LE RECENTI MODIFICHE AL
LAVORO PART-TIME ED A
TEMPO DETERMINATO
Autore: Piccinini Alberto - tratto da: Il Lavoro nella Giurisprudenza, 5 / 2008, p. 465
Sempre più difficile è per l'operatore giuridico districarsi tra materie che vengono continuativamente riformate, spesso in conseguenza dell'alternanza al potere delle diverse maggioranze politiche. Con questo scritto si cerca di fare il punto - allo stato - della disciplina degli istituti del contratto a tempo parziale e del contratto a tempo determinato a seguito dell'entrata in vigore della L. n. 247/2007 ed in conseguenza della sentenza n. 44/2008 della Corte Costituzionale
La danza del cigno della morente legislatura ha partorito la modifica di due istituti che l'ordinamento conosce da tempo ma che negli ultimi anni sono entrati a far parte del vasto fenomeno della "precarizzazione" caratterizzandosi per interventi mirati a introdurre una minor tutela del lavoratore.
Fermo restando che la L. 24 dicembre 2007, n. 247 opera (parzialmente) in senso contrario e che la stessa è il punto di equilibrio raggiunto dopo un serrato confronto tra le parti sociali, l'altalena di cambiamenti così ravvicinati non può che lasciare perplessi gli interpreti e chi quelle leggi deve applicare.
In altri termini, avvocati, sindacalisti, giudici e consulenti del lavoro appena iniziano ad assimilare nuove regole, queste vengono modificate in modo significativo, per poi essere nuovamente modificate in senso contrario, quasi che l'alternanza delle maggioranze politiche debba presupporre una continua precarietà di certezze legislative. Per non dire delle incertezze contrattuali che automaticamente ne conseguono: dal momento infatti che le disposizioni dei contratti collettivi cercano di adeguarsi alle novità legislative, l'inevitabile ritardo con cui esse trovano applicazione comporta che possano essere presto già superate, modificando anche la portata della tutela. Si pensi, ad esempio, a quei contratti collettivi che non hanno disciplinato la cd. "clausola di ripensamento" per l'accettazione di clausole elastiche o flessibili nei part-time (di cui si parlerà): quando era data alle parti la possibilità di stipulare a livello individuale detti accordi, la mancata regolamentazione collettiva si caratterizzava per essere un elemento di svantaggio per il dipendente; al contrario, la stessa omessa regolamentazione collettiva oggi importa l'impossibilità per i singoli di stipulare gli accordi stessi, e quindi una maggiore tutela per la parte più debole del rapporto.
La riforma del lavoro part-time
Parlando di cambiamenti ravvicinati mi riferisco, in particolare, al part time: disciplinato in modo organico dal D.Lgs. 25 febbraio 2000, n. 61 [1], modificato dal D.Lgs. 26 febbraio 2001, n. 100, completamente stravolto dall'art. 46 del D.Lgs.10 settembre 2003, n. 276, oggi subisce ad opera della L. 24 dicembre 2007, n. 247 la sua quarta modifica dopo meno di otto anni.
L'interprete non è agevolato dal fatto che tutti gli interventi normativi successivi D.Lgs. 25 febbraio 2000 n. 61 si siano "innestati" su quel testo di legge originario, emendandolo con aggiunta e sottrazione di frasi, con un risultato finale non sempre organico (e neppure sempre del tutto chiaro).
C'è subito da dire che l'ultimo intervento compensa parzialmente lo stravolgimento dell'assetto normativo preesistente con il quale il legislatore delegato del 2003 aveva inteso da un lato sminuire il ruolo della contrattazione collettiva nazionale e dall'altro abbassare la soglia legale di tutela del singolo lavoratore, a vantaggio delle presunte esigenze di flessibilità datoriale e a svantaggio delle stesse esigenze di flessibilità del dipendente.
Gli interventi più significativi della L. n.
Le clausole flessibili ed elastiche
Le clausole flessibili (possibilità di variare la collocazione temporale della prestazione) e quelle elastiche (possibilità, nel part-time verticale e misto, di variare in aumento la durata della prestazione) secondo la previgente disciplina potevano essere concordate tra le parti anche in assenza di disposizioni di contratto collettivo. Oggi invece, a far data dal 1 gennaio 2008, tale accordo individuale - pur sempre necessario: cfr. art. 3 comma 9 del D.Lgs. n. 61/2000, rimasto invariato sul punto - è consentito solo se previsto dalla contrattazione collettiva. Quanto ai soggetti collettivi abilitati a ciò, il nuovo testo di legge fa un riferimento ai soli "contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale ", avendo eliminato quello alle RSU. Sembrerebbe quindi dedursi che gli accordi di secondo livello validi siano solo quelli stipulati da rappresentanze aziendali aderenti alle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. La contrattazione collettiva può definire "termini, condizioni e modalità" delle clausole elastiche o flessibili (come era già previsto dal comma 7), e quindi anche ampliare il termine minimo di legge di preavviso per l'esercizio da parte del datore di lavoro del potere di variare in aumento la durata della prestazione lavorativa o di modificare la collocazione temporale della stessa, termine sul quale comunque interviene la nuova normativa: prima erano "almeno due giorni lavorativi" oggi sono "almeno cinque" (nel testo originario del 2000 erano "almeno dieci" ma derogabili dalla contrattazione collettiva fino a 48 ore). Il testo originario del D.Lgs. n. 61/2000 prevedeva, all'art. 3 comma 10 la possibilità per il lavoratore di "denunciare il patto" che ammette le clausole elastiche o flessibili "per le seguenti, documentate ragioni: a) esigenze di carattere familiare; b) esigenze di tutela della salute certificate dal competente Servizio sanitario pubblico; c) necessità di attendere ad altra attività lavorativa subordinata o autonoma " facoltà esercitabile, per le causali di cui alle lettere a) e b), dopo cinque mesi dalla stipulazione del patto con un preavviso di almeno un mese.
La "controriforma" del 2003 aveva abrogato tale facoltà, che non è stata reintrodotta dalla contro-controriforma del 2007, la quale si limita - come si è visto - a riconoscere alla (sola) contrattazione collettiva la possibilità di disciplinare "termini, condizioni e modalità" dei patti elastici e flessibili. Fermo restando che una tale dizione consentirebbe certamente l'inserimento della "clausola di ripensamento" nei contratti collettivi, va detto che questo è già da tempo avvenuto da parte dei principali CCNL, in alcuni casi per le medesime causali di legge ovvero individuandone diverse. Mentre, però, alcuni CCNL hanno stabilito che l'atto di ammissione alla clausole flessibili od elastiche "deve prevedere il diritto del lavoratore di denunciare il patto stesso" (es. CCNL Terziario e Turismo) altri, in termini più moderati, si sono limitati a convenire che "azienda e lavoratore potranno concordare la sospensione temporanea della possibilità di attivare tali clausole " (CCNL Tessili Industria; parlano solo di "sospensione" anche CCNL Grafici Editoria; CCNL Alimentaristi; CCNL Gomma e Plastica).
I "passaggi" da tempo parziale a tempo pieno e viceversa
Per quanto riguarda la disciplina della trasformazione del rapporto da tempo parziale a tempo pieno, viene previsto un diritto di precedenza in nuove assunzioni a favore del lavoratore che abbia già avuto un rapporto a tempo pieno poi trasformato, per espletare le stesse mansioni o di tipo equivalente a quelle oggetto di lavoro a tempo parziale (art. 12 ter del nuovo testo del D.Lgs. n. 61/2000 modificato dall'art. 1, comma 44, lett. e) della L. n.
Vengono parimenti favoriti i passaggi da tempo pieno a tempo parziale. La nuova legge, dopo aver esteso anche al pubblico impiego il diritto incondizionato in caso di patologie di natura oncologica con facoltà di nuova trasformazione a tempo pieno su semplice richiesta del lavoratore, introduce un diritto di priorità per la trasformazione a tempo parziale nelle ipotesi: a) di patologie oncologiche riguardanti coniuge, figli o genitore del lavoratore o della lavoratrice ovvero ove questi assista una persona convivente con totale e permanente inabilità lavorativa (L. n. 104/1992); b) di figlio convivente di età non superiore a 13 anni; c) di figlio convivente portatore di handicap (L. n. 104/1992).
Il contratto a tempo determinato
Anche questo istituto aveva subìto importanti e discutibili modifiche da parte della precedente legislatura con il D.Lgs. n 368/2001, che nell'asserita ricezione della Direttiva 1999/70/CE, oltre ad intervenire su materie non oggetto della direttiva e non contenute nella legge delega (fatto che ha comportato la censura della Corte Costituzionale, di cui si parlerà in prosieguo) aveva "dimenticato" di dare applicazione a due punti cruciali della normativa comunitaria:
-quello della "svalorizzazione" del contratto a tempo determinato rispetto a quello determinato;
-quello di prevenire gli abusi mediante una reiterazione fraudolenta di contratti a termine.
Giova infatti ricordare che La direttiva 1999/70/CE si basa sull'art. 139 n. 2 del Trattato CE e, ai sensi del suo art. 1, è diretta ad "attuare l'accordo quadro sui contratti a tempo determinato, che figura nell'allegato, concluso il 18 marzo 1999 ".
Il contratto a tempo indeterminato come forma comune del rapporto di lavoro
Dall'esame della direttiva e dell'Accordo Quadro emerge che: "Le parti firmatarie dell'accordo riconoscono che i contratti a tempo indeterminato sono e continueranno ad essere la forma comune dei rapporti di lavoro fra i datori di lavoro e i lavoratorià " (comma 1 del Preambolo dell'accordo quadro). "Il presente accordo àindica la volontà delle parti sociali di stabilire un quadro generale che garantisca la parità di trattamento ai lavoratori a tempo determinato, proteggendoli dalle discriminazioni, e un uso dei contratti di lavoro a tempo determinato accettabile sia per i datori di lavoro sia per i lavoratori " (comma 3 del Preambolo dell'accordo quadro). "i contratti di lavoro a tempo indeterminato rappresentano la forma comune dei rapporti di lavoro e contribuiscono alla qualità della vita dei lavoratori interessati e a migliorare il rendimento " (sesto considerando dell'accordo quadro).
Colmando le lacune del legislatore delegato del 2001, l'art. 1 comma 39 della legge n. 247/07 - inserendo, con inedita metodologia, il comma 01 (!) in premessa all'art. 1 del D.Lgs. n. 368/01 - statuisce espressamente che "il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato". Nonostante la chiara formulazione e la sua coerente lettura con le disposizioni comunitarie sopra richiamate, con circolare 28 gennaio 2008 n. 19005 a firma del Direttore Giorgio Usai la Confindustria afferma che "il nuovo comma 1 dell'art. 1 del D.Lgs. n. 368/2001 non può essere equiparato all'ormai abrogato disposto del comma 1 dell'art. 1 della L. n. 230 del 1960 (che prevedeva che "il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato, salvo le eccezioni appresso indicate") perché non introduce alcuna presunzione legale a favore della durata a tempo indeterminato del rapporto di lavoro".
Tale sconcertante petizione di principio viene supportata da questa conclusiva riflessione: "Il nuovo comma 1 dell'art. 1 del D.Lgs. n. 368/2001 va, dunque (!?), più semplicemente considerato come la trasposizione, nel nostro ordinamento, del principio comunitario secondo il quale il rapporto di lavoro a tempo indeterminato costituisce la "forma comune" del rapporto di lavoro ". Bene, ora possiamo stare tranquilli. Il legislatore del 2007 ha trasposto nell'ordinamento un principio comunitario che il legislatore dei 2001 aveva ignorato, pur dovendo quel principio essere il punto di riferimento fondante dell'intera materia regolamentata.
Ecco allora arrivare in soccorso la principale associazione datoriale a proporre una interpretazione che, cozzando contro ogni logica, sembra suggerire una tesi singolare: anche se il contratto di lavoro di regola deve essere stipulato a tempo indeterminato, quello a tempo determinato non può ritenersi l'eccezione.
Al contrario a nostro avviso la provvidenziale puntualizzazione della norma diviene chiave di lettura dell'intero D.Lgs. n. 368/2001 laddove esso si propone come attuazione della direttiva comunitaria, consentendo - come del resto la stessa giurisprudenza sta puntualizzando - la possibilità di stipulare contratti a termine solo in comprovate circostante straordinarie giustificate da esigenze provvisorie.
Gli abusi derivanti da una successione di contratti a termine
Il secondo, importante intervento del legislatore del 2007 riguarda la successione di più contratti a termine, che con il vecchio testo astrattamente potevano reiterarsi all'infinito se solo il datore di lavoro aveva l'accortezza di frapporre tra un contratto a termine e l'altro più di dieci giorni se si trattava di contratti di durata inferiore a sei mesi o più di venti giorni se la durata dei contratti era superiore ai sei mesi.
Sarà opportuno richiamare ancora la direttiva 1999/70/CE - che si basa sull'accordo quadro CES, UNICE e CEEP sui contratti a tempo determinato del 18 marzo 1999 - e l'art. 139 n. 2 del Trattato CE.
Obbiettivi dell'accordo quadro sono "migliorare le qualità del lavoro a tempo determinato garantendo il rispetto del principio di non discriminazione" e "creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall'utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato" (clausola 1 dell'accordo quadro).
Per prevenire "gli abusi derivanti dall'utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali a norma delle leggi, dei contratti collettivi e della prassi nazionali, e/o le parti sociali stesse, dovranno introdurre, in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi e in un modo che tenga conto delle esigenze di settori e/o categorie specifici di lavoratori, una o più misure relative a:
a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti;
b) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi;
c) il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti" (clausola 5, punto 1 dell'accordo quadro).
La nuova legge ha aggiunto i commi da 4 bis a 4 sexies all'art. 5 del D.Lgs. n. 368/01 prevedendo che, "qualora per effetto di successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti il rapporto di lavoro tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore abbia complessivamente superato i 36 mesi comprensivi di proroghe e rinnovi" - oltre a 20 giorni "di franchigia" - il rapporto si considera a tempo indeterminato" dalla scadenza dell'ultimo termine.
La già citata circolare della Confindustria ci rammenta una giurisprudenza della Corte di Cassazione sul concetto di "mansioni equivalenti", secondo la quale affinché esse siano ritenute tali può non essere sufficiente l'inquadramento nella stessa qualifica contrattuale, ove non venga consentita "l'utilizzazione o l'arricchimento del patrimonio professionale acquisito nella pregressa fase del rapporto" (Cass., S.U., 7 agosto 1988, n. 7755 e Cass., S.U., 24 novembre 2006, n. 25033). E tale osservazione viene fatta per dire che qualora in un determinato periodo di lavoro le mansioni svolte non fossero state "equivalenti" anche in quel senso, tale periodo non potrebbe essere conteggiato ai fini del raggiungimento del limite temporale dei 36 mesi. Dimentica però la circolare di trarre la conclusione che ove le mansioni siano state inferiori il lavoratore ha diritto al risarcimento danni da demansionamento, mentre se le mansioni superiori si sono protratte per oltre tre mesi potrebbe essere maturato il diritto ad un inquadramento superiore.
Le deroghe e la cd. "proroga assistita"
Il limite dei 36 mesi non trova applicazione nei seguenti casi: in caso di rapporto a tempo determinato con un dirigente (art. 10 comma 4, nel testo modificato dalla legge n.
Superati i 36 mesi, è consentita la stipula di un - solo - ulteriore successivo contratto a termine, se sottoscritto in sede di DPL con assistenza sindacale. "Le organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale stabiliscono con avvisi comuni la durata del predetto ulteriore contratto ".
La regolamentazione da parte della contrattazione collettiva
Le organizzazioni sindacali hanno due strade per definire la durata (massima) di tale contratto: quella dell'Accordo Interconfederale e quella di lasciare la materia alla contrattazione di categoria. In tale ambito è certamente consentita la facoltà di far rientrare nell'arco temporale di riferimento anche i contratti di somministrazione.
E' stata questa la scelta del recente rinnovo del CCNL Metalmeccanici, secondo cui "I lavoratori che abbiano intrattenuto con la medesima azienda e per mansioni equivalenti sia rapporti di lavoro con contratto a tempo determinato che con quello di somministrazione, acquisiscono il diritto alla stabilizzazione del rapporto qualora la somma dei periodi di lavoro nelle due tipologie citate superi i 44 mesi complessivi anche non consecutivi comprensivi anche dell'eventuale proroga in deroga assistita ". Se ne deduce che, in assenza di periodi di lavoro somministrato alternato a contratti a termine (fenomeno diffusissimo nel settore metalmeccanico) la durata massima della proroga è di otto mesi, riducendosi progressivamente (in ipotesi fino a scomparire) in presenza di ricorso a contratti di somministrazione, ovviamente riguardanti la stessa persona.
Parimenti interessante è l'impegno assunto nel dicembre 2007 dalle Associazioni delle imprese cooperative a non ricorrere alla cd. deroga assistita allo scadere del 36° mese, privilegiando la trasformazione dei rapporti a tempo indeterminato.
Il diritto di precedenza
Il tema qui affrontato è quello del diritto di precedenza nelle assunzioni da parte dei lavoratori che hanno prestato la loro opera con contratti a termine, essendo diversamente disciplinato il caso dei lavoratori che avevano un contratto a tempo indeterminato, licenziati per riduzione di personale o per giustificato motivo oggettivo: per questi ultimi vige un diritto di precedenza in caso di nuove assunzioni entro sei mesi dalla data di comunicazione del recesso (così a partire dal 29 gennaio 2003, ai sensi dell'art. 4, comma 6, de D.Lgs. n. 297/2002, che ha ridotto il termine di 12 mesi prima previsto dalla L. n. 264/1949).
Prima di affrontare le novità introdotte dalla L. n.
Fino al 2001 il nostro ordinamento giuridico prevedeva per i lavoratori stagionali che avevano già prestato la loro attività presso una determinata azienda un diritto di precedenza in caso di nuova assunzione.
Il D.Lgs. n. 368/2001 aveva eliminato tale previsione normativa abrogando, tra le altre norme, l'art. 23 della legge n. 56/1987 [2], ed affidato ai contratti collettivi l'individuazione di un diritto di precedenza nella assunzione presso la stessa azienda e con la medesima qualifica esclusivamente per i lavoratori a termine stagionali che vi avevano già lavorato [3], stabilendo in ogni caso l'estinzione del diritto di precedenza entro un anno dalla cessazione del rapporto e condizionando detto diritto ad una manifestazione di volontà entro tre mesi dalla cessazione del rapporto stesso [4].
Con sentenza 4 marzo 2008 n. 44 la Corte Costituzionale[5] ha dichiarato illegittima l'abrogazione dell'art. 23 comma 2 della legge n. 56/1987 ad opera del comma 1 dell'art. 11 del D.Lgs. n. 368/2001 nella parte in cui prevedeva - per legge - il diritto di precedenza dei lavoratori stagionali, e conseguentemente anche l'incostituzionalità del comma 2 dello stesso articolo 11 del D.Lgs. n. 368/2001, nella parte in cui detta la disciplina transitoria in riferimento al citato art. 23). Parimenti ha dichiarato incostituzionali i commi 9 e 10 dell'art. 10 dello stesso decreto legislativo che - come appena ricordato - aveva appunto previsto, disciplinandolo, il diritto di precedenza solo nel caso in cui venisse individuato dalla contrattazione collettiva [6].
Prima dell'intervento della Corte, peraltro, la legge n.
a) per qualunque azienda, in caso nuove di assunzioni a tempo indeterminato, entro 12 mesi, se il lavoratore ha prestato attività lavorativa per un periodo superiore a sei mesi "nelle mansioni già espletate nell'esecuzione dei rapporti a termine". In questo caso deve manifestare la propria volontà entro sei mesi dalla data di cessazione del rapporto. (art. 5 comma 4 quater e 4 sexies, introdotti dall'art. 1 comma 40 legge
b) per lo svolgimento di attività stagionali. In caso di nuove assunzioni a tempo determinato per lo svolgimento delle "medesime attività stagionali", il lavoratore che ha già avuto un contratto a termine di qualunque durata deve manifestare la propria volontà entro tre mesi dalla data di cessazione del rapporto. (art. 5, comma 4 quinquies e 4 sexies, introdotti dall'art. 1, comma 40, L. n.
Tale ultima previsione (lett. b) relativa ai lavori stagionali riproduce - quanto ai termini rispettivamente di esercizio (tre mesi) e di scadenza (un anno) del diritto - le stesse disposizioni ripristinate in vita dalla Corte Costituzionale anche se, non essendoci una assoluta sovrapponibilità delle due discipline, si pone un problema di coordinamento tra le stesse [7].
Fase transitoria
L'art. 1, comma 43, della L. n.
I contratti a termine in corso alla data di entrata in vigore della presente legge (1 gennaio 2008: n.d.r.) continuano fino al termine previsto dal contratto, anche in deroga alle disposizioni di cui al comma 4 bis dell'art. 5 del D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, introdotto dal presente articolo.
Il periodo di lavoro già effettuato alla data di entrata in vigore della presente legge si computa, insieme ai periodi successivi di attività ai fini della determinazione del periodo massimo di cui al citato comma 4 bis, decorsi quindici mesi dalla medesima data (1 aprile 2009: n.d.r.).
Fermo restando che la lettura della lett. a) non pone particolari problemi interpretativi, il primo quesito che si pone è: cosa accade nel momento in cui il contratto in corso viene a scadenza avendo superato, insieme ai periodi precedenti di attività, il periodo complessivo dei 36 mesi? Se ed in che misura il datore di lavoro può stipulare un altro contratto prima del 1 aprile 2009?
Ove l'espressione "il periodo di lavoro già effettuato" di cui alla lettera b) dovesse essere riferito ai "contratti a termine in corso alla data di entrata in vigore della presente legge" di cui alla lett. a) il problema non si porrebbe, computandosi esclusivamente il periodo dall'inizio dell'ultimo contratto fino al 1 gennaio 2008. Ma tale tesi non sembra proponibile, riferendosi la lettera b) "ai periodi di lavoro" e non già al solo contratto in corso: del resto la stessa Confindustria, nella più volte citata circolare, tende ad escluderla, rispondendo ai quesiti sopra posti suggerendo come (unica) soluzione idonea a far continuare la prestazione lavorativa del dipendente senza trasformare il rapporto in rapporto a tempo indeterminato, quella di effettuare una nuova stipulazione in deroga assistita.
Ma a questo punto è lecito domandarsi se ciò sia possibile in assenza di avvisi comuni che abbiano stabilito la durata dell'ulteriore contratto.
Certo è che il lavoratore che, pur avendo superato i 36 mesi complessivi e magari abbia anche lavorato con regolari contratti a termine nei 15 mesi di "moratoria" (tra il 1 gennaio 2009 e il 1 aprile 2009) non potrà rivendicare nulla alla luce della nuova normativa se non presta attività alla data del 21 aprile 2009 (comprendendo anche i 20 giorni di cui all'art. 5, comma 2, del D.Lgs n. 368/2001, nel testo modificato dalla L. n.
Egli quindi, se vorrà porre in essere qualche rivendicazione, avrà solo la possibilità di impugnare i contratti a termine per eventuali vizi nella causale (mancata indicazione della causale nel contratto ovvero mancata prova delle condizioni giustificanti l'apposizione del termine) [8] o per accertati abusi dell'istituto.
Al contrario potrà farlo il dipendente che - ferma restando l'attuale legislazione - alla data del 21 aprile 2009 stia lavorando con un contratto a termine avendo superato 36 mesi di lavoro complessivo presso lo stesso datore di lavoro, considerando tutti i periodi lavorati, compresi quelli effettuati prima del 1 gennaio 2008.
Note:
1 Secondo quanto la stessa Corte Costituzionale ebbe a riconoscere con sentenza del maggio 2002, n. 210.
2 L'art. 23 secondo comma della L. n. 56/1987, nel testo modificato dall'art. 9 bis del D.L. n. 143/1993, recitava: "I lavoratori che abbiano prestato attività lavorativa con contratto a tempo determinato nelle ipotesi previste dall'articolo 8 bis, D.L. 29 gennaio 1983, n. 17, convertito, con modificazioni, dalla L. 25 marzo 1983, n. 79, hanno diritto di precedenza nell'assunzione presso la stessa azienda, con la medesima qualifica, a condizione che manifestino la volontà di esercitare tale diritto entro tre mesi dalla data di cessazione del rapporto di lavoro. "
5 Secondo il commento di Vincenzo De Michele - in questa Rivista, 2008, 367 - si tratta di un intervento "imprevisto e devastante" che "mina l'intera riforma del contratto a termine e tutta la struttura del D.Lgs. n. 368/2001, comprese le successive modifiche e integrazione.
6 La Corte ha ritenuto che l'abrogazione dell'art. 23, comma 2, della L. n. 56 del 1987 non rientri né nell'area di operatività della direttiva comunitaria, definita dalla Corte di giustizia con la sentenza 22 novembre 2005, nella causa C-144/04 Mangold, né nel perimetro tracciato dal legislatore delegante. Con riferimento al primo àmbito, i giudici delle leggi hanno sottolineato che la clausola 5 della direttiva 1999/70/CE è circoscritta alla "prevenzione degli abusi derivanti dall'utilizzo di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato ": tale clausola pertanto non opera laddove si mira solo a tutelare i lavoratori stagionali, regolando l'esercizio del diritto di precedenza nella riassunzione presso la medesima azienda e con la medesima qualifica. Essa resta anche al di fuori della delega conferita dalla legge 29 dicembre 2000, n. 422 complessivamente considerata. L'art. 1, comma 1, di tale legge ha delegato, infatti, il Governo ad emanare decreti legislativi per dare attuazione a determinate direttive senza dettare, per quanto concerne la direttiva 1999/70/CE, specifici criteri o principi capaci di ampliare lo spazio di intervento del legislatore delegato. Dunque l'intervento legislativo del 2001 è stato censurato dalla Corte Costituzionale sia perché in violazione della "clausola di non regresso" contenuta nelle direttiva comunitaria, sia per eccesso di delega.
8 La giurisprudenza intervenuta in questi anni in merito alla necessità, per il datore di lavoro, di allegare e provare, nello specifico, l'esistenza di "ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo " si è caratterizzata per un particolare rigore: cfr. Trib. Milano 18 luglio 2003, in Riv. Crit. Dir. Lav., 2003, 937; Tribunale di Ravenna 7 ottobre 2003, Nanni M. c/ Alma Petroli s.p.a., in www.fmb.unimore.it/on line/Home/Indice A-Z/articolo3159.html; Trib. Milano 15 ottobre 2003, in Dir. Relaz. Ind., 2006, I, 147; Trib. Milano 31 ottobre 2003, ivi, 2006, I, 147; Trib. Milano 13 novembre 2003, ivi, 2006, I, 146; Trib. Milano 21 aprile 2004, in Riv. Crit. Dir. Lav., 2004, 319; Trib. Milano 14 ottobre 2004, ivi, 2004, 904; Trib. Milano 25 novembre 2004, in Riv. Crit. Dir. Lav., 2005, 152; Trib. Genova 14 novembre 2005, n. 1685; Corte App. Firenze del 30maggio2005, in Riv. Crit. Dir. Lav. 2006, II, 111; Corte App. Firenze 23 giugno 2006, RG n. 322/2004; Trib. Roma 2 aprile 2007, n. 6445/07.
Autore: Piccinini Alberto - tratto da: Il Lavoro nella Giurisprudenza, 5 / 2008, p. 465