LA RIFORMA DEL DIRITTO SOCIETARIO:

IL PROCEDIMENTO SOMMARIO DI COGNIZIONE

(Relazione del Dott. Michele Cataldi tenuta in occasione di un incontro di studi, sulla riforma del diritto societario, organizzato dal C.S.M. - trato dal sito: www.judicium.it)

 

1. LA DELEGA DEL PARLAMENTO AL GOVERNO ED IL  D.L.VO. N. 5 DEL 17.1.03

 

L'art. 12 della legge 3 ottobre 2001 n. 366,nell'ambito della delega al Governo della potestà normativa in materia di riforma del diritto societario, attribuiva all'esecutivo la facoltà di emanare norme, in materia di procedura civile, che, senza modifiche della competenza per territorio e per materia, fossero dirette ad assicurare una più rapida ed efficace definizione di procedimenti nelle seguenti materie:

 

a) diritto societario, comprese le controversie relative al trasferimento delle partecipazioni sociali ed ai patti parasociali;

b) materie disciplinate dal testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e successive modificazioni, e dal testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, e successive modificazioni.

 

Lo stesso art. 12, nel secondo comma, elencando i principi ed i contenuti cui la nuova disciplina processuale avrebbe dovuto ispirarsi, prevedeva al capo d) " un giudizio sommario non cautelare, improntato a particolare celerità, ma con il rispetto del principio del contraddittorio, che conduca alla emanazione di un provvedimento esecutivo anche se privo di efficacia di giudicato ".

Nel decreto legislativo delegato, intitolato "Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell'articolo 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366 .", approvato dal Consiglio dei Ministri nella seduta del 10 gennaio 2003 ( dopo aver raccolto, ai sensi della legge di delega, il parere del Parlamento sull'originario schema del medesimo provvedimento normativo, deliberato dal Consiglio dei Ministri il 30 settembre 2002 ), emanato il 17.1.2003 e pubblicato nella G.U. n. 17 del 22.1.2003, il procedimento sommario è disciplinato, come segue, al capo III, art. 19, intitolato " Ambito di applicazione. Procedimento ":

 

1. Fatta eccezione per le azioni di responsabilità da chiunque proposte, le controversie di cui all'articolo 1 che abbiano ad oggetto il pagamento di una somma di danaro, anche se non liquida, ovvero la consegna di cosa mobile determinata, possono essere proposte, in alternativa alle forme di cui agli articoli 2 e seguenti, con ricorso da depositarsi nella cancelleria del tribunale competente, in composizione monocratica.

 

2. Disposta la comparizione delle parti e assegnato il termine per la costituzione del convenuto, che deve avvenire non oltre 10 giorni prima dell'udienza, il giudice designato, ove ritenga sussistenti i fatti costitutivi della domanda e manifestamente infondata la contestazione del convenuto, pronuncia ordinanza immediatamente esecutiva di condanna e dispone sulle spese ai sensi degli articoli 91 e seguenti del codice di procedura civile. L'ordinanza costituisce titolo per l'iscrizione di ipoteca giudiziale.

 

3. Il giudice, se ritiene che l'oggetto della causa e le  difese svolte dal convenuto richiedano una cognizione non  sommaria, assegna all'attore i termini di cui all'articolo 6.

         

4. Avverso l'ordinanza di condanna può essere proposta esclusivamente impugnazione davanti alla Corte di appello nelle forme di cui all'articolo 20.

 

5. All'ordinanza non impugnata non conseguono gli effetti di cui all'articolo 2909 del codice civile.

 

 

2. LA NATURA DEL PROCEDIMENTO: LA COGNIZIONE SOMMARIA NON CAUTELARE E LA PREVALENTE FUNZIONE ESECUTIVA. LA CONDANNA CON RISERVA DELLE ECCEZIONI.

 

L'istituto, di nuova creazione, si colloca nel genus della cognizione sommaria, che raccoglie strumenti di tutela giurisdizionale assai eterogenei nelle forme e nei contenuti ( quali il rito cautelare, l'ingiunzione o la convalida di sfratto ), genericamente accomunati dalla circostanza che l'accertamento operato dal Giudice è, rispetto alla cognizione ordinaria, meno completo e più superficiale, a volte per la limitazione dei mezzi istruttori utilizzabili; a volte addirittura per l'iniziale assenza di contraddittorio ; sempre per la non necessità della certezza del diritto oggetto della tutela, essendone sufficiente la mera probabilità, se non la verosimiglianza, spesso verificata utilizzando strumenti istruttori che non avrebbero necessariamente piena efficacia probatoria nel giudizio ordinario.

All'interno della cognizione sommaria, il procedimento in questione appartiene poi alla specie della cognizione non cautelare, sia perché  difetta del presupposto necessario del   periculum in mora, o comunque dell'urgenza, dimostrata in ogni singola fattispecie dalla parte istante, di ottenere tutela in tempi più rapidi del giudizio ordinario; sia perché non è strumentale ad un successivo giudizio di merito ( come continua ad essere il procedimento cautelare disciplinato nei successivi artt. 23 e 24 dello stesso decreto, pur essendo dotato di una sua autonoma stabilità di effetti ).

Tuttavia l'opportunità di fornire, ai diritti che si possono azionare con lo strumento introdotto dall'art. 19, ed in considerazione della peculiarità delle fattispecie cui questo è applicabile, una tutela efficace in tempi più brevi di quelli necessari agendo in via ordinaria, ha costituito la ratio fondante dell'istituto, tanto che il secondo comma della norma prevede l'esecutività ex lege dell'ordinanza di condanna e l'idoneità di tale titolo all'iscrizione dell'ipoteca giudiziale, per cui parrebbe adeguata al procedimento di cui all'art. 19 la definizione, già coniata per il rito monitorio, di cognizione con prevalente funzione esecutiva, posto che l'esecutività è una costante ( e non solo un'eventualità, come accade per l'ingiunzione ) del provvedimento che accoglie la domanda.

O forse, considerando che, a differenza dell'ingiunzione, l'ordinanza di cui all'art. 19 non è mai idonea ad acquisire quell'irrevocabilità che può soddisfare l'interesse dell'istante all'accertamento, la funzione esecutiva del procedimento sommario in materia societario non è tanto prevalente, quanto piuttosto esclusiva.

La qualificazione dell'istituto processuale in commento come procedimento a cognizione sommaria non cautelare comporta necessariamente il confronto con il rito monitorio disciplinato dagli artt. 633 ss. C.p.c., che costituisce il modello di giudizio sommario e non cautelare di riferimento nel nostro ordinamento, e nel prosieguo dell'esposizione si evidenzieranno le somiglianze ( ad esempio la limitazione ai crediti, ed anzi ad alcune specie di essi, dei diritti tutelabili ) e le differenze ( come la sussistenza del contraddittorio sin dall'inizio del procedimento o l'inidoneità dell'ordinanza decisoria ad acquisire l'efficacia di giudicato ) tra i due strumenti processuali, ponendo anche il problema della loro eventuale coesistenza, o alternatività, nella tutela dell'identico diritto.

Deve tuttavia rilevarsi che per quanto il rito monitorio sia stato ben presente al legislatore nella costruzione del nuovo istituto ( si veda oltre, infatti, a proposito dei pareri del Parlamento, e della relazione governativa allo schema del decreto, in ordine all'opportunità di sostituire all'appello avverso l'ordinanza esecutiva un giudizio di cognizione piena di primo grado analogo all'opposizione di cui all'art. 645 c.p.c. ), il procedimento di cui all'art. 19 costituisce  una diretta filiazione dell'istituto del réferé francese, come si legge esplicitamente nella relazione che accompagna lo schema di legge governativo:  "  In questa parte il modello di riferimento   rimane riconoscibile, nonostante le molte varianti (a cominciare  dalla dispensabilità dell'urgenza tra le condizioni dell'azione), nell'istituto del référé disciplinato dall'art. 808 del codice di rito vigente in Francia e la cui importazione è da sempre salutata con favore dalla dottrina, pressoché unanime, del processo civile.".

Infine, per rimanere a modelli processuali già noti al nostro ordinamento, l'ordinanza di cui all'art. 19 è stata anche ricondotta al genus della condanna con riserva di   eccezioni, ritenendo che la manifesta infondatezza della contestazione del resistente vada interpretata nel senso di eccezioni non fondate su prova scritta o di lunga indagine, analogamente a quanto accade nell'art. 648 c.p.c. in materia di concessione della provvisoria esecutività del decreto[1]

3. CONDIZIONI DI AMMISSIBILITA': MATERIA DELLE CONTROVERSIE, SPECIE DELLA DOMANDA, NATURA ED OGGETTO DEL DIRITTO.

 

Le condizioni di ammissibilità della tutela offerta dall'art. 19 sono definite dal legislatore con tre successivi gradi di specificazione, il primo dei quali è rappresentato da una delimitazione di materia: possono proporsi con il rito sommario tutte le controversie descritte nell'art. 1 dello stesso d. l.vo, ovvero tutte quelle liti alle quali è applicabile il c.d. nuovo rito societario disciplinato dal legislatore delegato, con la sola eccezione delle "azioni di responsabilità, da chiunque proposte", come da incipit del primo comma dell'art. 19.

Deve ritenersi che il termine "azioni di responsabilità" sia stato utilizzato dal legislatore non nella sua portata generica ( ché il credito presuppone sempre l'accertamento di una responsabilità, quanto meno per non averlo adempiuto prima del giudizio ), ma in quella tecnica propria della materia societaria, e quindi con riferimento alle azioni di cui agli artt.  2392-2396 e 2407 c.c.( sia nella formulazione attualmente vigente che in quella novellata dal d.lgs.vo n. 6 del 17.1.2003, di riforma della materia societaria sostanziale), siano esse proposte dalla società, dai soci, dai creditori sociali, dagli organi di procedure concorsuali o, individualmente, dal singolo socio o dal terzo[2].

La ragione di tale eccezione, per quanto non specificata nei lavori preparatori, pare doversi cogliere non tanto nella natura del diritto di credito che i soggetti legittimati potrebbero azionare in tali fattispecie sostanziali ( si tratterebbe infatti di un diritto al risarcimento del danno, di natura contrattuale o extracontrattuale, sorto ed esigibile al momento stesso dell'illecito, che non richiederebbe quindi pronuncia costitutiva da parte del Giudice, e  la cui naturale illiquidità sarebbe conciliabile con il co. 1 dell'art. 19 ), né nella ( costituzionalmente illegittima ex art. 3 cost.) opportunità di porre al riparo da un più rapido giudizio di condanna i titolari degli organi delle società, quanto piuttosto nell'oggettiva complessità di tali specie di controversie, che il legislatore - con una valutazione che sottrae al Giudice la verifica dell'adeguatezza del rito richiesta dal terzo comma dell'art. 19 - ritiene, iuris et de iure, richiededere una cognizione non sommaria, ma piena.

All'interno delle controversie di cui all'art. 1, con la predetta eccezione, l'azione esercitabile ai sensi dell'art. 19 è soltanto quella di condanna, presupponendo l'istituto, alla pari del rito monitorio, l'esistenza del diritto di credito, e quindi non essendo ammissibile la proposizione di azioni costitutive( si pensi all'annulamento delle deliberazioni assembleari di cui all'art. 2377 c.c. ); o di azioni di mero accertamento, come quelle di accertamento della nullità della società ( art. 2332 c.c.) o delle delibere assembleari ( art. 2379 c.c. ); o, infine, di azioni risarcitorie che scaturiscono dall'annulamento di atti societari ( v. ad es. l'art. 2377 co. 3 c.c. ).

Infine, sempre all'interno della materia delineata dagli artt. 1 e 19, non tutti i diritti possono essere tutelati con il rito sommario non cautelare, ma solo quelli di credito, e tra questi, soltanto quelli che abbiano ad oggetto una somma di denaro, anche se non liquida, o la consegna di una cosa mobile determinata ( resta quindi esclusa, rispetto all'art. 633 c.p.c., la  consegna di una determinata quantità di cose fungibili )[3].

Rispetto alla consegna di un bene mobile, l'identità del testo dell'art. 19 con quello dell'art. 633 c.p.c. consente di richiamare l'interpretazione elaborata a proposito di quest'ultimo, osservando che il termine consegna ( che pure è preceduto dalla generica espressione "diritto") non estende l'ammissibilità del procedimento alle azioni di rivendica o comunque restitutorie, conseguenti alla violazione di diritti reali, poiché altrimenti sarebbe stato corretto il termine "restituzione"[4].

Quanto al credito pecuniario, la previsione, a differenza del rito monitorio, dell'ammissibilità di azionare un credito di denaro, anche se non liquido, consente di comprendere tra i diritti relativi tutelabili sia quelli che hanno per oggetto l'adempimento di obbligazioni di valuta, sia quelli che hanno per oggetto obbligazioni di valore, che proprio nel corso del giudizio possono essere convertite in un credito liquido.

In tema di ingiunzione, benché il legislatore non lo dica espressamente, si ritiene che il credito debba essere necessariamente esigibile, argomentando anche dalla necessità del ricorrente di provare la propria controprestazione o l'avverarsi della condizione( art. 633, co. 2 c.p.c. ) e, a contrario, dall'art. 664 c.p.c., che prevede, eccezionalmente, l'ingiunzione anche dei canoni da scadere fino all'esecuzione dello sfratto.

Nel procedimento di cui all'art. 19, nonostante il silenzio del legislatore, deve ritenersi che l'esigibilità, sopravvenuta quanto meno al momento della pronuncia della condanna, sia un requisito necessario, come accade per tutte le azioni di condanna, dovendo essere espressamente prevista dal legislatore l'ammissibilità di una condanna in futuro.

Tuttavia, come accade per il procedimento ingiunzionale, deve ritenersi che lo stesso ricorso ex art. 19 possa contenere le domande del creditore finalizzate proprio a rendere esigibile il credito, e quindi l'accertamento dell'avveramento della condizione o dell'imputabilità al debitore del mancato avveramento, con la conseguente finzione legale di avveramento ai sensi dell'art. 1359 c.c.; ovvero l'accertamento della decadenza del debitore dal termine di adempimento fissato, o presunto, a suo favore; o ancora, la fissazione giudiziale del termine di adempimento, a norma degli artt. 1183 co. 1 secondo periodo e comma 2 ( relativamente all'obbligazione in genere ) e 1817 ( in tema di mutuo ) c.c..

 

 

4. IL PROCEDIMENTO: LA COMPETENZA, IL RICORSO, L'INSTAURAZIONE DEL CONTRADDITTORIO, LA COSTITUZIONE DEL RESISTENTE, LA CONTUMACIA, LA DOMANDA RICONVENZIONALE E L'ISTRUTTORIA.

 

Il creditore che, in alternativa all'introduzione del giudizio a cognizione piena, voglia introdurre il procedimento sommario, deve depositare, presso la cancelleria del Tribunale competente, in composizione monocratico, un ricorso.

Poiché la legge delega non abilitava il Governo a modificare la competenza per materia o territorio, l'art. 19 presuppone tacitamente che la competenza del Giudice sia individuata per relationem con quella dell'ufficio giudiziario competente per il giudizio ordinario, con l'unica variante, in tema di costituzione del Giudice, della composizione monocratica, anche quando, ai sensi del co. 3 dell'art. 1, il Tribunale, nel rito a cognizione piena, giudicherebbe in composizione collegiale:  

 

Salvo che nelle controversie di cui al comma 1, lettera e),  il Tribunale giudica in composizione collegiale.

Nelle azioni   promosse da associazioni rappresentative dei consumatori e  dalle camere di commercio il Tribunale giudica in composizione  collegiale anche se relative alle materie di cui al comma 1,  lettera e) .

 

La forma dell'atto introduttivo è descritta dal legislatore genericamente con il termine ricorso, per il contenuto del quale occorre quindi riferirsi allo schema generale dettato dall'art. 125 co. 1 c.p.c. .

Benché l'art. 19 non richiami espressamente l'art. 2 dello stesso d.lgs.vo., relativo al contenuto dell'atto di citazione del rito ordinario, deve ritenersi che anche al giudizio sommario sia applicabile il co. 2 di quest'ultima disposizione ( che trova corrispondenza nel co. 2 dell'art. 4, relativo alla comparsa di risposta ), laddove impone all'attore di indicare il numero di fax o l'indirizzo di posta elettronica presso cui il difensore dichiara di voler ricevere le comunicazioni e le notificazioni nel corso del procedimento.

La norma, infatti, pare trascendere il mero contenuto della citazione, disciplinando piuttosto, in generale, una forma di comunicazione e di notificazione utilizzabile in tutto il corso del procedimento e caratterizzata da una maggior semplicità e celerità, caratteristiche che sembrano ancor più necessarie nel rito sommario - che ha senso solo se perviene rapidamente ad una decisione - di quanto non lo sia in quello ordinario.

Una diretta conferma dell'espansione dell'onere di indicare il recapito del fax e della posta elettronica anche negli atti introduttivi dei riti alternativi a quello ordinario è poi fornita direttamente dall'art. 17 del d.lgs.vo, che nel primo comma prevede che tutte le notificazioni e le comunicazioni alle parti costituite possono essere fatte, oltre che a norma degli art. 136 e ss. c.p.c., anche con la trasmissione dell'atto a mezzo fax, o tramite posta elettronica, o con scambio diretto tra difensori, attestato da sottoscrizione per ricevuta sull'originale, apposta anche da collaboratore o addetto allo studio.

Il secondo comma dello stesso articolo, infatti, estende tali modalità di comunicazione e notificazione a " tutti i procedimenti previsti dal presente decreto ", richiamando infine la normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione e la trasmissione dei documenti informatici e teletrasmessi.

Peraltro, poiché il legislatore non ha previsto che la mancata indicazione del numero di fax o dell'indirizzo di posta elettronica sia sanzionata in alcun modo, e poiché la comunicazione e la notificazione telematiche sono disciplinate quale libera alternativa alle forme ordinarie degli stessi atti, deve ritenersi che l'eventuale carenza, sul punto, degli atti introduttivi non produca conseguenze negative a carico della parte che non abbia adempiuto il relativo onere.

In calce al ricorso, il Giudice fissa la comparizione delle parti e, benché la norma non lo dica espressamente, assegna al ricorrente un termine per notificare l'atto introduttivo, ed il pedissequo decreto, alla controparte.

Con lo stesso provvedimento, il Giudice assegna al resistente il termine entro il quale costituirsi, che comunque può scadere, al più tardi, dieci giorni prima dell'udienza: dovrebbe quindi automaticamente ridursi a tale scadenza il termine eventualmente più lungo concesso erroneamente dal Giudice al debitore.

La norma non prevede un termine minimo di comparizione che decorra tra notifica ed udienza, tuttavia si è sostenuto che, per la gravità dei provvedimenti che possono concludere il procedimento sommario[5], dovrebbe essere concesso il termine minimo, di sessanta giorni, per la notifica della comparsa di risposta, previsto dall'art. 2  lett. C) del decreto per la citazione nel rito ordinario.

Qualora si aderisse a tale impostazione - che tuttavia rischia di sottoporre il giudizio sommario alle stesse cadenze di quello ordinario, vanificando quell'esigenza di celerità nelle decisione che pare ispirare tutto l'art. 19 - non potrebbe ovviamente applicarsi anche l'ultimo periodo dell'art. 2 lett. C), che proroga alla durata legale il termine minore, dovendo piuttosto il Giudice, a fronte dell'eccezione della parte resistente costituita, o d'ufficio in caso di contumacia di quest'ultima, fissare nuova udienza nel rispetto del termine di legge, disponendo il rinnovo della notifica al contumace.

L'atto con il quale si costituisce il resistente ha la forma della comparsa di risposta e, quanto al contenuto concreto delle difese, deve contestare puntualmente la pretesa attorea ed i fatti su cui questa è fondata.

E' ovvio, infatti, che l'onere della prova grava anche nel rito sommario sul ricorrente, ed è chiaro che l'onere di contestazione si conforma in relazione all'allegazione ed alla prova della sussistenza dei fatti costitutivi del diritto azionato nel ricorso, ma si deve sottolineare come la genericità assoluta delle difese del resistente nell'atto di costituzione espongano facilmente quest'ultimo, anche per l'immediatezza della decisione, a quella valutazione di "manifesta infondatezza" della contestazione che, unita al fumus boni iuris offerto dal ricorrente, conduce all'accoglimento della domanda.

Qualora il resistente non si costituisca affatto, oppure nell'ipotesi che si costituisca tardivamente rispetto alla scadenza del termine fissatogli dal Giudice, sembra doversi escludere l'applicazione dell'art. 13, co. 2, ult. periodo, per il quale alla contumacia del convenuto, anche dopo che quest'ultimo si sia tardivamente costituito, consegue la fictio per cui i fatti affermati dall'attore si intendono non contestati ed il Tribunale decide sulla domanda in base alla concludenza di questa, deferendo, se il Giudice lo ritiene opportuno, giuramento suppletorio all'attore.

Infatti l'attribuzione di valore istruttorio alla mera contumacia pare giustificata dalla peculiare struttura introduttiva del rito societario di cognizione piena, mentre non pare conciliabile con la semplificazione estrema della fase introduttiva del rito sommario.

D'altra parte la contumacia del resistente neppure può impedire, di per sé sola, l'emanazione dell'ordinanza di condanna, con la motivazione che, mancando del tutto una contestazione del debitore costituito, verrebbe meno il requisito della " manifesta infondatezza della contestazione ", richiesto dall'art. 19 co. 2, essendo ovvio che, seguendo tale impostazione, il provvedimento sommario sarebbe condannato al fallimento dalla costante propensione dei resistenti alla contumacia quale miglior difesa possibile.

Sembra quindi logico che, a fronte della contumacia del resistente, la valutazione del Giudice sia concentrata sulla fondatezza della pretesa del ricorrente, valutata in base al contributo istruttorio offerto da quest'ultimo, senza esonero dall'onere della prova per effetto della mancata costituzione della controparte.

Nonostante il silenzio della legge, pare ammissibile che il convenuto, costituitosi tempestivamente, proponga domanda riconvenzionale, a condizione che si tratti di una controversia compresa tra quelle azionabili con il rito di cui all'art. 19.

Infatti, utilizzando gli stessi parametri già valutati dalla giurisprudenza di merito nella soluzione della medesima questione in materia di rito cautelare uniforme vigente, si può osservare che il possibile rallentamento del giudizio sulla domanda del ricorrente, conseguente alla proposizione della riconvenzionale ( poiché il Giudice deve concedere all'attore un termine adeguato per predisporre le proprie difese ), è compensato, in termini di economia processuale, dalla concentrazione delle due pretese in un solo procedimento.

Ovviamente, all'esito del giudizio sommario, la domanda principale e quella riconvenzionale potranno seguire percorsi processuali del tutto autonomi, in ordine al loro accoglimento, alla loro conversione nel rito ordinario o alla loro impugnazione.    

L'art. 19 nulla dice in ordine alla fase istruttoria del giudizio sommario, né indicazioni univoche si traggono dal nomen "sommario" che compare nella rubrica, poiché, come già osservato nel § 1, la cognizione sommaria è nel nostro ordinamento un genus eterogeneo che va definito, nei contenuti specifici, in base ai singoli istituti che lo compongono.

Considerata la semplicità strutturale e la rapidità che contraddistinguono il rito sommario di cui all'art. 19, non può ovviamente escludersi l'ammissibilità di prove precostituite, prodotte all'atto della costituzione o nell'udienza di comparizione davanti al Giudice designato ( anche se meriterebbe una riflessione più approfondita la compatibilità, e la coordinazione con il rito sommario, dei procedimenti istruttori di integraione - querela di falso o verificazione di scrittura privata- innescabili dalla produzione di scritture).

Neppure, tuttavia, possono escludersi del tutto le prove costituende, perché perderebbe altrimenti di senso l'ammissibilità della tutela dei crediti non liquidi, che necessitano, nella maggior parte dei casi, quanto meno di una c.t.u. per essere convertiti in crediti di valuta ( non sembra peraltro sostenibile che l'art. 19 sia ammissibile solo per crediti non liquidi ma agevolmente liquidabili sulla base di criteri oggettivi di calcolo già noti, poiché tale specie di diritti viene già comunemente considerata, in dottrina ed in giurisprudenza, assorbita nel concetto di liquidità, per cui la precisazione del legislatore sarebbe stata del tutto superflua ).

Un criterio di delimitazione dell'istruttoria nel giudizio di cui all'art. 19 può forse trarsi dal testo dell'art. 669 sexies co. 1 c.p.c., che disciplina l'istruzione nel rito cautelare uniforme, coniugando le esigenze di difesa delle parti con la celerità tipica del rito, e quindi legittimando il Giudice a procedere, nel modo ritenuto più opportuno, ma omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, agli atti istruttori indispensabili, avuto riguardo alla specificità della singola fattispecie concreta sub iudice, e quindi, se assolutamente necessario, anche ammettendo prove  costituende, quali, ad esempio, un'accertamento di natura tecnica o l'escussione di persona informata dei fatti, a condizione che la durata e la quantità dei mezzi istruttori siano ridotte al minimo indispensabile,   e che le forme di espletamento siano semplificate al massimo, per evitare che il rito sommario finisca per appesantirsi, diventando una sorta di versione ridotta di quello ordinario, e quindi perda la sua utilità.      

 

 

5. IL PROVVEDIMENTO: LA REGOLA DI GIUDIZIO, LE ALTERNATIVE DECISORIE E LA POSSIBILITA' DI DECLARATORIE D'INAMMISSIBILITA' E DI RIGETTO SEMPLICE. LA CONVERSIONE DEL RITO E LA QUESTIONE DELLA COMPATIBILITA' DELLO STESSO GIUDICE-PERSONA FISICA.

 

La mera lettura dell'art. 19 pare restringere le possibili alternative decisorie, sul ricorso per la condanna sommaria, a due possibili provvedimenti: a) l'ordinanza di accoglimento e di condanna del debitore resistente, quando il Giudice ritenga sussistenti i fatti costitutivi della domanda e manifestamente infondate le difese del resistente;

b) la conversione del giudizio nel rito ordinario di cognizione piena, se il Giudice ritenga che l'oggetto della causa e ( rectius "o" )  le difese svolte dal convenuto richiedano una cognizione non sommaria.

L'emissione dell'ordinanza di condanna presuppone quindi la duplice condizione del riscontro del fumus boni iuris della pretesa attorea e dell'infondatezza, ictu oculi, delle contestazioni e delle eccezioni del resistente: il legislatore pare aver recepito le più mature acquisizioni giurisprudenziali in ordine all'interpretazione dell'art. 648 c.p.c., che non escludono l'onere di prova attoreo anche in assenza di eccezioni sorrette da prova scritta o di pronta soluzione. Del resto l'onere di contestazione del convenuto si determina in relazione all'allegazione ed alle prove attoree, così come le difese del convenuto contribuiscono a conformare i limiti dell'onere probatorio del ricorrente, per cui, all'esito del contraddittorio tra le parti, la regola di giudizio da adottare non può che essere quella della valutazione congiunta delle rispettive deduzioni.

La conversione del rito sommario in quello di cognizione, nella quale è implicito il rigetto della domanda di ordinanza di condanna, deve ritenersi adottabile in una delle due situazioni alternative ( nonostante la congiunzione "e" usata dal legislatore ) previste dal terzo comma dell'art. 19, di cui una è rappresentata dalle difese del convenuto che, valutate sommariamente, non risultano manifestamente infondate, ma neppure appaiono manifestamente fondate, necessitando di essere giudicate a cognizione piena: si tratta quindi di difese non meramente pretestuose, per cui non può addossarsi al resistente il grave peso di una condanna sommaria solo perché il rito, scelto dal ricorrente, non consente di illustrare appieno la fondatezza delle contestazioni con gli strumenti del giudizio ordinario.

La seconda fattispecie, alternativa a quella appena descritta, si ha quando è l'oggetto della causa a richiedere una cognizione non sommaria: si tratta di una valvola di sicurezza del sistema di tutela sommaria, che rimette alla discrezionalità del Giudice quella valutazione di compatibilità tra natura della controversia e specie del giudizio che il legislatore ha già compiuto, con esito negativo, per le azioni di responsabilità.

Peraltro proprio la clausola normativa di inammissibilità della tutela sommaria ex art. 19 di tali azioni può costituire un criterio guida nell'esercizio della discrezionalità del Giudice, individuando nella complessità, nella fattispecie concreta, dell'accertamento del fatto costitutivo del diritto il sintomo della necessità della conversione.

Nonostante il silenzio del legislatore, la possibile casistica lascia ipotizzare altre specie di provvedimenti definitivi del giudizio di cui all'art. 19, ogni volta che non vi siano i presupposti per l'accoglimento della domanda sommaria, ma nel contempo il passaggio al rito ordinario sarebbe inutile o comunque contrario all'economia processuale.

Si pensi ad esempio al ricorso con il quale si faccia valere un diritto, o si eserciti un'azione, non compresi tra quelli di cui all'art.19 co. 1, magari chiedendo una mera pronuncia di accertamento: in questi casi sembra ipotizzabile un'ordinanza definitoria che dichiari l'inammissibilità del ricorso, anche per evitare che la consapevole utilizzazione impropria del giudizio sommario divenga uno strumento per adire, attraverso la conversione ai sensi dell'art. 19 co.3, le procedure e le forme di introduzione del giudizio ordinario.

Si rifletta inoltre su tutte le possibili fattispecie processuali, come l'incompetenza, nelle quali questioni di rito siano impeditive di un giudizio sommario sul merito: la conversione in rito ordinario condurrebbe ad una dispendiosa prosecuzione, a cognizione piena, di un giudizio i cui difetti genetici sono già stati accertati.

Quanto poi al merito, può ipotizzarsi che le difese attoree siano non solo non manifestamente infondate, ma dotate di una fondatezza tale che emerge senza necessità della cognizione sommaria ( si pensi ad un'eccezione di prescrizione non contrastata dalla contro-eccezione d'interruzione del termine ): la prosecuzione del giudizio a cognizione piena avrebbe soltanto la funzione di soddisfare l'interesse del convenuto ad un'accertamento stabile dell'inesistenza del credito, ma tale esigenza, nei rari casi in cui fosse concretamente avvertita, ben potrebbe essere soddisfatta con l'introduzione di un autonomo giudizio ordinario di accertamento negativo.

Inoltre può immaginarsi la fattispecie concreta nella quale, pur essendo le difese del convenuto manifestamente infondate, o mancando del tutto tali difese ( ad esempio in caso di contumacia del resistente ) l'ordinanza di condanna non possa essere emessa perché il ricorrente non ha fornito il fumus della sussistenza dei fatti costitutivi del suo diritto.

In questi due ultimi casi, nei quali non vi sono i presupposti dell'accoglimento, ma neppure quelli della conversione nel rito ordinario, sembra auspicabile un provvedimento che definisca il giudizio con un rigetto puro e semplice[6] .

La configurazione della declaratoria d'inammissibilità, come quella della pronuncia assolutoria in rito e del rigetto, senza conversione, nel  merito, non essendo prevista dal legislatore, creerebbe tuttavia due ulteriori problemi.

Il primo sarebbe costituito dalla mancata previsione legale della condanna del ricorrente soccombente alle spese: la legittimità di tale pronuncia accessoria potrebbe pure ricavarsi direttamente dagli artt. 91 e ss. c.p.c., richiamati dall'art. 1 co. 4 del decreto, ma la natura di titolo esecutivo del relativo provvedimento sarebbe preclusa dalla tipicità legale dei titoli esecutivi nel nostro ordinamento ( con conseguenti possibili profili di illegittimità costituzionale, ai sensi degli artt. 3, 24 e 111 Cost., avuto riguardo anche alla diversa disciplina delle spese a favore del ricorrente ).      

Il secondo problema sarebbe rappresentato poi dalla mancata previsione di uno strumento con il quale il ricorrente possa impugnare la decisione d'inammissibilità o di rigetto in rito o in merito, eventualmente anche solo per il capo sulle spese di lite, essendo appellabile la sola ordinanza di condanna: anche la riproponibilità della stessa domanda, in forma sommaria o a cognizione piena, non pare poter elidere del tutto tale discrasia, come pare potersi ricavare, mutatis mutandis, dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 253 del 1994, che ha dichiarato illegittimo l'art. 669 terdecies nella parte in cui non ammetteva il reclamo anche avverso le ordinanze che non accoglievano la domanda cautelare.

Deve escludersi, infine, che i provvedimenti di inammissibilità o rigetto potrebbero essere oggetto del ricorso di cui all'art. 111 Cost., non avendo essi per definizione l'attitudine ad incidere definitivamente sul diritto azionato.

Quando il Giudice dispone che il giudizio prosegua con il rito ordinario, assegna all'attore i termini di cui all'art. 6, ovvero il termine ( non inferiore a trenta giorni ) che, ai sensi dell'art. 4 co.2, il convenuto fissa all'attore per la replica alla comparsa di risposta.

Qualora il provvedimento di conversione non fosse adottato in udienza, il termine per l'attore decorrerà dalla comunicazione del relativo provvedimento riservato.

Il meccanismo della concessione del temine in questione è stato preferito dal legislatore alla concessione di termine ad ambedue le parti per l'integrazione dei rispettivi atti introduttivi, che era previsto nella versione dello schema di decreto precedente all'acquisizione dei pareri parlamentari.

Qualora il Giudice monocratico adito con il ricorso sommario ritenga necessario convertire il rito in quello ordinario, ci si deve chiedere se sussista incompatibilità dello stesso giudicante, inteso come persona fisica, a far parte del collegio che deve pronunciarsi sulla medesima domanda a cognizione piena, e quindi se il magistrato che ha già implicitamente rigettato il ricorso ( ma il problema si porrebbe anche  a seguito di declaratoria d'inammissibilità o di mero rigetto, ove si ritenessero ammissibili ) abbia o meno l'obbligo di astenersi dal giudizio ordinario, e se possa essere ricusato per lo stesso motivo.

Seguendo l'impostazione data dalla Corte Cost. con la sent. n. 387 del 1999, relativa all'art. 28 dello statuto dei lavoratori, sembra di poter dire che tra giudizio sommario e successivo giudizio ordinario non siano riscontrabili gli estremi dell'art. 51 co. 1 n. 4) c.p.c. , non costituendo il secondo un "altro grado" del primo, neppure nell'interpretazione estensiva di tale fattispecie legale accreditata dal Giudice delle leggi, che presuppone pur sempre che le pronunce rese nei due  "gradi" siano governate dalla stessa regola di giudizio, non sussistendo incompatibilità quando il secondo giudizio è caratterizzato da una cognizione più ampia del primo.

L'obbligo di astensione deve invece ritenersi sussistente nel caso in cui il Giudice che ha emesso l'ordinanza faccia parte del collegio che deve decidere sull'appello proposto contro quest'ultima: a fronte della previsione legale di un mezzo ordinario d'impugnazione, il concetto di "altro grado" è integrato a prescindere da ogni considerazione sulla diversa specie di cognizione esercitata nei due giudizi.

 

 

6. L'IMMEDIATA ESECUTIVITA' DELL'ORDINANZA DI CONDANNA ED I RIMEDI DEL DEBITORE PER CONTRASTARLA: LA SOSPENSIONE ED I DUBBI SULLA REVOCABILITA'.  L'IPOTECA GIUDIZIALE.

 

L'ordinanza di condanna è immediatamente esecutiva e costituisce titolo per l'iscrizione d'ipoteca giudiziale.

L'aspetto più interessante dell'esecutività del provvedimento è certamente collegato al peculiare regime di stabilità dell'ordinanza:  non pare corretto parlare di esecutività provvisoria poiché, a differenza dell'ingiunzione, non si può ipotizzare necessariamente un giudicato che si formi sul titolo sommario o sulla sentenza resa in sede d'impugnazione di quest'ultimo, e che acquisisca l'esecutorietà propria dei provvedimenti irrevocabili. Ma, per lo stesso motivo, è dubbio, come si dirà oltre, se sia corretto definire esecutorietà irremovibile l'efficacia esecutiva dell'ordinanza non appellata.

Sebbene la questione della "stabilità" più o meno pronunciata dell'ordinanza di condanna sia oggetto del prossimo §, si deve qui accennare l'analisi degli strumenti che il legislatore ha offerto al resistente condannato per contrastare l'efficacia esecutiva del provvedimento che la stessa parte ritenga illegittimamente concesso.

Avendo il legislatore previsto che l'ordinanza sia appellabile come una sentenza resa in un giudizio ordinario, l' istanza di sospensione, totale o parziale, dell'esecutività, per effetto del combinato disposto degli artt. 19 co. 4 e 20 co. 2 c.p.c., va proposta e giudicata nelle forme di cui agli art. 283 e 351 c.p.c., per cui su di essa provvederà, con ordinanza non impugnabile, il Collegio in grado d'appello, eventualmente anche in sede di conferma, modifica o revoca del decreto di provvisoria sospensione adottato dal Presidente inaudita altera parte.

Qualora si ritenga che, nonostante la diversa forma del provvedimento impugnabile e la circostanza che abbia interesse ad appellarlo soltanto il resistente, è compatibile, con l'appello dell'ordinanza di cui all'art. 19, l'art. 20 co. 4, che prevede l'accordo delle parti in ordine all'esclusione dell'appellabilità della decisione ed al ricorso immediato in Cassazione, la sospensione dell'esecutività sarebbe regolata dall'art. 373 c.p.c., che la rimette al Giudice che ha pronunciato il provvedimento impugnato, consentendo anche un decreto di sospensione inaudita altera parte, a sua volta da confermare, modificare o revocare nel contraddittorio tra le parti.

Infine, se si reputa - e se ne parlerà nel prossimo § - che l'ordinanza di condanna in questione, essendo non idonea a conseguire l'efficacia del giudicato, nonostante la mancata proposizione dell'appello e la decadenza dal relativo termine, non preclude al resistente la contestazione dei fatti costitutivi del credito o l'allegazione di fatti estintivi dello stesso, anche preesistenti alla scadenza del termine per impugnare, con qualsiasi altro strumento di tutela ordinaria, e se si conviene che tali difese del resistente, ove siano assistite dal fumus boni iuris, non possono non incidere sull'efficacia esecutiva della stessa condanna, se ne potrebbe dedurre che la sospensione dell'esecuzione già iniziata ( ovvero dopo il perfezionamento del pignoramento ) può essere sospesa dal Giudice dell'esecuzione adito con l'opposizione all'esecuzione ex art. 624 c.p.c. , anche in applicazione della riserva funzionale di competenza ad emettere tale provvedimento, ricavabile dall'art. 623 c.p.c..

Tuttavia è chiaro che la competenza del Giudice dell'esecuzione a provvedere sulla sospensione dell'ordinanza sommaria di condanna postula che l'eccezione contenuta nello stesso art. 623 c.p.c. ( "salvo che la sospensione sia disposta ... dal Giudice davanti al quale è impugnato il titolo esecutivo" ) vada interpretata in concreto, nel senso che la mancata proposizione dell'appello, meramente facoltativa rispetto alla stabilità del provvedimento di cui all'art. 19, non escluda l'ammissibilità della proposizione della medesima istanza di sospensione al Giudice dell'esecuzione adito con l'opposizione all'esecuzione.

Viceversa, ritenendo che la mera astratta possibilità, e non l'onere, di appellare il titolo giudiziario valga, ai sensi dell'art. 623 c.p.c., a configurare l'eccezione prevista da quest'ultima norma, dovrebbe escludersi la possibilità di formulare l'istanza di sospensione dell'ordinanza sommaria al Giudice dell'esecuzione in sede di opposizione all'esecuzione.

Invece, prima dell'inizio dell'esecuzione, l'esecutività del titolo giudiziale potrebbe, nelle stesse circostanze, essere sospesa , con provvedimento emesso ai sensi dell'art. 700 c.p.c., dal Giudice dell'opposizione a precetto, argomentando da Cass. 23.2.2000 n. 2051, secondo cui la sospensione dell'esecuzione minacciata, dopo la notifica del precetto e prima del pignoramento, è possibile, in difetto di strumenti processuali tipici, soltanto con il provvedimento d'urgenza innominato.

Ovviamente, tanto nel caso dell'opposizione all'esecuzione, quanto nell'ipotesi del provvedimento d'urgenza, il correlato giudizio di merito avrebbe per oggetto l'accertamento negativo del credito sancito nell'ordinanza ex art. 19.

A differenza di quanto accade in materia di ingiunzione, infine, la circostanza che il legislatore abbia previsto soltanto la sospensione ex nunc, e non la revoca ex tunc, dell'ordinanza di condanna, non pare sollecitare rilevanti dubbi di legittimità costituzionale, posto che il provvedimento esecutivo viene emesso all'esito del contraddittorio tra le parti, e non inaudita altera parte, e che la Corte Costituzionale, con la sent. 17.6.1996 n. 200 ( che ha dichiarato manifestamente infondata la questione della mancata previsione, nell'art. 649 c.p.c., della revocabilità della provvisoria esecutività del decreto ingiuntivo concessa a norma dell'art. 642 c.p.c. ) ha già ritenuto che la conservazione degli effetti degli atti esecutivi già compiuti, contemporanea alla sospensione dell'esecuzione in corso, costituisce un punto di equilibrio tra creditore e debitore, in costanza di due pronunce sommarie contrastanti ed in attesa di una definitiva decisione sul merito della lite a cognizione piena.

  

7. L'INIDONEITA' AL GIUDICATO E L'APPELLABILITÀ.

 

Il quarto comma dell'art. 19 stabilisce che l'ordinanza di condanna può essere impugnata davanti alla Corte d'Appello "nelle forme di cui all'art. 20", e nonostante tale richiamo sia limitato ad uno solo degli articoli che nel capo IV del decreto disciplinano l'appello, non c'è ragione di escludere l'integrale applicazione di tutta la disciplina del giudizio di secondo grado in materia societaria, e quindi anche degli artt. 21 e 22.

Essendo prevista l'impugnazione della sola ordinanza che accoglie la domanda, ci si deve chiedere se sia legittima l'esclusione dell'appellabilità del rigetto della stessa.

 Invero, nello schema testuale disposto dal legislatore, l'art. 19 prevede, come unica alternativa all'accoglimento, il rigetto, per il difetto dei presupposti, che è implicito nella conversione del rito in quello ordinario a cognizione piena, per cui il ricorrente,   a fronte di un accertamento negativo non del suo diritto, ma dell'utilizzabilità del procedimento sommario, non ha da dolersi di un provvedimento sfavorevole di merito e può riproporre direttamente alla cognizione piena del Giudice di primo grado, piuttosto che a quello di appello, tutte le proprie istanze.

Tuttavia, se si ipotizza, come nel § che precede, l'ammissibilità di un provvedimento di rigetto puro e semplice, che definisca il giudizio senza farlo proseguire come rito ordinario, la mancata previsione dell'impugnabilità di tale specie di decisione potrebbe sollevare qualche dubbio di legittimità costituzionale, anche se si ammettesse la reiterabilità, nelle stesse forme dell'art. 19, della domanda sommaria rigettata: in questo senso, infatti, potrebbe argomentarsi sulla scorta di Corte. Cost., sent. n. 253 del 1994, che ha censurato l'art. 669 terdecis c.p.c. nella parte in cui non ammetteva il reclamo avverso il rigetto della domanda cautelare.

Inoltre, se non si ammettesse l'appellabilità del rigetto puro e semplice, si complicherebbe il quadro processuale nel caso in cui il Giudice adito ai sensi dell'art. 19 ritenesse i presupposti per l'accoglimento sussistenti per una parte soltanto della domanda ( ovvero per una quota parte del credito azionato ): in questo caso, potendo appellarsi soltanto il debitore, e ritenendo perciò precluso al creditore anche l'appello incidentale, si avrebbe l'incongruenza di un giudicato che, in secondo grado, si forma soltanto su una parte dello stesso credito. Ed è chiaro che, anche ipotizzando che la domanda della parte residua del credito ( quella rigettata in prima battuta ) sia comunque riproponibile nonostante il giudicato sulla parte ulteriore, ed anche ricordando che una fattispecie analoga si realizza quando non viene opposto un decreto ingiuntivo che il creditore abbia espressamente limitato ad una frazione dell'obbligazione[7], lo smembramento del giudizio su due parti dello stesso diritto in diversi procedimenti, con la possibilità di esiti contrastanti, non è auspicabile.   

L'art. 19, al co. 5, espressamente nega, come del resto imponeva l'art. 12, co. 2 lett. d) della legge delega, che l'ordinanza di condanna non impugnata produca gli effetti della cosa giudicata di cui all'art. 2909 c.c. .

La diversa espressione testuale utilizzata dal legislatore nell'art. 23, co. 6, a proposito dei provvedimenti cautelari anteriori alla causa ("In nessun caso l'autorità del provvedimento cautelare è invocabile in un diverso processo") non è di per sé sintomatica di un'inidoneità al giudicato diversamente graduabile tra le due specie di rito speciale in questione: il mancato richiamo dell'art. 2909 c.c. nell'art. 23 dipende infatti dall'inutilità di escludere  testualmente un'effetto, il  giudicato , che al provvedimento cautelare è comunque già del tutto estranea.

Ed anzi,anche la stessa preoccupazione di escludere espressamente l'efficacia esterna dell'accertamento, rispetto ad altri eventuali giudizi, anche tra le stesse parti, sembra superflua, essendo tale possibilità già esclusa dalla natura stessa del procedimento e del provvedimento cautelare, che è sempre suscettibile di revoche e modifiche in conseguenza dei sopravvenuti mutamenti delle circostanze.

Viceversa, l'art. 19, co. 5, doveva necessariamente essere esplicito nel negare l'efficacia di giudicato, esterno o interno che sia, all'ordinanza di condanna non appellata, essendo altrimenti tale effetto un corollario del tutto naturale dell'appellabilità del provvedimento e della decadenza della parte condannata dall'impugnazione.     

Escludendo soltanto che l'effetto del giudicato possa conseguire alla mancata proposizione dell'appello, il legislatore non ha ritenuto di adeguare l'art. 19 co. 5 alle osservazioni che si leggono sulla questione al punto 25) del parere espresso dalla Commissione Giustizia del Senato, che riteneva necessario integrare tale previsione con l'esclusione della medesima efficacia anche all'ordinanza appellata, quando l'appello sia dichiarato inammissibile o sia rigettato.

Nonostante il silenzio della norma, sembra tuttavia di poter ricavare dalla ratio dell'art. 19 tutto che la pronuncia d'inammissibilità dell'impugnazione, risolvendosi nella declaratoria di motivi di rito ( si pensi all'appello tardivo ) che impediscono di attingere il merito della questione a cognizione piena, non possa aggiungere alla cognizione sommaria, sulla base della quale è stata emessa l'ordinanza, nulla, e quindi non possa far produrre a quest'ultima un effetto di giudicato che non le sarebbe proprio.

Diversamente sembra invece doversi dire per il caso di rigetto, come anche di accoglimento, dell'impugnazione: la circostanza che il merito della lite sia stato, per la prima volta, oggetto di un accertamento a cognizione piena ( l'art. 19 richiama infatti integralmente l'art. 20 ), e non più solo sommaria, dovrebbe infatti far ritenere che la decisione nel merito emessa in secondo grado si sostituisca interamente a quella sommaria impugnata, ed abbia, al pari di qualsiasi altra sentenza d'appello, piena attitudine al giudicato: diversamente opinando, infatti, non sarebbe agevole comprendere quale senso avrebbe la previsione di un'impugnazione giudicata a cognizione piena, se la decisione d'appello fosse comunque destinata a condividere la stessa limitata efficacia di quella, resa a cognizione sommaria, impugnata.

Un corollario ulteriore dell'attribuzione dell'efficacia di giudicato alla sentenza d'appello, di accoglimento o di rigetto, sembra  inoltre rapprentato dalla necessità che, in caso di accoglimento parziale dell'appello, e quindi del riconoscimento della fondatezza di una parte del credito oggetto dell'ordinanza, il Giudice di secondo grado revochi comunque l'ordinanza, sostituendo ad essa una sentenza di condanna del debitore a quella minor prestazione comunque dovuta ( anche se è doveroso sottolineare che il mancato richiamo dell'art. 653 co. 2 c.p.c., che conserva l'efficacia degli atti esecutivi compiuti sulla base del decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo revocato a seguito di parziale accoglimento dell'opposizione, creerebbe una soluzione di continuità tra l'esecuzione già intrapresa sulla base dell'ordinanza poi revocata e quella fondata sulla minor condanna emessa a seguito del parziale accoglimento dell'appello ).

L'esclusione dell'efficacia di giudicato all'ordinanza di condanna emessa ai sensi dell'art. 19 dovrebbe, infine, avere come logica conseguenza la possibilità, per il debitore condannato, di rimettere in discussione, sia durante la pendenza del termine per appellare che dopo la scadenza di quest'ultimo senza che l'impugnazione sia stata proposta, la sussistenza e l'entità del credito, con un qualsiasi giudizio a cognizione piena, che sia l'opposizione all'esecuzione o un comune giudizio di accertamento negativo, con le possibili istanze di sospensione illustrate nel § che precede.

Tuttavia, sul piano della funzione concreta che l'istituto processuale può assolvere, è lecito chiedersi quale sia l'interesse che il creditore possa avere rispetto ad una pronuncia, pur immediatamente esecutiva, che il debitore possa rimettere in discussione in qualsiasi momento, bloccando la relativa esecuzione coattiva, e se l'effetiva utilità del giudizio sommario non presupponga piuttosto l'attribuzione, all'ordinanza di condanna non appellata, di una sorta di definitività, che renda irrevocabile la statuizione, contenuta nel provvedimento sommario, in ordine all'an ed al quantum del credito azionato, senza tuttavia fare stato, neppure tra le parti, in ordine al rapporto che costituisca il titolo sul quale tale diritto si fonda.

Pertanto, in un successivo giudizio a cognizione piena, la parte condannata con l'ordinanza, sempre che vi abbia un residuo apprezzabile interesse, potrebbe contestare l'esistenza, la validità o il contenuto dello stesso rapporto, ottenendo di trarne tutte le conseguenze, ad esclusione della ripetizione dell'importo già oggetto della condanna.

Ammettendo tale definitività dell'ordinanza emessa ai sensi dell'art. 19, e riconoscendo che il relativo effetto consegue alla mancata proposizione dell'appello, o alla declaratoria d'inammissibilità di quest'ultimo, l'individuazione dei possibili strumenti di sospensione resterebbe allora circoscritta all'istituto di cui all'art. 283 c.p.c., essendo l'impugnazione in appello l'unico strumento idoneo a rimettere in discussione l'accertamento contenuto nel provvedimento sommario ed a rimuoverne gli effetti, e rimanendo la Corte d'Appello l'unico Giudice davanti al quale  può essere impugnato il titolo esecutivo giudiziale in questione, e quindi l'unico Giudice competente, anche ai sensi dell'art. 623 c.p.c., a sospenderne l'esecutività.  

Probabilmente le difficoltà di trarre dall'art. 19, sul punto della stabilità dell'ordinanza, una disciplina coerente con il sistema processuale vigente, derivano dall'incompatibilità tra un mezzo d'impugnazione classico come l'appello, che presuppone l'idoneità del provvedimento impugnabile a passare in giudicato, e l'esclusione dell'efficacia di cui all'art. 2909 c.c. in caso di mancata impugnazione.

Ed infatti, nel corso dei lavori preparatori, il parere della II Commissione della Camera aveva colto tale anomalia struttrale, suggerendo che l'ordinanza di condanna fosse impugnabile con l'opposizione a decreto ingiuntivo di cui all'art. 645 c.p.c., anche per minor rigore dei presupposti della sospensione dell'esecutività nell'art. 649 c.p.c. rispetto all'art. 283 c.p.c. ( è vero che, attualmente, ambedue richiedono gravi motivi, ma deve considerarsi che il disegno di legge governativo in materia di interventi urgenti sul c.p.c., all'art. 16, prevede la modifica dell'art. 283 c.p.c., per  effetto della quale la sospensione avrebbe  presupposti più rigorosi: "quando può derivarne gravissimo danno o sussistono fondati motivi").

Tuttavia la soluzione è stata scartata dal legislatore delegato, stando a quanto si legge nella relazione, sia perché nella fase di emissione l'ordinanza sommaria ed il decreto ingiuntivo sono disciplinate in modo tanto diverso ( il secondo soltanto emesso inaudita altera parte )  da non giustificare lo stesso mezzo d'opposizione; sia perché la sentenza resa dal Giudice dell'opposizione sarebbe stata poi a sua volta impugnabile, con la proliferazione, e non la semplificazione, delle fasi di giudizio sullo stesso fatto.

E del resto, si condividano o meno tali valutazioni, occorre sottolineare come l'utilizzazione del modello processuale offerto dall'art. 645 c.p.c. non avrebbe ovviato del tutto alle difficoltà sistematiche evidenziate, in quanto la mancata opposizione del decreto ingiuntivo, alla pari del mancato appello, comporta che il provvedimento monitorio acquisisca un'efficacia di giudicato analoga a quella della sentenza[8], per cui non sarebbe stato comunque agevole coniugare tale irrevocabilità con l'espressa esclusione degli effetti di cui all'art. 2909 c.c. . 

Quanto sin qui osservato non esclude, ovviamente, che il creditore, ricorrendone i presupposti, possa azionare lo stesso credito, piuttosto che con il ricorso sommario, con la procedura d'ingiunzione, ed anzi è probabile che, nell'ipotesi in cui i due istituti coincidono nei presupposti ( ovvero, nelle materie di cui agli artt. 1 e 19, se il credito, assistito da prova scritto, è al pagamento di una somma di denaro, liquida o agevolmente liquidabile, ovvero alla consegna di una cosa mobile determinata), il creditore preferisca proprio il rito monitorio, che offre il valore aggiunto della possibilità di conseguire l'efficacia di giudicato, se non opposto nei termini di rito.    

 

 


[1] Cfr. Proto Pisani, La pluralità dei riti del nuovo processo societario. Le attività delle difese nel procedimento di cognizione, relazione all'incontro di studio del C.S.M. sul tema " La riforma del diritto societario", Roma, 27-30 Gennaio 2003, 26.

 

[2] Secondo Sassani-Tiscini, La riforma del diritto societario, in www.judicium.it, "stando all'art. 2396 c.c. nella sua nuova formulazione, "le disposizioni sulla responsabilità degli amministratori si applicano anche ai direttori generali nominati dall'assemblea o per disposizione dello statuto, in relazione ai compiti loro affidati, salve le azioni esercitabili in base al rapporto di lavoro con la società"; pertanto, se le azioni nei confronti dei direttori generali sono di quest'ultimo tipo (ed hanno ovviamente ad oggetto il pagamento di somme di denaro), il procedimento dell'art. 19 è utilizzabile, non potendo esse includersi tra le azioni di responsabilità."

 

[3] Sostengono Sassani-Tiscini, op.cit., che, riguardo alla consegna di una determinata quantità di cose fungibili, l'eadem ratio (e la corrispondenza delle cose fungibili con le somme di denaro) impone  di ritenere la procedura estensibile anche a queste ultime (come accade, peraltro, nel procedimento monitorio e nell'ordinanza dell'art. 186 ter c.p.c.).

[4] Così Franco, Guida al procedimento di ingiunzione, Milano, 1994, 72 s., per il quale l'esercizio di azioni reali è anche incompatibile con la limitazione dell'ingiunzione alla prova scritta.

 

[5] Proto Pisani, op. cit., 25.

 

 

[6] Favorevoli alla configurabilità di un rigetto, che non comprometta la reiterabilità della domanda, nelle stesse forme o come azione ordinaria, Sassani-Tiscini, op. cit.

 

[7] Cfr. Cass.  1.8.1997 n. 7400.

[8] Cfr., ex plurimis, Cass. 11.6.1998 n. 5801.