Il nesso di causalità nel risarcimento del danno. Differenziazioni della sua configurazione tra la sede penale e quella civile
La regola accolta nel quadro del giudizio penale secondo cui, con riguardo alle condotte omissive, il nesso causale sussiste in presenza di un «elevato grado di credibilità razionale», non trova applicazione nel giudizio civile, ove opera il diverso principio in forza del quale la causalità obbedisce alla logica del "più probabile che non".
Tale principio, nuovo nella giurisprudenza italiana e di colossale importanza, è stato nei giorni scorsi affermato da Cass. 16 ottobre 2007, n. 21619 . Nell'accingermi ad esporre le mie prime impressioni «a caldo», sollecito la comprensione al lettore se questo commento, dato il rilievo del tema, sarà un po' più lungo del solito e, soprattutto, raccomando la lettura della decisione per esteso.
1. Se voi foste il giudice. Immaginate di essere invitati a scrivere una sentenza sul seguente caso.
Nelle acque di Portofino un subacqueo si immerge alla profondità di 52 metri. Qualcosa nel respiratore si rompe ed egli deve emergere rapidamente senza poter effettuare le necessarie operazioni di decompressione. V'è pericolo dell'embolia gassosa. Si reca in ospedale, ma al momento della visita non manifesta alcun sintomo. Qui voi lettori, che ho chiamato a sentenziare, ignorate cosa con precisione accada. Apprendete da due testi, infatti, circostanze diametralmente opposte: uno (infermiere) sostiene che il medico ha disposto il trasferimento del paziente presso un ospedale attrezzato per la terapia iperbarica, ma che il paziente ha rifiutato; l'altro (moglie del subacqueo) sostiene che il paziente ha espressamente richiesto il trasferimento presso un centro di terapia iperbarica, ma il medico non ne ha tenuto conto giudicando il malcapitato sano come un pesce. Il subacqueo in questo frangente se ne va come se nulla fosse ad ormeggiare la barca. Non lo sfiora neppure l'idea di andare in un altro ospedale, o almeno di andarsene a casa per un riposino. Nella notte, mentre dorme, le sue condizioni si fanno gravi, viene ricoverato, ma la situazione è compromessa: la malattia da decompressione provoca un'invalidità del 60%.
Ne sorge una lite giudiziaria che vede convenuti sia il medico che la struttura ospedaliera. In corso di causa - questo è l'aspetto su cui richiamo l'attenzione dei lettori - vengono fatte due consulenze tecniche. La prima dice inizialmente che tra il mancato impiego della camera iperbarica ed il danno prodottosi non c'è alcuna relazione. Il CTU, poi, si ravvede e sostiene che probabilmente, ma non si sa in che percentuale, il paziente, se sottoposto subito a terapia iperbarica, non avrebbe riportato postumi, o almeno non postumi così gravi. La seconda relazione dice, in soldoni, più o meno la stessa cosa: la terapia iperbarica con una indefinita probabilità avrebbe giovato in una indefinita misura.
Se voi foste il giudice, condannereste il medico e la struttura sanitaria al risarcimento dei danni patiti dal subacqueo? La corte d'appello di Genova sì, nella misura del 50% del totale, a titolo, parrebbe, di perdita di chance. E la Cassazione, sia pure emendando la motivazione, conferma. Con una sentenza-saggio di 41 pagine connotata dall'evidente ambizione, inevitabilmente destinata a rimanere frustrata, di svelare gli arcani del nesso di causalità.
2. Dimmi che nesso di causalità hai e ti dirò chi sei. La migliore dottrina giuridica dell'epoca - di stampo liberale, si badi bene, quantunque il codice Rocco si sia poi meritato per altre ragioni l'appellativo di codice fascista per definizione - dettò la norma fondamentale in tema di rapporto di causalità all'art. 40 c.p., secondo cui: «Nessuno può essere punito ... se l'evento dannoso o pericoloso, da cui dipende la esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione. Non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo». Quand'è, allora, che c'è nesso di causalità? Semplice: quando una certa condotta, commissiva od omissiva che sia, ha come «conseguenza» un certo evento; quando la condotta «cagiona» l'evento. Ma che cosa vuol dire «conseguenza», «cagionare»? Beh, vuol dire che tra condotta ed evento c'è nesso di causalità . Sicché siamo di fronte ad una tautologia, ad un circolo vizioso. Insomma, fino ad ora non abbiamo fatto neppure un minimo passo avanti.
Una cosa, però, possiamo dirla. Ossia che la configurazione del nesso di causalità non è indifferente all'assetto ideologico che sorregge l'ordine sociale. La dottrina della «causalità adeguata» mostra una ispirazione liberale: l'individuo paga il fio soltanto di ciò che proprio lui ha fondamentalmente cagionato, sia pure in presenza di cause concomitanti; la dottrina della «conditio sine qua non», nella sua rigorosa formulazione, risponde all'origine ad un'impostazione autoritaria: la punizione arriva comunque, anche se il reo abbia deviato dalla regola in misura soltanto marginale.
3. Certezze e probabilità. Come dicevo, non sappiamo che cosa con esattezza voglia dire «conseguenza», «cagionare». Le dottrine in argomento sono molte, e tuttavia nessuna scioglie definitivamente il punto: altrimenti ne ricorderemmo una soltanto.
Ebbene, ciò che mi preme dire è che, pur non sapendo esattamente cosa la causalità sia, tutti noi, io credo, siamo intuitivamente portati a supporre - quanto più segnati dall'ingenuità per le cose del diritto - che la sussistenza o insussistenza del nesso causale debba essere giudicata in termini di certezza, di verità: adaequatio rei et intellectus, per citare Tommaso d'Aquino.
Errore! Madornale errore. Già l'Aquinate avvisava che «haec adaequatio non potest esse nisi in intellectu». E di qui il passo fino al tutt'altro che tranquillizzante «esse est percepi» dell'abate Berckeley non è poi così lungo. Ma è il '900, evidentemente, il secolo in cui la verità ha subito gli smacchi più cocenti. Basti dire, citando Popper, che «tutta la conoscenza rimane fallibile». Scendendo per li rami (movendo da Wittgenstein, da Peirce, da Niels Bohr o chissà da chi, non importa) si giunge anche al nesso di causalità nel diritto penale. Solo un ingenuo o un sognatore può infatti pensare oggi che un condannato in sede penale vada in galera, sempre e comunque, perché il giudice è assolutamente certo che egli ha cagionato l'evento. Va invece in galera perché è probabile che abbia cagionato l'evento.
In ciò, se è consentita una brutale volgarizzazione, si risolve il senso della celebre sentenza Franzese (Cass pen., sez. un., 10 luglio 2002, n. 30328, Cass. pen., 2002, 3643; Riv. pen., 2002, 885; Danno e resp., 2003, 195; Dir. pen. e proc., 2003, 50; Nuova giur. civ. comm., 2003, 246). Quest'ultima sentenza, però, non richiede una qualunque probabilità, ma - volendosi esprimere in parole povere - una probabilità molto alta, benché non in termini percentuali: un «elevato grado di credibilità razionale» della sussistenza del nesso di causalità.
E come, nella pratica, si verifica se il nesso di causalità c'è o non c'è? Facile, con il giudizio controfattuale, come ci insegna ancora la Corte di cassazione. Con questo parolone dotato di una certa attitudine ad intimidire - come non pensare al latinorum dell'Azzeccagarbugli . - si vuole in effetti intendere qualcosa di, almeno apparentemente, molto semplice.
Poniamo che un uomo abbia dato una martellata bella forte sulla testa d'un altro uomo ed applichiamo la tecnica del giudizio controfattuale: che cosa sarebbe accaduto se la martellata non fosse stata data? Elementare (Watson), la testa non si sarebbe rotta e la vittima non sarebbe morta. Ma sta di fatto che la martellata c'è stata ed il morto pure. In questo caso, dunque, si formula ciò che ai tempi della scuola avremmo definito come periodo ipotetico della irrealtà. Fin qui tutto abbastanza agevole, giacché, dinanzi ad una condotta commissiva (la martellata), si tratta soltanto di fingersi l'eliminazione di quella condotta ed immaginare il risultato.
Ma se la condotta è una condotta omissiva l'affare si complica. Non è sufficiente, infatti, sopprimere ipoteticamente ciò che il reo non ha fatto, ma bisogna mettere al posto della condotta omessa la condotta che in sua vece avrebbe dovuto essere tenuta. Se il medico invece di starsene con le mani in mano avesse disposto quel certo esame diagnostico, ad esempio, tale da far emergere anticipatamente quella certa patologia che pure era già in atto, che cosa sarebbe avvenuto? Il paziente sarebbe morto lo stesso? Qui ci troviamo dinanzi ad un periodo ipotetico, se l'espressione è passabile, della doppia irrealtà.
Tutto assai liquido, come vedete. Ed è abbastanza chiaro che la distanza della probabilità dalla verità, in quest'ultimo caso, può essere chilometrica. Ma il meccanismo, nella prospettiva Franzese, è racchiuso entro paletti almeno in qualche misura rassicuranti: se pure la certezza non è di questo mondo, la condanna può pronunciarsi però - «elevato grado di credibilità razionale» - solo in una situazione di probabilità alta, molto alta.
4. Giudizio penale e giudizio civile. Ma veniamo a noi. Queste regole che abbiamo riassunto in modo così rudimentale valgono per il giudizio civile? Per qualcuno no. Prendiamo il caso di O.J. Simpson, il giocatore di baseball americano. Accusato di aver ammazzato moglie e amante della moglie (se ricordo bene), viene dichiarato not guilty in sede penale: e non sappiamo perché, dal momento che il verdetto penale statunitense non ha motivazione. Ma poco tempo dopo, in sede civile, viene condannato a risarcire gli eredi delle vittime che ha ammazzato.
Ha un senso tutto ciò? O è il prodotto di un sistema giudiziario che ha il merito di ispirare tanti film e telefilm, ma non regge (sempre) alla prova della logica?
Lasciamo perdere l'America. In Italia credevamo che la regola della causalità stabilita dall'art. 40 c.p. si applicasse in sede civile come in sede penale. Qui le citazioni di giurisprudenza potrebbero andare avanti per un pezzo e così ci limitiamo a ricordare a casaccio un paio di pronunce dell'anno in corso (Cass. 8 giugno 2007, n. 13400; Cass. 28 marzo 2007, n. 7577). Ma fidatevi, di sentenze che riconoscono l'applicabilità dell'art. 40 c.p. in sede civile ce n'è una barca.
E forse l'art. 40 si applica ancora, ma, almeno a dar retta alla pronuncia in commento, non vuole dire la stessa cosa da un versante e dall'altro. Da quella parte, nel settore penale, occorre una probabilità molto alta; da questa parte, nel settore civile, bisognerebbe contentarsi - ci dice la Cassazione - di una probabilità così così.
5. Più probabile che non. Come arriva la Corte a questa affermazione? Non è facile ripercorrere l'impegnativo iter argomentativo, sicché non può che ribadirsi la raccomandazione di leggere la sentenza per intero e con la massima attenzione.
I giudici di piazza Cavour pongono l'accento sul rilievo che il diritto penale ruota sulla figura del reo, mentre la responsabilità aquiliana sulla figura della vittima: il che è senza dubbio esatto. E tuttavia non si comprende agevolmente come l'osservazione possa riverberarsi sul funzionamento del nesso causale.
La sentenza aggiunge che l'illecito penale è tipico, mentre l'illecito civile è atipico. Ed anche qui accordo pieno sulla premessa, nebbia fitta riguardo all'influenza di essa sul nesso causale.
Osserva ancora la S.C. che il giudice penale non può accedere ad una nozione di nesso causale ricollegata alla misura del rischio determinato dalla condotta omessa, giacché una simile impostazione finirebbe per trasformare il reato omissivo in reato di mero pericolo, mentre analoga preoccupazione non dovrebbe toccare il giudice civile. E francamente non si comprende perché. La Cassazione pare volerci dire che una condanna al risarcimento dei danni, magari di centinaia di migliaia di euro, può infliggersi senza andare tanto per il sottile: è viceversa semmai evidente il contrario, dal momento che la condanna penale si traduce per i più (certo per i medici, se incensurati) in una semplice annotazione sul certificato penale, mentre una condanna civile svuota davvero il portafoglio, può costringere il danneggiante a vendere i propri beni per risarcire il danno, può imporgli, per questa via, di cambiare radicalmente vita.
Di qui si passa al versante più politico della sentenza, nella quale risuonano formulazioni dottrinali ben note. La disciplina aquiliana, con particolare riguardo ai danni da malpractice medica, sarebbe - si dice - lo strumento attraverso cui «pervenire ad una più articolata e complessa distribuzione dei rischi». Essa costituirebbe strumento di «attribuzione di un determinato "costo" sociale, da allocarsi di volta in volta presso il danneggiato ovvero da trasferire ad altri soggetti». Insomma, più si allenta il nesso causale, più si favorisce il danneggiato a scapito del (quantunque al momento affatto ipotetico) danneggiante.
Ma con ciò, a mio giudizio, non si comprende una cosa semplicissima: ossia che, prima di un'accettabile verifica del nesso di causalità materiale, non si sa ancora se il danneggiato sia effettivamente un danneggiato o un impostore, uno che ci prova. Una volta verificata la causalità materiale, si spalanchino pure tutte le porte al danneggiato dal versante della causalità giuridica e della eventuale colpa. Prima no.
Da non perdere il passaggio che segue. Tra virgolette.
«Il sottosistema della responsabilità civile diventa, così, un satellite sperimentale di ingegneria sociale (che si allontana definitivamente dall'orbita dello speculare sottosistema penalistico), demandata, quanto a genesi e funzioni, quasi interamente agli interpreti, il cui compito diviene sempre più lo studio dei criteri di traslazione del danno. In questo quadro, il sottosistema della responsabilità medica diviene, in questo quadro, il topos "disfunzionale" al suo stesso interno rispetto agli schemi classici della responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, dell'obbligazione di mezzi e di risultato, dove un tempo "pendolare" segna diacronicamente tappe non lineari e non armoniche, per produrre nuovi, repentini e talvolta sorprendenti legami di senso e di struttura a fatti concreti - l'intervento del medico - e moduli giuridici - la sua responsabilità - un tempo tra sé alieni, che officia la mutazione genetica della figura del professionista, un tempo genius loci ottocentesco, oggi ambita preda risarcitoria)».
Candidamente confesso di non aver capito nulla, o almeno di non aver capito tutto. La sola minimale osservazione alla mia portata è che l'ultima parentesi chiusa (dopo «risarcitoria») senza essere stata mai aperta, unitamente all'espressione «in questo quadro», ripetuta con un intervallo di sole sei parole, testimonia che la pratica della collazione delle sentenze riposa ormai in pace. Per il resto, mi si perdoni, il brano nel suo complesso, tra topos (un roditore?), pendoli, alieni, prede e mutazione genetica, potrebbe apparire tratto più da un film dell'orrore, da un incubo di Cronenberg (La mosca, Videodrome .), che da una sentenza della cassazione civile.
E nondimeno, per questa strada, procedendo con un periodare della stessa marca stilistica, si giunge pagina dopo pagina ad affermare apertamente che il tema del nesso causale «è destinato inevitabilmente a risolversi entro i (più pragmatici) confini di una dimensione "storica", o, se si vuole, di politica del diritto». Il problema è politico, insomma . E dunque si perviene alla conclusione che segue. Ancora tra virgolette.
«La causalità civile "ordinaria", attestata sul versante della probabilità relativa (o "variabile"), caratterizzata, specie in ipotesi di reato commissivo [ma qui, se mal non intendo, la S.C. voleva dire «omissivo»: n.d.r.], dall'accedere ad una soglia meno elevata di probabilità rispetto a quella penale, secondo modalità semantiche che, specie in sede di perizia medico-legale, possono assumere molteplici forme espressive ("serie ed apprezzabili possibilità", "ragionevole probabilità" ecc.), senza che questo debba peraltro vincolare il giudice ad una formula peritale, senza che egli perda la sua funzione di operare una selezione di scelte giuridicamente opportune in un dato momento storico: senza trasformare il processo civile (la verifica processuale in ordine all'esistenza del nesso di causa) di una questione di verifica (solo) scientifica demandabile tout court al consulente tecnico: la causalità civile, in definitiva, obbedisce alla logica del "più probabile che non"».
6. Responsabilità civile ed altro. La sentenza non mi pare dica quale dovrebbe essere il referente normativo della cosiddetta logica del «più probabile che non». Ma non è difficile supporre che si voglia appenderla al primo comma dell'art. 1227 c.c., che però - sommessamente - credo non c'entri gran che, giacché riguarda il concorso del fatto colposo del creditore e, cioè, qualcosa che va verificato, non qualcosa di vagamente collocato nel mondo del probabile.
E allora, la novità del «più probabile che non» è giusta? È sbagliata? Chi può dirlo . Giudichi il lettore. Certo che se la regola che sovrintende al funzionamento del nesso causale è quella del «più probabile che non», le prospettive per i danneggianti, veri e soprattutto presunti tali, è assai grama.
Non v'è dubbio, come accennavo, che l'impostazione seguita dalla pronuncia affondi le radici in un atteggiamento dottrinale, pressoché per intero oggettivista da circa mezzo secolo a questa parte, incline ad osservare soprattutto i risvolti politico-sociali del sistema della responsabilità civile. E non c'è dubbio che la S.C. respiri l'aria (forse con una lieve subalternità intellettuale?) che si respira nella dottrina di oggi (se non vado errato l'impostazione seguita è quella prospettata da Marco Capecchi nel suo libro Il nesso di causalità. Da elemento della fattispecie "fatto illecito" a criterio di limitazione del risarcimento del danno, 2a ed., CEDAM, Padova, 2005). Il cui senso, ridotto da me a slogan, è che non si condanna per il danno, ma per il rischio.
Nel che, naturalmente, non c'è nulla di male: ognuno può dire quelle che gli pare. La dottrina, del resto, ha l'obbligo di dire cose nuove. Per la giurisprudenza le cose mi paiono un po' diverse, altrimenti si chiamerebbe giuris-imprudenza. In questo modo, infatti, il carico della responsabilità risarcitoria sul medico finisce per allontanarsi davvero troppo dal reale svolgimento della vicenda. Il filo che lega la condotta all'evento, per dirla con Montale, «s'addipana. Ne tengo ancora un capo; ma s'allontana. Tanto varrebbe, allora, tirare la moneta: il medico non responsabile avrebbe qualche possibilità in più di farla franca. Il tutto con talune conseguenze senz'altro non commendevoli: per quale ragione egli dovrebbe fare bene il proprio lavoro, essendo esposto all'obbligo risarcitorio sia che abbia lavorato bene, sia che abbia lavorato male?
Sappiamo bene tutti che uno dei temi più tormentati e difficili del diritto civile è quello della soluzione delle situazioni di incertezza: ma non pare affatto che occorra accedere alla opinione accolta dalla S.C..
Prendiamo un esempio di grande rilievo, quello dei danni da fumo. Interroghiamoci: il fumo provoca il cancro, come c'è scritto sui pacchetti di sigarette? Sì e no. La malattia, in effetti, ha secondo gli scienziati un'origine multifattoriale: predisposizione genetica, stili di vita, impiego costante di certe sostanze, tra le quali non soltanto il tabacco. Eppure secondo opinioni affidabili (in questo caso le statistiche dell'American cancer society) oltre l'80% dei tumori del polmone sono dovuti al fumo.
E quindi, se vi trovaste, ancora nella posizione del giudice, dinanzi al cancro del polmone insorto in un fumatore ultraventennale figlio di genitori morti di vecchiaia a 100 anni, che abbia fatto una vita normale e non abbia lavorato (che so) nel reparto verniciature di un'officina meccanica o a contatto costante con altri agenti patogeni, avreste tanta difficoltà a dire che in quel caso il nesso fumo-cancro è coperto da un «elevato grado di credibilità razionale»?
E se foste a conoscenza del fatto che certi linfomi insorgono in x casi per milione di persone, mentre tra i militari che hanno operato in zone in cui si impiegavano proiettili ad uranio impoverito i casi sono stati 10 o 100 volte x per milione, avreste tante remore a dire che c'è un nesso eziologico, rilevante per il diritto, uranio impoverito-linfoma?
Ma andiamo .
In realtà il congegno escogitato dalla S.C., con il così marcato allentamento del nesso causale e con la definitiva sovrapposizione del rischio al danno, non ha più nulla a che fare con la responsabilità civile nella sua configurazione tradizionale. Si tratta invece di uno scivolo verso una irrazionale previdenza sociale priva di qualsiasi programmazione a monte e che non tiene nel minimo conto se il beneficiario sia un Creso o un poveraccio. Una previdenza sociale entro la quale alla fine il medico non pagherà, perché pagherà la struttura ospedaliera, che neppure pagherà perché pagherà l'assicuratore, che neppure pagherà, perché aumenterà i premi per tutti, sicché alla fine pagheremo tutti, per questa via, un'altra bellissima tassa, indifferente per di più al principio costituzionale di progressività.
Che ci riserva il futuro? L'indirizzo inaugurato dalla Cassazione si stabilizzerà? Sono persuaso che la sentenza non rimarrà isolata, credo anzi si tratti di una meditata soluzione discussa dalla terza sezione. Ma credo anche che l'argomento sia ancora aperto da più versanti: a) non si può escludere una complessiva auspicabile resipiscenza; b) non si può escludere una valorizzazione dell'attività esercitata dal danneggiante, giacché - a me sembra - allocare il rischio su chi esercita attività finalizzate al profitto, o comunque socialmente non particolarmente apprezzabili, può avere (io ho forti dubbi) un qualche senso, ma allocare il rischio sul groppone del medico è con tutta sincerità una affermazione superficiale; c) non si può escludere che la S.C. si cimenti meglio sull'identificazione della soglia di probabilità, giacché «più probabile che non» vuol dire 51%, e 51% è veramente troppo poco; d) è certo, infine, che, se l'indirizzo verrà coltivato, andrà rimeditata tutta la giurisprudenza in tema di perdita di chance, al fine di arrivare a chiarire che (come dice del resto Capecchi) se il tasso di probabilità di sussistenza del nesso causale è del 51%, al danneggiato spetta il 51% del danno.
Diversamente, accadrebbe come se, avendo giocato un cavallo (cioè una fiche a metà tra due numeri), il giocatore di roulette pretendesse dal giudice, volevo dire dal croupier, l'intera vincita.