione la regola dell'ultraattività dell'ordinanza prevista dal 2° comma dell'art. 186-bis c.p.c., in quanto il mantenimento dell'efficacia esecutiva non risponde ad esigenze specifiche del processo ordinario ed estranee a quello del lavoro: si giungerebbe, altrimenti, al risultato che i creditori sarebbero maggiormente tutelati nel procedimento ordinario che in quello del lavoro, in dispregio dei principi informatori del processo del lavoro. A tanto va aggiunto che il rito speciale è diretto ad ottenere una definizione quanto più sollecita possibile delle controversie (basti pensare al particolare rilievo che assumono i tentativi di conciliazione). Pienamente compatibile con tale finalità appare dunque l'ultraattività dell'ordinanza in questione, che può divenire un importante strumento di deflazione processuale: una volta ottenuta un'ordinanza di questo tipo, con la relativa efficacia esecutiva, la parte ricorrente, non essendo obbligata a giungere comunque alla decisione per ottenere la convalida dell'ordinanza, può non avere interesse a proseguire il giudizio, o perché l'ordinanza ricomprende l'intero credito o la maggior parte di esso, oppure perché le risulta troppo difficile acquisire una prova adeguata per la parte rimanente di esso, mentre il convenuto costituito può non avere a sua volta interesse a giungere ad una decisione che verosimilmente non gli sarà favorevole.Indubbiamente, la semplice estinzione del procedimento non sarebbe idonea ad attribuire all'ordinanza di pagamento effetti di giudicato, ed a convertire le prescrizioni brevi in prescrizioni ordinarie per effetto dell'art 2953. Tutto questo però diminuisce solo moderatamente il valore deflattivo del nuovo mezzo processuale: sarà onere degli interessati, una volta ottenuta l'ordinanza, provvedere a tempestive interruzioni della prescrizione valide anche sul piano del rapporto di diritto sostanziale, in modo da evitare l'insidia contenuta nell'art. 2945 c.c., per il quale, come è noto, se il processo continua <<la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio>>, mentre, in caso di estinzione del giudizio, permangono sul piano sostanziale solo gli effetti interruttivi dell'atto introduttivo, ma la prescrizione si considera decorsa anche durante il corso del procedimento. L'ultimo capoverso dell'art. l86-bis prevede, attraverso il rinvio al comma dell'art. 177, che le ordinanze di condanna al pagamento di somme non contestate possano, come in genere tutte le ordinanze, "essere sempre revocate o modificate dal giudice che le ha pronunciate", e, con il richiamo del comma 1° dell'art. 178, che siano sottoposte al riesame da parte del collegio al momento della decisione (quando naturalmente la decisione sia collegiale).Quest'istituto è applicabile anche nel processo del lavoro: non vi è alcuna ragione per non riconoscere anche al giudice del lavoro, in qualunque grado del giudizio, il potere di revoca e/o di modifica delle proprie ordinanze provvisorie di condanna; anche questa deve considerarsi come una norma di carattere generale, applicabile a tutti i tipi di ordinanze di condanna al pagamento di somme emesse prima della sentenza e sulla base ad una cognizione non piena.Non può ritenersi, al riguardo, che il presupposto della non contestazione, posto alla base delle ordinanze ex art. 186-bis o ex art. 423, comma 1°, renda sostanzialmente inutile la previsione della loro revoca. Non va dimenticato che all'interno di un rapporto di lavoro subordinato, e, ancor più, di un rapporto di parasubordinazione, sussistono spesso molteplici relazioni di dare e di avere tra le parti: la posta contabile può non essere contestata in sé, ma può esserlo la sua debenza con l'affermazione che è stata estinta da un'altra posta contabile di segno opposto eccependo quest'ultima in compensazione. D'altronde, il riesame dell'effettiva sussistenza del requisito della ritenuta non contestazione, e l'eventuale revoca dell'ordinanza, possono essere effetto delle difese contenute in una costituzione tardiva del convenuto contumace, avvenuta dopo l'emanazione dell'ordinanza stessa.
3).-Secondo parte della dottrina [85] , l'ordinanza prevista dal 2° comma dell'art. 423 presuppone un esauriente accertamento dell'esistenza del diritto e dell'ammontare dovuto con la provvisionale, richiamando le analogie tra la formulazione della norma in questione e quella dell'art. 278. Riesce invece difficile assimilare il provvedimento in questione alla condanna provvisionale. Va considerato al riguardo che, a norma dell'art. 423, 2° comma, il pagamento è disposto a titolo provvisorio e che l'ordinanza è revocabile con la sentenza che decide la causa: è ovvio che non ha alcun senso definire provvisorio e revocabile da parte dello stesso giudice che l'ha pronunciato un provvedimento fondato su una piena cognizione dell'esistenza del diritto e di quel quantum parziale che costituisce l'oggetto della provvisionale [86] . Di qui la necessità di ritenere che l'ordinanza tragga fondamento da una cognizione di carattere sommario. Alcuni autori hanno quindi inquadrato l'ordinanza in questione nell'ambito dei provvedimenti cautelari, facendo leva sulla provvisorietà degli effetti che la connota ed aggiungendo che essa appare preordinata ad ovviare al rischio del ritardo [87] . Si è ritenuto in conseguenza che essa possa essere emessa anche durante la sospensione del processo per regolamento di competenza, la quale non preclude l'adozione di misure cautelari. Non sembra che le modifiche legislative possano riflettersi sulla disciplina dell'ordinanza in oggetto.Va esclusa, in particolare, l'ultrattività di questo tipo di ordinanza provvisoria di condanna in caso di estinzione del procedimento, come invece stabilito dal 2° comma dell'art. 186-bis per l'ordinanza provvisoria di condanna al pagamento di somme non contestate emessa nel procedimento ordinario. Ed infatti, l'ultimo comma dell'art. 423 prevede che l'ordinanza di cui al comma 2° possa essere revocata con la sentenza che decide la causa; quindi, in sede di decisione, quell'ordinanza deve essere riesaminata espressamente, e, all'esito, confermata o revocata: se ne può dedurre l'esclusione dell'ulteriore efficacia dell'ordinanza in questione nel caso in cui il processo si estingua, senza si sia potuti giungere ad una decisione di merito che riesami il punto.L'esecuzione delle ordinanze previste dall'art. 423 comporta numerosi problemi in sede di esecuzione forzata, poiché i provvedimenti in esame possono essere revocati (l'ordinanza del 1° comma nel corso del giudizio e quella del secondo comma alla sua conclusione) e con ciò privati della forzata eseguibilità che loro spetta per legge. Senz'altro l'illegittimità e l'ingiustizia delle ordinanze non possono essere fatte valere in via di opposizione all'esecuzione ex art. 615 c.p.c., ma solo come motivi di revoca in sede di cognizione davanti al pretore che le ha emanate [88] . Alcuni autori hanno ritenuto che nel corso di tale cognizione, il pretore possa sospendere l'esecuzione dell'ordinanza del 2° comma per gli stessi motivi e negli stessi limiti per cui e in cui è possibile sospendere l'esecutività per legge della sentenza di primo grado in sede d'appello davanti al tribunale [89] , ma la Corte costituzionale, con sentenza 26 maggio 1981, n. 76 ha disatteso questa tesi, ritenendo che la revocabilità con la sola sentenza è giustificata dalla peculiarità dei crediti di lavoro, la quale consente di escludere la possibilità di un'immediata reazione della controparte che vanifichi l'urgente attuazione della garanzia alla quale tende la legge.La novella del 1990 induce poi a ritenere che l'ordinanza di cui al 1° comma dell'art. 423 non costituisca titolo per l'iscrizione di ipoteca giudiziale: il legislatore, infatti, tace dell'ipoteca a proposito dell'art. 186-bis, ed esplicitamente menziona tale possibilità nell'art. 186-ter. A soluzione diversa può invece pervenirsi con riguardo all'ordinanza prevista dal 2° comma dell'art. 423.

E) LA PRONUNCIA DELLA SENTENZA

Gli articoli 429-431 c.p.c. hanno determinato in giurisprudenza una vasta congerie di problemi, di seguito sintetizzati:
1.a-Ipotesi dell'omessa lettura del dispositivo in udienza.
La previsione della lettura del dispositivo in udienza è stata interpretata sempre in senso rigorosamente letterale dalla giurisprudenza di legittimità. Fin dalle prime applicazioni, essa ha ritenuto che dall'omessa lettura del dispositivo derivi la nullità della sentenza per inidoneità al raggiungimento dello scopo ai sensi dell'art. 156 c.p.c., poiché l'inosservanza dell'art. 429 concreterebbe, infatti, inosservanza dei principi ispiratori del processo del lavoro [90] .In senso parzialmente difforme, altra giurisprudenza [91] ha sostenuto che alla nullità derivante dall'omessa lettura del dispositivo si applicano sia l'art. 156 c.p.c. sia l'art. 161 c.p.c., ritenendo in conseguenza che detta nullità non sia rilevabile d'ufficio, ma solo ad istanza di parte. Sempre in chiave antiformalistica, Cass. 20 aprile 1995, n. 4414 ha ritenuto che la lettura in udienza del dispositivo della sentenza non deve risultare necessariamente da esplicita menzione nella sentenza medesima, in quanto l'adempimento di tale formalità può essere documentato da qualsiasi atto processuale o anche desumersi per implicito dal fatto che la pronuncia sia avvenuta immediatamente all'esito dell'udienza di discussione e il dispositivo sia stato in pari data depositato in cancelleria. La parte che volesse contestate l'attestazione dell'avvenuta lettura del dispositivo contenuta nel verbale potrebbe farlo solo impugnando lo stesso per falso [92] . Il passaggio attraverso la lettura in udienza è stato comunque ritenuto inscindibilmente legato all'udienza di discussione, anche essa sia una mera udienza di rinvio per quell'unico espletamento [93] .
1.b-Ipotesi di contrasto tra dispositivo letto in udienza e quello della sentenza depositata.
Il problema si pone in una duplice prospettiva, a seconda che la motivazione sia coerente col primo o col secondo.La giurisprudenza ha costantemente statuito, in argomento, nel senso dell'assoluta prevalenza del dispositivo letto in udienza [94] , indipendentemente dalla valutazione della motivazione, negando pure in tali casi l'applicazione del procedimento di correzione degli errori materiali.In dottrina, peraltro, sono state proposte tesi volte a mitigare il rigore di tali orientamenti [95] .Anzitutto, si è sostenuto che, nel caso in cui la motivazione sia concorde con il dispositivo letto in udienza e non lo sia con quello contestualmente depositato in cancelleria, sia applicabile il procedimento di correzione di errori materiali previsto dal secondo comma dell'art. 287 c.p.c..Il problema consiste in realtà nel verificare se qualsiasi divergenza tra i due dispositivi possa assimilarsi ad un errore materiale, assoggettabile alla procedura di cui all'art. 287 c.p.c.. Al riguardo, nonostante l'orientamento rigoroso della giurisprudenza innanzi indicato, si è ritenuto che la decisione vada ricercata nel dispositivo, ma ciò non esclude che essa sia contenuta anche nella motivazione: in conseguenza, ove le due parti siano coerenti, lì sta la sentenza; in altri termini, è valido il dispositivo il cui contenuto sia motivato [96] . La giurisprudenza non tiene, invece, in alcuna considerazione l'efficacia della motivazione e quasi esaspera l'importanza della lettura del dispositivo in udienza, come unico mezzo efficace di conoscenza della sentenza per le parti, alle quali è data l'unica possibilità di proporre impugnativa contro di esso, per far valere la nullità del dispositivo divergente dal primo.Identica soluzione la giurisprudenza fornisce nell'ipotesi in cui la motivazione sia coerente col dispositivo depositato contestualmente ad essa e non con quello letto in udienza. In tal caso, però, la parte si trova ad impugnare un dispositivo non motivato: da quali elementi può desumere i motivi di impugnazione? Stando alla soluzione prospettata dalla giurisprudenza, la parte dovrebbe appellare per far valere la nullità derivante dal contrasto tra i due dispositivi; non avrebbe infatti altra scelta, poiché la Cassazione, adita sul punto, ha dichiarato inammissibile l'appello proposto avverso il solo dispositivo ed ammissibile, invece, quello successivamente proposto avverso la sentenza depositata, completa di tutte le sue parti [97] . Ma, si è rilevato, per proporre una valida impugnazione in tal senso la legittimazione e l'interesse vanno ricercati nel dispositivo depositato, poiché quello, in quanto motivato, è sentenza. La parte che alla stregua di esso risulti soccombente potrà appellare sostenendo tutti i possibili motivi di doglianza ed in primis facendo valere la nullità derivante dall'omessa lettura del dispositivo in udienza o anche la nullità derivante dal contrasto tra i due dispositivi; il giudice di secondo grado, non potendo rimettere la causa al primo, non ricorrendo uno dei casi di cui all'art. 354 c.p.c., deciderà nell'osservanza delle forme di rito. Non sembra quindi condivisibile la possibilità di una legittimazione del soccombente a seguito del dispositivo letto in udienza ad impugnare nel merito. Se, invece, venisse proposto appello da colui che risulta soccombente dalla sentenza (ossia dal dispositivo motivato e depositato), potrebbe forse ipotizzarsi una revocazione ex n. 5 dell'art. 395 c.p.c.; ma la soluzione non pare possa condividersi per il fatto che quel dispositivo solo letto in udienza e mai motivato non può acquistare forza di giudicato e, quindi, non può determinare quel <<contrasto con precedente giudicato>> voluto dalla norma citata per ottenere la revocazione di una sentenza.
1.c-Ipotesi di inosservanza del termine di legge per il deposito della sentenza: l'esecutorietà del dispositivo.
Tra i problemi più gravi posti dalla disciplina delle controversie di lavoro vi è quello derivante dall'inosservanza del termine di quindici giorni riservato al giudice per depositare la sentenza motivata in cancelleria, data la sua natura ordinatoria.Anzitutto, sorge il problema concernente l'efficacia esecutiva del dispositivo di condanna in favore del lavoratore consentita dai primi due commi dell'art. 431, <<in pendenza del termine per il deposito della sentenza>>. Al di là dei dubbi di legittimità costituzionale sollevati dalla norma e sui quali la Corte costituzionale si è pronunciata ormai definitivamente [98] , è sempre vivo il problema del permanere dell'efficacia esecutiva del dispositivo anche dopo l'inutile decorso del termine per il deposito della motivazione.In giurisprudenza, le sezioni unite della Cassazione, con pronuncia 9 marzo 1979, n. 1464 hanno riconosciuto al dispositivo totale e definitiva efficacia di titolo esecutivo, per cui l'esecuzione può anche essere iniziata -oltre che, naturalmente, proseguita- dopo l'inutile decorso del termine [99] .Questa soluzione interpretativa può peraltro destare alcune perplessità.Mentre sembra incontestabile la possibilità che, iniziata l'esecuzione con il solo dispositivo, in pendenza del termine per il deposito della sentenza, questa possa, poi, essere proseguita anche dopo l'inutile decorso di detto termine, non pare altrettanto possibile che l'esecuzione possa allo stesso modo essere iniziata dopo l'inutile decorso del termine. Ciò in quanto la possibilità fornita dalla legge al lavoratore di iniziare l'esecuzione immediatamente dopo la lettura in udienza del dispositivo e sulla base di esso si fonda sul riconoscimento della sua necessità di realizzare presto il credito che gli è stato riconosciuto. E' chiaro, quindi, che, se gli atti esecutivi non siano stati iniziati immediatamente, non risulta ravvisabile urgenza.Una ragione ulteriore può intravedersi nel problema posto dall'omesso deposito della sentenza: come potrebbe concepirsi un titolo esecutivo consistente in un dispositivo che non sarà mai motivato? Le sezioni unite, al riguardo, hanno ritenuto che non è necessaria alcuna integrazione di tale titolo con la motivazione. Qualche perplessità, peraltro, sorge dal fatto che un tale provvedimento non è appellabile, tranne che per ottenere la sospensione dell'esecuzione ex art. 433, 2° comma.
3.-L'efficacia della sentenza.
Antecedentemente alla riforma del 1990, era opinione comune che la provvisoria esecutività prevista dall'art. 431 inerisse alle sole sentenze di condanna, in considerazione della tassatività della norma [100] . Si precisava, al riguardo, che essa copriva soltanto il comando giudiziale contenuto nel dispositivo, senza rendere vincolanti fra le parti, o comunque partecipi dell'efficacia esecutiva anticipata, pure i presupposti logico-giuridici enunciati nella motivazione [101] . L'esigenza di un'interpretazione rigorosa induceva pertanto ad ammettere che oggetto di tali sentenze potessero essere i soli crediti inerenti a un dare pecuniam, o tutt'al più anche i crediti implicanti una prestazione di consegna (ad esempio, in base all'art. 2099 terzo comma c.c., nelle ipotesi in cui la retribuzione consista pure in una partecipazione del lavoratore agli utili o ai prodotti, con provvigioni o con prestazioni in natura). Talora si è ampliato il discorso ai crediti implicanti qualunque prestazione di dare, ma si è escluso che la provvisoria esecuzione potesse inerire ope legis anche a condanne per obbligazioni di fare o di non fare. Si affermava poi comunemente, per quanto riguarda l'art. 447 c.p.c., che, malgrado il rinvio testuale all'art. 431 c.p.c., la provvisoria esecutorietà delle sentenze in materia previdenziale ed assistenziale obbligatoria potesse inerire a qualsiasi provvedimento decisorio che fosse pronunziato non già nei confronti del solo lavoratore -cui sono assimilabili, nella struttura del rapporto previdenziale o assistenziale, le figure dell'assicurato e dell'assistito- ma anche nei confronti di ogni altra parte (ivi compreso l'erogatore delle prestazioni previdenziali). La tesi più liberale ed estensiva era, peraltro, fortemente contrastata da chi scorge nel rinvio formale all'art. 431 un valido argomento per limitare la provvisoria esecutorietà alle sole sentenze di condanna.Anche a seguito della novella, alcuni autori hanno rimarcato che comunque oggi coesistono la generica dizione dell'art. 282 (<<sentenza di primo grado>>) e le locuzioni più specifiche (<<sentenze che pronunciano condanna>>, <<sentenze di condanna>>), riprese nell'art. 431, quinto comma e introdotte nell'art. 447bis, quarto comma; hanno quindi fatto leva sui seguenti elementi ermeneutici:-l'art. 283, nel riferirsi testualmente alla possibilità di sospendere, in tutto o in parte, l'efficacia esecutiva (ovvero l'esecuzione) della sentenza impugnata, presuppone in modo chiaro che sia proprio tale efficacia esecutiva (tipica delle pronunce di condanna) l'unico effetto decisorio, anticipato in via generale dall'art. 282 c.p.c.; - l'art. 431, primo e quinto comma, disciplinando l'esecutorietà delle decisioni di primo grado nel processo del lavoro, la limita espressamente alle <<sentenze che pronunciano condanna>> in favore del lavoratore o del datore di lavoro;-l'art. 447 bis, anziché affidare esclusivamente al rinvio analitico del primo comma l'identificazione delle norme applicabili alle controversie in materia di locazione, di comodato e di affitto, preferisce autonomamente statuire, nel quarto comma, che sono provvisoriamente esecutive le sentenze di condanna di primo grado;-l'arte.669 novies, secondo comma, prevede che, nel caso in cui sorgano contestazioni sul ricorso per la dichiarazione d'inefficacia del provvedimento cautelare, l'ufficio giudiziario al quale appartiene il giudice da cui è stato emesso il provvedimento decida sulla sua inefficacia con sentenza provvisoriamente esecutiva. La norma, si è rilevato, sarebbe del tutto inutile, se la regola enunciata dal nuovo art. 282 già bastasse per far ritenere che anche le sentenze dichiarative -tra le quali si colloca anche quella di specie- sono provvisoriamente esecutive ope legis;-gli artt. 373, primo comma e 431, commi terzo e sesto, a differenza di quanto è stabilito dall'art. 283 e dal quarto comma dell'art. 447-bis, si sancisce la possibilità di sospendere la sola esecuzione (evidentemente già promossa) e non anche l'efficacia esecutiva come tale della sentenza impugnata [102] .La dottrina in esame conclude dunque per la limitazione dell'esecutorietà delle sentenze alle sole pronunce suscettibili di esecuzione forzata, richiamando, sotto il profilo di diritto sostanziale, la disciplina prevista dagli artt. 2909 e 2908 c.c. rispettivamente per le pronunce dichiarative e costitutive.Non sono, peraltro mancate voci -anche autorevoli- che hanno ampliato la categoria delle pronunce immediatamente esecutive, includendovi talune pronunce di natura costitutiva. A seguito della riforma processuale del testo dell'art. 282, si è segnalato che occorre <<ripensare in modo totalmente nuovo il problema dell'efficacia (di accertamento, costitutiva e non solo esecutiva) della sentenza anticipata rispetto al momento del suo passaggio in giudicato, momento cui l'art. 2909 c.c. continua a ricollegare il prodursi del giudicato sostanziale" [103] . Si è sostenuto, analogamente, che, in base al nuovo testo dell'art. 282, la provvisoria esecutività debba estendersi anche alle sentenze costitutive, sul presupposto che "esecutorietà non equivalga a idoneità della sentenza a costituire titolo esecutivo>> [104] . Si è conseguenzialmente affermato che il legislatore sia giunto a svincolare completamente il concetto di provvisoria esecutività della sentenza da quello della sua idoneità a costituire titolo esecutivo [105] . In tal modo l'esecutorietà della sentenza di primo grado, sancita dall'art. 282, potrebbe qualificarsi semplicemente come "idoneità a produrre immediatamente e provvisoriamente i suoi effetti fra le parti". Quindi, la provvisoria esecuzione verrebbe riconosciuta a tutte le sentenze di primo grado.L'interpretazione proposta consente di individuare un ambito di operatività esclusivo dell'art. 431, che è quello delle sole sentenze di condanna per crediti derivanti da rapporti di lavoro suscettibili di esecuzione forzata, se dotate dei requisiti di certezza, liquidità ed esigibilità del credito richiesti dall'art. 474 c.p.c.. Rimarrebbe così un'area residuale di applicazione dell'art. 282 in materia di rapporti di lavoro, ben distinta da quella dell'art. 431, perché riferibile alle sentenze di accertamento e a quelle costitutive. Seguendo tale tesi, potrebbe ritenersi che l'art. 431, con l'aggiunta dei due commi, disciplini l'esecutorietà delle sentenze di condanna in materia di lavoro, mentre l'art. 282 regolamenti gli effetti altri tipi di sentenze. Si pensi, ad esempio, alla sentenza che accerti l'illegittimità del trasferimento del lavoratore che, se dotata di immediata -ancorché provvisoria- efficacia fra le parti, potrebbe determinare per tutta la durata di tale efficacia il legittimo rifiuto del dipendente di raggiungere la sede sgradita con contestuale offerta di rendere la prestazione presso la sede di lavoro individuata dal giudice e, soprattutto, senza il timore di conseguenze sfavorevoli sul piano disciplinare o della prosecuzione del rapporto, neppure nel caso di successiva riforma della sentenza di primo grado. Analogamente, l'accertamento del diritto del lavoratore alla qualifica superiore e la condanna del datore di lavoro al relativo inquadramento, se pronunciati con sentenza immediatamente esecutiva fra le parti, obbligherebbero il datore di lavoro ad attribuire al dipendente mansioni corrispondenti alla qualifica riconosciuta (oltre che a corrispondergli il relativo trattamento economico). L'inottemperanza del datore di lavoro costituirebbe violazione dell'art. 2103 c.c. comportando l'assegnazione di mansioni di categoria inferiore a quella acquisita -sia pure temporaneamente- attraverso la pronuncia di primo grado provvisoriamente esecutiva- e potrebbe legittimare il lavoratore a offrire la prestazione di quelle sole mansioni corrispondenti o equivalenti alla categoria superiore, rifiutando di svolgere quelle inferiori. Dunque, in materia di rapporti di lavoro, l'ordinamento prevede diversi livelli di tutela ricollegabili alla sentenza di primo grado di differente intensità:-una tutela rafforzata, riservata alle condanne per crediti in favore del lavoratore, caratterizzata: dalla facoltà di procedere all'esecuzione con la sola copia del dispositivo (art. 431 2 comma); dalla possibilità di sospensione della sola esecuzione -non dell'esecutività- della sentenza da parte del giudice di appello, unicamente quando dall'esecuzione possa derivare un gravissimo danno (art. cit., 3 comma); dall'impossibilità di sospensione per somme fino a 500.000 lire (art. cit., 4 comma);-una tutela per i crediti del datore di lavoro, di intensità pari a quella prevista dalla novella del 1990 per tutti gli altri crediti che possano formare oggetto di con­danna e di successiva esecuzione forzata (art. 431, 5° e 6 comma);-una tutela di grado più tenue, consistente nell'efficacia immediata fra le parti, di cui si è detto prima, riferita alle sentenze di mero accertamento o costitutive (art. 282). La previsione di una tutela differenziata per i crediti di lavoro è stata d'altronde dichiarata legittima dalla Corte Costituzionale perché fondata sulla particolare natura di tali crediti, destinati alla soddisfazione di esigenze primarie del lavoratore [106] 4.



[1] Vedi Cass. 26 maggio 1997, n. 4662; 29 novembre 1996, n. 10698; contra, Cass. 4 febbraio 1997, n. 1025, secondo cui il giudice deve tener conto non solo del contenuto della domanda introduttiva del giudizio e delle circostanze poste a fondamento di questa, ma anche delle eccezioni e delle deduzioni proposte dalla controparte.
[2] Da ultimo, vedi, in termini, Cass. 15 gennaio 1998, n. 308, secondo la quale rientra tra le controversie in questione quella instaurata dal lavoratore che chieda il risarcimento dei danni per comportamento ingiurioso del proprio datore di lavoro e del superiore gerarchico, deducendo come causa petendi la violazione dell'art. 2087 c.c., che impone all'imprenditore di tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro e l'abuso del potere disciplinare.
[3] Cass. 13 luglio 1993, n. 7694; 14 gennaio 1993, n. 397.
[4] Cass. 8 giugno 1994, n. 4482; 29 maggio 1996, n. 4956.
[5] Cass. 22 febbraio 1995, n. 2004; 17 ottobre 1992, n. 11381; 21 settembre 1991,  n. 9880.
[6] in questi termini, Cass. 16 ottobre 1985, n° 5090; pret. Milano 6 gennaio 1992, in Dir. e pratica lav. 1992, 1083; pret. Rho 2 luglio 1988, in L80 1988, 1003.
[7] pret. Catania 25 febbraio 1994, in Foro it. 1994, I, 1974; pret. Roma 28 dicembre 1988, in Riv. giur. lav. 1989, II, 335; pret. Firenze 7 gennaio 1988, in Riv. it. dir. lav. 1988, II, 614.
[8] In termini, anche Cass. 3 marzo 1998, n. 2315.
[9] Trib. Roma 3 giugno 1996, in Foro it. 1996, I, 3205, con nota di RORDORF.
[10] Cass. 19 agosto 1998, n. 8214.
[11] Cfr., tra le tante sentenze, Cass. 14 ottobre 1995, n. 5029: 24 luglio 1991,  n. 8310; 17 marzo 1990, n. 2228; 11 luglio 1983, n. 4677.
[12] Vedi Cass. 15 giugno 1997, n. 5312.
[13] Cass. 4 giugno 1998, n. 5477,  resa in una fattispecie concernente la domanda di accertamento di un rapporto di lavoro subordinato col datore di lavoro fallito.
[14] V., per tutte, Cass. 22 marzo 1984, n. 1901.
[15] Cfr. Cass. 9 giugno 1998, n. n. 5704; 29 maggio 1998, n. 5356; 21 maggio 1998, n. 5098.
[16] V. Cass. 29 novembre 1995, n. 12381; 18 aprile 1994, n. 3662.
[17] Cass. 12 gennaio 1998, n. 180.
[18] TARUFFO, voce Preclusioni (diritto processuale civile), in Enc. dir., aggiornamento, Milano, 1997, p. 794 ss. L'autore opportunamente distingue la preclusione dalla decadenza, chiarendo che la decadenza fa riferimento alla perdita del diritto non esercitato, mentre la preclusione si riferisce essenzialmente all'impossibilità di esercitare successivamente quel diritto, in conseguenza del fatto che esso non è più azionabile oltre un certo momento del processo. In ogni caso, la preclusione è la conseguenza dell'inattività di una parte che, avendo la possibilità di esercitare un diritto o una facoltà, ma potendolo fare solo entro certi limiti e con modalità previste dalla legge, non vi ha provveduto, venendosi a trovare nell'impossibilità di esercitare quel diritto o quella facoltà in tempi successivi o con modalità diverse: dunque, la preclusione discende da una decadenza.
[19] CERINO-CANOVA, Nullità del ricorso nelle controversie di lavoro, in Riv. dir. proc., 1981, I, 365.
[20] MONTESANO, Diritto sostanziale e processo..., in Riv. trim. proc. civ. 1993, 63 ss.
[21] cosi Cass. 2 ottobre 1998, n. 9810; 21 agosto 1998, n. 8315; 11 giugno 1988, n. 4018, in Foro it., Rep. 1988, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 127; 18 novembre 1987, n. 8456, id., Rep. 1987, voce cit., n. 125; 5 giugno 1986, n. 3777, id., voce cit., n. 165; 16 maggio 1986, n. 3239, ibid., n. 166; 5 marzo 1986, n. 1446, ibid., n. 167; 4 marzo 1986, n. 1366, in Informazione prev. 1986, 1196; 7 gennaio 1986, n. 49, in Foro it., Rep. 1986, voce cit., n. 170; 30 maggio 1986, n. 3683, ibid., n. 173; 29 gennaio 1985, n. 526, id., voce cit., n. 175; 29 novembre 1984, n. 6267, id., 1985, I, 1671.
[22] Da ultima, Cass. 7 aprile 1998, n. 3594; vedi pure Cass. 12 giugno 1987, n. 5185, id., Rep. 1987, voce cit., n. 129, secondo cui anche elementi di fatto possono essere dedotti con la c.t.u.; 2 febbraio 1985, n. 688, in Arch. civ. 1985, 1438, secondo cui, essendo indicato l'importo complessivo ma essendo omes­sa l'esposizione del conteggio conducente al totale, quest'ultimo è rico­struibile dal giudice tramite c.t.u..
[23] per Pret. Parma 9 aprile 1987, in Giust. civ. 1988, I, 1350, è valido il ricorso che, pur omettendo la quantificazione della pretesa, indichi i titoli su cui si fonda, rinviando a c.t.u. contabile da esperire in corso di causa la concreta determinazione; analogamente Pret. Eboli 22 gennaio 1979, in Giur. it. 1979, 1, 2, 412, in cui l'oggetto era solo qualitativamente determinato; per Trib. Torino 22 aprile 1983, in Lavoro '80 1983, 755, è valido il ricorso contenente l'indica­zione sommaria di crediti analiticamente specificati nel relativo fascico­lo, mentre per Pret. Roma 8 aprile 1981, Dir. 1av. 1982, 11, 50, l'omessa notificazione del conteg­gio richiamato nel ricorso, ma non trascritto in esso non comporta inde­terminatezza dell'oggetto.
[24] Pret. Foggia 4 gennaio 1988, in Dir. e pratica lav. 1988, 1523; Trib. Roma 9 maggio 1983, in Temi romana 1983, 360; Pret. Avezzano 3 ottobre 1980, in Rass. giur. Enel 1981, 506; Trib. Torino 1  ottobre 1980, in Foro it. 1981, I, 532; Pret. Milano, 18 febbraio 1981, in Lavoro '80 1981, 573; Pret. Torino 3 luglio 1979, in Notiziario giur. lav. l98l, 179; Trib. Torino 25 settembre 1980, in Notiziario giur. lav. 1986, 466; Pret. Eboli 8 febbraio 1979, in Giur. it. 1979, I, 2, 553; Pret. Milano 9 maggio 1977, in Foro it. 1977, I, 1558; Pret. Bologna l1 ottobre 1977, id., Rep. 1978, voce cit., n. 161.
[25] cosi Pret. Roma 28 luglio 1988, in Dir. e pratica lav. 1988, 3087; Pret. Torino 19 novembre 1985, in Orient. giur. 1av. 1986, 303; Pret. Roma 14 luglio 1980, in Notiziario giur. 1av. 1981, 204; Pret. Milano 22 gennaio 1981, in Lavoro '80 1981, 571; Pret. Ariano Irpino 26 maggio 1976, in Dir. lav. 1977, Il, 164.
[26] Pret. Avezzano 17 luglio 1981, in Arch. civ. 1982, 51; Pret. Napoli 21 ottobre 1978, in Giur. it. 1979, 1, 2, 218.
  [27] Pret. Roma 18 giugno 1982, in Temi romana 1983, 454; Pret. Potenza 30 giugno 1981, in Foro nap. 1981, I, 288; Pret. Milano 18 febbraio 1981, in Lavoro '80 1981, 573; Pret. Milano 22 marzo 1979, in Orient. giur. lav. 1979, 864; Pret. Napoli 31 marzo 1979, in Orient. giur. lav. 1979, 866. Secondo Pret. Capaccio 14 marzo 1984, in Lavoro e prev. oggi 1984, 1680, è nullo il ricorso che si riferisce a conteggi analitici che, benché siano stati depositati, tuttavia non siano stati notificati con il ricorso; anche per Pret. Bari 5 maggio 1980, in Notiziario giur. 1av. 1981, 254, il giudice non può rimediare all'ingiustificato difetto di allegazione di fatti rilevanti ai fini della decisione, mentre per Pret. Potenza 4 novembre 1980, in Giust. civ. 1981, I, 621, se la mancata esposizione degli elementi di fatto im­plica nullità, è tuttavia ammissibile una successiva integrazione del con­tenuto espositivo mediante esibizione di documenti.Infine, secondo Pret. Lucca 16 maggio 1986, in Giust. civ. 1986, I, 2589, la sintetica esposizione dei fatti e la richiesta di emissione di "ogni consequenziale pronunzia", rendono il petitum non individuabile attraverso un esame complessivo dell'atto, ma ne rimettono la determinazione al giudice: non è chiaro però perché il giudice respinga la domanda nel merito, anziché dichia­rare la nullità del ricorso.
[28] v. Pret. Parma 24 ottobre 1996, in Riv. it. dir. lav.          1997, II, 439 ss.
[29] Cass. 17 maggio 1997, n. 4422.
[30] MONTESANO-VACCARELLA, op. cit., 134.
[31] MONTESANO-VACCARELLA, loc. cit..
[32] SCHIAFFINO, Violazione dei termini a difesa nel processo del lavoro per tardiva notifica degli atti introduttivi del giudizio, in Riv. dir. proc. 1984, 351 ss.; Cass. 11 aprile 1996, n. 3373, in Foro it. 1996, I, 2411, che fa leva anche sul nuovo testo dell'art. 164 c.p.c., il quale ha distinto i vizi della vocatio in ius da quelli dell'editio actionis; 5 marzo 1993, n. 2711, id., Rep. 1993, voce cit., n. 224; 3 dicembre 1991, n. 12936, in Arch. civ. 1992, 149; 29 novembre 1991, n. 12814, in Foro it. 1992, I, 57; 17 giugno 1992, n. 7434, in Giur. it. 1992, I, 1, 2109. Analogamente si è pronunciata la Cassazione a proposito della violazione dei termini a difesa sanciti per l'appellato dall'art. 435, sostanzialmente applicando a qualsiasi vizio della notificazione del decreto o del decreto stesso la sanatoria della costituzione ovvero della rinnovazione della notificazione ex art. 291 c.p.c.: 14 novembre 1991, n. 12147, in Foro it. 1992, I, 58; 21 ottobre 1987 n. 7770, id., 1987, I, 3244; vedi pure BALDACCI, Incertezza delle conseguenze delle irregolarità nella fase introduttiva dell'appello nel rito del lavoro, in Foro it. 1994, I, 1389, in nota alle divergenti Cass. 12 febbraio 1994, n. 1399, Cass. 1 febbraio 1994, n. 989 e Cass. 13 gennaio 1994, n. 318.
[33] vedi però in senso contrario sul punto specifico PROTO PISANI, Controversie individuali di lavoro, Torino, 1993, 117, per il quale in caso di mancata notificazione del ricorso e del decreto, il giudice dell'udienza di discussione dovrà chiudere in rito il processo a causa della mancata attivazione del contraddittorio, a meno che l'appellato -costituitosi nonostante la mancata notificazione- non eccepisca l'invalidità>>.
[34] Cass. 24 giugno 1997, n. 5629; in termini, Cass. 15 gennaio 1990, n. 116, in Giust. civ. 1990, I, 2094.
[35] Cass. 6 marzo 1982, n. 1435, in Foro it., Rep. 1982, voce cit., n. 508 e 2 settembre 1982, n. 4786, ibid., n. 192.
[36] Cass. 22 marzo 1979, n. 1664, id., Rep. 1979, voce Prova civile in genere, n. 13; parzialmente contraria, ma isolata, è l'opinione di Cass. 9 ottobre 1980, n. 5402, che afferma l'onere della contestazione quando esso sia particolarmente agevole per la parte.
[37] Cass. 29 aprile 1982, n. 2710, id., Rep. 1982, voce cit., n. 11; 29 marzo 1979, n. 1812, id., Rep. 1979, voce Procedimento civile, n. 26.
[38] ANDRIOLI, Prova (diritto processuale civile), voce del Noviss. dig. it., XIV volume, p. 274.
[39] Da ultimo, CARRATTA, Il principio di non contestazione nel processo civile, Milano, 1995, 285 ss.; in giurisprudenza, tra le tante, Cass. 18 luglio 1987 n. 6339, id., I, 874.
[40] Sulla questione, si vedano le acute considerazioni di PROTO PISANI, In tema di prova nel processo del lavoro: temperamenti al principio di eventualità, id., 1981, I, 2402, il quale osserva che, se non si vuol ritenere l'attore onerato dell'indicazione nel ricorso dei mezzi di prova di tutti i fatti costitutivi del diritto dedotto in giudizio per l'eventualità che il convenuto li contesti, occorre consentirgli, nel caso di contestazione "tardiva", di integrare i mezzi di prova indicati, sia pure attraverso la via del potere officioso del giudice, sul quale infra. Si è al riguardo anche osservato che un processo imperniato sulla completezza degli atti iniziali di parte e, quindi, sulle preclusioni è, di necessità, tendenzialmente ispirato al principio di eventualità: quindi, non può in linea di principio non addossare all'attore l'onere di indicare i mezzi di prova necessari per dimostrare l'esistenza dei fatti costitutivi del diritto per l'ipotesi che tali fatti siano contestati dal convenuto. Il momento in cui la contestazione del convenuto avviene è, da questo punto di vista, irrilevante: se avviene nella memoria, l'omessa indicazione dell'attore non può essere "sanata" attraverso l'intervento officioso del giudice; se avviene successivamente, il giudice può utilizzare la circostanza dell'originaria non contestazione come comportamento ex art. 116, 2° comma, c.p.c.) per valutare l'esistenza del fatto costitutivo divenuto controverso; nemmeno in tal caso sembra immaginabile che il giudice possa integrare le indicazioni insufficienti del ricorso.
[41] Cass. 11 febbraio 1995, n.1509, in Riv. crit. dir. lav. 1995, 1099.
[42] per il carattere di mera argomentazione difensiva, Cass. 11 dicembre 1987, n. 9207, con nota di ORSENIGO, in Foro it. 1988, I, 2998, ove è riportato lo stato della dottrina e della giurisprudenza, orientata pure in senso contrario.
[43] per la mera difesa, Cass. sez. un. 4 marzo 1988, n. 2249, id., 1989, I, 840; per la natura di eccezione in senso stretto, Cass. 7 aprile 1981, n. 1957, id., Rep. 1981, voce Lavoro (rapporto), n. 1869.
[44] FABBRINI, Diritto processuale del lavoro, Milano, 1974, 76 ss. L'autore distingue tra allegazione di fatti nuovi  e nuova rilevazione dell'efficacia sostanziale di fatti già acquisiti; preclusa la prima dopo la scadenza per il deposito della memoria difensiva e quindi priva di rilevanza nell'ulteriore corso del giudizio; legittima a seconda, se si tratti di fatti rilevabili ex officio, anche se formulata in un momento successivo alla scadenza del termine di cui all'art. 416. Va, peraltro, osservato che, pur risultando teoricamente esatto distinguere tra proposizione dell'eccezione ed allegazione dei fatti costitutivi, impeditivi, modificativi, non appare legittimo affermare una dissociazione temporale tra i due momenti, in quanto nella quasi totalità dei casi l'allegazione comporta altresì la proposizione dell'eccezione; in termini, vedi anche Cass. 13 ottobre 1998, n. 10121, secondo cui la parte, oltre il limite temporale segnato dal tempestivo deposito della memoria di cui all'art. 416 c.p.c., non può allegare fatti nuovi.
[45] ORIANI, L'eccezione di merito nei provvedimenti urgenti per il processo civile, id., 1991, V, 5.
[46] ORIANI, La disciplina delle eccezioni nel processo civile, relazione tenuta nel corso dell'incontro di studio organnizzato dal CSM a Tivoli dal 28 novembre al 2 dicembre 1994.
[47] conforme a tale tesi, Cass. 1862/1996, id., 1996, I, 2451; contrarie, nel senso della configurabilità come eccezione in senso stretto, Cass. 8 giugno 1995, id., Rep. 1995, voce cit., n. 560 e 5769/94, non massimata.
[48] conformi, 1154/1997 e 12 maggio 1989, n. 2618, id., Rep. 1989, voce Termini processuali civili, n. 12.
[49] Cass. 12 giugno 1981, n. 3837, in Giust. civ. 1981, I, 2567; 20 maggio 1983, n. 3499, in Foro it., Rep. 1983, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 246; 19 marzo 1985, n. 2027, id., voce cit., n. 225. 
[50] Cass. 9 luglio 1982, n. 4091, id., Rep. 1982, voce cit., n. 199 e 4 dicembre 1987, n. 9021, id., Rep. 1987, voce cit., n. 175.
[51] Cass. 12 agosto 1993, n. 8652, in Giur. it. 1994, I, 1, 1033.
[52] Cass. 22 febbraio 1980 n. 1283, in Giur. it. 1981, I, 1, 812; 6 dicembre 1983 n. 721, non massimata; Pret. Torino 2 novembre 1983, in Foro it. 1985, I, 1252; Cass. 19 novembre 1984 n. 5910, in Giust. civ. 1985, I, 2828; 6 novembre 1986 n. 6536, in Foro it., Rep. 1986, voce cit., n. 56.
[53] Cass. 19 marzo 1985 n 1027, in Notiz. giur. lav. 1985, 572; contra, Cass. 21 novembre  1984, n. 5981, in Giust. civ. 1985, I, 2822.
[54] per un ampio riesame condotto con riferimento alla con­nessione qualificata da interdipendenza o da pregiudizialità-dipendenza, v. TARZIA, saggio su Connessione di cause e processo simultaneo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1988, p. 397 55., nel quale viene esclusa una prevalenza del rito speciale sull'or­dinario e la preclusione della possibilità di proporre domande di accertamento incidentale si proponeva, in alternativa alla rigo­rosa soluzione della sospensione ex art. 295 c.p.c., o la tesi "ad alto rischio", per cui la proroga legale della competenza compor­tava anche quella del rito quando per la causa originaria fosse prevista una competenza per materia, ovvero la tesi per cui la causa attratta per competenza sarebbe assoggettata al rito previ­sto per l'altra causa, anche se ordinario.
[55] in Foro it. 1997, I, 1506; conformi, successivamente, Cass. 2 giugno 1998, n. 5413; 6 aprile 1998, n. 3530.
[56] nel quale si inseriscono Cass. 21 gennaio 1993, n. 728, in Foro it., Rep. 1993, voce cit., n. 129; 3 luglio 1992, n. 8124, id., 1994, I, 1177; 11 agosto 1981, n. 4896, id., 1982, I, 448; 28 marzo 1983, n. 2192, id., Rep. 1983, voce cit., n. 222; 30 gennaio 1984, n. 721, in Riv.it.dir.lav. 1984, II, 822; 5 settembre 1985, in Foro it., Rep. 1985, voce cit., n. 193; n. 3093 del 1988, non massimata; v. anche Pret. Roma 18 agosto 1992, Dir. e pratica lav., 1992, 2947.
[57] Cass. n. 4797 del 1978; 4 marzo 1986, n. 1366, in Informazione prev. 1986, 1196; 11 marzo 1987, n. 2521, in Foro it. Rep. 1987, voce cit., n. 148; 4 aprile 1987, n. 3282, ibid., n. 149; 9 novembre 1989, n. 4716, in Dir. giur. 1990, 545.
[58] Cass. 26 novembre 1998, n. 12021.
[59] vedi, in tal senso, Cass. 7 giugno 1995, n. 6368, id., Rep. 1995, voce cit., n. 162; 29 aprile 1994, n. 4161, id., Rep. 1994, voce cit., n. 168; 27 ottobre 1990, n. 10385, id., Rep. 1990, voce cit., n. 195; 7 gennaio 1988, n. 3, id., Rep. 1988, voce cit., n. 157; 13 aprile 1987, n. 3681, in Giust. civ. 1988, I, 229; 11 febbraio 1987, n. 1498, in Notiz. giur. lav. 1987, 330; 12 marzo 1986, n. 1668, in Foro it., Rep. 1986, voce cit., n. 268; 14 febbraio 1984, n. 1133, id., Rep. 1984, voce cit., n. 219; 12 aprile 1983, n. 2586, in Giust. civ. 1984, I, 3406 .
[60] da ultimo, Cass. 29 aprile 1994, n. 4161, cit.; 27 ottobre 1990, n. 10385, cit.
[61] Cass. 16 dicembre 1988, n. 6967, non massimata.
[62] Cass. 7 maggio 1993, n. 5265, in Arch. locazioni 1993, 738.
[63] Cass. 16 gennaio 1987, n. 348, in Foro it., Rep. 1987, voce cit., n. 198; 18 ottobre 1985, n. 5125, id., Rep. 1985, voce cit., n. 196; 9 febbraio 1985, n. 1077, ibid., n. 115.
[64] VOCINO-VERDE, Appunti sul processo del lavoro, Napoli, 1986, 87.
[65] TARZIA, Manuale del processo del lavoro, Milano, 1987, p. 105.
[66] Cass. 30 maggio 1989, n. 2588, in Notiz. giur. lav. 1989, 761; 9 aprile 1990, n. 2941, id., Rep. 1990, voce procedimento davanti al pretore, n. 7.
[67] 8 novembre 1991, n. 11915, in Riv. crit. dir. lav. 1992, 737, con nota di ZECCA.
[68] Cass. 15 gennaio 1998, n. 310.
[69] FABBRINI, Diritto processuale del lavoro, Milano, 1974, 149 e 153.
[70] PROTO PISANI, Le controversie..., cit., p. 663.
[71] Cass. 26 febbraio 1983, n. 1489, in Foro it., Rep. 1983, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 261; 11 agosto 1981, n. 1478, non massimata; 4 aprile 1980, n. 2231, id., Rep. 1980, voce cit., 195.
[72] Cass. 23 giugno 1978, n. 3134; contra, Cass. 13 ottobre 1984, n. 5123, id., 195, I, 2066.
[73] Cass. 15 gennaio 1998, n. 310; 9 giugno 1994, n. 5590, in Giur. it., 1995, I, 1, 1576.
[74] In una breve rassegna, si ricordi l'ordine all'integrazione delle lacune istruttorie del ricorso dato col decreto di fissazione dell'udienza, oppure l'ordine giudiziale di esibizione di documenti, o l'ordine dato all'attore di formulare la prova contraria una volta nota la memoria avversaria, con atto integrativo da notificare al convenuto; infine, la nomina di un consulente tecnico in una lite previdenziale
[75] v., di recente, Cass. 28 dicembre 1996, n. 11540, non massimata.
[76] Cass. 17 ottobre 1978, n. 4658.
[77] Cass. 10 aprile 1981, n. 2095, in Riv. giur. lav. 1981, II, 593; 8 giugno 1981, n. 3698, in Foro it., Rep. 1981, voce cit., n. 232.
[78] Cass. 16 giugno 1995, n. 6828, id., Rep. 1995, voce cit., n. 171.
[79] Sui provvedimenti di carattere anticipatorio, in generale, PROTO PISANI, I provvedimenti anticipatori di condanna, in Foro it 1990, V, cc. 394-405; TARZIA, I provvedimenti urgenti sul processo civile approvati dal Senato, in Riv. dir. proc. 1990, 737-752.
[80] Sull'ordinanza al pagamento di somme non contestate nel processo del lavoro, intesa come misura anticipatoria MONTESANO-VACCARELLA, cit., p. 182.
[81] Va comunque sottolineato che un decreto fondato su uno di questi elementi di prova incompleta non sarà provvisoriamente esecutivo, e perciò non potrà che essere di scarsa utilità in presenza di una controversia già in atto.
[82] COSTANTINO, La lunga agonia del processo civile (note sul D.L. 21 giugno 1995 n. 238), in Foro it. 1995, V, 328 ss.; difforme, pret. Massa 28 agosto 1995, in Riv. crit. dir. lav. 1995, 1093 ss..
[83] Cass. 4 ottobre 1984, n. 4941, in Giust. civ. 1985, I, 1426.
[84] FEDERICO-FOGLIA, La disciplina del nuovo processo del lavoro, Milano, 1973, pp. 138, 139.
[85] FABBRINI, Diritto processuale del lavoro, Milano, 1975, 192; ANDRIOLI-BARONE-PEZZANO-PROTO PISANI, Le controversie in materia di lavoro, Bologna, 1987, 765.
[86] CAMPESE, L'ordinanza provvisionale di cui all'art. 423, 2° comma, c.p.c., in Riv. dir. proc. 1988, 1090.
[87] CREMONINI-FRANCHI, nota adesiva a pret. Parma 11 ottobre 1990, in Riv. it. dir. lav. 1990, 1, 897.
[88] MONTESANO-VACCARELLA, cit., 233; contra, pret. Milano, 9 agosto 1979, in Orient. giur. lav. 1980, 520.
[89] MONTESANO-VACCARELLA, op. cit., 234.
[90] sembrerebbe orientata in questo senso Cass. 28 giugno 1997, n. 5818, nota solo in massima; v. anche Cass. 4 novembre 1995, n. 11517, id., 1996, I, 1329; 12 giugno 1995, n. 6613, id., Rep. 1995, voce cit., n. 276; 14 luglio 1992, n. 8507, id., Rep. 1992, voce cit., n. 103; 4 ottobre 1991, n. 10354, in Giur. it. 1993, I, 1, 672; 27 aprile 1990, n. 3532, Foro it., Rep. 1990, voce cit., n. 321.
[91] Cass. 23 febbraio 1983, n. 1358, id., Rep. 1983, voce cit., n. 317; 18 dicembre 1983, n. 1265, ibid., n. 318; 14 luglio 1983, n. 4844, in Arch. locazioni 1983, 685; 13 dicembre 1982, n. 6834, in Rassegna equo canone 1983, 80.
[92] Cass. 17 ottobre 1983, n. 6073, in Foro it., Rep. 1983, voce cit., n. 282.
[93] Cass. 18 febbraio 1986, n. 979, id., Rep. 1986, voce cit., n. 282.
[94] v. da ultima, Cass. 9 agosto 1997, n. 7380.
[95] v., in particolare, la nota di PROTO PISANI a Cass. 6 novembre 1980, n. 5964, id., 1981, I, 737.
[96] BASILICO, Il rapporto tra dispositivo e motivazione della sentenza emessa secondo il rito del lavoro, Giust. civ., 1985, II, 129.
[97] Cass. 12 aprile 1980, n. 2359, id., Rep. 1980, voce cit., n. 327.
[98] sentenze nn. 16 e 17 del 1977 e n. 76 del 1981, in Lavoro '80 1981, 627; ordinanze nn. 43, 63 e 64 del 1978.
[99] aderisce a tale orientamento, di recente, la già citata Cass. 4 novembre 1995, n. 11517.
[100] cfr. Cass. 21 giugno 1985, n. 3738, con nota di CARRATTA, Esecuzione spontanea di condanna esecutiva a fare infungibile, <<riserva di revoca>> e riforma della sentenza, in Foro it. 1986, I, 1014-1024.
[101] cfr. da ultimo, per tale principio, Cass. 8 agosto 1997, n. 7380.
[102] COMOGLIO, L'esecuzione provvisoria della sentenza di primo grado, ne Le riforme della giustizia civile. Commento alla l. n. 353 del 1990 e alla l. n. 374 del 1991, a cura di M. Taruffo, Torino, 1993, 363-364, testo e note.
[103] PROTO PISANI, La nuova disciplina del processo di primo grado e di appello, in Foro it., 1991, V, 306.
[104] TARZIA, relazione all'incontro di studio organizzato dal CSM a Frascati dal 23 al 27 febbraio 1993.
[105] VITIELLO, Efficacia della sentenza di primo grado nel processo del lavoro alla luce della riforma del processo civile, in Riv. crit. dir. lav., 1996, 341 ss.
[106] Corte cost. 26 maggio 1981, n. 76.

 Autore: Dott.ssa Angela Perrino - tratto dal sito: www.di-elle.it