Impresa individuale.
Qualifica di piccolo imprenditore ai fini della dichiarazione di fallimento

Per le imprese individuali si discute spesso sulla sussistenza o meno della qualifica di piccolo imprenditore non assoggettabile a fallimento e sulla decorrenza del termine annuale dalla cessazione dell'attività per la proponibilità del ricorso del fallimento.
Sorge quindi il problema della ricerca di indici rivelatori, dell'onere della prova e della natura dell'insolvenza. Come pure nel caso di partecipazione del coniuge, si pone il problema della distinzione tra società di fatto, assoggettabile al fallimento, e impresa familiare.

Cessazione dell'impresa individuale

Generalmente, si concorda nel ritenere sia che la cessazione dell'impresa individuale non è legata a momenti formali, come la chiusura della liquidazione o la cancellazione dal registro delle imprese (al contrario di quanto la più recente pronuncia n. 319/2000 della Corte Costituzionale - sovvertendo la consolidata regola giurisprudenziale - ha stabilito in materia di società commerciali), ma si produce in conseguenza della cessazione di fatto dell'attività di impresa, sia che la fase della liquidazione, benché non necessaria per le imprese individuali (a differenza di quanto accade per le società), di norma tuttavia segue - come nel caso in esame - la fase attiva dell'impresa.
Dottrina e giurisprudenza controvertono invece in ordine al momento in cui l'impresa individuale debba considerarsi effettivamente e definitivamente cessata.
Da una parte, si sostiene che l'impresa muore nel momento in cui cessa l'attività produttiva, benché sussistano ancora organizzazione e rapporti con i terzi, dall'altra, invece, si ritiene che la cessazione dell'impresa si verifichi solo quando alla cessazione dell'attività produttiva si accompagni la disgregazione dell'organismo aziendale.
Non v'è dubbio che qualora l'imprenditore svolga una attività di liquidazione, essa debba essere considerata espressione di una attività di impresa a tutti gli effetti, anche al fine della decorrenza del termine annuale per la dichiarazione di fallimento.
Ciò, tuttavia, non elimina affatto i problemi di individuazione del momento in cui possa dirsi cessata di fatto la liquidazione, in mancanza di un atto formale di chiusura della liquidazione.
Secondo l'orientamento più accreditato esso coinciderebbe con la compiuta disgregazione del complesso aziendale, ossia quando l'imprenditore abbia esaurito tutto l'attivo patrimoniale (rimanenze di magazzino, impianti, attrezzature) per saldare le passività accumulate, nonostante il permanere di alcuni debiti soddisfatti.
In ogni caso, è stato precisato che non potrebbe dirsi cessato l'esercizio dell'impresa fin quando vengano compiute operazioni economiche intrinsecamente identiche a quelle normalmente poste in essere nell'esercizio dell'impresa, ancorché dirette alla disintegrazione dell'azienda. Parimenti, non potrà parlarsi di cessazione dell'impresa e di inizio di una nuova impresa, nelle ipotesi in cui lo stesso imprenditore agisca sotto altra ditta e svolga una diversa attività commerciale, oppure nel caso in cui l'imprenditore, dopo aver alienato l'azienda, continui ad esercitare, o sotto la medesima ditta o sotto una ditta diversa, una nuova impresa con un nuovo complesso aziendale.
In definitiva, il fatto della cessazione dell'attività deve risultare da una serie di manifestazioni assolutamente coincidenti in merito alla effettiva intenzione dell'imprenditore di voler irrevocabilmente cessare l'attività commerciale. Difatti, mentre l'intenzione può mutare, i fatti soltanto costituiscono un dato positivo irrevocabile.

Definizione di piccolo imprenditore

Per quanto attiene al secondo profilo inerente alla dedotta qualità di piccolo imprenditore della opponente ed alla consequenziale insussistenza del presupposto soggettivo della dichiarazione di fallimento ed all'onere della prova è noto che dopo l'abolizione dell'imposta di ricchezza mobile, il cui minimo imponibile fungeva da parametro principale per la individuazione della qualità di piccolo imprenditore e l'espunzione, ad opera della Corte costituzionale (sentenza n. 570/1989), del parametro sussidiario del capitale investito non superiore a lire novecentomila (art. 1, l. fall.), l'unico criterio applicabile per la attribuzione della qualità di piccolo imprenditore rimane quello previsto in linea generale dall'art. 2083, codice civile.
Alla stregua della norma posta dall'articolo appena citato, riveste la qualità di piccolo imprenditore commerciale, tra l'altro, il piccolo commerciante «che esercita una attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia».
Il criterio posto dall'articolo in commento per il riconoscimento della qualità di piccolo imprenditore è dunque quello della prevalenza del lavoro proprio e dei componenti della famiglia sul capitale investito e sul lavoro dipendente dei terzi estranei alla famiglia.
Il giudice, pertanto, è chiamato a formulare, caso per caso, un giudizio di prevalenza tra il capitale investito ed il lavoro esterno, da una parte, ed il lavoro dell'imprenditore e dei suoi familiari, dall'altra.
Se all'esito del giudizio prevarranno i primi fattori, l'imprenditore sarà considerato un imprenditore commerciale non piccolo, assoggettato, come tale, allo statuto dell'imprenditore commerciale, inclusa la sua assoggettabilità al fallimento.
Qualora invece, la prevalenza verrà accordata al lavoro personale dell'imprenditore e dei suoi familiari, egli sarà considerato piccolo imprenditore commerciale, affrancato dallo statuto dell'imprenditore commerciale ed in particolare, dalle procedure concorsuali (art. 2221, codice civile ed art. 1, l. fall.).
Per la formulazione del giudizio di prevalenza il giudice dovrà ricercare e valutare, in maniera comparata e bilanciata, gli indici rivelatori delle reali dimensioni dell'impresa e del valore economico assunto da ciascuno dei fattori della produzione impiegati.
Il rapporto di prevalenza tra il lavoro dell'imprenditore e dei suoi familiari, da una parte, ed i fattori della produzione utilizzati dallo stesso (capitale e lavoro dipendente di terzi), dall'altra, non va riferito esclusivamente al giro ed al volume degli affari, poiché essi si collegano soprattutto alla circolazione, più o meno rapida, del capitale investito. Ciò non toglie, tuttavia, che l'esame di flussi finanziari facenti capo all'impresa possano valere da supporto alla determinazione del capitale investito, in quanto la misura del giro di affari è normalmente commisurata all'espansione raggiunta dall'impresa, cui contribuisce il capitale in essa investito.
Al fine di un raffronto più appropriato tra queste due componenti, occorrerà prendere in esame dati omogenei: da una parte la remunerazione figurativa dell'imprenditore e le retribuzioni dei familiari su base annua, dall'altra gli incrementi di esercizio, le quote di ammortamento dei cespiti di durata pluriennale, i corrispettivi per l'uso di opifici e attrezzature in locazione, ordinaria o finanziaria, o utilizzati con riserva di proprietà, i corrispettivi per i servizi necessari alla produzione, le retribuzioni dei lavoratori dipendenti non familiari ed infine il capitale circolante.
È necessario, tuttavia, introdurre come importante correttivo (per evitare che la raffigurazione reale del rapporto capitale - lavoro pecchi per difetto) quello delle immobilizzazioni (beni immobili e mobili strumentali) anche se non riguardano investimenti fatti nell'anno di riferimento.
Difatti, la consistenza patrimoniale, anche se relativa ad anni precedenti, inerisce direttamente il modo di organizzare la produzione dell'imprenditore, con correlativa diminuzione del rischio d'impresa, maggiore possibilità di credito e diminuzione del contributo umano, in quanto maggiori sono stati gli investimenti materiali nella produzione, minore è la forza lavoro necessaria.
Sul piano più strettamente processuale va poi ricordato che la "piccolezza" dell'impresa esercitata è una qualità che, a norma dell'art. 1, primo comma, l. fall., esenta l'imprenditore commerciale dall'assoggettabilità a fallimento, lo sottrae, cioè, da quella particolare forma di tutela giurisdizionale del credito (se si vuole: azione in senso concreto, come "diritto" al provvedimento di merito favorevole) che si avvia con l'istanza (o ricorso o richiesta) di fallimento ovvero con l'iniziativa ufficiosa tendente allo stesso fine.
In altri termini, detta qualità di "piccolo" imprenditore commerciale funziona come un fatto impeditivo ex art. 2697, codice civile, ossia un fatto che paralizza l'operatività dei fatti costitutivi (esercizio d'impresa ex art. 2082, codice civile qualificazione commerciale dell'attività esercitata ex art. 2195, codice civile, ai fini della fruizione, in concreto, della tutela giurisdizionale in discorso (apertura del concorso dei creditori sul patrimonio del fallito: art. 51, l. fall.).
A queste considerazioni va aggiunto che il giudizio di opposizione alla dichiarazione di fallimento è dominato dal principio inquisitorio, sicché il tribunale ha il potere di ricercare d'ufficio la prova dei presupposti del fallimento. Tuttavia, ciò non vuol dire che la regola dell'onere della prova non debba applicarsi, almeno come regola di giudizio per il caso incerto, ossia per il caso che, nonostante le iniziative istruttorie ufficiose, permanga il dubbio circa la sussistenza di taluno dei presupposti (qualità di imprenditore commerciale, stato di insolvenza) ovvero di qualche esimente (qualità di ente pubblico o di piccolo imprenditore commerciale) o circostanza impeditiva (decorso dell'anno dalla cessazione dell'impresa o dalla morte).
Alla stregua di quanto innanzi detto, l'applicazione della regola di giudizio, racchiusa nell'art. 2697, codice civile (cui nessuna deroga porta la legge fallimentare), implica che il dubbio sulla "piccolezza" o meno dell'imprenditore dedotto va risolto in senso negativo.
Si può ammettere che il fallito opponente non abbia un vero e proprio onere di provare di essere un piccolo imprenditore commerciale, ma, ove la dedotta "piccolezza" non risulti provata, neanche ex officio iudicis, egli deve essere considerato imprenditore commerciale sic et simpliciter, come tale passibile di fallimento; sicché la sua opposizione non può essere accolta (Trib. Cassino 27 gennaio 1992).

La natura dell'insolvenza

Circa il terzo profilo relativo alla natura dell'insolvenza, si osserva che l'insolvenza consiste in una situazione d'impotenza e di crisi, economica e finanziaria, definitiva e non transitoria, che si realizza quando l'imprenditore stesso non è più in grado di adempiere regolarmente e con i normali mezzi di pagamento le proprie obbligazioni, essendo cessate le condizioni di liquidità e di credito necessarie allo svolgimento della propria attività commerciale.
L'insussistenza dello stato di decozione dell'imprenditore commerciale non dipende dalla superiorità degli elementi patrimoniali attivi rispetto a quelli passivi, ancorché manchi un'adeguata riserva di liquidità (Cass. 11 maggio 1981, n. 3095).
L'insolvenza, poi, non è un fenomeno che si riferisce al soggetto imprenditore, ma si riflette sull'impresa e sulla possibilità di essere gestita correttamente.
Essendo quindi una situazione che si proietta sull'andamento dell'impresa, non può essere dato rilievo agli elementi attivi del patrimonio astrattamente realizzabili mediante la sua liquidazione, ma soltanto all'attuale consistenza di liquidità a breve e medio termine posseduta dal debitore.
Soltanto con il denaro contante, nonostante esso venga reperito mediante il ricorso al credito pubblico o privato, l'imprenditore è posto in condizione di condurre una normale gestione della propria impresa; fattore sul quale fanno affidamento i creditori, poiché quando esiste il denaro contante v'è la certezza di continuità della attività commerciale, cosa che poi assicura il regolare adempimento dei debiti.
Se l'imprenditore riesce a procurarsi il denaro necessario per pagare prima della scadenza delle obbligazioni vendendo i propri beni e ripristinando definitivamente la liquidità, non si determina lo stato d'insolvenza, ma quando alla scadenza dell'obbligazione mancano i mezzi finanziari od essi sono stati procurati in maniera da ripristinare solo temporaneamente la liquidità, l'insolvenza è conclamata.
Ed infatti, qualora l'imprenditore sia dovuto ricorrere ad atti di liquidazione patrimoniale o, peggio ancora, aziendale, tali da non permettergli più il regolare svolgimento della propria attività commerciale, le obbligazioni non sarebbero adempiute con quella regolarità richiesta dall'art. 5, l. fall. e ciò costituirebbe una palese dimostrazione dello stato d'insolvenza dell'imprenditore.
C'è dunque insolvenza anche se l'attivo supera il passivo ed esso non sia prontamente liquidabile prima della scadenza dei debiti, oppure se la vendita dei beni possa compromettere per il futuro la regolare gestione dell'impresa.
Secondo l'orientamento giurisprudenziale prevalente, anche il mancato adempimento di un solo debito può diventare indice di un più generale stato di dissesto economico - finanziario irreversibile, posto che questo giudizio può trovare conferma proprio nell'incapacità dell'imprenditore di onorare nei termini (convenzionali o d'uso) debiti di modesta entità.
Infine, l'inadempimento di un credito contestato non costituisce sintomo dello stato di insolvenza soltanto quando le contestazioni non appaiono manifestamente infondate e siano oggetto di accertamento giudiziale in corso, né sussistano altri crediti non contestati che rappresentino di per sé il sintomo inequivocabile di uno stato di illiquidità definitivo e non transeunte.
Inoltre, l'esito del giudizio di opposizione alla dichiarazione di fallimento non è condizionato dalla sussistenza o meno del credito vantato da una o più creditori istanti, in quanto l'accertamento dello stato di insolvenza all'epoca dell'apertura della procedura concorsuale può fondarsi anche su circostanze diverse da quelle poste a fondamento della sentenza dichiarativa di fallimento e solo successivamente conosciute.

La "fallibilità" dell'impresa artigiana. Prova del vincolo sociale

Quanto all'ultima questione, inerente la fallibilità dell'impresa artigiana di cui faccia parte il coniuge dell'artigiano, si osserva che il più recente orientamento giurisprudenziale in tema di società di fatto fra coniugi prevede che la prova del vincolo sociale, sia dal lato interno, che dal lato esterno, deve essere particolarmente rigorosa, dovendosi basare su elementi e circostanze gravi e concludenti, tali da escludere che l'intervento del familiare nei rapporti commerciali dell'imprenditore possa essere motivato dall'affectio familiaris, anziché dall'affectio societatis.
Sicché, di regola, non è di per sé sufficiente la dimostrazione di finanziamenti e/o pagamenti ai creditori dell'impresa da parte del congiunto dell'imprenditore, costituendo questi atti neutri, spiegabili anche in chiave di solidarietà familiare, dovendo invece risultare chiaramente che gli aiuti materiali e finanziari e le garanzie concesse da un coniuge in favore dell'altro non rientrino nei normali vincoli affettivi, ma in un preciso accordo di carattere societario (Cass. 26 luglio 1996, n. 6770, in Il Fallimento, 1997, 162; Trib. Cassino 14 giugno 1995 (decr.), in Il Fallimento, 1996, 293).
Il giudice di legittimità ha anche enunciato il principio secondo il quale fideiussioni e finanziamenti in favore dell'imprenditore non sono, di per sé, idonei in assoluto ad evidenziare il rapporto sociale tra quest'ultimo ed il finanziatore od il garante, potendo costituire indici rivelatori del rapporto stesso qualora, alla stregua della loro sistematicità e di ogni altra circostanza del caso concreto, siano ricollegabili ad una costante opera di sostegno dell'attività dell'impresa, qualificabie come collaborazione del socio al raggiungimento degli scopi sociali (Cass. 10 agosto 1990, n. 8154; Id., 4 agosto 1988, n. 4827; Id., 17 ottobre 1986, n. 6087).
Si è pertanto ritenuto che, in assenza di altre circostanze indiziarie, la firma per avallo di alcuni vaglia cambiari non solo non è di norma sufficiente ad evidenziare il rapporto sociale, ma a maggior ragione non può esserlo quando il garante è il coniuge dell'imprenditore, posto che in tale caso deve trattarsi di comportamenti qualificati e concludenti, rappresentativi di quell'affectio societatis immanente alla struttura societaria e non spiegabili anche in chiave di solidarietà familiare.
Difatti, il rilevante apporto lavorativo e finanziario offerto dall'opponente al coniuge, formalmente imprenditore individuale, non può essere inquadrato né nell'ambito dei doveri di assistenza materiale, di collaborazione e di contribuzione nascenti dal vincolo coniugale (art. 143, codice civile), né in quello della prestazione continuativa di lavoro nell'impresa familiare del proprio coniuge (art. 230 bis, codice civile).
Quest'ultimo è un istituto residuale che - come dispone l'articolo da ultimo citato - trova applicazione soltanto nel caso in cui non sia configurabile un diverso tipo di rapporto: di lavoro subordinato oppure di società.
Solo il titolare dell'impresa familiare assume la qualifica di imprenditore, in quanto l'impresa non si trasforma, a cagione del lavoro dei familiari, in impresa collettiva.
Soltanto costui risponde con tutto il suo patrimonio per le obbligazioni contratte nell'esercizio dell'impresa e solo lui fallisce in caso di insolvenza.
A differenza di quanto accade per le decisioni inerenti alla gestione straordinaria ed agli indirizzi produttivi, all'impiego degli utili e degli incrementi ed alla cessazione dell'impresa, che devono essere deliberate a maggioranza da tutti i familiari partecipanti, la gestione ordinaria spetta soltanto al titolare dell'impresa, il quale ha, altresì, il potere direttivo sui dipendenti, compresi i familiari.