SOMMARIO
1. Il paradiso degli orchi
2. Il deserto dei Tartari
3. L'azione di responsabilità contro il
mobber
4. Dequalificazione e lesione della
personalità nella giurisprudenza
pre-mobbing. La responsabilità da mobbing
nelle sentenze dei giudici di Torino
5. Considerazioni conclusive
1. Il paradiso degli orchi
Fino a non troppo tempo fa, il
termine mobbing era pressoché sconosciuto al
panorama giuridico italiano.
Non che i comportamenti vessatori
indicati con questa denominazione non avvenissero
anche in Italia. Solo che nel nostro Paese ci si
rifaceva ad espressioni più articolate, come
molestie morali sul luogo di lavoro o terrore
psicologico in ufficio, la cui reale lesività,
tra l'altro, non sempre era riconosciuta.
Tuttavia, adesso che il fenomeno
sta esplodendo anche in Italia, attirando
l'attenzione, sempre maggiore, di stampa e
pubblicità, la parola mobbing entra ogni giorno
di più nell'uso comune.
Si tratta di una terminologia di
matrice anglosassone, che ha in sé il verbo
inglese to mob, ossia 'aggredire', 'malmenare',
'assalire tumultuando in massa'.
Usata spesso anche dagli etologi,
primo fra tutti K. Lorenz, sta ad indicare, con
riferimento al mondo animale, il comportamento di
aggressione del branco nei confronti di un
animale isolato.
L'etologia riconduce, infatti, al
concetto di mobbing quella sorta di coalizione di
alcuni animali della stessa specie verso un
membro del gruppo, attaccandolo, isolandolo,
escludendolo dalla comunità e portandolo,
talvolta, addirittura alla morte.
In particolare, "il mobbing
(it. assalto collettivo; ted. hassen; fr.
houspillage) è una reazione collettiva e
aggressiva mediante la quale alcuni Passeracei
rispondono all'invasione del territorio ed al
pericolo, attaccando in gruppo l'intruso e/o il
contendente (es. rapace): l'emissione di gridi
particolari, la formazione di volo o
l'accerchiamento a terra intimoriscono,
respingono l'avversario. Così delle cutrettole
finiscono per respingere
un rapace come lo
sparviero. E' dunque la difesa di un territorio,
cioè, in termini sistemici, dei confini e della
stabilità di un sistema" (così, A.
MIGLIONICO, Organizzazioni e sistemi: il mobbing.
Come far "scoppiare" i lavoratori non
desiderati, in http://www.sieb.org/sieb/giornale/mobbing.htm).
Ciò non toglie che anche la
realtà umana possieda esempi storici codificati
di mobbing, anche se all'epoca erano conosciuti
con terminologie diverse o magari, conosciuti,
non lo erano affatto.
Si pensi all'ostracismo, quel
bando che colpiva, ad Atene e nelle antiche
città greche che ne imitavano la costruzione, il
cittadino ritenuto pericoloso dallo Stato: si
trattava di una severa condanna da parte
dell'opinione pubblica che metteva, chi ne era
colpito, al bando dalla comunità o da un
determinato ambiente.
Lucio Quinzio Cincinnato,
nell'antica Roma, subì mobbing, tant'è che,
ancora oggi, il sostantivo 'cincinnato' sta ad
indicare il ritirato a vita agreste, colui che
vive appartato in campagna.
Anche il mobbing, dunque, così
come la molestia sessuale, è
"un'espressione nuova per un problema
antico" (così, R. IANNIELLO, Proposta di
una nuova disciplina delle molestie sessuali:
un'espressione nuova per un problema antico, in
Crit. dir., 1994, 48 ss.), inversamente
proporzionale alla soppressione fisica degli
individui scomodi.
In quanto derivato dallo studio
sui comportamenti animali, il mobbing è
indubbiamente, almeno nella sua essenza primaria,
un fenomeno selettivo naturale.
Chi non si uniforma al sistema,
chi non accetta schemi predefiniti, chi è
semplicemente diverso dal gruppo di riferimento
viene avvertito come una minaccia, perché
'altro' rispetto a se stessi; da qui la
necessità di allontanarlo, espellerlo o metterlo
nelle condizioni di auto-espellersi.
Quando ci si trova di fronte ad
un individuo scomodo, tuttavia, la soluzione più
rapida e immediata è la sua eliminazione fisica:
la mafia non ha bisogno di ricorrere al mobbing,
uccide per non perdere tempo; o ancora, una donna
giordana violata sessualmente viene uccisa in
nome dell'onore familiare da un proprio fratello.
Anche in questo caso è il copione etnico a
dettare legge, senza bisogno di mettere in atto
arzigogolate manipolazioni interpersonali, come
nel caso del mobbing.
Quello che sto cercando di dire,
è che questa esigenza di conservazione dello
status quo, questo tentativo di non alterare il
pregresso range omeostatico diviene mobbing
allorché si cerca di ricondurre a legalità
l'eliminazione di un soggetto non integrabile.
In questo senso, allora, il luogo
di lavoro diventa una fossa di serpenti insidiosa
e difficile da evitare.
Molto spesso l'attacco dei
colleghi, facilitato dalla quotidianità
lavorativa, non è diretto, non si esprime in
frasi violente o in battute feroci, ma si
nasconde dietro comportamenti apparentemente
gentili. La destabilizzazione viene stillata con
movimenti impercettibili che vanno dalla
misteriosa sparizione di file esistenti al
dirottamento di appuntamenti importanti verso
altre persone, da fax arrivati e strappati
all'occultamento di informazioni di particolare
importanza.
La logica è più o meno questa:
non posso annientarti fisicamente, perché
altrimenti finirei in galera, quindi mi industrio
per creare un circolo vizioso di violenza morale.
Ciò nel senso che la
persecuzione morale genera stress, lo stress
porta all'errore, l'errore comporta una punizione
che, di fatto, si traduce in un'ulteriore
violenza morale.
Per questo il mobbing è un male
oscuro: esso si estrinseca in tutte quelle
molestie psicologiche, volte a creare un vero e
proprio fenomeno sociale, che può causare una
malattia e tradursi in una sindrome.
E' importante essere chiari su
questo aspetto: il mobbing non è una malattia,
ma una irrazionalità umana che porta ad
ammalarsi chi la subisce.
Come dire che non ci si ammala di mobbing, bensì
a causa di esso.
"E' una patologia sociale
che si origina da uno strisciante processo
distruttivo della persona che nasce da
comunicazioni e anche da comportamenti ostili che
possono essere palesi ed occulti" (così, G.
PALMA, Il mobbing).
Nella maggior parte dei casi
avviene tra lavoratori sul posto di lavoro, in
quanto la causa scaturente vessazioni
psicologiche trova, per lo più, la sua ragion
d'essere in un conflitto concernente
l'organizzazione del lavoro che si trasforma in
un conflitto di natura personale; comunque non è
esclusivo dell'ambiente di lavoro, in quanto è,
in linea generale, un comportamento che
costituisce un vero e proprio attacco ai diritti
umani.
I motivi possono essere i più
svariati: noia, invidia, gelosia,
disorganizzazione lavorativa con carenza di
regole e relativo carico di stress, e così via.
Iniziano delle aggressioni
psicologiche, attacchi sistematici, offese,
dispetti, pressioni, progressiva emarginazione
messi in atto da colleghi (in tal caso, come
vedremo, si parlerà di mobbing orizzontale) o
superiori (mobbing verticale, o bossing) nei
confronti di una persona, finché questa soccombe
alla violenza ed è costretta a lasciare il
lavoro.
Al fine di una comprensione più
fluida dell'intero fenomeno, può risultare utile
stendere, in via preliminare e a guisa di schema,
una sorta di mini vocabolario dei termini che
vengono utilizzati per descrivere il fenomeno
delle violenze psicologiche in ambito lavorativo
e che spesso sono, invece, sovrapposti fra loro.
Si tratta di espressioni che sono
utilizzate frequentemente come sinonimi, per
indicare il passaggio da un luogo di lavoro ad
uno di terrore anche se, in realtà, presentano
caratteristiche diverse, dovute, soprattutto,
alle differenze culturali dei paesi in cui sono
state introdotte.
§ BOSSING
Spadroneggiare, comandare.
Indica un solo tipo di mobbing,
quello verticale "costituito da soprusi
gerarchici e umiliazioni imposte al subordinato
da un superiore aggressivo
Altro non è che
una delle dinamiche più comuni all'interno
dell'area della violenza psicologica in
azienda" (così, A. GILIOLI, R. GILIOLI,
Cattivi capi, cattivi colleghi, Mondadori,
Milano, 2000, 33).
E', in sostanza, il mobbing posto
in essere da un boss verso un suo sottoposto.
§ BULLYING
Di mobbing, è praticamente un
sinonimo, solo che mentre quest'ultimo è
utilizzato in buona parte dell'Europa centrale,
bullying è più diffuso in Gran Bretagna e in
America.
Tradotto, significa, all'incirca,
agire con prepotenza, tiranneggiare.
"Leymann ha preferito
parlare di mobbing perché bullying da' l'idea di
un'attività violenta e fisica, mentre quella che
si verifica più spesso è una pratica
strisciante, surrettizia, che raramente diventa
aggressione fisica. In ogni caso, quando nei
testi americani e inglesi
si trova
l'espressione bullying at work, questa equivale a
mobbing" ( così, A. GILIOLI, R. GILIOLI,
op. cit., 33).
§ BURN OUT
Con questo termine s'intende
"l'esaurimento di ogni energia, lo
svuotamento psichico del soggetto sottoposto a
iperlavoro che, a un certo punto, va in corto
circuito, con una serie di sintomi e di effetti
molto simili a quelli causati dal mobbing
E' considerato una conseguenza diretta del
neotaylorismo, cioè della moltiplicazione di
quegli ambienti di lavoro dove il culto
dell'iperproduzione finisce per ghettizzare
quanti non si adeguano a questa ideologia.
Mobbing e burn out dunque non sono sinonimi, ma
tra i due
esiste una stretta
relazione" (così, A. GILIOLI, R. GILIOLI,
op. cit., 21).
Ciò nel senso che spesso il
surmenage lavorativo è una concausa del
terrorismo psicologico sul lavoro.
"Il burn out è dovuto alla
riduzione degli organici nelle aziende, che ha
esposto i manager a pressioni sempre più forti.
Così le imprese hanno eliminato il 'grasso',
credendolo inutile: e hanno sbagliato, perché
questo offriva loro un margine di manovra che ora
non esiste più" (così, A. KAKABADSE citato
da A. GILIOLI, R. GILIOLI, op. cit., 22).
Ovviamente da un punto di vista
di analisi economica, le spiegazioni che si
possono tentare sono molteplici: c'è chi lega la
nascita del mobbing a periodi di transizione
macroeconomici; chi lo fa dipendere dal fenomeno
delle fusioni tra società, volto a creare
'doppioni' per definizione; chi da un'evoluzione
troppo rapida delle competenze necessarie per
svolgere ai massimi livelli una professione; chi,
ancora, lo collega alla "visione finanziaria
imposta dai fondi d'investimento
anglosassoni
Questi fondi
fanno
pressioni continue sui top management per
'massimizzare il valore delle azioni attraverso
la riduzione degli organici' anche quando
l'azienda sta già facendo utili
Ecco
allora che l'economia mondializzata rende molto
scomoda la posizione dei salariati, che vengono
sottoposti ad un arsenale di metodi raffinati,
perversi o brutali' perché si convincano a dare
le dimissioni" (così, A. DURIEUX, S.
JOURDAIN, L'entreprise barbare, citato da A.
GILIOLI, R. GILIOLI, op. cit., 23).
§ DANNO BIOLOGICO
Qualunque danno alla salute
comporta anche un danno in termini di ostacoli
alla normale vita di relazione che,
conseguentemente, viene menomata.
§ HARASSMENT
La traduzione letterale è
'molestia'.
Viene utilizzato prevalentemente
negli Stati Uniti ed è spesso sovrapposto a
bossing, ma a differenza di quello, si riferisce
oltre che al mondo del lavoro, anche ad altri
contesti.
§ GANG UP
Termine che ricorre talvolta nei
testi americani e che allude alla formazione di
un gruppo di aggressori.
E', di fatto, sinonimo di mobbing
nell'area americana, al pari di altre
espressioni, come victimization, work abuse,
whistleblowing.
In Francia, invece, sono usate
altre espressioni, quali harcèlement au travail
e harcèlement dans l'entreprise.
§ MOBBING
Derivato dall'etologia ed usato
soprattutto nell'area scandinava, significa
assalire violentemente.
L'Associazione contro lo Stress
Psico-sociale ed il Mobbing, fondata in Germania
nel 1993, lo definisce ufficialmente così:
"
Una comunicazione conflittuale sul
posto di lavoro tra colleghi o tra superiori e
dipendenti nella quale la persona attaccata viene
posta in una posizione di debolezza e aggredita
direttamente o indirettamente da una o più
persone in modo sistematico, frequentemente e per
un lungo periodo, con lo scopo e/o la conseguenza
della sua estromissione dal mondo del lavoro.
Questo processo viene percepito dalla vittima
come una discriminazione."
Si qualificano, pertanto, come
mobbing "tutti quegli atti e quei
comportamenti che traducendosi in atteggiamenti
persecutori attuati in forma evidente e con
particolare determinazione possono arrecare danni
rilevanti alla condizione psico-fisica del
lavoratore. Fondamentale perché si possa parlare
di mobbing è il requisito temporale:
non
si ha un caso di mobbing se la persona non è
perseguitata per almeno sei mesi."
"In particolare
il
mobbing si realizza con una sorta di 'terrorismo
psicologico' che implica un atteggiamento 'ostile
e non etico' posto in essere in forma sistematica
da uno o più soggetti, di solito nei confronti
di un unico individuo che, a causa di tale '
persecuzione', si viene a trovare in una
condizione indifesa e diventa oggetto di continue
attività vessatorie e persecutorie, che
ricorrono con una frequenza sistematica e
nell'arco di un periodo non breve, determinando
'considerevoli sofferenze mentali, psicosomatiche
e sociali'. Non rilevano dunque
le
situazioni di conflitto solo 'temporaneo'
ma solo quelle particolari situazioni con
riguardo alle quali la frequente ricorrenza
la durata e l'intensità delle condotte
vessatorie
determinano un'insostenibilità
psicologica che può portare ad un crollo
dell'equilibrio psicofisico del soggetto
'mobbizzato', con la comparsa di vere e proprie
patologie
. La distinzione tra un normale
conflitto
e
mobbing 'does not focus
on what is done or how is done, but rather on the
frequency and duration of whatever is done': ciò
che rileva
è il continuo ripetersi in un
periodo di una certa durata del trattamento
vessatorio che viene inflitto alla vittima"
(così, R. NUNIN, Alcune considerazioni in tema
di "Mobbing", in http://www.labourlawjournal.it/).
Il mobbing, quale situazione di
profondo malessere, ha perciò alla sua base un
conflitto non risolto tra la vittima (il
mobbizzato o one-down) e l'aggressore (il mobber
o one-up). I modi in cui il secondo tenta di
distruggere il primo possono essere svariati: si
va dalla semplice emarginazione alla diffusione
di maldicenze, alle critiche, all'assegnazione di
compiti inferiori e dequalificanti, alla
compromissione dell'immagine sociale verso terzi,
al sabotaggio del lavoro, alle telefonate mute,
agli scherzi pesanti, alle accuse di pazzia di
fronte a tentativi di difesa.
"Secondo Leymann, un lavoratore è
sicuramente vittima di mobbing quando si
verificano alcune di queste condizioni:
all'improvviso gli spariscono o si rompono (senza
che vengano sostituiti) strumenti di lavoro come
telefoni, computer e lampadine; i litigi o i
dissidi con i colleghi sono sempre più
frequenti; gli viene messo vicino un accanito
fumatore pur sapendo che detesta il fumo; quando
entra in una stanza la conversazione generale si
interrompe bruscamente; viene escluso da notizie
e da riunioni utili per lo svolgimento del suo
lavoro; apprende che girano pettegolezzi
infondati sul suo conto; gli vengono affidati da
un giorno all'altro incarichi inferiori alla sua
qualifica o estranei alle sue competenze; viene
sorvegliato ogni giorno di più nei minimi
dettagli (come gli orari di entrata e di uscita,
le telefonate, il tempo passato alla macchinetta
del caffè); riceve rimproveri per piccolezze; le
sue richieste sia verbali che scritte non
ottengono alcuna risposta; i superiori o i
colleghi lo provocano per indurlo a reagire in
modo incontrollato; risulta escluso da feste
aziendali o da altre attività sociali; viene
preso in giro per l'aspetto fisico o
l'abbigliamento; tutte le sue proposte sono
rifiutate senza valide motivazioni; è retribuito
meno di altri colleghi che hanno incarichi di
importanza minore; e così via" (così, A.
GILIOLI, R. GILIOLI, op. cit., 9).
Gli esperti ammettono l'esistenza
di due tipi di mobbing: il verticale e
l'orizzontale.
Il mobbing verticale si ha quando
la persecuzione psicologica proviene dal vertice
lavorativo, quando, cioè, un capo sobillato da
strategie aziendali si accanisce contro un suo
sottoposto per costringerlo a licenziarsi.
"Può essere esercitato da
un singolo superiore che per diversi motivi
(volontà di raggiungere massimi livelli di
efficienza, invidia, paura di perdere potere
nella struttura gerarchica) oltrepassa i limiti
della propria supremazia professionale fino a
esercitare atteggiamenti particolarmente
aggressivi e punitivi nei confronti della propria
vittima. Tali atteggiamenti di norma vengono poi
assunti da altri dipendenti, determinando un
progressivo isolamento della vittima."
(così, L. PARDINI, La Medicina del Lavoro e il
fenomeno del Mobbing, in http://www.izan.simplenet.com/napoletano/relaz_pa.htm).
Il mobbing orizzontale si ha,
invece, quando avviene tra colleghi di pari
grado. Un gruppo cerca di emarginare un collega
usando una psicologia da branco e molestie
collettive per renderlo vulnerabile e poi
'azzannarlo'.
"
Troviamo un
lavoratore vittima degli stessi colleghi e di
norma questo può essere letto attraverso una
duplice chiave di lettura: la prima riguarda più
strettamente l'organizzazione del lavoro. In tal
senso un dipendente, o neoassunto o trasferito o
promosso, col suo arrivo scardina in qualche modo
un gruppo già collaudato e dotato di propri
equilibri interni che tendono spesso ad
appiattire la personalità e la professionalità
dei singoli. Sono di solito persone
intraprendenti, creative in grado di turbare
meccanismi conosciuti e accettati da tutti i
componenti, ed essendo inoltre soggetti che
'investono' affettivamente nelle loro
manifestazioni, di sicuro soffrono maggiormente
per le difficoltà crescenti che incontrano
nell'ambiente di lavoro. Nel secondo caso
l'emarginazione progressiva della vittima passa
attraverso la diversità della vittima stessa
rispetto al gruppo: pensiamo principalmente ai
portatori di handicap fisico o mentale ma non
dimentichiamo le diversità legate alla
religione, sessualità, razza, in certi casi
addirittura gli interessi extralavorativi"
(così, L. PARDINI, op. cit.).
- MOLESTIE SESSUALI
Non volute, intrusive, verbalmente offensive,
anche fisicamente aggressive.
- TERRORISMO FISICO
Violenza non necessariamente agita, ma usata come
minaccia per mantenere il controllo sulla vittima
e rinforzata periodicamente.
- TERRORISMO PSICOLOGICO
Uso del terrore per soggiogare e intimidire.
Focalizza soprattutto l'atmosfera generale.
- VIOLENZA FISICA
Forza fisica usata aggressivamente nei confronti
della vittima.
Sempre in via preliminare, vale
la pena di sottolineare che il fenomeno delle
persecuzioni morali sul luogo di lavoro trova il
suo riferimento normativo principalmente su
Internet. I siti da consultare per approfondire
il tema sono infatti moltissimi, specie quelli in
lingua scandinava e inglese.
Tra le più valide risorse on
line si segnalano:
http://www.antibullyng.net
(Offre materiale di consultazione ed
assistenza alle vittime del bullying)
http://aziende.iol.it/prima
(Sito dell'Associazione italiana contro Mobbing e
Stress Psicosociale, presieduta dal Dott. H. Ege)
http://www.bullybusters.org
(Sito dell'Associazione Bullybusters, ossia
'cacciatori di mobbing', fondata a S. Francisco
dai coniugi Namie)
http://www.diritto.net
(Sito giuridico con una sezione ampiamente
dedicata al mobbing)
http://www.erkoch.com
(Sito spagnolo d'introduzione al mobbing)
http://www.freeweb.org/associazioni/mobby2000/
(E' il sito di un gruppo di auto-aiuto con sede a
Milano. Il suo scopo è quello di fornire
sostegno morale ed emotivo alle persone che
subiscono molestia)
http://www.hec.unil.ch/depart/deep/cahiers/TEXTES/txt9907.pdf
(Riporta uno studio dell'Università di Losanna
sulle conseguenze mediche e psichiche
dell'insicurezza sul lavoro)
http://www.izan.simplenet.com/napoletano/mobbing.htm
(Curato dal Centro Nazionale di Studi di diritto
del lavoro "D. Napoletano", offre, in
libera consultazione, materiale giuridico sul
mobbing)
http://www.legge-e-giustizia.it
(Vera e propria banca dati della giurisprudenza
del lavoro, sia di merito che di cassazione)
http://www.leymann.se/
(Contiene quasi tutta l'attività di ricerca del
prof. H. Leymann, tra cui la sua celebre The
mobbing Encyclopaedia)
http://www.members.xoom.it/gpalma/
(Sito, con molto materiale sul mobbing, curato
dal Dott. G. Palma)
http://members.xoom.it/icebergpunta/
(Associazione fondata dalle vittime di mobbing
operante soltanto su Internet. Il sito ospita
riunioni on line con partecipazione aperta a
tutti gli interessati)
http://mobbing-usa.com/
(Sito americano che si propone di sensibilizzare
l'opinione pubblica statunitense)
http://www.mobbingwerkstatt.de/start.html
(Sito tedesco di G. Ziegler)
http://www.mobbing-zentrale.de
(Sull'analisi del mobbing in Europa)
http://www.psypress.com/BKFILES/0863779468.htm
(Documentazione speciale dedicata al mobbing)
http://www.rz.unifrankfurt.de/FB/fb05/psychologie/Abteil/ABO/2/2.3.e.htm
(Contiene i risultati di alcuni studi effettuati
in Germania e Svizzera, raccolti dai ricercatori
della facoltà di psicologia dell'Università di
Francoforte)
http://www.successunlimited.co.uk/
(Sito inglese sul bullying, ampio ed aggiornato)
http://www.unicam.it/ssdici/mobbing/index_mob.htm
(Excursus curato da G. Buonocore della Scuola di
Specializzazione in Diritto Civile
dell'Università di Camerino)
http://www.utenti.tripod.it/cesap
(Pagina del Centro Abusi Psicologici)
2. Il deserto dei Tartari
Una volta definito il mobbing
come quella molestia morale sul luogo di lavoro,
che si sostanzia in qualunque condotta impropria
(una certa dose di conflittualità interpersonale
è ineliminabile, oltre che fisiologica, da
qualsiasi fabbrica o ufficio; la molestia morale
è, al contrario, una forma patologica di
persecuzione, continuativa, crescente,
emarginante, generatrice di malattia) che si
manifesta attraverso azioni od omissioni, in
grado di arrecare offesa alla persona in quanto
tale, di metterne in pericolo l'impiego e di
degradare il clima lavorativo, resta da
individuare quali comportamenti possano, in
concreto, costituire il fenomeno e quali le fasi
in cui esso si sviluppa.
In particolare, il prof. H.
Leymann ha rilevato almeno quarantadue
comportamenti che possono dar luogo a mobbing e
che, a loro volta, possono essere ascritti a
cinque categorie di condotta degli aggressori:
a) Condotte che agiscono sulla
comunicazione professionale.
Si tratta di tutti quei comportamenti che
impediscono alla vittima di esprimersi in ambito
lavorativo, come, ad esempio, ostacolare la
comunicazione sia con i colleghi sia con i
superiori; criticare continuamente il lavoro
svolto con rimproveri; ignorare eventuali
richieste di colloquio da parte del lavoratore e
così via.
b) Condotte che agiscono sulla
comunicazione interpersonale.
Comprendono tutte quelle attività volte ad
isolare la vittima, non soltanto nello
svolgimento materiale della sua prestazione (come
nel caso delle condotte indicate sub a), ma
soprattutto nel mantenimento dei contatti sociali
in ambito lavorativo.
Così alla vittima viene tolta la parola o il
saluto degli altri colleghi; può essere relegata
a veri e propri reparti di confino in cui è
alienata da tutto e da tutti; si mormora in sua
presenza; ci si comporta come se non ci fosse.
c) Condotte che agiscono sulla
reputazione (perdita dell'altrui considerazione).
In questo caso il meccanismo demolitorio mira a
provocare la disistima del soggetto sul posto di
lavoro, diffondendo pettegolezzi, riportando
offese, deridendo pubblicamente, ridicolizzandone
particolari caratteristiche fisiche o eventuali
handicap.
d) Condotte che agiscono sulla
posizione occupazionale (perdita della sicurezza
di sé).
Qui si cerca di screditare la vittima nel suo
lavoro, manipolandone le prestazioni. Progressiva
inattività coatta; svuotamento delle mansioni,
reiterazione pesante solo dei suoi errori;
ossessivi controlli medici, anche in presenza di
una comprovata e conclamata patologia, sono solo
alcune delle condotte che possono pregiudicare il
lavoro della vittima.
e) Condotte che agiscono sulla
salute fisica o psichica.
Al lavoratore preso di mira vengono palesemente
affidati incarichi pericolosi o gravosi: è il
caso dell'operaio che viene mandato al lavoro
senza impalcature di sicurezza o quello del
portavalori costretto a spostamenti senza una
scorta armata, ma in generale questa categoria
comprende tutti quei pretesi risultati da
realizzare in tempi e modi impossibili o
altamente improbabili.
Secondo l'impostazione fornita da
Leymann, il mobbing si sviluppa in quattro fasi,
non tutte necessarie, visto che il fenomeno può
articolarsi anche passando direttamente dalla
prima alla terza fase, omettendo la seconda.
In realtà tale spiegazione,
adattabile in pieno al modello lavorativo
scandinavo, si è mostrata sostanzialmente
riduttiva rispetto al caso italiano.
Per ovviare a tali carenze,
dovute principalmente alle caratteristiche del
sistema professionale italiano, il prof. H. Ege,
uno dei massimi esponenti europei nello studio
dell'argomento, ha completato il modello di
Leymann con due ulteriori fasi, funzionali alla
sua utilizzazione anche sul versante italiano.
Procedendo per gradi, occorre
premettere che il mobbing si traduce in una
progressiva escalation di comportamenti,
reiterati e protratti nel tempo, che vanno da una
fase premonitrice, assolutamente neutra o
addirittura positiva, fino ad una fase totalmente
esplicita, gravida di conseguenze negative per
l'occupazione stessa del mobbizzato oltre che,
com'è ovvio, per la sua salute.
- Prima fase
Conflitti - Attacchi -
Meschinità - Scherzi feroci.
La vittima inizia ad avvertire un
certo malessere, che tuttavia cerca ancora di
gestire con il ricorso alla razionalità ed alla
pazienza.
Di regola dopo sei mesi appaiono
disturbi psicosomatici (insonnia, diarrea,
vomito, nausea, incubi e così via) che divengono
ansia generalizzata entro un anno dall'inizio
delle persecuzioni.
- Seconda fase
Dal mobbing al terrore
psicologico.
Il protrarsi delle suddette
aggressioni per un periodo che va dai quindici ai
diciotto mesi determina nella maggior parte dei
casi uno stato cronico di ansietà.
Dai due ai quattro anni
dall'inizio delle vessazioni appaiono gravi
disturbi psichici, quali depressione accompagnata
da fobie, automatismo e ruminazioni mentali,
ossessioni, dipendenza da farmaci tranquillanti,
assenza dal lavoro per malattia.
- Terza fase
Negazione dei diritti della
vittima tollerati o decisi dalla direzione del
personale.
Normalmente l'ufficio del
personale inizia a questo punto ad occuparsi del
caso e, come spesso accade, trovandosi a
giudicare un fatto in posizione non parziale,
tenderà a valutare negativamente la vittima, che
di solito viene bollata come 'problematica',
'strana', 'piantagrane', dando vita a un vero e
proprio fenomeno di stigmatizzazione.
Ovviamente un tale intervento
interno non fa che peggiorare l'immagine del
mobbizzato sul posto di lavoro, che finisce,
perciò, per sentirsi ancora più vittima.
In questi casi la via preferibile
resta infatti l'intervento di sindacalisti
esterni all'impresa in cui si trova il
mobbizzato.
- Quarta fase
Esclusione dal mercato del
lavoro.
Arrivato a questo stadio, il
fenomeno è difficilmente arginabile.
Il soggetto viene definitivamente
messo al bando, essendo il mobber riuscito a
consolidare il suo intento.
Frequente è la cronicizzazione
di manie ossessive, più raro, ma comunque
possibile, il rischio di suicidi e lo sviluppo di
comportamenti criminali.
Anche quando non si decide per il licenziamento
con indennità o per la decisione autoritaria di
internamento psichiatrico, l'esclusione dal
mercato del lavoro avviene, comunque, mediante
l'assegnazione di incarichi di minor importanza o
la successione di trasferimenti da un posto
all'altro.
In questo caso, la messa in
invalidità della vittima è quasi fisiologica,
il che comporta evidentemente un periodo di
malattia di lunga durata, che ha come diretta
conseguenza l'eliminazione fisica del mobbizzato
o, comunque, il suo allontanamento dal posto di
lavoro.
A queste fasi, come già
accennato, il prof. H. Ege ne aggiunge due
ulteriori: una pre-fase detta 'condizione zero' e
la costante del 'doppio mobbing', tipiche,
appunto, dell'esperienza italiana.
La condizione zero rappresenta,
in particolare, la predisposizione d'animo a
mobbizzare, senza che per questo sia già stata
designata una vittima.
La competitività innata alle
imprese italiane si traduce quasi come una sorta
di autotutela a priori, che sorge per esigenze di
conservazione del posto prima ancora che questo
possa essere messo in pericolo dalla presenza di
un elemento scomodo.
In questa pre-fase non c'è
quindi la volontà di distruggere, ma solo quella
di 'apparire'.
Successivamente si sviluppa,
però, la convinzione di dover distruggere per
poter emergere, così il mobber procede a
individuare il mobbizzabile e a mettere in atto
le strategie dirette a eliminarlo dall'azienda.
La costante del doppio mobbing
è, invece, ancora più caratteristica
dell'esperienza italiana, proprio perché si basa
sul profondo e quasi mai soluto legame che il
mobbizzato ha con la sua famiglia. Quest'ultima,
dopo aver tentato di comprendere le lamentele del
parente/mobbizzato, tenderà infatti a vedere la
vittima non poi così vittima, fino ad avvertirla
come un pericolo per l'equilibrio familiare e a
farla sentire unica responsabile della sua
condizione.
Al mobbing in ufficio si aggiunge
quello a casa, facendo piombare il soggetto in
uno stato di sempre crescente isolamento,
depressione e ansietà.
Prima di analizzare il dato
legislativo e giurisprudenziale, resta però da
fornire ancora qualche risposta alle domande più
frequenti per l'individuazione del fenomeno.
In particolare, un'analisi
approfondita, che voglia stilare un identikit del
fenomeno nei suoi aspetti principali, non può
tralasciare i seguenti interrogativi.
Innanzitutto resta da vedere chi
aggredisce chi e sulla base di quali motivazioni;
se il mobbing esista effettivamente o se sia
soltanto uno dei figli del buonismo imperante;
infine, quid iuris, là dove se ne riconosca
l'esistenza, rispetto all'ipotesi di una persona
già di per sé paranoica o comunque non sana di
mente, che però venga a sua volta sottoposta a
mobbing.
Come si vede, si tratta di
quesiti non rinviabili e preliminari a qualunque
analisi sull'attuale rilevanza civile e penale
del fenomeno.
Prima di tutto, la vittima.
Contrariamente a quanto è spesso erroneamente
affermato, il bersaglio di persecuzioni morali
nel luogo di lavoro non è un'incapace, un poco
brillante, un debole o un perdente nato.
Molti giornali, nel commentare
episodi di mobbing, l'hanno presentato come una
sorta di 'sindrome di Fantozzi', contribuendo a
creare in tal modo un meccanismo sbagliato, che
renderà ancora più difficile, per le vittime,
la presa di coscienza della loro situazione.
In realtà, il mobbing è posto
in essere allo scopo di eliminare individui
scomodi, evidentemente tali rispetto alla propria
posizione di potere.
Quando si avverte la propria
supremazia come incontrastata, a meno che gli
altri non commettano errori ripetuti e
grossolani, è piuttosto difficile avvertirli
come 'pericolosi'.
Al contrario, una persona
creativa, brillante, originale, innovativa
finisce automaticamente per essere anche la più
temuta, proprio perché si tende a percepirla
come una minaccia per il proprio potere. Non è
un caso infatti che i mobbizzati siano molto
spesso persone validissime in ufficio, di cui
talvolta si teme l'eccessiva competenza, altre
l'originalità (razziale, fisica, sessuale,
religiosa, d'abbigliamento, ma pur sempre
difforme rispetto al gruppo di riferimento),
l'onestà al di sopra di tutto e quindi il non
conformarsi a regole paramafiose, altre ancora è
la novità di un dipendente che subentra in un
clan già costituito, o addirittura la troppa
bellezza o ricchezza, generatrici di invidie.
Si tratta di motivazioni
assolutamente eterogenee che, però, ci
confermano la tesi iniziale: ad essere mobbizzato
non è nella maggior parte dei casi un
sottomesso, un Fantozzi o un Bean di turno,
quanto invece una persona con un forte
attaccamento al lavoro, spesso animata da grandi
ideali e voglia di fare (c.d. presenzialismo
psicologico) e che pertanto vive la condizione di
emarginazione dal lavoro in maniera assai
amplificata rispetto a persone che non amano più
di tanto la loro professione.
Il mobbing, a differenza della
molestia sessuale, ha un raggio di applicazione
molto più vasto: può colpire uomini e donne
(maggiormente quest'ultime), giovani o anziani
(con prevalenza, dovuta proprio alla
trasformazione del mondo del lavoro, di questi
ultimi), operai e liberi professionisti (la
richiesta d'aiuto proviene soprattutto da livelli
medio-alti: lavoratori inquadrati in aziende,
soprattutto bancarie e assicurative, o nella
Pubblica Amministrazione, quasi tutti con un
diploma di scuola media superiore o la laurea).
Quello che poi rende insidioso
questo fenomeno è la sua mutevolezza: sa
reinventarsi ogni giorno e assumere sempre nuovi
e diversi comportamenti.
"Ci sono metodi palesi e
violenti (attuati attraverso aggressioni verbali
o fisiche, urla, allusioni pesanti alla sfera
privata o sessuale); sottili e silenziosi
(realizzati attraverso un susseguirsi di episodi
che portano al progressivo isolamento della
vittima e alla sua esclusione graduale dal
gruppo); disciplinari (quando, per esempio, un
dipendente riceve continue lettere di richiamo
ingiustificate, diventa oggetto di un controllo
ossessivo allo scopo di coglierlo in fallo e, in
caso di malattia, viene perseguitato con uno
stillicidio di viste fiscali); logistici (assai
comune è il trasferimento del lavoratore in una
sede periferica, scomoda e lontana dalla famiglia
e dagli amici); e perfino paradossali (quando, al
contrario, un dipendente viene promosso a un
compito più alto che però non sa svolgere, ed
è quindi messo in condizione di sbagliare per
poi essere punito).
Insomma, l'attacco si compie
attraverso tutti i possibili sistemi con cui un
gruppo può ferire un individuo. E anche
attività che sono del tutto innocue e pacifiche
nella maggior parte dei luoghi di lavoro (come
fumare sigari o sigarette, aprire le finestre,
accendere l'aria condizionata, raccontarsi
barzellette spinte) possono diventare strumenti
di aggressione e di molestia" (così, A.
GILIOLI, R. GILIOLI, op. cit., 7 ss.).
Analogamente il mobber non
perseguita sempre per lo stesso motivo. E ciò
non solo perché le ragioni che spingono a
mobbizzare cambiano a seconda che il mobbizzato
sia di pari grado, sottoposto o (raramente)
superiore rispetto al mobber, ma anche perché
infinite possono essere le insicurezze umane e le
mancanze relazionali che portano a desideri di
onnipotenza.
Esso sa nascondersi dietro mille
diverse motivazioni, che hanno tutte lo scopo
concordato di portare la sua vittima ad uno stato
di depressione tale da costringerla alle
dimissioni dal posto di lavoro. Tralascia in
particolare le cause esogene, che spesso hanno un
peso non marginale nell'intera vicenda.
Il mobbing non è sempre e solo
legato alla presenza di elementi negativi,
portatori di aggressività; per diffondersi
capillarmente ha bisogno di un supporto aziendale
che incoraggi o che sia, comunque, connivente
alle persecuzioni sul posto di lavoro, dovuto di
frequente ad una cattiva organizzazione interna
ed un'imprecisa definizione delle mansioni (il
che spiega perché proprio la Pubblica
Amministrazione sia un settore a rischio).
Un problema nel problema è poi
quello del tipo di tutela da accordare ad una
vittima che di per sé sana non è, ed entra sul
set di un sistema mobbizzante.
Qui la linea di confine appare
ancora più labile, ma non può in ogni caso
essere ignorata: esistono anche paranoici o
mitomani che simulano nel dettaglio la loro
sottoposizione a vessazioni psicologiche, questo,
tuttavia, non può indurci a prendere le distanze
dal fenomeno, tralasciando le vittime vere delle
persecuzioni.
Il mobbing è una manipolazione
perversa che genera stress ed altera gli
equilibri psicofisici della vittima: poco importa
(ovviamente, a patto che non si tratti di
invenzioni fittizie) lo stato mentale e fisico su
cui la molestia va ad agire. Sarebbe come
ammettere che esistono individui di serie A ed
altri di serie B e che verso quelli che già
partono svantaggiati, secondo luoghi comuni,
anche il peggioramento del loro status non
dovrebbe essere avvertito in maniera così grave.
In realtà compito della legge è
quello di tutelare tutti i cittadini e, nel caso
specifico del mobbing, quello di impedire che il
luogo di lavoro peggiori un soggetto, a causa
delle persecuzioni psicologiche che è costretto
a subire.
L'unico intervento sensato
appare, perciò, quello di commisurare l'entità
del danno al momento in cui il soggetto è
arrivato sul luogo di lavoro ed a quello in cui
questi dichiara abbiano avuto inizio le
persecuzioni psicologiche contro di lui. Certo,
una simile scelta comporterà difficoltà dal
punto di vista dell'onere probatorio, rispetto al
quale la dimostrabilità in concreto
dell'accaduto potrebbe prestare il fianco a
logiche faziose e tutt'altro che probanti.
Tuttavia sembra, a mio avviso, la sola strada
possibile per non sfociare nell'assurdo di
relazionare la gravità di un fenomeno in base
alla tipologia di individui su cui si riversa.
Resta infine da accennare ad un
ultimo aspetto, che merita di essere considerato,
non solo perché aiuta la riflessione sulla
delicatezza del fenomeno, ma anche perché
corrisponde ad una visione condivisa oggi da
parecchi e che, come tale, merita di essere
valutata.
A detta di una parte di studiosi,
infatti, il mobbing non esisterebbe o, per lo
meno, non sarebbe così grave. In particolare, il
fenomeno sarebbe dovuto ad un eccesso di
vittimismo di quanti non sanno farsi forza di
fronte all'addestramento pedagogico, ignorandone
l'importanza come strumento di selezione.
E', nei fatti, davvero così
contra legem una sorta di selezione darwiniana
lavorativa?
Un impegno maggiore, o la cura di
sé non potrebbero essere soluzioni al mobbing?
Non è forse vero che se Kafka o
Svevo non fossero stati mobbizzati, non avremmo
avuto grandi scrittori?
Come distinguere l'infelice
normalità della vita da una pratica vessatoria?
Ancora: qual è il male minore,
il mobbing o il licenziamento?
Non sarebbe, allora, preferibile
un po' di mobbing, in alternativa al
licenziamento?.
E poi, se il mobbing riguarda
invidie ineliminabili dalla vita, chi ha forza,
non può magari farcela da solo?
Il mobbing, insomma, esiste
davvero o è solo una sindrome di debolezza
vitale?
Non si tratta di interrogativi da
poco. Tuttavia non credo possano essere
condivisi, almeno nella loro interezza.
E', infatti, mia opinione che in
nessun caso il lavoro dovrebbe portare ad una
devastazione psicologica.
Talvolta può indubbiamente
esserci un eccesso di vittimismo, ma una visione
darwiniana sul posto di lavoro è decisamente
contra legem (si pensi in tal senso al, già
citato, articolo 2087 c.c. sull'obbligo per il
datore di tutelare l'integrità psicofisica del
dipendente).
Quanto poi alla visione del
mobbing come alternativa al licenziamento,
verrebbe da ribattere che il più delle volte al
mobbing segue il licenziamento, evidentemente in
senso cumulativo, peggiorando con ciò
ulteriormente la condizione del lavoratore.
Che si debba stare attenti a non
lasciarsi trascinare dall'onda della novità, che
vi sia la necessità di non vedere mobbing
dappertutto (a ben guardare, infatti, oggi
qualunque controversia lavorativa sarebbe
suscettibile di essere fondata, in senso lato, su
un'accusa di mobbing) non deve però farci cadere
nell'estremo opposto, quello di negarne
l'esistenza.
Il problema andrà, perciò,
tutto giocato sul terreno della dimostrabilità
del trattamento discriminatorio, in cui
individuare criteri certi di riferimento, che non
si traducano in un riconoscimento di molestia
aprioristico, in tutti i casi di malessere, né
tanto meno in una negazione dei fatti e
soprattutto di un'evidenza di cui lo Stato non
può non farsi carico.
3. L'azione di responsabilità
contro il mobber
Dopo aver presentato il fenomeno
da un punto di vista concettuale, medico e
sociologico, resta da concentrarsi su almeno
altri tre aspetti riguardanti il mobbing, ossia
quello dell'azione di responsabilità contro il
mobber; quello relativo all'analisi del dato
giurisprudenziale, tra sentenze pre e sentenze
sul mobbing aziendale; infine, last but not
least, quello attinente ai danni da mobbing,
anche alla luce della nuova disciplina in materia
di indennizzi INAIL.
Ciò premesso, va detto che,
nonostante il mobbing sia stato 'battezzato' solo
di recente dagli operatori del diritto, la sua
comparsa sulla scena giuridica è tutt'altro che
recente.
Ciò nel senso che vessazioni
morali sul posto di lavoro avvenivano anche in
mancanza di una qualificazione formale del
fenomeno, senza che al lavoratore molestato
venisse preclusa una qualche tutela da parte
dell'ordinamento.
Al contrario, violare diritti
espressamente riconosciuti come fondamentali
della persona umana, quali la salute, la
personalità ed il lavoro costituisce, per ciò
solo, un comportamento rilevante per il diritto.
Per citarne alcuni, si pensi a quanto previsto
dalla nostra Costituzione agli artt. 2, 3, 4, 13,
32, 37, 39 e, soprattutto, 41, 2° comma, o a
quanto stabilito da numerose convenzioni
internazionali o, ancora, a quanto disposto, a
livello nazionale, dallo Statuto dei lavoratori
(art. 15) o dalle leggi 903/1977 e 125/1991,
sulla parità uomo-donna.
Delineata la cornice di
riferimento, occorre però valutare quale
possibilità di reazione abbia, in concreto, un
individuo mobbizzato.
Innanzitutto, non c'è dubbio
che, in alcune ipotesi, il mobbing possa avere
una rilevanza penale.
E' il caso in cui un
comportamento mobbizzante abbia provocato lesioni
personali (artt. 582 e 590 c.p.); abbia istigato
al suicidio (art. 580 c.p.); si sia tradotto in
un'ingiuria o in una diffamazione (art. 594 e 595
c.p.), in un sequestro di persona (art. 605
c.p.), in una violenza privata ( art. 610 c.p.),
in una violenza sessuale (art. 609 bis c.p.), in
una minaccia (art. 612 c.p.), in un abuso
d'ufficio (art. 323 c.p.), in una molestia o
disturbo alle persone (art. 660 c.p.).
Ovviamente, non è questa la sede
per entrare nel merito delle singole disposizioni
del codice penale, tuttavia, ai fini della
presente trattazione, può essere importante
riflettere brevemente sull'opportunità per un
mobbizzato o un molestato di optare per il
versante penale, ferma restando, ovviamente,
l'autonomia e la non alternatività tra giudizio
penale e giudizio civile.
Uno dei vantaggi più caldeggiati
della sanzione penale è (rectius: dovrebbe
essere) costituito dalla sua funzione deterrente
e dal suo peso, nel caso in cui venga comminata,
di precedente a carico del colpevole, con
conseguenze piuttosto pesanti nell'ipotesi di
nuova condanna.
Ha poi un indiscusso significato
di valore, rappresentando da sempre l'icona del
male, di chi ha commesso fatti sufficientemente
gravi da giustificarne la reclusione nelle patrie
galere.
Ciò nonostante, non credo che
gli sforzi della giurisprudenza o dei progetti
parlamentari dovrebbero indirizzarsi in questa
direzione.
Non solo nell'interesse della
vittima, essendo la tutela penale molto più
invasiva per il suo stato psicologico, ma anche
per ragioni di coerenza sistematica con quei
corollari di necessarietà, sussidiarietà e
meritevolezza della pena, accolti dal nostro
ordinamento. Non si deve, infatti, dimenticare
che la tutela penale è, per definizione, extrema
ratio e come tale dovrebbe essere utilizzata.
Senza contare, poi, che per tutta
una serie di motivi (quali la possibilità di
applicare la pena pecuniaria al posto di quella
detentiva, l'istituto della sospensione
condizionale della pena, non ultima la legge
Simeone), nei fatti è piuttosto difficile che un
mobber resti in carcere, considerando anche i
limiti massimi edittali previsti per i reati con
cui il mobbing presenta delle affinità
(ingiuria, diffamazione, minaccia etc.), a parte
i limitatissimi casi in cui il comportamento
molesto integri il reato di violenza sessuale.
Ed è proprio questa perdita di
tipicità del diritto penale, se applicato ai
casi di mobbing o molestie sessuali, che invita a
riflettere sulla necessità di valorizzare,
invece, la sede civile come luogo di risoluzione
di questo tipo di controversie, anche in virtù
della progressiva curvatura in senso
sanzionatorio del risarcimento del danno.
Non vi sono incertezze, infatti,
sulla possibilità che il mobbing possa essere
fonte di responsabilità civile.
Laddove la vittima subisca un
danno a causa delle persecuzioni (danno che, fino
ad adesso, è stato limitato alla lesione della
salute, anche se la tendenza evolutiva è nel
senso di una progressiva erosione del danno
biologico, ossia del danno alla salute, a favore
di altri tipi di danno, primo fra tutti quello
esistenziale, inteso come danno alla libera
esplicazione della propria personalità) potrà
essere risarcita in base al combinato disposto:
art. 2043 c.c. (per la responsabilità
extracontrattuale, nel caso in cui autore della
molestia sia un soggetto diverso dal datore di
lavoro ovvero sia il datore stesso, nel qual
caso, però, concorrerà con la responsabilità
contrattuale ex art. 2087 c.c.) o art. 2087 c.c.
(per la responsabilità contrattuale, nel caso in
cui autore della molestia sia il datore di lavoro
ovvero non sia esso l'artefice effettivo della
persecuzione, ma questa sia comunque a lui
riconducibile per violazione indiretta degli
obblighi di cui alla disposizione in esame) +
art. 32 Cost..
Ovviamente l'art. 32 Cost.
rileverà per i casi in cui sia lamentata una
lesione del diritto alla salute, laddove una
lesione all'esistenza ed alla personalità
dovrebbe, invece, essere basata sul collegamento:
art. 2043 (o 2087) + art. 41 Cost..
In altre parole, gli artt. 2043 e
2087 c.c. vengono individuati come disposizioni
di collegamento con la normativa costituzionale,
per una concreta applicazione o dell'art. 32
(danno dalla salute) o dell'art. 41 (danno
esistenziale).
In particolare, l'art. 2043,
stabilendo che qualunque fatto doloso o colposo,
che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga
colui che ha commesso il fatto a risarcire il
danno, sancisce il principio del neminem laedere,
per cui se un soggetto commette un'azione
genericamente considerata illecita, poiché
contraria ad una normativa o ad una disposizione,
anche se non necessariamente un reato, e
determinante un danno ingiusto, sarà tenuto a
compensare il danno che ha cagionato.
Viceversa, ai sensi dell'art.
2087 c.c.: "l'imprenditore è tenuto ad
adottare nell'esercizio dell'impresa le misure
che, secondo la particolarità del lavoro,
l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a
tutelare l'integrità fisica e la personalità
morale dei prestatori di lavoro."
Considerata, quasi pacificamente,
norma di chiusura del sistema di protezione del
lavoratore, consente di porre fine a situazioni
di mancata tutela e permette al dipendente di
agire in giudizio per chiedere il risarcimento
del danno.
Il datore di lavoro, in base a
tale disposizione, è tenuto infatti ad
indennizzare il lavoratore che subisce un danno
all'integrità fisica e/o alla personalità
morale, a meno che non riesca a dimostrare di
aver utilizzato tutti i rimedi preventivi
possibili.
Ciò sta a significare, quindi,
che la responsabilità del datore ex articolo
2087 c.c. sorge se sussiste una condotta
causalmente riferibile, a qualunque titolo, al
datore di lavoro.
Resta, tuttavia, da vedere se
tale articolo possa, altresì, costituire uno
strumento di tutela immediata e diretta,
preventiva e non solo risarcitoria, contro tutti
quei comportamenti molesti che siano ascrivibili
al datore di lavoro; e ciò a prescindere
dall'insorgenza di una malattia psichica o
fisica, considerando, perciò, già un danno
anche il riflesso negativo che un dato
comportamento produce sulla personalità di un
individuo, senza per questo tradursi in una
conclamata malattia, ma ponendo il lavoratore in
difficoltà, anche se al limite questi l'abbia
fronteggiata brillantemente.
Detto in altre parole, quand'è
che si inizia a parlare di mobbing? Nel momento
in cui l'aggressore comincia a molestare o in
quello in cui l'effetto pregiudizievole è
identificato ed avvertito come tale dalla
vittima?.
E ancora, cos'è che si vuol
colpire con la repressione delle molestie sul
lavoro, il comportamento dell'aggressore (la
condotta) o il risultato che si produce sulla
vittima?
Come si vede, non si tratta di
interrogativi da poco, per quanto vada rilevato
che molta della loro complessità deriva, spesso,
da un'errata impostazione dei termini della
questione.
Se, infatti, prendiamo il caso di
un dipendente (ma analoghe considerazioni
potrebbero valere, mutatis mutandis, anche per il
datore di lavoro che sia autore diretto della
vessazione psicologica) che, per ottenere
vantaggi personali, pone in essere strategie
persecutorie verso un altro collega, il primo
problema giuridico che si pone è quello del
momento a partire dal quale può iniziare ad
aversi un comportamento rilevante per la legge,
del quale, secondo gli schemi già delineati,
siano chiamati a rispondere il collega (in via
diretta ex 2043) e il datore di lavoro (in via
indiretta ex 2087).
Essendo il mobbing dato da un
accanimento progressivo e sistematico di
comportamenti che, se presi singolarmente,
apparterrebbero invece a quella ineliminabile
conflittualità sul lavoro, è evidente che
l'individuazione del danno da mobbing, chiarendo
cioè cosa il mobbing offenda e, di conseguenza,
quando possa, effettivamente, iniziare a parlarsi
di lavoro molestato e non più soltanto
difficoltoso, assurge a momento centrale e di
rilievo dell'intera trattazione. E ciò non solo
ai fini del danno, ma anche a quelli della
responsabilità, la cui sussistenza e la cui
ampiezza dipenderanno, in molti casi, proprio dai
criteri di individuazione della sussistenza e
dell'ampiezza del fenomeno stesso.
Per riallacciarci al già citato
esempio, la portata del 2087 sarà maggiore o
minore a seconda che venga considerato mobbizzato
solo il soggetto che abbia riportato una lesione
alla salute (per cui il datore, in via indiretta
ex 2087, risponderà per quell'omessa vigilanza
che avrebbe, invece, dovuto esserci e che ha
consentito che un suo dipendente vedesse lesa la
sua salute) oppure anche quel dipendente che, pur
non avendo subito un danno biologico in senso
stretto, abbia visto offeso un altro suo diritto
costituzionalmente garantito (per cui il datore,
in via indiretta ex 2087, risponderà per omessa
vigilanza anche quando un suo dipendente non
abbia riportato un danno biologico, ma abbia lo
stesso visto compromesso un suo diritto, tutelato
già a livello costituzionale).
In altre parole, la questione del
cosa sia mobbing (se anche la sola condotta del
mobber idonea a ledere un diritto del lavoratore
o il danno alla salute, anche psichico,
prodottosi in capo al mobbizzato) sembra
risiedere tutta nel tipo di danno che si ritiene
che il mobbing sia suscettibile di produrre.
Fintanto che si ritiene che il
danno prodotto dal mobbing sia di tipo
esclusivamente biologico, è evidente che di
mobbing potrà parlarsi solo quando il
dipendente/mobbizzato abbia riportato un danno
alla salute, sia pur latamente intesa.
Viceversa, laddove si scelga di
individuare in altro il danno da mobbing (ossia,
in un danno all'esistenza) anziché voler
identificarlo, sempre e comunque, con una lesione
alla salute, finiremo per avere mobbing anche in
presenza di tutte quelle condotte mobbizzanti
che, pur non avendo offeso direttamente la salute
del lavoratore, ne hanno comunque leso diritti
fondamentali, individuando così nel
comportamento mobbizzante il danno (evento) da
mobbing, cagionatore di responsabilità cui, nei
limiti e nelle previsioni degli artt. 2043 e 2087
c.c., saranno tenuti colleghi e datore di lavoro.
Si tenga, comunque, presente che
il panorama offerto dal diritto civile in merito
alla responsabilità del datore di lavoro non si
esaurisce nel solo 2087 c.c..
C'è un'altra disposizione,
infatti, che consente di ritenere il datore di
lavoro responsabile di molestia, pur quando non
l'abbia egli stesso direttamente compiuta: l'art.
2049 c.c..
Si tratta di una responsabilità
ancora più indiretta della, già di per sé
indiretta, responsabilità ex 2087, dal momento
che, in base all'art. 2049, il datore è tenuto a
risarcire il danno subito da un terzo (che
sarebbe, evidentemente, l'individuo molestato) e
commesso da un suo dipendente, nel caso in cui
quest'ultimo abbia potuto compiere l'illecito
grazie alle mansioni cui era adibito.
In particolare, sono tre i
principi che devono sussistere perché sorga, per
il datore, la responsabilità ex 2049:
- quello dell'efficacia
agevolativa (la mansione affidata al dipendente
deve avere, nei fatti, reso possibile la
commissione dell'illecito);
- quello dell'occasionalità
necessaria (non è richiesto un nesso di
causalità tra il fatto dannoso del dipendente e
le mansioni da questo svolte, essendo sufficiente
un rapporto di occasionalità necessaria);
- quello della connessione
funzionale (occorrerà, cioè, un collegamento
strumentale tra mansione svolta dal mobber ed
evento lesivo, senza che rilevi se tale
comportamento si sia posto in modo autonomo
nell'ambito delle mansioni affidate o abbia
travalicato i limiti delle stesse).
La responsabilità del datore ex
2049 andrà, perciò, esclusa soltanto nel caso
in cui l'evento dannoso non sia neppure
indirettamente riferibile alle mansioni di
lavoro, facendo con ciò emergere una rigorosa
responsabilità del datore al limite della
condicio sine qua non (but for test).
Il datore è, così, sanzionato
mediante responsabilità civile per aver posto in
essere l'antecedente minimo senza il quale
l'autore non si sarebbe trovato in quella
situazione di tempo e di luogo in cui ha arrecato
il danno.
Il problema che si pone è,
però, quello dell'opportunità o meno di una
simile responsabilità che, evidentemente, non
ammette liberatorie da parte del datore di
lavoro.
C'è da chiedersi, cioè, se
quella della responsabilità oggettiva sia una
soluzione politically correct oppure se non sia
altro che un tentativo di trovare un responsabile
a tutti i costi, visto che la risonanza sociale
del fenomeno chiede che qualcuno paghi.
Tuttavia, pretendere di
oggettivizzare un aspetto per definizione
soggettivo mi è sempre sembrato, se non un
paradosso, almeno un meccanismo da utilizzare con
estrema delicatezza.
Pur ammettendo, infatti, che vada
trovata una soluzione più appagante per le
vittime, troppo spesso penalizzate dal nodo
critico dell'onere della prova, sono perplessa di
fronte alle libere interpretazioni di chi, per
esigenze di giustizia, è disposto a sconfinare
nel rischio inverso, cioè quello di riversare
sul datore una colpa cultural-sociale di cui,
invece, non sempre può rispondere.
Oltretutto, allargare il campo
del 2049 equivarrebbe a restringere
considerevolmente quello del 2087 che,
richiedendo per la sua applicabilità un onere
probatorio più qualificato, finirebbe per
essere, poco a poco, neutralizzato, a favore di
soluzioni più semplici e decisamente meno
garantiste.
Senza contare poi che la
percentuale di responsabilità oggettiva,
demandata all'articolo 2049, varia in relazione
all'interpretazione che si decide di dare, di
volta in volta, al concetto di "incombenze a
cui si è adibiti" e che pertanto lascia
aperta la questione del fino a che punto sia
giusto che gli artt. 2087 e 2049 risarciscano gli
stessi danni.
Ciò nel senso che se
un'espansione sempre maggiore della
responsabilità oggettiva ex 2049 è forse
legittima di fronte alla lesione della salute,
sembra esserlo meno in presenza di un danno
esistenziale, quanto meno perché porta a
chiedersi se questo tipo di danno, così recente
e così poco acquisito, sia già anche così
grave da giustificare che per esso paghi una
persona che non ha commesso il fatto, neppure a
titolo di colpa.
Oltre a questo, va rilevato che
molti dei comportamenti vessatori possono essere
costituiti da gravi forme di dequalificazione e
di lesione del bagaglio professionale, posseduto
ed utilizzato dal lavoratore, riducendo, di
fatto, le possibilità che questo svolga
adeguatamente le sue mansioni.
In questi casi, quando cioè la
vittima viene demansionata o trasferita senza che
sussistano 'comprovate ragioni tecniche,
organizzative e produttive', oltre alla
possibilità di essere risarcito, il mobbizzato
avrà dalla sua la possibilità di impugnare tali
provvedimenti in base a quanto previsto
dall'articolo 2103 c.c..
Ai sensi di tale disposizione:
"il prestatore di lavoro deve essere adibito
alle mansioni per le quali è stato assunto o a
quelle corrispondenti alla categoria superiore
che abbia successivamente acquisito ovvero a
mansioni equivalenti alle ultime effettivamente
svolte, senza alcuna diminuzione della
retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni
superiori il prestatore ha diritto al trattamento
corrispondente all'attività svolta, e
l'assegnazione stessa diviene definitiva, ove la
medesima non abbia avuto luogo per sostituzione
di lavoratore assente con diritto alla
conservazione del posto, dopo un periodo fissato
dai contratti collettivi, e comunque non
superiore a tre mesi. Egli non può essere
trasferito da una unità produttiva ad un'altra
se non per comprovate ragioni tecniche,
organizzative e produttive. Ogni patto contrario
è nullo."
In particolare, la giurisprudenza
è oggi nel senso di riconoscere alle sentenze
sul demansionamento, sullo stress da superlavoro
e, in generale, sulla penalizzazione legata a
fenomeni di incentivazione alle dimissioni
(quindi, in sostanza, a molte delle condotte
riconducibili all'art 2103 c.c.) l'importante
ruolo di giurisprudenza pre mobbing (pre rispetto
alle sentenze del Tribunale di Torino del
novembre 1999, in cui per la prima volta il
mobbing è stato menzionato come fenomeno
ulteriore rispetto a forme di demansionamento e
dequalificazione).
Quello che, infatti, rende il
mobbing rilevante da un punto di vista giuridico
è il suo presentarsi come una categoria in grado
di dare unitarietà ad una serie di atti, diversi
tra loro, ma aventi la caratteristica comune di
ledere l'integrità psicofisica del lavoratore.
In esso rientrano tanto gli atti
tipici (per tipico, s'intende quell'atto già
previsto di per sé dall'ordinamento, come, ad
esempio, il demansionamento o la
dequalificazione), quanto quelli atipici.
Mentre i primi, grazie al
mobbing, ottengono una tutela più ampia e più
completa; i secondi trovano tutela solo con esso.
Fino al novembre del 1999, la
giurisprudenza italiana si è occupata del
fenomeno in questione senza una visione
consapevole di insieme: in buona sostanza ha
frammentato il complesso di azioni e reazioni
configuranti il mobbing in più fattispecie,
finendo per questa via con l'attribuire rilievo
solo ad alcune delle condotte che
contraddistinguono le strategie del mobber. La
giurisprudenza pre mobbing risulta attualissima,
dato che il mobbing, oltre costituire una novità
assoluta, è figlio di questa stessa
giurisprudenza e continuerà ad attingere da
essa.
Prima, però, di passare
all'analisi delle sentenze sul mobbing aziendale
ed al loro raffronto con la giurisprudenza
precedente, cercando di mettere in luce il
collegamento funzionale tra queste decisioni,
voglio sottolineare un ultimo aspetto.
La necessaria presenza di una
pluralità di persone, per dar vita ad un
conflitto interpersonale, non è caratteristica
esclusiva del mobbing.
Il senso di esclusione,
isolamento, beffa, derisione o passività che
viene provato da un lavoratore mobbizzato può,
in linea di massima, rinvenirsi anche in altri
ambiti, come quello familiare, sportivo,
ricreativo o di condominio.
Quello che, pertanto, determina
l'insorgenza di uno stato di malattia è la
difficoltà, per il soggetto, di sottrarsi a tale
situazione conflittuale senza patirne
pregiudizio, il che si traduce evidentemente in
un'oggettiva improbabilità nel caso di un
rapporto di lavoro.
Sto cercando di dire che dalla
definizione di mobbing, data nei paragrafi
precedenti, sono ricavabili moltissimi
comportamenti conflittuali che pervadono ogni
tipo di rapporto sociale.
A tutti può capitare di trovarsi
in un contesto relazionale difficile o
spiacevole, ma ciò che rende libero l'individuo
è la possibilità di andarsene e di cercare,
volontariamente e spontaneamente, ambienti più
conformi al suo carattere, senza che in questo
debba vedersi una qualche forma di reato o di
patimento risarcibile.
Dopotutto, non dobbiamo
dimenticare che se ci lasciamo prendere la mano,
ascrivendo tutto al mobbing, sarebbe lo stesso
mobbing, alla fine, a non esistere più.
Allora, quello che fa nascere
l'esigenza di una tutela giuridica in presenza di
questi comportamenti negli ambienti di lavoro, è
proprio il fatto che nessuno può volontariamente
sottrarsi all'ineluttabilità di doversi
procurare i mezzi di sostentamento per sé e per
la propria famiglia.
E', dunque, la necessità di
lavorare che porta il mobbizzato a subire e,
quindi, ad ammalarsi, rendendo con ciò il luogo
di lavoro e, segnatamente, l'importanza vitale
che esso ha per un individuo, elemento
caratterizzante del fenomeno.
Ciò premesso, le domande da
porsi sono le seguenti: a quali malattie, a quali
disturbi, patiti da un lavoratore, deve essere
riconosciuta rilevanza giuridica, imputabile ai
colleghi o al datore di lavoro? E poi, una volta
che siano stati individuati gli atti rilevanti,
sarà più opportuno ricorrere a strumenti
giuridici già esistenti o, invece, crearne di
nuovi?.
Infatti, accanto a comportamenti
assolutamente neutri, come l'essere esclusi da
feste aziendali o suscitare ilarità per il
proprio abbigliamento o, ancora, litigare con i
colleghi più del solito, la cui dimostrabilità
persecutoria si rivela praticamente impossibile
da un punto di vista processuale, ve ne sono
altri che hanno, invece, un'autonoma rilevanza
giuridica e che sono già sanzionati dalla legge
e dalla giurisprudenza.
E' il caso del, già citato,
demansionamento, del licenziamento ingiurioso,
del trasferimento illegittimo o della violazione
del minimum legale dei diritti del lavoratore
(es. riposo settimanale, orario di lavoro e così
via).
E' evidente che di fronte a
comportamenti già di per sé illegittimi,
diviene maggiormente agevole dimostrare l'intento
persecutorio di altri atti che, presi
singolarmente, sarebbero invece apparsi neutri, o
assolutamente irrilevanti.
Ora, se nel caso del mobbing
verticale è più normale trovarsi in presenza di
atti tipici (demansionamento, trasferimento o
licenziamento illegittimi) accompagnati da atti
atipici che, però, nella valutazione
complessiva, sono comunque riferibili al datore
di lavoro proprio per l'intenzione persecutoria
che li sottende; nell'ipotesi di mobbing
orizzontale la dimostrazione di un danno alla
salute del lavoratore apparirà ben più
difficile, dal momento che i colleghi, privi di
un potere formale con cui fare pressioni,
porranno in essere atti per lo più atipici.
Ecco dunque la vera
problematicità del mobbing orizzontale: non
siamo in presenza di atti tipici assunti contra
legem; manca una qualsiasi linea oggettiva di
confine che consenta di distinguere una pratica
mobbizzante da un'ineliminabile competizione
sociale; non esiste un principio che comporti
reciproco obbligo di rispetto e di
socializzazione tra i soggetti dell'ordinamento
che non siano legati da un vincolo di natura
contrattuale, né uno che tuteli il soggetto
escluso imponendo obblighi di natura risarcitoria
a carico di chi ha proceduto ad emarginare;
risulta complesso chiamare un giudice a emettere
giudizi di natura morale, in assenza di una
chiara rilevanza giuridica dei comportamenti da
valutare; per non parlare poi dell'evidente
rischio di trasformare il mobbing in un fenomeno
di massa, estrapolandolo dal suo contesto
caratteristico e privandolo del suo carattere
patologico.
Se, infatti, nel mobbing
orizzontale la maggior parte dei comportamenti
dei colleghi di lavoro è atipica e, come tale,
difficilmente riconoscibile, è chiaro che il
problema più grande si concentra sul tipo di
tutela da accordare a quei comportamenti che non
rivestono le caratteristiche di fattispecie già
giuridicamente rilevanti e tutelate dalle
normative vigenti.
Se un comportamento attuato da un
collega di lavoro riveste, infatti, gli estremi
di una aggressione, di una molestia o di
un'ingiuria viene da sé che in questi casi non
si senta l'esigenza di regolare la fattispecie,
poiché già adeguatamente contemplata dal nostro
ordinamento.
L'area scoperta rimane, quindi,
quella che più da vicino mostra la novità del
fenomeno e che lascia divisa la dottrina
sull'opportunità di introdurre nuove regole
normative o sul rinvio alla giurisprudenza per
quanto concerne l'individuazione delle
peculiarità della fattispecie.
4. Dequalificazione e lesione della personalità
nella giurisprudenza pre-mobbing. La
responsabilità da mobbing nelle sentenze dei
giudici di Torino
L'esposizione sin qui condotta ci
permette di affermare quanto segue.
Il mobbing non è un fenomeno
nuovo.
Non è stato inventato nel
novembre del 1999 dal Tribunale di Torino, ma, al
contrario, le sue origini vanno ricercate
indietro nel tempo, essendo probabilmente
connaturate alla nascita dei rapporti di lavoro
stessi.
Questo non ha significato, però,
l'ammissibilità di certe prassi
vessatorio-persecutorie, ma soltanto
l'attribuzione di una qualche rilevanza alle
condotte che risultavano più tipiche, più
palesi, più definite e che, in linea di massima,
andavano a coincidere con quanto vietato
dall'art. 2103 c.c..
Tale disposizione, da ritenersi
violata nelle ipotesi di dequalificazione,
demansionamento, svuotamento di mansioni,
riduzione all'inattività, mancato riconoscimento
di diritti derivanti dalla qualifica di
lavoratore, ha infatti giocato un ruolo chiave
nel sistema ante-mobbing.
Passando ad analizzare il mobbing
nella giurisprudenza, a partire, cioè, dal suo
formale riconoscimento, avvenuto, come si è
detto, con le pronunce del Tribunale di Torino,
occorre premettere che le sentenze a riguardo
sono veramente esigue, il che è probabilmente
dovuto al riconoscimento soltanto recente
dell'emersione del fenomeno.
La prima di esse, in ordine
cronologico, è quella emessa dal Tribunale di
Torino in data 16.11.1999 (Trib. Torino 16
novembre 1999, in Danno e resp., 2000, 403), con
la quale si è, in sostanza, affermata la
legittimità del risarcimento a favore di
un'operaia, cui il lavoro aveva provocato una
vera e propria catastrofe emotiva.
In particolare, la sig.ra
Erriquez, dipendente della S.p.a ERGOM materie
plastiche, adiva il giudice del lavoro, chiedendo
che le fosse accordato un risarcimento per il
danno biologico e neurobiologico da lei patito,
imputabile a fatto e a colpa del datore di
lavoro.
La ricorrente fondava la sua
richiesta sulla grave forma di crisi depressiva
contratta in conseguenza della segregazione
sofferta (nella specie, determinata
essenzialmente dall'essere addetta ad una
macchina collocata in uno spazio angusto e
ristretto, in modo da evitare per la lavoratrice
qualsiasi contatto con l'esterno) e delle
intollerabili condizioni di lavoro (risulta dagli
atti che il capo turno, tale sig. Dumas, fosse
aduso a trattare in modo non urbano i suoi
sottoposti, non privando il suo linguaggio
corrente di bestemmie, insulti, frasi sarcastiche
ed offensive).
Nonostante l'assoluta assenza di
precedenti nelle crisi denunciate dalla sig.ra
Erriquez, la società si costituiva in giudizio
contestando le deduzioni avversarie.
Il giudice, dopo aver proceduto a
fornire una, seppur generica, definizione di
mobbing, si esprimeva favorevolmente
sull'esistenza del rapporto di causalità tra
ambiente di lavoro e insorgenza della patologia,
dal momento che il precedente stato di salute
della ricorrente, del tutto privo di disturbi
patologici, le aggressioni verbali del sig.
Dumas, peraltro note in azienda, e lo spazio
oltremodo ristretto potevano essere considerati
più che sufficienti per integrare la causa della
patologia avvertita dalla sig.ra Erriquez.
Ciò, in aggiunta alla conoscenza
della società, provata per testi, delle
condizioni in cui era costretta ad operare la
ricorrente, determinava senza dubbio
responsabilità a carico del datore di lavoro (ex
art. 32 Cost. + art. 2087 c.c), il quale sarà
perciò tenuto a risarcire il danno.
Nonostante questa sentenza si
mostri forse un po' carente dal punto di vista
definitorio, ad essa va riconosciuto il merito di
essersi addentrata in un terreno fino a quel
momento sconosciuto e, soprattutto, quello di
aver riconosciuto la responsabilità civile anche
in presenza di atti non tipici, per cui
l'affermazione della sussistenza di un caso di
mobbing potrebbe, in seguito ad essa, consentire
di porre in rapporto di causalità patologie e
qualsiasi forma (anche atipica) di aggressione
ricollegabile al datore di lavoro.
Ora, è evidente che tale
considerazione non possa essere assunta sic et
simpliciter.
A meno che non si voglia
ricondurre a mobbing qualunque forma di
comunicazione disturbata, non basta trovarsi in
presenza di un atto atipico: per aversi mobbing
occorre che tale comportamento (di per sé, come
già visto, facile a confondersi con
atteggiamenti legittimi, anche se sgraditi) sia
anche ripetitivo, accanito in modo da non
lasciare dubbi in ordine al suo reale intento
persecutorio.
Con questa prima sentenza, il
Tribunale di Torino ha introdotto, perciò, un
importante principio, quello per cui la
causazione di una malattia può essere provocata
anche da semplici (purché ripetitive ed
esasperate) forme di aggressione psichica, là
dove in passato l'insorgenza di una forma
patologica sarebbe stata collegata solo alla
messa in essere di atti tipici, idonei a causare
nella vittima uno stato di malattia (quali, ad
esempio, il già citato demansionamento, la
perdita di una chance o le stesse molestie
sessuali).
Dopo poco più di un mese, lo
stesso Tribunale di Torino, in data 30.12.99,
tornava a pronunciarsi sull'argomento (Trib.
Torino 30 dicembre 1999, in Danno e resp., 2000,
406).
Anche stavolta la scelta del
Tribunale è di condannare al risarcimento la
società che aveva demansionato una sua
dipendente, assegnandola a mansioni diverse che,
pur rientrando astrattamente nell'ambito
dell'inquadramento di appartenenza, non
assicuravano la professionalità pregressa (nel
caso specifico, l'uso della lingua straniera,
essendo la dipendente adibita ai contatti con la
clientela estera).
In realtà, per quanto questa
pronuncia sia interessante rimane comunque
difficile voler vedere in questo caso una
condanna per mobbing, e ciò non solo perché,
come nel caso precedente, manca del tutto il
riferimento alla necessaria ripetitività nel
tempo degli atti di aggressione psicologica (in
quanto è solo detta ripetizione che indica la
pre-ordinazione al raggiungimento dello scopo di
danneggiare il lavoratore), intesa come criterio
capace di distinguere il terrorismo psicologico
sul lavoro dalla normale conflittualità
interlavorativa, ma soprattutto perché il caso
in esame risulta perfettamente esaurito dalle
regole generali in tema di demansionamento, senza
che per questo si debbano creare nuovi spazi di
tutela, chiamando in causa il mobbing.
Quello che però non può essere
taciuto è che, al di là dei loro limiti, le
sentenze torinesi hanno creato un momento di
rottura rispetto alla giurisprudenza precedente.
Mentre, infatti, prima di esse
"l'approccio tradizionale delle Corti
è stato
quello di sanzionare, tramite i
meccanismi della responsabilità civile, non già
il fenomeno del mobbing
bensì solo
particolari degenerazioni della condotta del
mobber o solo alcuni degli strumenti adoperati da
quest'ultimo, quali forme 'surrettizie' di
dequalificazione professionale o
demansionamento", le due pronunce del
Tribunale di Torino aprono le porte "del
diritto al mobbing come fenomeno unitario, come
categoria di responsabilità idonea a rendere
più efficace la tutela integrale della
personalità morale dei lavoratori.
In questo senso, le sentenze
torinesi segnano una svolta rispetto al
tradizionale sistema di responsabilità posto a
tutela dei lavoratori vittime di persecuzioni: la
condotta del mobber viene infatti collocata in
uno schema ben più ampio di quello disciplinato
dall'art. 2103 c.c..
Si assiste ad un passaggio
certamente degno di rilievo: dall'orientamento
precedente delle Corti che, pur in presenza di
strategie persecutorie, si concentravano sul
demansionamento e applicavano, pressoché in via
esclusiva, lo schema più ristretto, di cui al
2103 c.c., si perviene ad una prospettiva più
ampia di responsabilità, in cui al centro
dell'indagine viene posto l'intento persecutorio,
che sta alla base della modificazione
peggiorativa delle mansioni.
In questa ottica ci sembra che il
richiamo operato dal giudice nella seconda
sentenza all'art. 2103 c.c. sia stato effettuato
ad abundantiam, risultando il cerchio sull'an
debeatur già chiuso con il riferimento agli
artt. 2 Cost. e 2087 c.c..
Il mobbing - e questo è un
concetto che ci sembra importante chiarire - non
richiede necessariamente una variazione in peius
delle mansioni lavorative: le condotte dei
mobbers, in quanto prima di tutto forme di
aggressione morale, fanno scattare direttamente
gli schemi, di cui all'art. 2087 c.c..
Non già quindi una lettura
dell'art. 2103 c.c. in combinazione con l'art.
2087 c.c., bensì quest'ultima norma come cardine
di responsabilità, in un sistema in cui la
violazione delle altre norme poste a tutela dei
particolari aspetti, che completano il lavoratore
(quali ad esempio il suo bagaglio professionale),
risulta complementare" (così, M. BONA, U.
OLIVA, Nuovi orizzonti nella tutela della
personalità dei lavoratori: prime sentenze sul
mobbing e considerazioni alla luce della riforma
INAIL, in Danno e resp., 2000, 411 ss.).
Spostandoci, invece, dal piano
del merito a quello della legittimità,
particolarmente importante nell'individuazione
del fenomeno (anche se non riguarda direttamente
un caso di mobbing, ma il licenziamento del
dipendente che aveva accusato di mobbing
l'azienda in cui prestava servizio) è la
sentenza n. 143 dell'8 gennaio 2000 (Cass. 8
gennaio 2000, n. 143, in http://www.labourlawjournal.it).
In essa si stabilisce la
sussistenza della giusta causa di licenziamento
nell'ipotesi di accuse non provate in giudizio di
atteggiamenti persecutori e molesti da parte del
capo del personale, in quanto tale comportamento
del lavoratore mina il rapporto di fiducia tra le
parti e, quindi, è grave da legittimare il
licenziamento per giusta causa ex art. 2119 c.c..
Non è, quindi, sufficiente una
sanzione disciplinare né il trasferimento ad
altro reparto: la lavoratrice che ha mosso accuse
non provate di molestie sessuali e
discriminazioni ad opera del suo capo può essere
licenziata poiché questo tipo di diffamazione,
se privo di elementi che la supportino, lede
gravemente il rapporto di fiducia tra datore di
lavoro e dipendente. E come prova delle
persecuzioni subite, se non si indicano gli
specifici episodi, non vale esibire certificati
medici che attestano una sindrome depressiva da
mobbing.
Tale sindrome, infatti, non lede
la capacità di intendere e di volere, ma altera
solo gli stati emotivi: il mobbing, perciò, non
è da solo sufficiente ad accusare il capo,
occorrono prove concrete, fatti, luoghi,
testimoni che, pur tenendo conto delle
inevitabili sacche di omertà degli ambienti di
lavoro, dimostrino le colpe e supportino le
accuse.
In mancanza, viene
inevitabilmente meno l'elemento della fiducia.
Ritenere legittimo un
licenziamento per giusta causa per violazione del
rapporto di fiducia, a fronte di accuse
diffamatorie non provate di comportamenti
discriminatori, intimidatori e persecutori da
parte di un superiore gerarchico, non deve,
però, trarci in inganno sul valore intrinseco di
questa decisione.
Nel caso specifico, infatti, la
lavoratrice, prima del licenziamento, aveva
affidato le sue accuse all'azienda ad un
comunicato stampa, risultato poi a firma del
marito; atteggiamento, questo, che è ragionevole
presumere abbia influenzato i giudici (sia di
merito che di legittimità), supportati altresì
dal mancato assolvimento da parte della
ricorrente al suo onere probatorio.
Ancora più di recente, il
Tribunale di Milano, in data 20 maggio 2000
(Trib. Milano 20 maggio 2000, in Lav. giur.,
2001, n. 4, 367), ha stabilito che l'attenzione
sociologica e televisiva rivolta recentemente al
mobbing, non lo rende insensibile alle regole che
vigono in campo giuridico, allorquando ad esso si
vogliono collegare conseguenze giuridiche in
termini di risarcimento del danno.
Pertanto, occorre che chi invoca
tale fatto come produttivo di danno ne provi
l'esistenza e ne dimostri la potenziale
lesività.
Nel caso specifico, l'assenza di
sistematicità, la scarsezza degli episodi
lamentati dalla ricorrente, il loro oggettivo
rapportarsi alla vita di tutti i giorni
all'interno di un'organizzazione produttiva che
è anche luogo di aggregazione e contatto umano,
oltre che di scontro, portano ad escludere la
sussistenza di un'ipotesi di mobbing. La mancanza
di un attendibile rapporto di causa ed effetto
tra la pochezza quantitativa e qualitativa degli
episodi stessi e ciò che essi avrebbero
prodotto, esclude cioè la sussistenza di un
danno risarcibile.
Quello che rende particolare
questa sentenza è, dunque, l'accurata
puntualizzazione e definizione del fenomeno, al
di là dei principi generali, ormai accolti quasi
pacificamente dalla giurisprudenza.
Per aversi mobbing occorre un
accanimento continuo, sistematico e ripetitivo
nel tempo, essendo questo l'unico elemento che
consente di distinguere ciò che è fisiologico
da ciò che, invece, è patologico, e non
rilevando singoli episodi isolati, potenzialmente
lesivi per accumulo (in tal senso, R. NUNIN,
"Mobbing": nodo critico è l'onere
della prova, in Lav. giur., n. 4, 2001, 368 ss.).
Alla luce delle suesposte
considerazioni, viene da sé che la
giurisprudenza, così come nel caso delle
molestie sessuali, anche in quello del mobbing,
ha giocato un ruolo creativo indispensabile nella
qualificazione del fenomeno, soprattutto
rendendosi conto della sostanziale inadeguatezza
dell'art. 2103 c.c. a coprire un sempre maggior
numero di controversie che esulavano dal suo
ambito d'applicazione.
Ha, insomma, iniziato un percorso
delicato e difficile, che è iniziato con il
superamento dei limiti dello stesso 2103 (è
arrivata, infatti, a riconoscere ipotesi di
demansionamento e dequalificazione in tutti quei
casi in cui, a causa del datore di lavoro,
venivano di fatto penalizzate le possibilità di
carriera della vittima, individuando perciò
ipotesi di demansionamento non solo nella
diminuzione qualitativa delle mansioni, ma pure
in quella quantitativa, introducendo, così,
forti limiti allo ius variandi datoriale; così
come lo ha ritenuto sussistente in presenza di
variazioni economico-retributive, di raffronto
tra le funzioni concretamente svolte e quelle,
invece, risultanti dal contratto; di variazione
delle competenze a parità di livello; di
restringimento ingiustificato delle attività
svolte; d'inattività; di affiancamento) fino ad
arrivare al riconoscimento del mobbing quale
categoria unitaria e non frammentata di tutta una
serie di atti che fino a quel momento venivano
presi in considerazione singolarmente o, in molti
casi, non lo erano affatto, dando così vita ad
un sistema probabilmente perfettibile, ma di
sicuro maggiormente garantista per la dignità e
la personalità morale dei lavoratori.
5. Considerazioni conclusive
Trattare il mobbing da un punto
di vista giuridico rischia, talvolta, di essere
più insidioso ed evanescente di quanto non lo
siano le, già di per sé complesse, molestie
sessuali.
Ciò è probabilmente dovuto al
fatto che la molestia sessuale, a differenza di
quella morale, ha, per così dire, una
consistenza maggiore che, nella maggior parte dei
casi, si traduce in atti concreti, laddove il
mobbing si nasconde spesso dietro ad un generico
astrattismo, difficile a riconoscersi anche per
chi ne è vittima.
Quello che, pertanto, mi sembra
importante non perdere di vista, malgrado
l'ampiezza della materia trattata, è l'insieme
dei criteri-guida, individuati da dottrina e
giurisprudenza al fine di limitare al massimo gli
equivoci a riguardo.
Si tratta di tutta una serie di
principi, rinvenibili su piani diversi (quello
concettuale, quello della responsabilità, quello
strettamente giurisprudenziale, quello delle
prospettive future), su cui è forse opportuno
soffermarsi più approfonditamente, affinché
siano focalizzate le problematiche centrali del
fenomeno.
Innanzitutto, si è detto che con
il termine mobbing si fa riferimento a
persecuzioni morali sul posto di lavoro.
Si tratta di vessazioni
comportanti un disagio psicologico per il
lavoratore che, a lungo andare, diventa una
malattia fisica e si traduce in una sindrome.
Perché, tuttavia, possa parlarsi
di mobbing, è necessario che tali persecuzioni
siano imposte per un arco di tempo non inferiore
a sei mesi, a nulla valendo episodi singoli,
frammentati e non continui.
Da un punto di vista giuridico,
il mobbing ha una sua rilevanza autonoma, poiché
si presenta come una categoria in grado di dare
unitarietà ad una serie di atti, diversi tra
loro, ma aventi la caratteristica comune di
ledere l'integrità psicofisica del lavoratore.
In esso, come già ricordato,
rientrano tanto gli atti tipici (per tipico,
s'intende quell'atto già previsto di per sé
dall'ordinamento come, ad esempio, il
demansionamento o la dequalificazione), quanto
quelli atipici.
Mentre i primi, grazie al
mobbing, ottengono una tutela più ampia e più
completa; i secondi trovano tutela solo con esso.
Una volta che si è verificato un
comportamento mobbizzante, sono due i soggetti
che possono essere chiamati a rispondere del
danno eventualmente prodotto, vale a dire il
datore di lavoro ed il collega (o colleghi, nel
caso di mobbing di branco).
Il primo potrà essere,
innanzitutto, direttamente responsabile per
violazione del contratto, secondo quanto previsto
dagli artt. 1175 e 1375 c.c. (che impongono,
appunto, obblighi di correttezza e buona fede ad
entrambe le parti nell'esecuzione della
prestazione) ed, ovviamente, secondo quanto
stabilito dall'art. 2087 c.c.
Quest'ultima disposizione,
lasciando trapelare l'insorgenza di una
responsabilità per il datore di lavoro in tutti
i casi in cui si sia prodotto un danno
riferibile, a qualunque titolo, alla sua non
adeguata tutela sull'integrità psicofisica dei
dipendenti, resta, tuttavia, una norma aperta,
nel senso che la sua comprensione è possibile
solo ove si accetti di correlarla ad altre
disposizioni, che consentano l'individuazione del
danno.
Le disposizioni che ci permettono
di completare il senso dell'art. 2087 c.c. sono
oramai pacificamente individuate, in primis,
nell'art. 32 Cost. (dal momento che buona parte
dell'evoluzione giurisprudenziale è stata nel
senso di ritenere che il danno prodotto da
mobbing e molestie sessuali fosse esclusivamente
un danno alla salute); secondariamente, non
perché meno valida da un punto di vista
concettuale, ma soltanto perché più recente a
livello di elaborazione, nell'art. 41, 2° comma,
Cost. e nell'art. 2 Cost. (in considerazione
della sempre maggiore attenzione alla
possibilità di ricondurre il danno da mobbing e
da molestie sessuali entro l'alveo del danno
esistenziale, inteso come danno a ciò che la
persona è, e non a ciò che la persona ha. In
tal modo, si è cercato di porre fine ad uno
degli inconvenienti più spiacevoli
dell'utilizzazione del danno biologico come
categoria di riferimento, vale a dire
quell'effetto boomerang che si riversava sulla
vittima, laddove, soprattutto se giovane e con
prospettive di carriera, fosse stata costretta ad
ammettere una lesione psichica più o meno grave,
pur di ottenere un risarcimento in sede
giudiziale).
Tale ragionamento si applica,
mutatis mutandis, anche per l'art. 2043 c.c. che,
come già visto, potrà riferirsi ai rapporti
orizzontali, vale a dire con i colleghi, che non
hanno verso la vittima doveri contrattuali,
quanto meno in senso formale; ma che sarà
applicabile, in concorso con il 2087, al datore
di lavoro, se autore della molestia.
D'altra parte l'art. 2087
ricorrerà anche nelle ipotesi di responsabilità
indiretta, vale a dire nei casi in cui pur non
avendo il datore compiuto la molestia, sia però
responsabile a titolo di culpa in eligendo o in
vigilando.
La sussistenza di un nesso
causale, sia pur a titolo di colpa, riferibile al
datore di lavoro, che pertanto non lo renda
responsabile a prescindere, ma solo se in
contrasto con i canoni della prevedibilità e
della prevenibilità, sembra una garanzia minima
da cui non si può prescindere, a patto di non
voler sconfinare nel non auspicabile ambito della
responsabilità oggettiva.
La responsabilità contrattuale
indiretta potrà concorrere con la
responsabilità extracontrattuale ex 2043 di
altri colleghi ma, ovviamente, non con quella del
datore di lavoro.
Infine il 2049, per cui il datore
è responsabile anche se il fatto lo ha compiuto
il dipendente purché la mansione svolta dal
lavoratore subordinato abbia agevolato
l'illecito.
L'unica ipotesi che esclude tale
responsabilità datoriale è che l'evento non sia
neppure indirettamente collegabile alle
incombenze cui è adibito il lavoratore.
Sotto il profilo
giurisprudenziale non sono molte le pronunce che
hanno riguardato, più o meno direttamente, il
mobbing. Tuttavia, almeno stando a quelle emanate
finora, è possibile sostenere che:
- Il datore di lavoro può essere
ritenuto responsabile anche a titolo di culpa in
eligendo o in vigilando. Ciò nel senso che per
l'insorgere di tale responsabilità non occorre
che vi sia una precisa (rectius: tipica) condotta
datoriale, ma è sufficiente che questi non abbia
vigilato correttamente su quanto avveniva
all'interno della sua azienda.
- Il mobbing va provato, tenendo
presente che la falsa accusa di mobbing può, in
certe circostanze, determinare il licenziamento.
Autore: Dott.ssa Chiara
Lensi - tratto da: www.filodiritto.com
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