L'onere della prova in materia di demansionamento:
la recente giurisprudenza
Dall'illegittima attribuzione ad un lavoratore di mansioni inferiori rispetto a quelle assegnategli al momento dell'assunzione in servizio (o dal porre lo stesso nelle condizioni di non effettuare alcuna prestazione lavorativa) può derivare non solo la violazione dell'art. 2103 (1) Codice Civile, ma anche la lesione del diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, tutelato dagli artt. 1 e 2 della Costituzione, con diritto dell'interessato al risarcimento del danno (2).
La conseguente dequalificazione richiama la tutela della personalità del lavoratore, ex art. 2087 C.C., ergo la responsabilità contrattuale del datore di lavoro come debitore, ai sensi dell'art. 1218 C.C. e, sotto il profilo del risarcimento del danno, ai sensi dell'art. 1223 C.C..
Uno dei tratti tipici distintivi, fra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, la quale ultima scaturisce dalla commissione di un fatto illecito, lesivo dell'altrui sfera giuridica (ex art. 2043 C.C.), riguarda l'onere della prova: mentre nella responsabilità extracontrattuale la vittima deve fornire la prova della colpa di colui che lo ha danneggiato, nella responsabilità contrattuale il debitore è chiamato a provare la sua mancanza di colpa.
Sotto tale profilo, due ipotesi, tra loro alternative, hanno diviso la giurisprudenza, sino a rendere necessaria una pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione, la sentenza 2 febbraio-24 marzo 2006, n. 6572:
- il demansionamentodetermina automaticamente un danno al lavoratore che lo subisce, vale a dire l'effetto dannoso è in re ipsa all'inadempimento del datore di lavoro;
- il danno non è insito nel demansionamento; il lavoratore dovrà sempre fornirne prova, rilevando altresì il nesso eziologico tra l'inadempimento datoriale ed il danno medesimo, oltre a specificare, anche ai fini della determinazione del quantum del risarcimento, quale fra le variegate tipologie di danno ritenga di avere subito.
Le Sezioni Unite hanno aderito al secondo orientamento (3), accantonando il primo che, peraltro, rappresenta l'importo del risarcimento - da riconoscere in ragione del mero accertamento del demansionamento, senza onere probatorio a carico del lavoratore - "come somma-castigo, vale a dire una sanzione civile punitiva, inflitta sulla base del mero inadempimento, in spregio agli ordinari principi civilistici di cui agli artt. 1218 e 1223 cod. civ.".
Ebbene, detta pronuncia ha riconosciuto centralità all'adempimento probatorio, oltre ad aver posto in rilievo i pregiudizi tipici scaturenti dalla dequalificazione - danno professionale, danno all'integrità psico-fisica o danno biologico, danno esistenziale - ribadendo che, anche a causa di siffatta complessità d'effetti, si rende necessaria una prova completa e dettagliata della lesione subita.
Il danno professionale, dal momento che può consistere in una deminutio della professionalità, come nella perdita dell'occasione di accrescere la medesima (perdita di chance) o di realizzare altre situazioni propizie, richiede una prova volta a dimostrare che lo svolgimento continuo dell'attività lavorativa avrebbe garantito tali vantaggi, svaniti, sia pur nella potenzialità di conseguirli, dal momento dell'offesa allo status professionale del lavoratore, conseguita al demansionamento.
Il danno biologico, inteso come lesione all'integrità psicofisica della persona (4), dipende necessariamente dall'accertamento medico-legale e, pertanto, la sua prova risulta evidentemente più agevole.
Il danno esistenziale, come danno non patrimoniale, è stato definito dal Collegio, nella pronuncia in parola, come "ogni pregiudizio che l'illecito datoriale provoca sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno". E'sottolineata, così, la verificabilità oggettiva del pregiudizio subito, dimostrabile attraverso la prova tangibile del cambiamento di vita indotto dall'evento dannoso, a differenza del danno morale, di matrice emotiva ed interiore ("non meri dolori e sofferenze, ma scelte di vita diverse").
All'uopo, possono essere utilizzati tutti i mezzi probatori previsti dall'ordinamento giuridico, dalla prova precostituita, attraverso la produzione in giudizio di documentazione significativa, all'assunzione in giudizio delle testimonianze di familiari, colleghi ecc.
Considerate, nondimeno, le caratteristiche del danno in parola, un particolare rilievo assume certamente la prova per presunzioni, in forza delle quali da un fatto ignoto si risale ad un fatto noto. Si tratta di risultanze che il giudice deduce, al fine di formare il proprio convincimento, in ordine a contingenze non provate, fermo restando il presupposto necessario di un sostrato di riferimento concreto cui ancorare le proprie valutazioni (il fatto noto di cui all'art. 2727 C.C.), che le Sezioni Unite, in relazione alla fattispecie sottoposta al loro vaglio, ritengono costituito da elementi quali: "durata, gravità, conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro della operata dequalificazione, frustrazione di (precisate e ragionevoli) aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti la avvenuta lesione dell'interesse relazionale, gli effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto".
Il giudice deve dunque decidere iuxta alligata et probata.
Nondimeno, precede logicamente ogni rilievo sulla prova del danno quello sull'imputabilità del medesimo, in virtù dei criteri generali di cui al citato art. 1218 C.C..
Sul punto, di recente, la Sezione Lavoro della Cassazione, con la sentenza n. 13821 del 27 maggio 2008,ha ribadito che, ove sia contestata ad un datore di lavoro la dequalificazione professionale subita da un suo dipendente, per inosservanza dell'art. 2103 C.C., il medesimo è chiamato a provare, al contrario, l'esatto adempimento dell'obbligo ivi sancito, dimostrando la mancanza in concreto di qualsiasi dequalificazione o demansionamento, oppure che la ricorrenza di questi, in danno del lavoratore, trova giustificazione nel legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari, se non in causa a lui non imputabile.
Già in precedenza la Cassazione, con la sentenza 2 agosto 2006, n. 17564 della Sezione I, aveva chiarito che la violazione del diritto del lavoratore all'esecuzione della propria prestazione è fonte di responsabilità risarcitoria per il datore di lavoro, giudicando un caso, vieppiù significativo in chiave mobbing, di lavoratore lasciato in condizioni di forzata inattività e privo di compiti, ancorché senza conseguenze sulla retribuzione. Responsabilità che, derivando dall'indampimento di un'obbligazione, resta pienamente soggetta alle regole generali in materia di responsabilità contrattuale, sicché, se essa prescinde da uno specifico intento di declassare o svilire il lavoratore a mezzo della privazione dei suoi compiti, la responsabilità stessa deve essere nondimeno esclusa - oltre che nei casi in cui possa ravvisarsi una causa giustificativa del comportamento del datore di lavoro connessa all'esercizio di poteri imprenditoriali, garantiti dall'art. 41 Cost., ovvero di poteri disciplinari - anche quando l'inadempimento della prestazione derivi comunque da causa non imputabile all'obbligato, fermo restando che, ai sensi dell'art. 1218 C.C., l'onere della prova della sussistenza delle ipotesi ora indicate grava sul datore di lavoro, in quanto avente, per questo verso, la veste di debitore (5).
Va in definitiva ampliandosi l'ambito di derogabilità dell'art. 2103 C.C. attraverso patti in deroga, espressio per facta concludentia, con crescente flessibilità nell'applicazione della regola dell'equivalenza allo jus variandi che, fermo il consenso del lavoratore, trova limite inderogabile nel mero interesse dell'impresa.
NOTE
(1) Il testo vigente dell'art. 2103 del Codice Civile, rubricato "Mansioni del lavoratore", è stato introdotto dall'art. 13 della legge 20 maggio 1970, n. 300, lo Statuto dei lavoratori. La norma precedente disegnava uno ius variandi, ossiail diritto di modificare le mansioni del lavoratore, come potere unilaterale del datore di lavoro, che trovava limite solo nella retribuzione. In pratica, al lavoratore potevano essere richieste mansioni diverse da quelle per le quali era stato assunto, purché ciò non comportasse una riduzione della sua paga.
In virtù del novellato art. 2103, ogni modifica in peius delle mansioni del lavoratore è divenuta illegittima, anche se a retribuzione invariata. Sin da allora, quindi, il legislatore si è mostrato consapevole che non può essere il livello retributivo il presidio della dignità del lavoratore.
La citata norma codicistica si apre con il c.d. principio della contrattualità della prestazione lavorativa: il contenuto di tale ultima obbligazione è determinato al momento dell'assunzione, quando si attribuiscono le mansioni iniziali, quelle alle quali si fa riferimento - sempre che non ne siano state assunte altre successivamente - per verificare l'eventuale dequalificazione professionale che il lavoratore abbia a subire.
(2) Così Cass. Sez. Lav. 12/11/2002, n. 15868.
(3) Nella sentenza in parola sono ricordate altre pronunce riconducibili a tale orientamento: Cass. Civ. 10361/2004; Cass. Civ. 16792/2003; Cass. Civ. 8904/2003; Cass. Civ. 2561/1999; Cass. Civ. 7905/1998; Trib. Agrigento 1 febbraio 2005.
(4) Come definito all'articolo 5 comma 3 della legge 5 marzo 2001, n. 57, in epigrafe "Disposizioni in materia di apertura e regolazione dei mercati, il c.d. "collegato mercati", con riferimento alla responsabilità civile auto: "(.) per danno biologico si intende la lesione all'integrità psicofisica della persona, suscettibile di accertamento medico-legale (.)".
(5) Così in Mass. Giur. It., 2006, CED Cassazione, 2006 da Deaprofessionale sub art. 2103.
Autore: D. Trombino (tratto da www.ilpersonale.it - 24/7/2008)