LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA: QUANDO LA CORRETTEZZA E BUONA FEDE PREVALGONO
SULLA MALATTIA?
Autore: Avv. Paolo Iervolino – tratto da: Lavoro nella Giurisprudenza, 2022, 4, 388 (nota a Cass. Civ., Sez. Lavoro, Ord. 01/10/2021 n. 26709)
Innestandosi all'interno del consolidato orientamento giurisprudenziale in merito alla legittimità del licenziamento per giusta causa intimato nei confronti del lavoratore in malattia che svolge attività extralavorativa idonea a pregiudicare i postumi della patologia, l'Autore intende individuare una linea di confine tra comportamenti extralavorativi leciti ed illeciti del dipendente.
Sommario:
Breve parentesi riguardo l'onere probatorio
Al di là di ogni ragionevole dubbio
Conclusioni finali passando per l'art. 2110 c.c.
Di recente, è stato opportunamente osservato come i principi che informano il convincimento dei giudici, nei casi di licenziamento per lo svolgimento di attività extralavorativa in costanza di malattia, siano "pressoché consolidati"(1), dovendo essere, il caso, sempre valutato sotto la lente di ingrandimento della correttezza e buona fede, nonché della diligenza e fedeltà.
Se quanto affermato è vero, non v'è motivo per ripercorrere, ancora una volta, anche per questo caso, l'iter argomentativo seguito dalla Suprema Corte per la fattispecie in esame, poiché questa pronuncia si innesta integralmente all'interno di quel granitico orientamento giurisprudenziale(2) che porta poi l'interprete - per mezzo dei principi di correttezza e buona fede, nonché diligenza e fedeltà - sempre alla medesima conclusione: "Il dipendente in malattia non può svolgere, pena il licenziamento, attività che aggravino i postumi della malattia"(3).
Ma è la stessa conclusione, tuttavia, che evidenzia il grado di problematicità (e qui si spiega forse il motivo dell'interesse sempre vivo nei confronti) di questo tipo di pronunce: se spetta al giudice quantificare la libertà che la malattia permette al lavoratore ed altresì la compatibilità tra l'attività extralavorativa svolta e la patologia(4), la demarcazione del confine tra ciò che un lavoratore può e non può fare in costanza di malattia si potrebbe rimettere ad una valutazione, non certo arbitraria(5), ma pur sempre discrezionale dell'organo giudicante.
Ciò a maggior ragione se il pregiudizio arrecato dalla condotta extralavorativa allo stato di malattia deve essere valutato ex ante e non ex post(6), dunque in ragione del solo potenziale aggravio dei postumi della patologia, sebbene poi nel concreto non abbia effettivamente compromesso il rientro del lavoratore. Elemento, quest'ultimo, che comunque avrebbe potuto solo apparentemente(7) essere un parametro di riferimento oggettivo dell'illiceità della condotta del debitore, perché "lo svolgimento di attività extralavorativa in periodo di assenza dal lavoro per malattia, costituisce illecito di pericolo e non di danno"(8).
Avvalorerebbero poi ulteriormente l'idea che potrebbe trattarsi di una valutazione discrezionale del giudice le pronunce di segno opposto a quella in esame, essendo la conclusione a cui quelle sentenze pervengono nient'altro che una riformulazione di quel granitico orientamento giurisprudenziale in precedenza ricordato: "lo svolgimento di altre attività da parte del lavoratore assente per malattia non è di per sé incompatibile con lo stato di infermità e, pertanto, non idoneo a giustificare il recesso del datore di lavoro"(9) se l'attività extralavorativa non pregiudica la guarigione del lavoratore.
Vero è che, come chiarito, la valutazione non è arbitraria, dovendo il giudice orientare la propria decisione sulla base dei principi consolidati, richiamati in apertura, ma se il problema fossero i principi da applicare, questo tipo di pronunce non meriterebbe l'attenzione degli interpreti.
Il problema, semmai, è capire se si possa tracciare una linea di confine che permetta all'interprete di capire "al di là di ogni ragionevole dubbio"(10) quando un'attività extralavorativa sia contraria a correttezza e buona fede, perché, sul piano teorico, nulla quaestio, ma, sul piano pratico, è lecito avere dubbi. Specialmente quando, come per il caso in esame, in estrema sintesi, sia stato ritenuto legittimo il licenziamento del dipendente che (secondo la ricostruzione del ricorrente) "movimentava due sacchetti di terriccio durante il periodo di malattia", avendo ritenuto il giudice che tale condotta avrebbe aggravato la "algica lombare" del lavoratore.
E dato che "un'alta dose di empiria è ineliminabile in questa materia"(11) sarebbe forse necessario partire proprio dalle pronunce di merito, piuttosto che da quelle di legittimità (tanto i principi che informano i giudici sono sempre gli stessi), per capire se possa esservi una costante che giustifichi il recesso del lavoratore (anche perché, comunque, la Cassazione è giudice di legittimità, non di merito e può limitarsi solo all'applicazione di quei principi).
Si ritiene più utile, allora, partire dal "rilevato che", anziché dal "considerato che", poiché grazie a questa parte è possibile comprendere la concreta fattispecie del giudizio.
Da quanto è possibile comprendere, la Corte territoriale aveva dichiarato legittimo il licenziamento del lavoratore che movimentava i sacchi di terriccio, in estrema sintesi, per tre motivi, che si vuol distinguere nettamente per ragioni sistematiche: a) "facendo leva sulle conclusioni rassegnate dal nominato ausiliare medico-legale il quale aveva dedotto che poteva ritenersi sussistente una sintomatologia algica lombare, ma che la portata della stessa era tale da consentire l'espletamento delle mansioni ascritte al lavoratore nel rispetto delle limitazioni imposte dal medico competente"; b) "la Corte convalidava, peraltro, anche il giudizio emesso dal CTU in ordine alla circostanza che le attività svolte dal paziente durante l'assenza per malattia, ove provate, "avrebbero quanto meno prolungato il periodo di guarigione clinica"; c) confermava, quindi, il giudizio di proporzionalità della sanzione già espresso dal giudice di prima istanza, sul rilievo che lo svolgimento di altra attività da parte del dipendente assente per malattia era idoneo a giustificare il recesso del datore di lavoro per violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà".
Breve parentesi riguardo l'onere probatorio
Prima di entrare nel merito della trattazione è bene chiarire da un punto di vista processuale la declinazione di questo tipo di giudizi, essendo stata la giurisprudenza spesso ondivaga sul punto.
Con riferimento alla ripartizione dell'onere probatorio(12), infatti, in alcuni casi la Suprema Corte ha ritenuto che fosse il lavoratore sorpreso a svolgere attività extralavorativa a dover provare "la compatibilità di quest'ultima con lo stato di malattia e l'inidoneità della medesima a pregiudicare il recupero delle normali energie psico-fisiche"(13). In altri casi, invece, l'onere probatorio è stato posto in capo al datore di lavoro, tenuto a fornire la prova dell'inesistenza della malattia o dell'incompatibilità fra l'attività prestata e la pronta guarigione del prestatore o, quantomeno, della sintomaticità di tale attività della scarsa attenzione del lavoratore alla propria salute e ai relativi doveri di cura e non ritardata guarigione(14).
Tra i due contrapposti orientamenti - ad avviso di chi scrive - bisognerebbe prediligere il secondo, poiché in questo tipo di vicende si inserisce sempre un licenziamento ex art. 2119 c.c., per il quale, come è noto, il datore di lavoro ha l'onere di provarne la sussistenza (della giusta causa di recesso)(15).
Anche se, tuttavia, bisogna proprio ammettere che questi aspetti probatori vengono - in fin dei conti - quasi sempre meno in queste fattispecie giudiziali, poiché i giudici fondano le proprie decisioni sulla base di una valutazione esterna alle parti, nominando un consulente tecnico d'ufficio ai sensi dell'art. 191 c.p.c., il quale è tenuto a valutare sia lo stato di salute del lavoratore, sia il potenziale prolungamento della malattia, in ragione dell'attività svolta(16).
A questo proposito, peraltro, è bene chiarire che - o quantomeno così dovrebbe essere(17) - nei casi di attività extralavorativa, si dovrebbe contestare simultaneamente al lavoratore prima la simulazione della malattia e poi la compromissione della guarigione.
Al riguardo ben potrebbe opporsi che dalla contestazione disciplinare debba "emergere con chiarezza il profilo fattuale, così da consentire una adeguata difesa da parte del lavoratore"(18), ma è lecito che un datore di lavoro metta in dubbio la veridicità di una certificazione medica(19), allorquando veda il dipendente in malattia svolgere attività che a suo dire ovvero a dire di un medico competente - nel caso di specie, ad esempio, le attività svolte dal lavoratore "erano state oggetto di puntuale valutazione da parte del nominato ausiliare, il quale aveva espressamente considerato che le attività svolte dal ricorrente durante il periodo di malattia (ritenute dai giudici del merito dimostrate alla stregua dei dati documentali acquisiti), avrebbero prolungato il periodo di malattia" - siano incompatibili con la patologia(20).
Il certificato medico, infatti, non è sufficiente ai fini della veridicità(21) dello stato di malattia del dipendente, specialmente se poi sussistono elementi oggettivi che inducono a pensare il contrario(22).
Il datore di lavoro, allora, deve ragionevolmente contestare al dipendente anche l'insussistenza della patologia, poiché essa costituisce il presupposto logico dello svolgimento di attività extralavorative che, in quanto incompatibili con la malattia del datore di lavoro, vuoi per un giudizio discrezionale, vuoi per un accertamento medico, comunque pregiudicherebbero la guarigione del lavoratore.
Peraltro, sebbene in entrambi i casi la condotta avrebbe una valenza disciplinare autonoma idonea a giustificare il recesso, dovrebbe poi il lavoratore dimostrare che il licenziamento sia stato determinato dal complesso delle condotte addebitate e non dalle singole. Il che, tuttavia, come si è tentato di evidenziare, sarebbe una probatio diabolica, impossibile da raggiungere.
Quanto detto aiuta anche a comprendere perché si sia reso necessario specificare il motivo a) - quello che evidenziava la sussistenza della algica lombare - contenuto (forse ad abundantiam) nel "rilevato che", atteso che avrebbe potuto (apparentemente) bastare, sulla base di ciò che si è detto nel primo paragrafo, ai fini dell'integrazione dell'illecito disciplinare, il solo motivo b).
Al di là di ogni ragionevole dubbio
Il motivo a) -il quale, più specificatamente, evidenziava come la portata della algica lombare fosse tale da consentire l'espletamento delle mansioni ascritte al lavoratore nel rispetto delle limitazioni imposte dal medico competente- potrebbe però avere una funzione che va ben oltre i profili procedurali della contestazione disciplinare; anzi, poiché esso è in tutt'evidenza il primo motivo, ben potrebbe essere la costante che informa (o quantomeno dovrebbe informare) i giudizi relativi a questo tipo di pronunce.
Nel caso di specie, infatti, i giudici potrebbero aver lecitamente ritenuto che movimentare "due sacchetti di terriccio" richiedesse uno sforzo fisico pari alle mansioni per cui il lavoratore è stato assunto e comunque superiore alle mansioni che avrebbero potuto essergli assegnate compatibilmente alla malattia accertata.
La specificazione non è allora di poco conto, potendo aiutare, in parte, a spiegare come applicare ex ante i principi della correttezza e buona fede in queste fattispecie giudiziali: l'organo giudicante (ma anche il lavoratore prima del compimento potrà farlo) dovrebbe cioè innanzitutto comprendere se "l'attività extralavorativa è di gravosità simile a quella del lavoro dovuto e negato", perché "la stessa condotta del lavoratore potrebbe attestare che il lavoro era possibile, in quanto la malattia, seppur vera, non era di grado tale da impedirlo, così come non ha impedito l'attività alternativa liberamente espletata dal lavoratore"(23).
Ricostruendo così l'iter argomentativo, si finisce per riconoscere nel motivo a) l'antecedente giuridico degli altri due (b e c): una volta ritenuta sussistente la malattia, bisognerebbe cioè comprendere se il lavoratore non avrebbe potuto svolgere -in assoluto- alcun tipo di attività.
Se non altro perché, quand'anche fosse vero il parziale impedimento dell'attività lavorativa, la buona fede e correttezza dovrebbero imporre al lavoratore di mettere a disposizione dell'azienda quantomeno la parte della prestazione che sarebbe stata possibile "dalla menomazione di cui egli dichiarava di soffrire"(24).
Ragion per cui, se e quando il lavoratore ha deciso di non mettere a disposizione del datore di lavoro quella restante parte di energie, in quel caso diviene evidente che non era del tutto impossibilitato al lavoro.
Ma ciò non basterebbe, perché - si è già detto che - svolgere attività extralavorative in costanza di malattia non sarebbe di per sé un illecito e si rischierebbe, peraltro, di fare un processo alle intenzioni del lavoratore; non si potrebbe cioè contestare al lavoratore di non aver messo a disposizione la restante parte di energie, se non ha indirizzato le stesse ad altre attività pregiudizievoli. L'attività svolta durante l'assenza per malattia, infatti, costituisce illecito disciplinare soltanto se (indica la simulazione dello stato patologico oppure) pregiudica la guarigione e, conseguentemente, il rientro in servizio(25).
Nella fattispecie in esame, allora, movimentare "due sacchetti di terriccio" non erano, come vorrebbe sostenere il ricorrente, "meri incombenti di vita quotidiana", "bensì indice inequivoco della violazione del dovere di lavorare secondo contratto"(26).
Ecco che si spiega, allora, compiutamente il motivo b), perché se solo determinate attività possono pregiudicare la guarigione del dipendente, significa che, secondo i giudici (di primo e secondo grado), quei due sacchetti erano proprio dei sacchi; come a dire che, al di là di questi aspetti nominalistici, sollevare dei sacchi (e non sacchetti) integrerebbe uno sforzo fisico idoneo prolungare il periodo di guarigione clinica del lavoratore, poiché superiore ad altre attività che avrebbe potuto svolgere sul lavoro.
Dunque, per capire se l'attività extralavorativa pregiudica la guarigione del lavoratore, bisognerebbe comprenderne lo sforzo fisico; perché se superiore a quello che avrebbe potuto essere chiesto (ed offerto) al lavoratore, nei limiti del suo stato, emergerebbe con chiarezza il pericolo - rectius l'illecito di pericolo - della sua guarigione.
Lo si comprende forse ancor meglio rovesciando gli interpreti: poiché un datore di lavoro non può richiedere ad un lavoratore uno sforzo fisico maggiore di quello permesso dal suo stato di malattia, l'attività che il lavoratore avrebbe svolto sul lavoro sarebbe stata solamente quella compatibile con la patologia.
In altre parole, per comprendere la sussistenza dell'illecito, bisognerebbe comparare la potenziale attività che potrebbe essere richiesta con quella extralavorativa svolta in costanza di malattia.
Questo ragionamento trova anche conferma nella giurisprudenza che ha ravvisato la lesione irreparabile del rapporto fiduciario nella condotta del lavoratore che, nonostante fosse stato assegnato per motivi di salute a mansioni ridotte e diverse rispetto a quelle precedenti, svolgeva attività sportiva suscettibile di aggravare le sue condizioni fisiche(27). Perché - ripercorrendo quanto detto finora - secondo i giudici quell'attività extralavorativa richiedeva uno sforzo fisico di gran lunga superiore a quello richiesto per le nuove mansioni assegnate e quantomeno equivalente a quelle per cui era stato originariamente assunto, ma che non ha potuto svolgere in virtù proprio della patologia.
Dunque, per concludere e cercare di tracciare una netta linea di confine, un giudice (ma anche il datore di lavoro prima di intimare il licenziamento) dovrebbe capire se lo sforzo fisico richiesto dalle attività extralavorative sia superiore a quello che al lavoratore sarebbe stato richiesto dal datore di lavoro, ove adibito a mansioni compatibili con la malattia. Laddove si richiedesse, infatti, per le potenziali mansioni, uno sforzo fisico inferiore rispetto all'attività extralavorativa svolta in costanza di malattia, sarebbe in quel caso chiara la violazione della correttezza e buona fede del lavoratore; anche perché, come è noto, l'obbligo di fedeltà non impone al debitore tanto un facere, quanto un non facere(28).
Quanto affermato in precedenza aiuta anche a comprendere la legittimità del licenziamento per giusta causa.
Prima di trattare l'argomento, però, è bene evidenziare, proprio a questo riguardo, due aspetti (legati fra loro e) meritevoli di attenzione con riferimento alla fattispecie in esame.
Il primo motivo di ricorso in Cassazione del ricorrente era infatti la "violazione della L. n. 300 del 1970, articolo 18, comma 4", ai sensi, pertanto, dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Pur tuttavia, proseguendo con l'analisi del motivo, si comprende chiaramente come esso dissimuli il n. 5, dell'art. 360 c.p.c., avendo il ricorrente argomentato il motivo "in ordine alla mancanza di prova circa la reale portata della condotta descritta, poiché le immagini che riproducevano i sacchetti erano sfocate, poco chiare e da esse non era desumibile il peso effettivo; i filmati relativi allo spostamento di detti involucri mostravano, inoltre, che gli stessi venivano trasportati in maniera corretta e compatibile con la patologia sofferta, per un periodo molto breve, potendo essere tale condotta parificata a quella di norma osservata per adempiere alle ordinarie necessità del quotidiano".
Quest'errore, chiaramente voluto dal ricorrente, era funzionale ad evitare l'inammissibilità del motivo per doppia conforme, poiché sia la sentenza di primo grado che quella di appello erano pervenute alla medesima ricostruzione dei fatti(29) per dichiarare la legittimità del licenziamento.
Al di là di questi due aspetti processualistici, è necessario analizzare il motivo di ricorso dal punto di vista sostanziale. Il ricorrente, infatti, in merito all'art. 2119 c.c. "deduce che le condotte poste in essere durante il periodo di malattia costituivano meri incombenti di vita quotidiana che non potevano essere validamente sussunti nella nozione di giusta causa di licenziamento". Così facendo, il lavoratore opera - erroneamente - una valutazione sulla proporzionalità della sanzione ex ante e non ex post(30). Quest'interpretazione, tuttavia, si pone in contrasto con il consolidato orientamento della Suprema Corte di Cassazione in merito al licenziamento disciplinare(31), poiché "il "fatto" che assume rilievo negli artt. 18, commi 4 e 3, comma 2 è quello "contestato" al dipendente e per il quale viene licenziato"; ed il "fatto" deve "sul piano oggettivo [...] configurare un illecito disciplinare", mentre "resta, invece, estranea all'accertamento la "minore o maggiore gravità (o lievità) del fatto contestato e ritenuto sussistente, implicando un giudizio di proporzionalità" (Cass. Civ. n. 18418/2016) che non ha nulla a che vedere con la sussistenza"(32).
Dunque, l'unica condizione per applicare la reintegrazione è l'insussistenza del "fatto contestato".
Ecco dunque spiegato anche il perché del motivo c): giammai il dipendente avrebbe potuto essere reintegrato per una condotta rivelatasi non lecita.
Ma, a ben vedere, non sarebbe stato proprio possibile operare ex post un giudizio di proporzionalità del recesso, perché il fatto costituisce proprio un illecito.
Conclusioni finali passando per l'art. 2110 c.c.
Vale la pena, infine, ma solo perché è stato un motivo (pretestuoso) di ricorso, richiamare la funzione dell'art. 2110 c.c.
Detto articolo, sebbene i tanti "silenzi del legislatore"(33), non vieta - come non sembrerebbe sapere il ricorrente - di licenziare il lavoratore per giusta causa, esso garantisce al lavoratore il mantenimento del posto di lavoro allorquando per ragioni a lui non imputabili, non possa adempiere all'obbligazione. La disposizione, dunque, assicura la sospensione - con mantenimento della retribuzione - del rapporto di lavoro nei casi di impossibilità della prestazione.
L'art. 2110 c.c. vieta dunque la libera recedibilità, ma "nel bilanciamento degli opposti interessi prevale quello allo scioglimento del vincolo contrattuale qualora sussista una giusta causa di licenziamento"(34), specialmente quando quest'ultima è determinata da comportamenti illeciti che fanno venir meno il presupposto stesso della sospensione del rapporto(35).
La legittimità di questo tipo di recesso è pertanto cosa diversa dalla insussistenza del fatto, come dimostrato, peraltro, da tutta la giurisprudenza (anche di senso contrario) relativa alla fattispecie in esame, che non ha mai messo in dubbio la possibilità di intimare in costanza di malattia un licenziamento per giusta causa.
Altra cosa diversa è - ma solo per completezza, poiché non cambia i termini della questione - l'efficacia dell'atto unilaterale, perché seppur sia valido il licenziamento per giustificato motivo intimato in costanza di malattia, l'efficacia dell'atto unilaterale è sospesa fino al venir meno della situazione ostativa(36), ai sensi dell'art. 1367 c.c.
È nullo, invece, proprio per violazione dell'art. 2110 c.c. (da considerarsi, dunque, come norma imperativa), il licenziamento del lavoratore per presunto superamento del periodo di comporto(37), ma si tratta di una fattispecie completamente differente da quella in esame, avendo il datore di lavoro chiaramente licenziato il lavoratore, come più volte detto, per aver posto in essere un'attività extralavorativa che avrebbe pregiudicato la malattia, non per superamento del periodo di comporto.
In questo caso il licenziamento è interamente derivato da causa imputabile, a titolo di colpa, al lavoratore.
(1) Scomponendo e riaccorpando il periodo di C. De Marco, Attività extralavorativa durante l'infortunio, obblighi contrattuali e doveri di correttezza e buona fede, in Lav. prev. Oggi, 2021, 7-8, 499, in merito alla nota del Trib. Roma, Sez. lav., sentenza 25 marzo 2021.
(2) Similarmente Cass. Civ., Sez. lav., 9 gennaio 2015, n. 144, in questa Rivista, 2015, 6, 599, con nota di F. M. Gallo, Quando l'obbligo di fedeltaÌ€ si estende ai comportamenti extralavorativi; pervenendo a conclusioni opposte, ma comunque coerenti con la fattispecie in esame Cass. Civ., Sez. lav., 19 settembre 2017, n. 21667, ivi, 2018, 6, 583, con nota di A. Ventura, La irrilevanza disciplinare dell'attività extraprofessionale del lavoratore ammalato; nello stesso senso della pronuncia, invece, Cass. Civ., Sez. lav., 5 agosto 2015, n. 16465, ivi, 2016, 1, 56, con nota di P. Puliatti, L'attivitaÌ€ lavorativa o ludica del lavoratore in malattia: illecito di pericolo e non di danno; Cass. Civ., Sez. lav., 13 marzo 2018, n. 6047, ivi, 2018, 7, 680 con nota di S. Rossi, Legittimo il licenziamento in malattia se l'attività pregiudica la guarigione; Cass Civ., Sez. lav., 2 settembre 2020, n. 18245, ivi, 2021, 7, 737, con nota di C. De Marco, Attività extralavorativa durante la malattia: obblighi del lavoratore e contestazione disciplinare.
(3) Così efficacemente M. N. Bettini, Malattia e comportamento che pregiudica la guarigione, in soluzionilavoro.it, 25 maggio 2017, a cui si rimanda anche per la copiosa rassegna giurisprudenziale in materia.
(4) C. De Marco, Attività extralavorativa durante la malattia: obblighi del lavoratore e contestazione disciplinare, cit., 742.
(5) Correttezza e buona, per l'appunto, così come evidenziato da A. Perulli, Razionalità e proporzionalità nel diritto del lavoro, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2006, 1 ss.
(6) Il principio è granitico in giurisprudenza, v. Cass. Civ., Sez. lav., 19 ottobre 2018, n. 26496; Cass. Civ., Sez. lav., 27 aprile 2017, n. 10416; Cass. Civ., Sez. lav., 5 dicembre 2016, n. 24812, tutte in One LEGALE https://onelegale.wolterskluwer.it; Cass. Civ., Sez. lav., 5 agosto 2015, n. 16465, cit.
(7) Cass. Civ., Sez. lav., 27 febbraio 2008, n. 5106, in Mass. giur. lav., 2008, 6, 352, con nota di A. Vallebona, La malata canterina: alla Cassazione manca una casella, il quale critica apertamente, ma solo implicitamente, la valutazione ex post.
(8) Cass. 5 agosto 2015, n. 16465.
(9) A. Ventura, La irrilevanza disciplinare dell'attività extraprofessionale del lavoratore ammalato, cit., 587.
(10) Prendendo in prestito l'espressione dall'art. 533 c.p.c.
(11) M. Napoli, Contratto e rapporti di lavoro, oggi, in AA.VV., Le ragioni del diritto. Scritti in onore di Luigi Mengoni, Milano, 1995, 1095, sebbene l'Autore riferisca questa frase a concetti (il metodo tipologico nei giudizi di qualificazione del rapporto) che nulla hanno a che vedere con il presente scritto.
(12) Per cui comunque si rimanda ad una più ampia analisi di A. Ventura, La irrilevanza disciplinare dell'attività extraprofessionale del lavoratore ammalato, cit., 590-592.
(13) Cass. Civ., Sez. lav., 26 settembre 2012, n. 16375 in One LEGALE https://onelegale.wolterskluwer.it/; Cass. Civ., Sez. lav., 8 marzo 2013, n. 5809, ivi; Cass. Civ., Sez. lav., 25 novembre 2013, n. 26290; Cass. Civ., Sez. lav., 7 ottobre 2014 n. 21093, ivi; Cass. Civ., Sez. lav., 3 marzo 2015, n. 4237, ivi; Cass. Civ., Sez. lav., 15 gennaio 2016 n. 586, ivi.
(14) Cass. Civ., Sez. lav., 18 gennaio 2018, n. 1173, in One LEGALE https://onelegale.wolterskluwer.it/; Cass. Civ., Sez. lav., 15 settembre 2012, n. 15476, ivi; Cass. Civ., Sez. lav., 21 marzo 2011 n. 6375, ivi.
(15) Anche questo è un principio consolidato v. ex multis Cass. Civ., Sez. lav., 14 luglio 2001 n. 9590, in One LEGALE https://onelegale.wolterskluwer.it/; Cass. Civ., Sez. lav., 9 settembre 2003, n. 13188, ivi; ma di recente Cass. Civ., Sez. lav., 16 novembre 2020, n. 25977, ivi.
(16) Al punto che (M. Mocci, La scelta del consulente tecnico d'ufficio nella prospettiva del giusto processo, in judicium.it, 9 novembre 2011, 1 ss.) sarebbe lecito chiedersi se non sia proprio il consulente a decidere la causa e non il giudice.
(17) Così non è stato ad esempio in Cass. Civ., Sez. lav., 2 settembre 2020, n. 18245, cit., ove tuttavia i giudici non hanno avuto la possibilità di esprimersi sul principio di immutabilità della contestazione disciplinare e sugli oneri probatori essendovi stata sul punto doppia conforme; così nemmeno in Cass. Civ., Sez. lav., 13 marzo 2018, n. 6047, cit., ove tuttavia i giudici hanno considerato come dotata di autonoma valenza disciplinare lo svolgimento di attività extralavorativa poiché idonea a pregiudicare il rientro del lavoratore.
(18) Cass. Civ., Sez. lav., 23 maggio 2017, n. 12902, in One LEGALE https://onelegale.wolterskluwer.it/; Cass. Civ., Sez. lav., 5 agosto 2014, n. 17625, ivi.
(19) In questi stessi termini v. Cass. Civ., Sez. lav., 16 agosto 2016, n. 17113, in One LEGALE https://onelegale.wolterskluwer.it/.
(20) Questo è stato il ragionamento del datore di lavoro (Cass Civ., Sez. lav., 2 settembre 2020, n. 18245, cit.) che licenziava il lavoratore in malattia per dermatite che lavava i piatti al bar della compagna.
(21) In questo senso si spiega, ancorché implicitamente, anche la legittimità dei controlli investigativi del datore di lavoro, che si basano non sullo stato di salute del lavoratore, ma sullo svolgimento di attività extralavorative v. ex multis, Cass. Civ., Sez. lav., 3 dicembre 2002, n. 17128, in Riv. giur. lav., 2002, II, 55, con nota di L. Valente, Accertamento della malattia e tutela della riservatezza: sui limiti del potere datoriale di utilizzare investigatori privati per contrastare il fenomeno dell'assenteismo abusivo; in questo stesso senso, di recente, anche se per fatti differenti rispetto alla malattia, ma pur sempre sulla circostanza delle investigazioni private v. Cass. Civ., Sez. lav., 22 settembre 2021, n. 25731, in Lav. prev. Oggi, 2021, 11-12, 771 con nota di D. Conte, Primi arresti di legittimità sul "nuovo" articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori: è cambiato tutto, anzi...quasi nulla?
(22) Anche perché poi spetterà in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, scegliendo quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, così, ex multis, Cass. Civ., Sez. lav., 2 agosto 2016, n. 16056, in One LEGALE https://onelegale.wolterskluwer.it/.
(23) Corsivo dello scrivente e periodo di A. Vallebona, La malata canterina: alla Cassazione manca una casella, cit.
(24) P. Ichino, Il ginocchio infermo compatibile con la partita di calcio ma non con la prestazione lavorativa, nota del Tribunale di Pisa 16 luglio 2005, in Riv. it. dir. lav., 2006, 2, 460.
(25) Così esplicitamente Cass. Civ., Sez. lav., 5 agosto 2015, n. 16465, cit.
(26) A. Vallebona, La malata canterina: alla Cassazione manca una casella, cit.
(27) Cass. Civ., Sez. lav., 9 gennaio 2015, n. 144, cit. l'attività lavorativa era il Wrestling.
(28) G. F. Mancini, La responsabilità contrattuale del prestatore di lavoro, Milano, 1957, 81 ss.
(29) Cass. Civ., Sez. lav., 6 giugno 2020, n. 10773, in One LEGALE https://onelegale.wolterskluwer.it/.
(30) Così anche S. Giubboni - A. Colavita, La valutazione della proporzionalità nei licenziamenti disciplinari: una rassegna ragionata della giurisprudenza, tra legge Fornero e Jobs Act, in WP CSDLE "Massimo D'Antona".IT - 334/2017.
(31) Vedi tra le tante, le più recenti Cass. Civ., Sez. lav., 8 maggio 2019, n. 12174, in One LEGALE https://onelegale.wolterskluwer.it/; Cass. Civ., Sez. lav., 9 maggio 2019, n. 12365, ivi; Cass. Civ., Sez. lav., 28 maggio 2019, n. 14500, ivi.
(32) Virgolettati di A. Maresca, Licenziamento disciplinare e sussistenza del fatto contestato nella giurisprudenza della Cassazione, in Lav.Dir.Eu., 2019, 2, 5-6.
(33) Così efficacemente dal titolo R. Voza, Licenziamento e malattia: le parole e i silenzi del legislatore, in WP CSDLE "Massimo D'Antona".IT -248/2015, ma nello specifico da p. 3 in poi.
(34) R. Voza, ivi, 4.
(35) In dottrina T. Renzi, Le ipotesi tipiche di sospensione: la malattia, in Il rapporto di lavoro subordinato: costituzione e svolgimento, a cura di Cester, in Diritto del lavoro, diretto da F. Carinci, 2007, 1667-1672; R. Del Punta, La sospensione del rapporto di lavoro. Malattia, infortunio, maternità servizio militare, in Il Codice Civile. Commentario, diretto da Schlesinger, Milano, 1992, 372.
(36) Cass. Civ., Sez. lav., 10 ottobre 2013, n. 23063 in One LEGALE https://onelegale.wolterskluwer.it/.
(37) G.F. Tempesta, Il licenziamento per il "futuro" superamento del periodo di comporto: nullità o temporanea inefficacia? La parola alle S.U., in Riv. it. dir. lav., 2018, II, 75 ss., recentemente ribadito da Cass. Civ., Sez. lav., 22 luglio 2019, n. 19661 in One LEGALE https://onelegale.wolterskluwer.it/
Autore: Avv. Paolo Iervolino – tratto da: Lavoro nella Giurisprudenza, 2022, 4, 388 (nota a Cass. Civ., Sez. Lavoro, Ord. 01/10/2021 n. 26709)