RECENTI ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI

IN TEMA DI PATTI PARASOCIALI

I patti parasociali possono essere definiti come quegli accordi stipulati dai soci, al di fuori dell’atto costitutivo e dello statuto, diretti a regolare reciprocamente i rapporti e gli obblighi che scaturiscono dal contratto sociale.
Essi possono essere stipulati tra tutti i soci, o soltanto tra alcuni di essi, al momento della costituzione della società o anche in un momento successivo.

Tali patti, pur collocandosi -quindi- al di fuori del contratto di società, sono senza dubbio correlati e subordinati ad esso, regolamentando situazioni giuridiche originanti da tale contratto.

I patti parasociali possono essere giuridicamente considerati come dei contratti e, più in particolare, possono essere ricondotti all’ampia categoria dei contratti atipici, come tali, essi non sono assoggettati alle norme previste dal diritto societario, bensì alle norme di legge che disciplinano il contratto e le obbligazioni.

Da ciò discende che essi non hanno efficacia reale ma semplicemente obbligatoria, in ossequio al disposto dell’art. 1372 c.c.

Il patto parasociale, infatti, vincola esclusivamente i contraenti, non dispiegando effetti nei confronti dei terzi estranei alla convenzione, siano essi gli altri soci, la società o soggetti terzi. Un eventuale inadempimento rileva, perciò, soltanto come fonte di responsabilità contrattuale.

L’unico limite alla legittimità dei patti parasociali è il perseguimento di un fine antisociale, o l’eventuale violazione di norme inderogabili, come quelle fissate in materia di funzionamento ed organizzazione della società.

I patti parasociali sono diffusi già da molto tempo nella prassi societaria, ricevendo un riconoscimento sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza. In particolar modo è da notare che negli ultimi tempi la giurisprudenza ha ribaltato il suo precedente orientamento di sfavore per ammettere la validità dei patti (si possono in proposito ricordare, a titolo esemplificativo, la sentenza della Suprema Corte di Cassazione n. 9975 del 20 settembre 1995, e la sentenza della Corte Di Appello di Milano del 24 luglio 1998).

Una esplicita regolamentazione legislativa di tali patti è, però, intervenuta soltanto a seguito del d.lgs. 24 febbraio 1998 n. 58 - Testo Unico delle disposizioni in materia di mercati finanziari ai sensi degli artt.8 e 21 della L. 2 febbraio 1996 n. 52 (cd. Riforma Draghi), il quale ha provveduto ad una loro tipizzazione da un punto di vista contenutistico e soggettivo.

Più in particolare il T.U. si occupa dei patti parasociali agli artt.122, 123 e 207, affermando la validità dei patti stessi, purché resi pubblici. Il legislatore, considerato il fatto che i patti parasociali rappresentano strumenti idonei ad esercitare un controllo sulla società, ha perseguito con tali norme l’obiettivo di rendere trasparenti i patti stessi, dettando, per essi, specifici oneri di pubblicità, e ciò al fine specifico di tutelare il risparmio e gli azionisti di minoranza.

Il legislatore ha, altresì, previsto che i patti parasociali possano essere stipulati a tempo determinato o a tempo indeterminato. Nel primo caso la loro durata massima è di tre anni, con possibilità di essere rinnovati alla loro scadenza, nel secondo caso, invece, ciascun contraente ha diritto di recedere con un preavviso di sei mesi.

Le norme citate si riferiscono, comunque, solamente ad alcune tipologie di patti, ossia, innanzitutto, ai patti aventi per oggetto l’esercizio del voto (sindacati di voto), e, in secondo luogo, ai patti che istituiscono obblighi di preventiva consultazione per l'esercizio del diritto di voto, ai patti che pongono limiti al trasferimento delle relative azioni o di strumenti finanziari che attribuiscono diritti di acquisto o di sottoscrizione delle stesse, oppure che prevedono il loro acquisto, e, infine, a quelli aventi per oggetto o per effetto l'esercizio anche congiunto di un'influenza dominante su tali società.

Si tratta, in ogni caso, di norme che trovano applicazione esclusivamente nelle società con azioni quotate e nelle società che le controllano.

Nella recente legge delega per la riforma del diritto societario (legge n. 366 del 2001) il legislatore ha nuovamente preso in considerazione i patti societari.

Nell’art. 4, comma 7. lettera c) la legge delega dispone che la riforma è diretta a "prevedere una disciplina dei patti parasociali, concernenti le società per azioni o le società che le controllano, che ne limiti a cinque anni la durata temporale massima", e, per le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, che "ne assicuri il necessario grado di trasparenza attraverso forme adeguate di pubblicità".

Pur essendo, ovviamente, riduttivo fermarsi a considerare unicamente le norme dettate da una legge delega, e dovendo attendere l’emanazione del decreto legislativo per poter addivenire a conclusioni più complete, si può, comunque, notare come la volontà del legislatore sia stata espressa nel senso di prevedere la regolamentazione di tali patti solo per ipotesi specifiche. In effetti, se ci si attiene al dato letterale, si deve concludere che soltanto i patti parasociali delle società per azioni avrebbero una previsione di durata massima e soltanto i patti delle società che fanno ricorso ai capitali di rischio dovrebbero essere sottoposti a pubblicità.

Posta la questione in questi termini, non si comprende il motivo per cui si sono volute limitare tali prescrizioni legislative soltanto a queste determinate tipologia di società.

Il problema si pone essenzialmente con riferimento ai detti oneri di pubblicità cui dovrebbero essere sottoposti i patti sociali. Come già affermato con riferimento alle norme previste per le società con azioni quotate dal T.U. delle disposizioni in materia di mercati finanziari, la ratio di una disposizione che imponga oneri di pubblicità è da ricercare nell’esigenza di garantire la più piena trasparenza delle operazioni che avvengono all’interno della società. Pur dovendosi, infatti affermare la possibilità che i soci si accordino per prevedere l’operatività di regole diverse rispetto a quelle predisposte dallo statuto o dall’atto costitutivo, essendo un’ipotesi ormai diffusa, allo stesso tempo sarebbe, altresì, necessario garantire una tutela ai soci non stipulanti i patti, e ai terzi, titolari di un qualche interesse verso la società, in modo che essi siano, comunque, in grado di conoscere il modo con cui concretamente opera la società stessa.

Per fare questo, probabilmente, sarebbe opportuno dettare una regola, di carattere generale, che affermasse la invalidità dei patti occulti.

Come in precedenza affermato, la giurisprudenza è, comunque, costante nell’affermare sia la validità dei patti parasociali sia la loro efficacia meramente obbligatoria. Tale orientamento risulta affermato anche da due recenti pronunce della Corte di Cassazione, nelle quali viene enunciato il principio in base al quale il patto, essendo un contratto a tutti gli effetti, vincola esclusivamente le parti contraenti, non potendo inficiare in alcun modo i rapporti dei soci con la società. Il patto si sostanzia, perciò, come una semplice formalizzazione di un accordo sulle modalità con cui gestire il rapporto societario, accordo che trova la sua ragione di esistere nella volontà di regolamentare le dinamiche societarie secondo schemi predefiniti. Nonostante ciò, il socio rimane comunque sempre libero di determinare la propria scelta nel caso concreto, ossia rimane libero di agire liberamente, a prescindere da quelli che possono essere stati gli accordi precedentemente presi. La conseguenza, infatti, di un’eventuale comportamento del socio difforme rispetto agli impegni presi in sede di stipulazione di patti parasociali, si concretizzerà soltanto in un inadempimento contrattuale, ma non avrà alcuna rilevanza rispetto ai rapporti societari.

Nella sentenza n. 14629 del 21/11/2001 della Corte di Cassazione si legge, infatti, che "in tema di società per azioni, il patto cosiddetto <<parasociale>> con il quale alcuni soci coordino tra loro condizioni e modalità di sottoscrizione di un aumento del capitale sociale vincola, per definizione, esclusivamente i soci contraenti, e non anche la società che è, rispetto al patto stesso, terza".

Nella sentenza n. 14865 del 23/11/2001 è stato, invece, affermato che "i patti parasociali (e, in particolare, i cosiddetti sindacati di voto) sono, nella loro composita tipologia (che non consente, pertanto, la riconduzione ad uno schema tipico unitario), accordi atipici, volti a disciplinare, in via meramente obbligatoria tra i soci contraenti, il modo in cui dovrà atteggiarsi, su vari oggetti (nella specie, circa la nomina di amministratori societari), il loro diritto di voto in assemblea; il vincolo che discende da tali patti opera, pertanto, su di un terreno esterno a quello dell’organizzazione sociale (dal che, appunto, il loro carattere <parasociale> e, conseguentemente, l’esclusione della relativa invalidità ipso facto) sicché non è legittimamente predicabile, al riguardo, né la circostanza che al socio stipulante sia impedito di determinarsi autonomamente all’esercizio al voto in assemblea, né quella che il patto stesso ponga in discussione il corretto funzionamento dell’organo assembleare (operando il vincolo obbligatorio così assunto non dissimilmente da qualsiasi altro possibile motivo soggettivo che spinga un socio a determinarsi al voto assembleare in un certo modo), poiché al socio non è in alcun modo impedito di optare per il non rispetto del patto di sindacato ogni qualvolta l’interesse ad un certo esito della votazione assembleare prevalga sul rischio di dover rispondere all’inadempimento del patto." E, ancora "in tema di contratti cosiddetti <<parasociali>>, il patto in virtù del quale alcuni soci di una società per azioni si vincolino a fare sì che coloro che detengono le partecipazioni azionarie, in loro possesso all’atto della conclusione del patto, abbiano e conservino la possibilità di designare un certo numero di amministratori e di sindaci della società, non è nullo, pur essendo a tempo indeterminato, non implicando una limitazione alle possibilità del socio di esercitare liberamente il proprio diritto di voto in assemblea, e potendo quanto al rapporto meramente obbligatorio da esso derivante, essere in ogni tempo oggetto di recesso unilaterale da parte del socio firmatario".

di Leila Tessarolo – tratto da: www.dirittodeiservizipubblici.it