La definizione di piccolo imprenditore alla luce della riforma del diritto fallimentare
Analogamente a quanto disposto dal testo normativo ante riforma, l'art. 1, primo comma, legge fallimentare (come sostituito ad opera dell'art. 1 D. Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5), esclude dal fallimento e dal concordato preventivo i piccoli imprenditori.
Tale nozione viene successivamente integrata dal secondo comma della norma richiamata, dove, tuttavia, viene proposta una definizione in negativo. In particolare, si afferma che "ai fini del primo comma" non sono piccolo imprenditori gli esercenti un'attività commerciale in forma individuale o collettiva che, anche alternativamente:
- abbiano effettuato investimenti nell'azienda per un capitale il cui valore complessivo ecceda euro trecentomila;
- abbiano realizzato, in qualsiasi maniera, ricavi lordi calcolati in base alla media degli ultimi tre anni o dall'inizio dell'attività, qualora di durata inferiore, per un ammontare complessivo annuo superiore a euro duecentomila.
Il Tribunale di Firenze, terza sezione civile, con la sentenza 31 gennaio 2007, n. 20, ha offerto una lettura del secondo comma dell'art. 1, L.F., particolarmente innovativa, sostenendo che la mancata sussistenza dei parametri quantitativi ivi normatizzati non comporta automaticamente l'assunzione della qualifica di piccolo imprenditore. Tale nozione, infatti, deve piuttosto individuarsi avendo riguardo anche all'aspetto qualitativo, in base ai principi generali disposti dall'art. 2083 c.c.. Sotto questa duplice angolatura, al fine dell'individuazione della fattispecie del piccolo imprenditore non fallibile, non sarà sufficiente aver riguardo al mancato superamento dei limiti degli investimenti e dei ricavi di cui all'art. 1, comma 2, citato, ma sarà determinante la valutazione della sussistenza dei requisiti previsti dall'art. 2083 c.c.
La sentenza oggetto del presente commento offre, quindi, lo spunto per approfondire la definizione di piccolo imprenditore alla luce della riforma del diritto fallimentare, avendo particolare riguardo agli elementi di divergenza rispetto alla nozione presente nell'ordinamento ai sensi di quanto disposto dall'art. 2083 c.c..
Infatti, a seguito dell'entrata in vigore del D. Lgs. 5/2006, si rinvengono nell'ordinamento due nozioni, per certi aspetti divergenti ed antitetiche, di piccolo imprenditore: la prima positivamente disciplinata dal diritto civile, all'art. 2083, c.c., fondata su criteri qualitativi; la seconda disciplinata in senso negativo dalla legge fallimentare, all'art. 1, comma 2, basata su parametri quantitativi.
In particolare, si ricorda che secondo quanto contemplato all'art. 2083, c.c., appartengono alla categoria dei piccoli imprenditori "i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un'attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia".
Secondo la norma fallimentare, invece, sono considerati non piccoli gli imprenditori che, anche alternativamente, abbiano investito nell'azienda un capitale del valore complessivo superiore ad euro trecentomila, oppure che abbiano realizzato ricavi lordi medi nell'ultimo triennio non inferiori ad euro duecentomila.
Comparando le definizioni normative descritte, emerge, quale maggior elemento di dissonanza, la differente formulazione letterale adottata dal legislatore della riforma fallimentare che, nella difficoltà di coordinamento rispetto alla norma di diritto civile, ha preferito delineare la nozione di piccolo imprenditore in senso negativo, individuando cioè le condizioni in presenza delle quali si assume la qualifica di imprenditore non piccolo. Al riguardo, come sottolineato dai giudici fiorentini, sarebbe stato sufficiente che il legislatore optasse, al contrario, per una nitida definizione in senso positivo del tipo: "sono soggetti al fallimento ed al concordato preventivo gli imprenditori che esercitino un'attività commerciale che abbiano effettuato investimenti ... o che abbiano realizzato ricavi lordi ..",senza riferimento alcuno alla "categoria" dei piccoli imprenditori. Così operando, si sarebbe peraltro rispettato la ratio legis, atteso che l'art. 1, comma 6, lett. a), n. 1, D.L. 14 marzo 2005, n. 35, convertito in L. 14 maggio 2005, n. 80, aveva delegato il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi aventi ad oggetto la riforma della disciplina delle procedure concorsuali, con l'obiettivo di "semplificare la disciplina attraverso l'estensione dei soggetti esonerati dall'applicazione dell'istituto".
Relativamente all'individuazione dei parametri quantitativi richiesti dal legislatore fallimentare, legati alla media dei ricavi lordi ed al capitale investito, si osserva come se, da un lato, con riferimento all'elemento economico (ricavi) si sia individuato con esattezza l'intervallo temporale di riferimento, dall'altro lato, relativamente al requisito patrimoniale (investimenti) non si dice nulla.
Sul punto, proprio al fine di colmare tale vuoto normativo ed individuare l'effettiva portata applicativa della norma, alcuni Tribunali hanno fornito le prime interpretazioni, di seguito sintetizzate.
Il tribunale di Roma - decreto 12 dicembre 2006 - basandosi sul presupposto della identità di ratio delle due disposizioni (ricavi ed investimenti), ha precisato che la verifica del superamento della soglia del capitale investito, al pari dei ricavi lordi, deve essere compiuta con riferimento agli ultimi tre esercizi antecedenti il deposito dell'istanza.
Il tribunale di Milano, a sua volta - circolare 21 dicembre 2006, relativamente al riferimento temporale degli investimenti, pur riconoscendo la validità di differenti correnti di pensiero (secondo alcuni, si dovrebbe fare riferimento a tutti gli investimenti effettuati dall'imprenditore commerciale dall'inizio della impresa; secondo altri, sarebbe preferibile considerare la dimensione media degli investimenti effettuati nell'ultimo triennio), ritiene che si debba attribuire rilevanza alla situazione patrimoniale aggiornata (c.d. di periodo) ed all'ultimo bilancio d'esercizio.
Per il giudici milanesi, comunque, il superamento di almeno uno dei limiti contemplati al secondo comma dell'art. 1, L.F., costituisce una presunzione assoluta (che, come tale, non ammette prova contraria) in base alla quale l'imprenditore, individuale o collettivo, che eserciti attività commerciale, è considerato "non piccolo" e, di conseguenza, qualora insolvente, assoggettabile a fallimento.
Alle stesse conclusioni è giunto il tribunale di Torino - sentenza 11 gennaio 2007 - secondo cui per la esclusione della dichiarazione di fallimento è sufficiente essersi mantenuti al di sotto dei valori relativi ai ricavi e investimenti. I giudici torinesi hanno altresì precisato che la qualifica di imprenditore non piccolo deve presumersi in quanto connotazione normale della tipologia societaria e che, in ogni caso, la prova del mancato raggiungimento dei limiti dimensionali di cui al secondo comma dell'art. 1 L.F. incombe sul debitore in via d'eccezione (conclusione, quest'ultima, a cui giunge, anche se con un percorso interpretativo differente, lo stesso tribunale di Firenze nella sentenza oggetto del presente commento).
I giudici fiorentini, invece, si spingono oltre l'interpretazione letterale della norma e del mero parametro dimensionale recuperato dal legislatore della riforma. Essi, infatti, partendo dal presupposto che il primo comma dell'art. 1 L.F. richiama la definizione di piccolo imprenditore già presente nell'ordinamento ex art. 2083 c.c., e considerato che il secondo comma rileva "ai fini del primo comma" e pertanto ai soli fini fallimentari, affermano che i limiti quantitativi citati "individuano non la nozione fallimentare di imprenditore piccolo ma, al contrario, determinano una presunzione legale di impresa media o comunque non piccola ai fini fallimentari o addirittura di piccolo imprenditore soggetto al fallimento in via di eccezione".
Se da un lato una siffatta interpretazione parrebbe, almeno apparentemente, contrastare con la ratio legis; dall'altro lato, evidenzia le problematiche già note antecedentemente alla riforma, relative alla difficoltà di coordinamento tra la legge fallimentare ed il codice civile relativamente alla nozione di piccola impresa a cui, purtroppo, il D. Lgs. 5/2006 non ha dato soluzione.
Relativamente al primo aspetto, è noto che la volontà da parte del legislatore della riforma era quella, attraverso la restrizione dell'area di fallibilità, di ridurre il numero dei fallimenti alleggerendo, in tal modo, i tribunali fallimentari dalle procedure di scarsa importanza. Di fatto, tuttavia, la diminuzione delle procedure fallimentari aveva già trovato concreta attuazione nella disposizione di cui all'art. 15, ultimo comma, L.F. (come modificato dall'art. 13 D. Lgs. 5/2006), che impedisce la dichiarazione di fallimento qualora l'ammontare dei debiti scaduti e non pagati risultanti dall'istruttoria prefallimentare è, complessivamente, d'importo inferiore a venticinquemila euro.
Sotto il secondo profilo, è opportuno ricordare che, già con la normativa previgente, sempre a causa della infelice formulazione dell'art. 1 L.F., si erano create incertezze interpretative sulla nozione di piccolo imprenditore ai fini fallimentari: sul punto era poi intervenuta in via risolutiva la Corte Costituzionale la quale, con sentenza 22 dicembre 1989, n. 570, aveva dichiarato l'illegittimità dell'art. 1 L.F. prev. nella parte in cui prevedeva la possibilità di identificare il piccolo imprenditore in colui che esercitando un'attività commerciale investisse nell'azienda un capitale non superiore a lire novecentomila. La stessa Corte, inoltre, proseguiva conferendo all'interprete il potere-dovere di individuare, in concreto, l'intervallo dimensionale rientrante nella categoria di piccoli imprenditori, dal momento che il limite quantitativo dichiarato illegittimo aveva confinato in aree del tutto marginali l'accertamento del suo mancato superamento.
La sentenza dei giudici fiorentini apre, quindi, nuovi scenari, dal momento che, di fatto, riconosce la fallibilità anche per quei soggetti esercenti attività d'impresa che non superino i limiti predetti, ma che non possono definirsi piccoli imprenditori alla luce dell'art. 2083 c.c. In altre parole, il tribunale di Firenze prende atto della esistenza nella realtà economica di un'ampia fascia di soggetti che non superano i limiti quantitativi legati al capitale investito o ai ricavi lordi, ma che, allo stesso tempo, non hanno i requisiti qualitativi richiesti dalla normativa civilistica, considerandoli, contrariamente al dato letterale dell'art. 1 L.F., assoggettabili a fallimento. A titolo meramente esemplificativo, ma determinante al fine di affermare la veridicità dell'assunto anzidetto, il tribunale di Firenze fa riferimento ad una società in liquidazione che avrebbe i requisiti di piccolo imprenditore non fallibile, in considerazione del fatto che la stessa non potendo svolgere attività imprenditoriale, non sarebbe in grado di superare i limiti posti dall'art. 1 L.F.
La differenza non è di poco conto, non soltanto per i debitori, ma anche per i creditori: è ben diverso, infatti, per un creditore tutelarsi nell'ambito di una procedura concorsuale o, nell'ipotesi in cui l'impresa non sia fallibile, ricorrere agli ordinari strumenti offerti dal diritto civile; senza considerare gli aspetti penalistici derivanti dalla dichiarazione di fallimento.
In conclusione, l'interpretazione della nuova legge fallimentare offerta dai giudici di merito di Firenze offre un importante spunto di riflessione agli interpreti i quali, a causa di un testo normativo ambiguo e frettoloso, sono chiamati ad esprimere giudizi in merito alla individuazione degli imprenditori soggetti alle procedure concorsuali.
In tale ottica, pare lecito affermare che la sentenza qui commentata testimonia un passo indietro, una sorta di "ritorno al passato" che, con maggiore accortezza da parte del legislatore, chiaro probabilmente nelle intenzioni ma non nella terminologia adottata, si sarebbe potuto certamente evitare.
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