L’ONERE DI CONTESTAZIONE
NEL PROCESSO DEL LAVORO

   

Sommario:  1. L’onere di contestazione e l’interpretazione delle Sezioni Unite che equipara il fatto non contestato al fatto pacifico. – 2. L’irrilevanza di una contestazione tardiva. – 3. Le opinabili ragioni della scelta interpretativa delle Sezioni Unite. – 4. La deduzione tempestiva del fatto come presupposto indefettibile dell’onere di contestazione. – 5. La bilateralità dell’onere di contestazione. – 6. L’assolvimento dell’onere di contestazione mediante negazione del fatto.

 

1.      La sentenza della Cassazione a Sezioni Unite 23 gennaio 2002 n. 761 (Foro Italiano, 2002, I, 2019) riguarda l'onere del convenuto di "prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti affermati dall'attore a fondamento della domanda" (art. 416, comma 3°, c.p.c.).

Ad avviso delle Sezioni Unite, in presenza di questo onere, la mancata contestazione rende pacifico il fatto e, quindi, "rende inutile provarlo, poiché non controverso … vincolando il giudice a tenerne conto senza alcuna necessità di convincersi della sua esistenza".
La non contestazione viene, così, espressamente equiparata dalla Corte alla ammissione implicita, che, invece, in assenza di un onere legale di contestazione, è tradizionalmente riconosciuta solo nei casi in cui l'impostazione difensiva del convenuto sia logicamente incompatibile con la negazione del fatto.

E non a caso le Sezioni Unite intendono inserirsi in questo solco, affermando che, in presenza del ricordato espresso onere legale, "la mancata contestazione … rappresenta, in positivo e di per sé, l'adozione di una linea difensiva incompatibile con la negazione del fatto".
Si attribuisce, così, alla omissione o genericità della contestazione doverosa un effetto legale tipico, consistente nella pacificità del fatto non adeguatamente contestato.
Non si tratta di una sanzione, che non è scritta nella legge, ma della individuazione in via interpretativa della conseguenza sistematica del mancato assolvimento dell'onere di contestazione.

Questa particolare ipotesi di ammissione implicita non è rimessa alla valutazione caso per caso del giudice circa la effettiva incompatibilità logica tra impostazione difensiva del convenuto e negazione del fatto, ma viene ricavata una volta per tutte direttamente dalla legge, intesa nel senso della automatica equiparazione tra omessa o generica contestazione e ammissione del fatto non contestato.

 

2.      Dalla qualificazione del fatto non contestato come fatto pacifico deriva la irreversibilità della originaria non contestazione, non in forza di una decadenza che, come riconoscono le Sezioni Unite, non è scritta nella legge, ma anche qui in via di interpretazione sistematica.

Invero l'esercizio del potere dispositivo delle parti di delimitare l'area dei fatti controversi non è suscettibile di successivi ripensamenti in un processo, come quello del lavoro, in cui alla prima udienza i confini di fatto della lite  devono essere ormai definitivamente delineati, salvo le ipotesi eccezionali di cui all'art. 420, c. 1°, c.p.c.

 

3.      L'impostazione delle Sezioni Unite riposa, dunque, esclusivamente sulla equiparazione tra fatto non contestato e fatto pacifico, ricavata in via interpretativa dalla regola espressa di doverosa contestazione e, a sua volta, presupposto della condivisibile affermazione sistematica di irreversibilità della non contestazione.

La scelta di risolvere il contrasto interno alla Cassazione attribuendo alle disposizioni sull'onere di contestazione nel processo del lavoro (art. 416, c. 3, cod. proc. civ.) e nel processo civile (art. 167, c. 1, cod. proc. civ.) il significato "forte" di qualificazione del fatto  non contestato come fatto pacifico anzi che il significato "debole" di fonte per un mero argomento di prova (art. 116, c. 2, cod. proc. civ.) non è sistematicamente necessitata.
Si tratta di una opzione interpretativa possibile, al pari, però, dell'altra non a caso preferita dalle stesse Sezioni Unite per i fatti secondari, in base ad una opinabile (e già disattesa da Cass. 17 aprile 2002 n. 5526, FI, 2002, I, 2017) distinzione, che confonde l'accertamento del fatto con la successiva utilizzazione dello stesso per il convincimento del giudice. In realtà la sottrazione dei fatti secondari al principio affermato per i fatti principali sembra più che altro diretta a temperare l'aggravamento della posizione del convenuto, forse proprio nella consapevolezza che tale aggravamento si sarebbe potuto anche evitare con motivazione altrettanto elegante.
A ben vedere non è sancito in alcun principio di civiltà giuridica, né tanto meno costituisce corollario indispensabile del modello del rito del lavoro che l'omissione da parte del convenuto della contestazione doverosa significhi univocamente ammissione del fatto non contestato con il conseguente effetto di esentare il ricorrente dall'onere della prova di tale fatto costitutivo della propria domanda.

La ragione della scelta interpretativa delle Sezioni Unite non può essere rinvenuta nella necessità che alla prima udienza sia definitivamente delimitato l'ambito dei fatti controversi, poiché a tal fine è indifferente che il fatto non contestato resti o no in tale ambito, di cui entrambe le opzioni assicurano al giudice la piena immediata conoscibilità.
Quello che cambia è solo la dimensione dell'area dei fatti controversi come tali bisognosi di prova, poiché solo l'equiparazione del fatto non contestato al fatto pacifico riduce tale area, mentre nella contraria impostazione, che assegna alla non contestazione il valore di mero argomento di prova, il fatto non contestato rimane controverso.

Ma occorre chiedersi se l'effetto di semplificazione e accelerazione processuale derivante dalla riduzione dell'ambito dei fatti controversi sia tale da giustificare il correlato aggravamento della posizione del convenuto, specie se si considera l'iniquità di una soluzione che finisce per privilegiare il contumace, per il quale le stesse Sezioni Unite correttamente escludono la configurabilità di qualsiasi ammissione implicita, rispetto al convenuto costituito, che rischia di esentare il ricorrente dall'onere della prova dei fatti costitutivi della domanda ove non precisamente contestati.

 

4.      Al di là di queste considerazioni critiche sulla scelta interpretativa delle Sezioni Unite, appare utile precisare le conseguenze di tale scelta.  Innanzitutto l'onere di contestazione sorge per il convenuto solo se il ricorrente abbia ritualmente allegato il fatto.

L'onere di allegazione tempestiva da parte del ricorrente (art. 414 n. 4 cod. proc.civ.), già in sé fondamentale per gli equilibri di un processo che simmetricamente impone al convenuto di proporre a pena di decadenza nella memoria difensiva tutte le sue eccezioni (art. 416, c. 2, cod. proc. civ.), viene ulteriormente valorizzato dalla affermata equiparazione del fatto non contestato al fatto pacifico.
Invero questa equiparazione, che esenta il ricorrente dall'onere probatorio, non può scattare se l'allegazione del fatto non è espressamente contenuta in ricorso, essendo inammissibile la pretesa di costringere il convenuto a ricavarla aliunde, come, ad esempio, da documenti depositati o da conteggi non integrati nel ricorso.

Mentre per l'ipotesi, considerata dalle Sezioni Unite, di fatti emergenti dai conteggi inseriti in ricorso come parte integrante dello stesso, occorre che tali fatti siano chiaramente espressi e agevolmente comprensibili, non potendosi certo onerare il convenuto della contestazione di conteggi spesso confusi o sibillini per definizione inutilizzabili come strumento di allegazione dei fatti costitutivi della domanda. Altrimenti l'opinabile aggravamento in via interpretativa della posizione del convenuto sancito dalle Sezioni Unite rischia di divenire davvero intollerabile.

 

5.        Il principio della parità di trattamento delle parti del processo impone di applicare la affermata equiparazione del fatto non contestato al fatto pacifico anche ai fatti fondanti le eccezioni del convenuto e che il ricorrente deve contestare alla prima udienza.

In proposito manca una disposizione espressa come quella (art. 416, comma 3, cod. proc. civ.) che impone al convenuto l'onere di contestazione. Sicché delle due l'una: o l'onere per il ricorrente, con la relativa conseguenza in caso di non contestazione, viene ricavato, come appare corretto, in via di interpretazione sistematica oppure è inevitabile sollevare questione di legittimità costituzionale per l'ingiustificata disparità di trattamento tra le parti (artt. 3 e 24 Cost.)

  

6.      Infine occorre esaminare le modalità di una valida contestazione, sulle quali nulla dicono le Sezioni Unite.

In proposito i requisiti di precisione e non genericità prescritti dalla legge non escludono la sufficienza della mera secca negazione del fatto, che è un modo estremamente preciso di prendere posizione.
Le stesse Sezioni Unite, nell'equiparare l'onere contestazione alla ammissione implicita quale "linea difensiva incompatibile con la negazione del fatto", conducono inevitabilmente a qualificare la semplice negazione come la più pura delle contestazioni.

Ma allora la rilevanza pratica della sentenza in esame, comunque importante per la raffinata impostazione dommatica, è destinata a scemare rapidamente, poiché i legali prudenti, nel difendere il convenuto, si adegueranno a quanto richiesto e provvederanno a negare esplicitamente i fatti affermati dal ricorrente che non intendono dare per pacifici. Che, poi, tale negazione debba essere analitica oppure, come sembra sufficiente ad evitare stucchevoli litanie, possa investire complessivamente una volta per tutte i fatti allegati in ricorso, eventualmente con richiesta di prova contraria, è solo questione di buon senso, che auspicabilmente si  vorrà rispettare.


Autore: Dott. ANTONIO VALLEBONA - tratto dal sito www.judicium.it

Questo scritto riprende l'intervento all'incontro tenutosi il 28 gennaio 2003 presso la Suprema Corte di Cassazione sul tema “il principio di non contestazione nel processo del lavoro".