RAPPORTI TRA GENITORI  E  FIGLI,
ILLECITO CIVILE E RESPONSABILITA'

 

La rivoluzione giurisprudenziale degli ultimi anni alla luce del danno esistenziale

 

[Il presente saggio costituisce la trascrizione di parte dell'intervento al convegno "Amore e Diritto" tenutosi a Ferrara il 19 giugno 2006. Per più compiute argomentazioni si rimanda a Giuseppe Cassano, Rapporti familiari responsabilità civile e danno esistenziale. Il risarcimento del danno non patrimoniale all'interno della famiglia, Cedam 2006]

 

 

Sommario:
1. Premessa
2. I doveri dei genitori
3. Atti illeciti commessi dai genitori nei confronti dei figli e responsabilità civile
4. La responsabilità del genitore non affidatario per mancato esercizio del diritto - dovere di visita
5. La responsabilità del genitore affidatario che ostacola i rapporti con l'altro genitore
6. Responsabilità da riconoscimento non veritiero di paternità. Il disconoscimento di paternità
7. La responsabilità da procreazione.

 

1. Premessa.

I doveri genitoriali trovano la loro fonte, oltre che a livello costituzionale, mediante la previsione dell'art. 30 Cost, anche nell'art. 147 c.c. 

L'attuale formulazione dell'art. 147 c.c. (Doveri verso i figli) prevede il dovere dei genitori di provvedere al mantenimento, all'istruzione e all'educazione dei figli, anche se nati al di fuori del matrimonio, assecondandone le inclinazioni, le capacità e le aspirazioni.

La norma codicistica è chiaramente ispirata dal principio sancito all'art. 2 Cost. che tutela i diritti inviolabili della persona sia come singolo che "nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità".

Tra esse rientra in modo preminente la famiglia -legittima o meno- intesa come "formazione sociale di cui la prole è parte avente dignità di grado uguale a  quello di ogni altro componente" (Fraccon).

I doveri dei genitori nei riguardi dei figli, dunque, nascono per il semplice fatto della procreazione, indipendentemente dallo status filiationis, ossia  dalla circostanza se siano nati o meno in costanza di matrimonio.

Prima di giungere alla riforma del 1975  la filiazione legittima, concepita in costanza di matrimonio, era nettamente contrapposta a quella "illegittima". Soltanto la prima godeva di considerazione sociale e di una integrale tutela, e la ratio era quella di conferire dignità e rafforzare la sola famiglia legittima, intesa quale unica entità sociale e giuridica - vera e propria istituzione - capace di assolvere ai compiti di mantenimento, istruzione ed educazione necessari per assicurare una ordinata vita sociale; ed altresì come struttura in grado di garantire la conservazione e la trasmissione del patrimonio (Rescigno).

Il modello familiare accettato e ritenuto legittimo - in quanto conforme al diritto ed al costume - era quello fondato sul matrimonio, che rappresentava l'unico ambito in cui la filiazione trovava dignità e piena protezione; il presupposto implicito del sistema - ben avvertito nel costume sociale - era che la filiazione per essere lecita dovesse sempre originare da genitori uniti in matrimonio (Sesta).

Oggi la prospettiva è radicalmente cambiata: in primis alla filiazione naturale non è più attribuita l'espressione "illegittima";  inoltre, in seguito alla riforma del diritto di famiglia del 1975, il legislatore ha provveduto ad una sostanziale equiparazione della filiazione naturale a quella legittima, sia nell'ambito dei rapporti di carattere personale- mediante la previsione dell'art. 261 c.c. (Diritti e doveri derivanti al genitore dal riconoscimento)- sia nell'ambito dei rapporti di tipo successorio, attraverso l'introduzione degli artt. 468, 536 e 537 c.c.

Inoltre le norme che hanno rimosso il divieto dell'accertamento nei riguardi dei figli adulterini e quelle che hanno fissato i principi della libertà della prova (art.269 c.c.) e dell'imprescrittibilità dell'azione (270 c.c.) consentono al figlio naturale di conseguire agevolmente l'accertamento del proprio status giuridico (Sesta).

L'individuazione codicistica dei doveri "mantenere, istruire ed educare"- ripresa in maniera puntuale- dalla formulazione dell'art. 30 Cost., si ritiene vada integrata con il dato normativo contenuto nell'art. 12 della L. n. 184/1983, in cui alla triade viene anteposta "l'assistenza morale", locuzione significante una relazione rispettosa della persona del minore, ricca di interscambi di natura affettiva e del  sostegno necessario per una crescita sana ed equilibrata  (Fraccon).

Quanto alla natura giuridica dei doveri dei genitori nei riguardi dei figli, si può senz'altro affermare che essi hanno contenuto giuridico, visto che l'ordinamento predispone strumenti specifici- in primis l'art. 330 e 333 c.c.-  per soddisfare le esigenze filiali, violate in seguito a comportamenti inadempienti dei genitori.

Infatti, ai sensi dell'art. 330 c.c., qualora i genitori violino o trascurino i doveri inerenti alla prole o abusino dei poteri ad essi relativi, con grave pregiudizio per i figli, il giudice (Tribunale per i minorenni) può pronunziare la decadenza dalla potestà genitoriale (che è venuta a sostituire la patria potestas consistente nel potere del capofamiglia nei confronti della prole generata da lui). Invece, nell'ipotesi in cui, ex art. 333 c.c., il comportamento del genitore non sia tanto grave da comportare la pronuncia della decadenza dalla potestà genitoriale, il giudice (Tribunale per i minorenni)  potrà adottare i provvedimenti che riterrà convenienti e disporre eventualmente anche l'allontanamento del figlio dalla residenza familiare.

Inoltre, sia nell'ipotesi contemplata dall'art. 330 che in quello dell'art. 333 c.c.,  - novità, questa, introdotta dall'art.37 della L. n. 149/01 con lo scopo di proteggere il minore senza comportare un suo sradicamento dal contesto familiare - è stata prevista anche la possibilità per il giudice di disporre l'allontanamento dalla casa familiare del genitore/convivente che maltratta o abusa del minore stesso.

In passato gli istituti di cui agli artt. 330 e 333 c.c si riteneva avessero natura sanzionatoria  rispetto alla condotta dei genitori, mentre attualmente hanno perso tale connotazione per assumere funzione preventiva: tali misure, infatti, mirano ad evitare il perpetuarsi di situazioni dannose e pregiudizievoli per il figlio o a prevenire probabili lesioni successive (Villa, Bucciante).

 

2. I doveri dei genitori.

I doveri dei genitori nei confronti dei figli, elencati nell'art. 30 Cost. e richiamati pedissequamente dall'art. 147 c.c. sono quelli al mantenimento all'istruzione e all'educazione.

Essi, tuttavia, non esauriscono l'ambito dei doveri genitoriali verso la prole. Esistono, infatti, una serie di precetti normativi destinati a soddisfare gli interessi del nucleo familiare che si riferiscono, anche se indirettamente,  pure ai figli. Inoltre, come sopra accennato, l'art. 12 della L. n. 184/83 prevede un dovere di assistenza morale del minore che, anche se non espressamente enunciato nell'elencazione dell'art. 147 c.c., si ritiene applicabile non soltanto alla filiazione adottiva ma anche nell'ambito della famiglia d'origine (Villa, Trabucchi).

In linea generale può, dunque, affermarsi che i genitori hanno il dovere di provvedere alla cura dei figli, facendo tutto il possibile per soddisfare le loro esigenze e realizzare i loro interessi. Deve tenersi conto del fatto che, nell'ambito del dovere di curare la prole, gli obblighi di mantenimento, di istruzione e di educazione costituiscono delle manifestazioni tipiche, traducibili in specificazioni ulteriori, come il dovere di custodire il figlio, evitando che arrechi danno a sé o a terzi, oppure il dovere di correggerlo (Villa).

Il dovere di mantenimento deve essere commisurato ai redditi, alla consistenza del patrimonio ed alla idoneità lavorativa e professionale dei genitori; in particolare si ritiene che non possa esaurirsi nelle cure prestate al figlio nella normale convivenza, ma riguardi anche la sfera della vita di relazione e le esigenze di sviluppo della personalità (Sesta).

L'obbligo di mantenimento, a differenza di quello alimentare, non è limitata al soddisfacimento dei  bisogni elementari di vita, ma comprende anche ogni altra spesa necessaria per arricchire la personalità del beneficiario; non è subordinato allo stato di bisogno del beneficiario, ma discende automaticamente dalla posizione del singolo all'interno della famiglia, a prescindere da qualsiasi altro presupposto; inoltre l'onerato per essere esonerato deve dimostrare, oltre alla mancanza di mezzi, anche l'incolpevole impossibilità di procurarseli (Dogliotti).

Il mantenimento dei figli grava su ciascun genitore, il quale dovrà contribuirvi in proporzione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro, professionale o casalingo.

Nell'eventualità in cui soltanto uno dei genitori abbia integralmente adempiuto l'obbligo di mantenimento dei figli, facendosi carico anche della quota gravante sull'altro, lo stesso sarà legittimato ad agire iure proprio nei confronti di quest'ultimo per il rimborso di detta quota, anche per il periodo anteriore alla domanda

 

Il genitore affidatario il quale continui a provvedere direttamente ed integralmente al mantenimento dei figli divenuti maggiorenni e non ancora economicamente autosufficienti resta legittimato non solo ad ottenere "iure proprio", e non già " capite filiorum", il rimborso di quanto da lui anticipato a titolo di contributo dovuto dall'altro genitore, ma anche a pretendere detto contributo per il mantenimento futuro dei figli stessi

(Cass. civ., sez. I, 16.2.01, n. 2289);

 

 

Il coniuge che abbia integralmente adempiuto l'obbligo di mantenimento dei figli, pure per la quota facente carico all'altro coniuge, è legittimato ad agire "iure proprio" nei confronti di quest'ultimo per il rimborso di detta quota, anche per il periodo anteriore alla domanda, atteso che l'obbligo di mantenimento dei figli sorge per effetto della filiazione e che nell'indicato comportamento del genitore adempiente è ravvisabile un caso di gestione di affari, produttiva a carico dell'altro genitore degli effetti di cui all'art. 2031 cod. civ.

(Cass. civ., sez. I, 4.9.99, n. 9386);

 

Il coniuge che abbia integralmente adempiuto l'obbligo di mantenimento dei figli, pure per la quota facente carico all'altro coniuge, è legittimato ad agire "iure proprio" nei confronti di quest'ultimo per il rimborso di detta quota, anche per il periodo anteriore alla domanda, atteso che l'obbligo di mantenimento dei figli sorge per effetto della filiazione e che nell'indicato comportamento del genitore adempiente è ravvisabile un caso di gestione di affari, produttiva a carico dell'altro genitore degli effetti di cui all'art. 2031 cod. civ.

(Cass. civ., sez. I, 5.12.96, n. 10849).

 

Tale principio si ritiene applicabile anche con riferimento alla filiazione naturale qualora il genitore che abbia provveduto al mantenimento del figlio intenda agire nei confronti dell'altro, una volta che sia emersa la genitorialità, a seguito di riconoscimento o dichiarazione giudiziale.


Il riconoscimento del figlio naturale comporta l'assunzione di tutti i diritti e doveri propri della procreazione legittima, ivi compreso l'obbligo di mantenimento, che, per il suo carattere essenzialmente patrimoniale, esula dallo stretto contenuto della potestà genitoriale, e in relazione al quale, pertanto, non rileva, come, invece, avviene con riguardo a quest'ultima, a norma dell'art. 317 bis cod. civ., la circostanza che i genitori siano o no conviventi, incombendo detto obbligo su entrambi, in quanto nascente dal fatto stesso della procreazione. Ne consegue che, nell'ipotesi in cui al mantenimento abbia provveduto, integralmente o comunque al di là delle proprie sostanze, uno soltanto dei genitori, a lui spetta il diritto di agire in regresso, per il recupero della quota del genitore inadempiente, secondo le regole generali del rapporto tra condebitori solidali, come si desume, in particolare, dall'art. 148 cod. civ., richiamato dall'art. 261 cod. civ., che prevede l'azione giudiziaria contro il genitore inadempiente, e senza, pertanto, che sia configurabile un caso di gestione di affari altrui. L'obbligo in esame, non avendo natura alimentare, e decorrendo dalla nascita, dalla stessa data deve essere rimborsato "pro quota"

(Cass. civ., sez. I, 22.11.00, n. 15063).

 

Il dovere di mantenimento non viene meno con il raggiungimento della maggiore età da parte del figlio, ma si protrae fino a quando il figlio stesso abbia raggiunto una propria indipendenza economica, ovvero versi in colpa per non essersi messo in condizione di conseguire un proprio reddito.

 

L'obbligo dei genitori di concorrere tra loro al mantenimento dei figli secondo le regole dell'art. 148 cod. civ. non cessa, "ipso facto", con il raggiungimento della maggiore età da parte di questi ultimi, ma perdura, immutato, finché il genitore interessato alla declaratoria della cessazione dell'obbligo stesso non dia la prova che il figlio ha raggiunto l'indipendenza economica, ovvero che il mancato svolgimento di un'attività economica dipende da un atteggiamento di inerzia ovvero di rifiuto ingiustificato dello stesso, il cui accertamento non può che ispirarsi a criteri di relatività, in quanto necessariamente ancorato alle aspirazioni, al percorso scolastico, universitario e post - universitario del soggetto ed alla situazione attuale del mercato del lavoro, con specifico riguardo al settore nel quale il soggetto abbia indirizzato la propria formazione e la propria specializzazione. Deve, pertanto, in via generale escludersi che siano ravvisabili profili di colpa nella condotta del figlio che rifiuti una sistemazione lavorativa non adeguata rispetto a quella cui la sua specifica preparazione, le sue attitudini ed i suoi effettivi interessi siano rivolti, quanto meno nei limiti temporali in cui dette aspirazioni abbiano una ragionevole possibilità di essere realizzate, e sempre che tale atteggiamento di rifiuto sia compatibile con le condizioni economiche della famiglia

(Cass. civ., sez. I, 3.4.02, n. 4765);  

 

L'obbligo dei genitori di concorrere tra loro al mantenimento dei figli secondo le regole dell'art. 148 cod. civ. non cessa, "ipso facto", con il raggiungimento della maggiore età da parte di questi ultimi, ma perdura, immutato, finché il genitore interessato alla declaratoria della cessazione dell'obbligo stesso non dia la prova che il figlio ha raggiunto l'indipendenza economica, ovvero è stato posto nelle concrete condizioni per poter essere economicamente autosufficiente, senza trarne utilmente profitto per sua colpa o per sua (discutibile) scelta. (Nella specie, è stato escluso la persistenza dell'obbligo di mantenimento di un figlio trentacinquenne - e convivente con la madre - a carico del padre separato per essere il figlio stesso ben lontano dal conseguimento della laurea in medicina nonostante risultasse iscritto presso tale facoltà da quindici anni, e senza che il suo comportamento potesse in qualche modo derivare o risentire della presenza paterna, essendo trascorso un periodo pressoché equivalente a quello necessario per l'utile completamento dell'intero corso di studi da quando il padre aveva cessato di convivere con moglie e figli)

(Cass. civ., sez. I, 30.8.99, n. 9109);  

 

L'obbligo di mantenere il figlio non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età, ma si protrae, qualora questi, senza sua colpa, divenuto maggiorenne, sia tuttavia ancora dipendente dai genitori. Ne consegue che, in tale ipotesi, il coniuge separato o divorziato, già affidatario è legittimato, iure proprio (ed in via concorrente con la diversa legittimazione del figlio, che trova fondamento nella titolarità, in capo a quest'ultimo, del diritto al mantenimento), ad ottenere dall'altro coniuge un contributo per il mantenimento del figlio maggiorenne

(Cass. civ., sez. I, 18.2.99, n. 1353);

 

Anche in caso di separazione personale tra coniugi, l'obbligo dei genitori di concorrere tra loro, secondo le regole di cui all'art. 148 cod. civ., al mantenimento dei figli non cessa automaticamente con il raggiungimento, da parte di questi, della maggiore età, ma persiste finché il figlio stesso non abbia raggiunto l'indipendenza economica (o sia stato avviato ad attività lavorativa con concreta prospettiva di indipendenza economica), ovvero finché non sia provato che, posto nelle concrete condizioni per poter addivenire alla autosufficienza economica, egli non ne abbia, poi, tratto profitto per sua colpa. Non può ritenersi, peraltro, idonea ad esonerare il genitore non convivente dall'obbligo di mantenimento la profferta di una qualsiasi occasione di lavoro eventualmente rifiutata dal figlio, dovendo essa risultare, per converso, del tutto idonea rispetto alle concrete e ragionevoli aspettative del giovane, sì da far ritenere il suo eventuale rifiuto privo di qualsivoglia, accettabile giustificazione (principio affermato dalla S.C. in relazione al rifiuto - ritenuto, nella specie, legittimo, contrariamente a quanto stabilito dal giudice di merito - opposto dal figlio ventenne di genitori separati ad una offerta di ingaggio per un anno, e per la somma di ottocentomila lire mensili più vitto ed alloggio, ricevuto da una società di pallacanestro. La corte di legittimità, nel cassare la sentenza, ha, ancora, osservato che, in essa, mancava ogni valutazione tanto in ordine alla precarietà dell'offerta quanto alla ragionevolezza delle aspirazioni del giovane, che vi aveva rinunciato per non sacrificare l'anno scolastico - V liceo scientifico - da lui frequentato)

(Cass. civ., sez. I, 7. 5.98, n. 4616);

 

Poiché l'obbligo di mantenimento a carico dei genitori permane fino al momento in cui il figlio maggiorenne abbia raggiunto una propria indipendenza economica, sussiste la legittimazione processuale del genitore (in via alternativa con quella del figlio maggiorenne) ad ottenere - "iure proprio" - dall'altro coniuge, nel giudizio di separazione personale, un contributo per il mantenimento del figlio maggiorenne con esso convivente il quale non sia ancora in grado di procurarsi autonomi mezzi di sostentamento

(Trib. Cagliari, 11.3.97).

 

In caso di inadempimento dell'obbligo di mantenimento, il comma 2, dell'art. 148 c.c., prevede che il Presidente del Tribunale possa ordinare, con decreto, che una quota dei redditi dell'obbligato venga versata direttamente all'altro coniuge o a chi  (ascendenti legittimi o naturali, in ordine di prossimità) sopporta le spese per il mantenimento, l'istruzione e l'educazione dei figli.

Potranno trovare, inoltre,  applicazione, le limitazioni della potestà previste negli artt. 330 e 333 c.c., e potrà anche giungersi alla dichiarazione dello stato di adottabilità se dovesse emergere la condizione di abbandono- morale e materiale- del minore, da parte di entrambi i genitori..

Inoltre la condotta omissiva del genitore, che non provvede al dovere di mantenimento dei figli, su lui incombente, può integrare gli estremi del delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiare, di cui all'art. 570 c.p., anche qualora i figli non vengano a trovarsi in stato di bisogno, perché ad essi provvede l'altro genitore o altri parenti  (Cass. pen., sez. VI, 12.11.02, n. 57; Cass.pen.,sez.  VI, 21.3.96; Trib. Genova, 9.10.03; contra in dottrina Villa).

Nell'elencazione contenuta nell'art. 147 c.c., al dovere di mantenimento seguono i doveri di istruzione e di educazione della prole. La Costituzione riconosce e tutela un diritto all'istruzione non soltanto in relazione al rapporto tra genitori e figli (art. 30, comma 1, Cost.), ma anche con riguardo a quello tra minore e istituzioni esterne alla famiglia (art. 34 Cost.).

In particolare, per quanto attiene ai genitori, si evidenzia come la responsabilità per l'istruzione deid figli fino ai quattordici anni venga sanzionata dall'art. 731 c.p., che punisce chiunque, rivestito di autorità o incaricato della vigilanza sopra un minore, ometta senza giusto motivo di impartirgli o di fargli impartire l'istruzione elementare (da estendersi anche a quella media alla luce dell'art. 34 Cost.) (Moro).

Più complessa, invece, risulta essere l'analisi relativa al dovere di educazione, poiché trattasi di un concetto difficilmente definibile, il cui contenuto è strettamente connesso con l'evoluzione sociale.

Una conferma di tale evoluzione è rappresentata dal confronto con il previgente testo dell'art. 147 c.c., in base al quale l'educazione doveva essere conforme "ai principi della morale", concetto alquanto indeterminato. Attualmente l'art. 147 c.c. è incentrato sul soggetto nei confronti del quale va realizzata la funzione educativa, in quanto è fatto obbligo ai genitori di tenere conto "delle capacità, dell' inclinazione naturale e  delle aspirazioni dei figli". Il riferimento ai principi morali è stato soppresso, ma ciò non significa che nell'educare il figlio non si debba fare ricorso ai valori etici che disciplinano una vita corretta e regolare (Finocchiaro).

 La giurisprudenza di merito ha riconosciuto, già da tempo, un dovere dei genitori di rispettare le scelte dei figli, soprattutto con riferimento allo studio, alla formazione professionale, all'impegno politico-sociale, alla fede religiosa (Trib. Min. Genova, 9.2.59; Trib. Min. Bologna, 13.5.72; trib. Min. Bologna, 26.10.73).

Si ritiene comunemente che debbano essere considerati leciti soltanto quei mezzi correttivi e disciplinari che, nel più profondo e sacro rispetto dell'incolumità fisica e della personalità psichica e morale, risultino necessari al raggiungimento del fine che il rapporto disciplinare si propone, purchè vengano usati nella misura e nella entità richiesta.

Non può assolutamente ritenersi lecito  -  e quindi è bandito dalla jus corrigendi - l'uso della violenza finalizzato a scopi educativi. Ciò sia per il primato che l'ordinamento attribuisce alla dignità della persona, anche del "minore"- oramai considerato un soggetto titolare di diritti e non più, come in passato, semplice oggetto di protezione (se non addirittura di disposizione) da parte degli adulti-, sia perché, usando mezzi violenti, non potrebbe perseguirsi l'obiettivo di realizzare un armonico sviluppo della personalità sensibile ai valori di pace, di tolleranza, di convivenza (Bonamore, Finocchiaro).

Con riguardo ai bambini il termine "correzione" va assunto come sinonimo di educazione, con riferimento ai connotati intrinsecamente conformativi di ogni processo educativo. In ogni caso non può ritenersi tale l'uso della violenza finalizzato a scopi educativi: ciò sia per il primato che l'ordinamento attribuisce alla dignità della persona, anche del minore, ormai soggetto titolare di diritti e non più, come in passato, semplice oggetto di protezione (se non addirittura di disposizione) da parte degli adulti; sia perché non può perseguirsi,quale meta educativa, un risultato di armonico sviluppo di personalità, sensibile ai valori di pace, di tolleranza, di connivenza utilizzando un mezzo violento che tali fini contraddice. Ne consegue che l'eccesso di mezzi di correzione violenti non rientra nella fattispecie dell'art. 571 cod. pen. (abuso di mezzi di correzione) giacché intanto è ipotizzabile un abuso (punibile in maniera attenuata) in quanto sia lecito l'uso

(Cass. pen., sez.VI, 16.5.96).

 

3. Atti illeciti commessi dai genitori nei confronti dei figli e responsabilità civile.

In ordine alle relazioni  intercorrenti tra genitori e figli, prima della riforma del diritto di famiglia del 1975, esisteva, nell'area privatistica, una normativa relativamente immunitaria, considerata una logica conseguenza della concezione della patria potestas accolta nel codice del 1942 e dei poteri ad essa connessi.

In sostanza la legge consentiva al genitore l'uso dei mezzi correzionali adeguati alle diverse situazioni concrete. Ad una cattiva condotta del figlio, qualora fosse necessario, poteva seguire una violenta reazione del padre, che rappresentava esercizio legittimo della potestà e come tale non poteva determinare alcun tipo di responsabilità (Patti).

L'immunità anche nei rapporti tra genitori e figli non dipendeva da principi di diritto, ma era ancorata a regole del costume che esprimevano una concezione della famiglia come gruppo chiuso, che non lasciava trapelare le crisi che avvenivano al suo interno ma le risolveva in base a regole proprie  (Patti).

I figli venivano trattati non alla stregua di soggetti di diritto, bensì come componenti di un gruppo che si autodisciplinava e, in definitiva, soggetti all'autorità paterna (Fracco*n).

Con la riforma del diritto di famiglia si è ridefinito il ruolo genitoriale in funzione dell'interesse morale e materiale della prole, anche se ci si è astenuti- in applicazione del principio di libertà e di autonomia della famiglia - dal proporre modelli, limitandosi, pertanto, a fornire la direttiva contenuta nell'art. 147 c.c. che impone di tenere conto, nell'adempimento dei doveri verso i figli, delle loro capacità, dell'inclinazione naturale e delle aspirazioni (Fraccon).

Dunque, anche nei rapporti tra genitori e figli, la mutata concezione della famiglia impone che il danneggiato non venga privato della tutela garantita dalla legge, solamente perché un vincolo di parentela lo lega a chi ha causato il danno.

Un limite al potere discrezionale dei genitori nell'educazione della prole è, dunque,  rappresentato dal divieto di abusare delle proprie funzioni: la condotta vietata, cioè, deve consistere nell'abuso, ovvero nell'eccesso, nel superamento dei limiti consentiti e tale abuso deve provocare la trasformazione della modalità lecita  di correzione e disciplina in mezzo illecito (ingrascì).

L'abuso, infatti, oltre che dar luogo ai provvedimenti di cui agli artt. 330 e 333 c.c. può integrare gli estremi del reato di cui all'art. 571 c.p. che punisce proprio l'abuso dei mezzi di correzione.

Se, dunque, oggi può ancora parlarsi di jus corrigendi dei genitori, certamente questo presenta connotazioni diverse rispetto al passato e, inoltre, ad esso, sono connessi poteri coercitivi molto sfumati (Patti).

 

Integra il reato di cui all'art. 571 cod. pen. l'uso della violenza nei rapporti educativi come mezzo di correzione e disciplina, comunque non consentito, qualora dal fatto derivi il pericolo di una malattia del corpo e della mente o una lesione o la morte

 (Cass. pen., sez. VI, 29.11.90);

 

Lo jus corrigendi attribuito ai genitori non può mai giustificare condotte che sovente provocano anche gravi lesioni ai malcapitati ragazzi e che, comunque, non hanno una  positiva valenza educativa

(Cass. pen., sez. V, 7224/2000);

 

L'abuso dei mezzi di correzione può commettersi trasmodando nell'impiego di un mezzo lecito. Perciò anche un solo schiaffo, quando sia vibrato con tale violenza da cagionare pericolo di malattia è sufficiente a far avverare l'ipotesi criminosa dall'art. 571 c.p.

(Cass. pen., sez. I, n. 11935/1966).

 

Dunque manifestazioni brutali, eccessi o violenze dei genitori- comportamenti ancora oggi parecchio diffusi-  non possono ricevere alcuna forma di tutela, né lasciano sopravvivere l'armonia domestica che non si vorrebbe turbare ammettendo l'azione in giudizio per il risarcimento dei danni subiti.

Infatti si ritiene (Fraccon) che la rinuncia a far valere in giudizio il diritto al risarcimento non è una soluzione normalmente "sana" di un conflitto- spesso profondo e grave- che incide sul vissuto della vittima e pregiudica la possibilità di recuperare una relazione equilibrata con il familiare responsabile di un illecito ai suoi danni.

Dunque, dalla violazione dei doveri che ciascun genitore ha nei confronti dei propri figli possono derivare non soltanto i provvedimenti di cui agli artt. 330 e ss. c.c., ma anche l'obbligo di risarcire i danni che sono stati causati alla prole.

In modo particolare suscita interesse una pronuncia della Suprema Corte (7.6.00, n. 7713), la quale ha confermato la decisione dei giudici di merito, di condanna al risarcimento del danno non patrimoniale di un genitore il quale, per lunghi periodi di tempo, aveva sistematicamente e ostinatamente rifiutato di corrispondere i mezzi di sussistenza al figlio giudizialmente dichiarato.  Nel caso di specie, non viene risarcito il danno morale da reato, in quanto il padre era stato assolto, in sede penale, dal reato di cui all'art. 570 c.p., essendosi accertato che aveva corrisposto, anche se in ritardo, tutto quanto da lui dovuto a titolo di mantenimento o di concorso nel mantenimento nei confronti del minore.

I giudici civili, invece, riconoscono che la condotta del padre abbia determinato la lesione di fondamentali diritti della persona, inerenti, in particolare, alla qualità di figlio e di minore.

In particolare la Suprema Corte nella pronuncia citata, precisa che il pagamento effettuato a molti anni di distanza non avrebbe escluso comunque il risarcimento della lesione in sé, che dal comportamento del ricorrente è scaturita, di fondamentali diritti della persona, in particolare di quelli inerenti alla qualità di figlio e di minore.

La Cassazione ricollega, quindi, l'art. 2043 c.c. agli artt. 2ss Cost., estendendo così l'area operativa del primo, fino a ricomprendere il risarcimento di tutti i danni ostacolanti le attività realizzatrici della persona umana.

 

Poiché l'articolo 2043 c.c., correlato agli articoli 2 ss. Costituzione, va necessariamente esteso fino a ricomprendere il risarcimento non solo dei danni in senso stretto patrimoniali ma di tutti i danni che almeno potenzialmente ostacolano le attività realizzatrici della persona umana, la lesione di diritti di rilevanza costituzionale va incontro alla sanzione risarcitoria per il fatto in sé della lesione (danno evento) indipendentemente dalle eventuali ricadute patrimoniali che la stessa possa comportare (danno conseguenza). (Nella specie, in applicazione di tale principio la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva riconosciuto il diritto al risarcimento del danno, liquidato in via equitativa, del figlio naturale in conseguenza della condotta del genitore, tale riconosciuto a seguito di dichiarazione giudiziale, che per anni aveva ostinatamente rifiutato di corrispondere al figlio i mezzi di sussistenza con conseguente "lesione in sé" di fondamentali diritti della persona inerenti alla qualità di figlio e di minore)

(Cass. civ., sez. I, 7.6.00, n. 7713).

La sentenza su citata è ritenuta di enorme rilievo proprio per l'importanza del principio che si può trarre da essa, secondo il quale la violazione dei doveri genitoriali è idonea a determinare un danno ingiusto, allorché tale condotta leda interessi costituzionalmente rilevanti della prole. Di conseguenza non è la semplice violazione del dovere genitoriale a rappresentare il danno ingiusto, quanto piuttosto la lesione di un interesse ulteriore, ravvisato, nel caso di specie, nella violazione di doveri fondamentali della persona, inerenti in particolare alla qualità di figlio e di minore (Facci).

Di estremo rilievo è anche una pronuncia del Tribunale di Venezia (30.6.04) che ha in sostanza sancito il principio secondo il quale la figlia che, abbandonata dal padre, abbia vissuto nella totale assenza del ruolo paterno, ha diritto al risarcimento del danno in ragione della lesione del suo diritto all'assistenza morale e materiale da parte di ciascun genitore.

Costituisce un fatto illecito che obbliga al risarcimento dei danni, il comportamento del padre che si rifiuta di riconoscere il figlio e si rende inadempiente agli obblighi alimentari imposti dal tribunale. Pertanto, il figlio ha diritto al risarcimento del danno morale subito quale conseguenza del reato di violazione degli obblighi familiari; ed ha altresì diritto al risarcimento del danno legato alla totale assenza della figura paterna, considerato l'obbligo, di rango costituzionale, che incombe sul genitore di occuparsi, non solo economicamente, della prole e di educarla

(Trib. Venezia 30.6.04).

 

A differenza della pronuncia della S.C. n. 7713\2000, tuttavia, il danno non è ravvisato in re ipsa, coincidente, cioè, con la lesione dell'interesse di rilievo costituzionale. Il Tribunale di Venezia, infatti, mette in evidenza i pregiudizi causati dal comportamento omissivo del genitore, sottolineando come la mancanza della figura paterna si sia manifestata, in modo negativo,  "nello sviluppo della personalità" della figlia e nel "coacervo delle scelte esistenziali della crescita" della stessa.

Viene evidenziato, poi, che la condotta illecita del padre ha provocato ulteriore pregiudizio- meritevole di una riparazione riequilibratoria -, rappresentato dalla consapevolezza raggiunta dalla figlia di essere stata rifiutata ed abbandonata dal padre e di "essere stata trattata come il figlio di un mammifero di specie diversa da quella umana".

Viene dunque riconosciuto dal Tribunale di Venezia il risarcimento del danno esistenziale, qualificato anche come "danno non patrimoniale non coincidente con il mero danno morale" (Facci).

Il convenuto, pervicace nel disinteresse verso la figlia naturale anche in questo procedimento, è il padre di F.V.; non se ne è mai interessato da alcun punto di vista; ignorandone, sin dalla gravidanza dell'allora compagna, la nascita, le sorti, la vita, le esigenze economiche, maturando, per così dire, un debito per omessi contributi alimentari, certo non oggetto del presente procedimento, di cospicua entità.

Ciò premesso in fatto la domanda risarcitoria come svolta va qualificata e riferita dal Tribunale adito al danno morale conseguente alla consumazione del reato p.e.p. dall'art. 570 c.p., certo quivi astrattamente valutabile, nonché alle ulteriori conseguenze lesive che le predette condotte, illecite ex art. 2043 c.c., avrebbero determinato nella sfera psico fisica e in ogni caso esistenziale dell'attrice F. (.)

A tutt'oggi, dunque, quand'anche si assuma che raggiunta la maggiore età F. goda o possa godere di relativa autonomia patrimoniale, in effetti secondo l'esito della istruttoria abbandonata l'università lavora come cameriera, il L. continua, malgrado il detto esistente titolo giudiziale, a consumare il reato, non avendo, in fatto, adempiuto all'adempimento dell'obbligo per circa vent'anni

 (Trib. Venezia, 30.6.2004).

 

In ordine alla liquidazione dei danni la sentenza ha previsto che :

Ciò premesso, tenuto conto della durata dell'inadempimento, della assenza di ragionevole motivazione alcuna, della detta intensità del dolo, il Tribunale, anche in via equitativa, liquida il danno morale in commento nella somma, espressa in valori attualizzati e comprensiva degli interessi compensativi maturati, di Euro 80.000,00.

Nessuna conseguenza direttamente apprezzabile dal punto di vista del danno patrimoniale è in effetti allegata in causa.

E' vero che la domanda, nella sua genericità, consente il riferimento al coacervo di ogni astratta possibile voce risarcitoria.

E' vero tuttavia che S.V. possiede relativo titolo esecutivo per l'omessa contribuzione alimentare.

Quanto ad ulteriori voci di danno patrimoniale astrattamente correlabili all'inadempimento descritto, riguardanti anche F., come riferibili, in sostanza, alle possibili occasioni perdute, dal punto di vista della scolarizzazione e dell'inserimento concorrenziale nella vita, ebbene nulla viene di fatto allegato (aut richiesto).

L'interessata, per sua fortuna, ha in effetti goduto dell'aiuto ed apporto economico della madre, di cui s'è detto, e di terzi, estranei al presente giudizio.

La mancata prosecuzione negli studi universitari non è seriamente correlata, in punto allegazioni e offerta di prova, alla condotta del convenuto.

Si venga dunque, come anticipato, alle ulteriori implicazione lesive della condotta del convenuto.

L'espletata consulenza esclude, piuttosto categoricamente che F.V. a tutt'oggi presenti un quadro psico-fisico apprezzabile dal punto di vista della esistenza di un danno biologico.

Si tratta di valutazioni complete ed accurate che il Tribunale ritiene senz'altro di fare proprie.

Quasi paradossalmente, d'altra parte, proprio l'esistenza di congrue figure sostitutive, i nonni e l'attuale marito della attrice, poi, e naturalmente l'impegno ed il coraggio della stessa madre, hanno posto l'interessata nella condizione di crescere secondo un percorso sostanzialmente regolare, con una regolare evoluzione.

(Trib. Venezia, 30.6.2004).

Sostanzialmente di afferma  che la mancanza di un padre, del vero padre, non rende la condizione della figlia assimilabile alla posizione di chi abbia goduto della presenza fattiva, costruttiva ed affettuosa del genitore naturale.

Si tratta di una valutazione tanto ovvia quanto irrilevante ai fini di causa dal punto di vista del lamentato danno biologico: e tanto poiché non esistono elementi apprezzabili dal punto di vista di un danno permanente quale lesione eclatante all'integrità psico fisica della interessata.

Dette considerazioni aprono la strada al tema ragionevolmente più delicato della controversia.

Liquidato il danno morale da reato, accertata l'esistenza di un titolo esecutivo che copre il danno patrimoniale sofferto dalla madre che, da sola, e comunque con l'aiuto di terzi, ha sopperito all'obbligo alimentare e di mantenimento, esclusi ulteriori profili di danni patrimoniali apprezzabili dal punto di vista delle chances perdute dalla figlia, perché non allegate aut non provate; escluso, ulteriormente, un danno biologico in senso stretto, per l'accertata capacità di F. di correlazionarsi con la vita e con i rapporti sociali e sentimentali senza presentare profili apprezzabili in punto disagi clinicamente manifesti, resta da accertare se la condotta palesemente illecita del L. abbia arrecato un danno ulteriore, non apprezzabile in senso strettamente patrimoniale alla figlia, danno non coincidente con le mere conseguenze risarcitorie del consumato reato ovvero con il liquidato danno morale.

Va premesso, quanto alla fonte dell'illecito le cui ulteriori conseguenze lesive sono in discussione, che diritti soggettivi assoluti di rango costituzionale appaiono pacificamente violati: perché il concepimento, che piaccia o meno, non si riduca a fatto meramente materiale, come accade invece in buona parte del regno animale; la nostra carta costituzionale obbliga i genitori, anche naturali e senza distinzione alcuna sulla natura del vincolo che li lega, ad assistere materialmente e moralmente la prole, dunque un obbligo non meramente patrimoniale ma esteso, come è ovvio, alla assistenza educativa.

Solo in assenza aut incapacità di costoro la stessa fonte costituzionale prevede forme sostitutive di assistenza.

Inutile ricordare che si tratta di una scelta assai chiara ed univoca, non essendo estranea alla esperienza di ordinamenti pur vigenti nel ventesimo secolo l'individuazione di un ruolo non solo meramente sostitutivo ovvero vicario e necessitato dello Stato nell'assistenza ed educazione dei minori e della prole.

Non assolvere tale obbligo, anzi omettere ogni condotta assimilabile all'assolvimento in questione, come nel caso di specie, ove non si controverte di una non corretta gestione del ruolo paterno ma della assoluta obliterazione del medesimo, è dunque un fatto illecito.

La sanzione penale che lo tipicizza e punisce ne è ulteriore riprova

(Trib. Venezia, 30.6.2004).

 

Interessante anche il successivo passo della sentenza:

Il danno non patrimoniale sofferto da F. è interamente assorbito ovvero coincide con il liquidato danno morale?

O v'è piuttosto un ambito di ulteriori conseguenze lesive che, se ed in quanto provate, anche per presunzioni semplici, meritano tutela risarcitoria?

I noti recenti approdi della S.C. e della stessa Corte Costituzionale, in una lettura congiunta, tendono, certamente riproponendo chiavi di lettura non del tutto innovative, a proporre all'interprete, anche con riferimento al c.d. danno esistenziale (ma non solo e non perspicuamente) le seguenti linee guida: riconoscere un danno non strettamente patrimoniale ulteriore e diverso dal danno morale, quale tradizionalmente inteso; individuare, ben oltre le ipotesi previste dalla legge (sostanzialmente quelle di cui all'art. 185 c.p.), situazioni giuridiche suscettibili di una lesione-danno conseguenza - appunto monetizzabile ma non patrimoniale; restringere all'ambito dei diritti soggettivi costituzionalmente tutelati e come tali riconosciuti detta tutela.

I detti recenti approdi, come accennato, si inseriscono in un tema la cui soluzione è periodicamente oscillante nella giurisprudenza delle corti superiori e, anche in alternativa, di merito: ora l'utilizzazione dell'art. 2059 c.c. in termini elastici; ora l'interpretazione costituzionalmente orientata del disposto dell'art. 2043 c.c. (come fu nel rapporto con l'art. 32 della Costituzione; ovvero, in altri meno noti approdi, come fu nel rapporto con l'art. 29 della stessa), tanto al fine di estendere l'ambito delle situazioni giuridiche soggettive tutelabili dal punto di vista del danno non strettamente patrimoniale.

Quale che sia il percorso da scegliere, rileva, piuttosto, in tema, un altro decisivo e non più confutabile approdo della stessa giurisprudenza di legittimità: quello per il quale l'ingiustizia del danno, salvo il criterio di imputazione della condotta, sia esso schiettamente colposo o meno, giammai va strettamente riferito alla natura della situazione legittimante (e che si assume illecitamente compressa aut violata). Ecco allora gli estremi per una ennesima pericolosa involuzione (da altro punto di vista argomentativo, ecco i presupposti per un passo indietro rispetto all'approdo predetto)

(Trib. Venezia, 30.6.2004).

 

Secondo il Tribunale il fine degli autorevoli precedenti citati è quello di ampliare l'ambito della tutela, ancorandola, tuttavia, in senso che può apparire limitativo (salvo assumere che la detta rilevanza costituzionale legittimante la risarcibilità del danno non patrimoniale vada riferita appunto al danno in quanto tale, rectius al diritto costituzionale alla tutela risarcitoria), a situazioni giuridiche degne della medesima ovvero i soli diritti fondamentali.

Altro, in realtà, è il tema dell'ambito delle situazioni giuridicamente apprezzabili e meritevoli di tutela (tutte tranne le aspettative di mero fatto), rispetto al tema, più accademico che altro, della giusta collocazione del danno non patrimoniale, ulteriore e diverso dal danno morale strettamente inteso.

Chi scrive, dunque, non ritiene che i citati recenti approdi della giurisprudenza della S.C. e della Corte Costituzionale tolgano o aggiungano alcunché ad un dibattito che la giurisprudenza di merito da molti anni ha pienamente scevrato e colto nei suoi termini essenziali.

In ogni caso, anche alla luce dei detti citati pronunciamenti, non v'è dubbio che anche astrattamente il caso di specie rientri a pieno titolo nelle ipotesi descritte: si tratta in tesi di un danno non strettamente morale; fa capo ad un diritto soggettivo assoluto certamente di valenza costituzionale, appunto il diritto di ogni figlio all'assistenza morale e materiale di ciascun genitore.

Che nella specie detta assistenza non vi sia stata, non ve ne sia stata parvenza, è fuor di dubbio.

Non rileva in questa sede tentarne di dedurne le ragioni.

Invero tale impostazione può essere utile ai soli fini, non certamente etici, di individuare l'ambito di una lesione, salva la relativa qualificazione, e tentare, assumendone provati i fatti costitutivi, una quantificazione possibile, anche in via ineludibilmente equitativa.

In effetti l'attrice allega detta voce di danno: il danno, che lo si definisca pure esistenziale (le parole e le definizioni servono alla dottrina più che agli uomini e alle donne che agiscono per la tutela dei propri diritti), derivante dalla totale ed immotivata privazione dell'apporto paterno, qualsiasi ne fosse stato, se esercitato, il contenuto e il precipitato.

Non lamenta, per così dire, il cattivo esercizio di un obbligo: lamenta la totale assenza dell'adempimento dell'obbligo medesimo.

Lamenta, dunque, la privazione assoluta di un padre, quello vero, reiterata e consumatasi negli anni, sino alla maggiore età e, a ben vedere, perdurante

(Trib. Venezia, 30.6.2004).

La domanda che il Tribunale si pone è se l'assenza di un padre comporti di per sé un danno?

La risposta non può essere univoca, ferma l'azionabilità, per quanto osservato, della pretesa.

In tesi la presenza di un padre oppressivo o particolarmente ignorante, ovvero culturalmente violento, ovvero ancora palesemente immaturo rispetto alla funzione che la natura gli ha dato (se non imposto, perché no?), può costituire presenza ben più alienante di una mera assenza: tanto più nel caso, come nella specie, in cui altri abbiano preso sostanzialmente cura della interessata.

Se l'art. 30 della Costituzione fosse eticamente interpretato nessun genitore, ragionevolmente, andrebbe, astrattamente, esente da censure.

Il rischio, palese per chi scrive, è, allora, la lettura distorta delle norme citate.

L'art. 30 II comma non si limita ad imporre allo Stato una funzione assistenziale sostitutiva.

Dice, cosa ben più importante, che i figli non appartengono, come sarebbe argomentando nazionalsocialisticamente, allo Stato medesimo; che ad esso e alle sue diramazioni autoritative, anche alla giurisdizione, certo non è dato un potere di valutazione, in chiave di dover essere, per così dire eticheggiante, delle modalità dell'esercizio delle funzioni genitoriali.

In sostanza è del mondo che sono i figli: ai genitori l'obbligo, forse meglio dire il compito, di contribuire, per quanto possibile, alla loro educazione, con progressivo prudente inserimento di dati, utili, per quanto di ragione, ad uno sviluppo sereno del bambino.

Non si esige una costante qualificata presenza (quali i parametri di valutazione?); non si esige l'appropriazione di un ruolo (come valutarne l'apporto concreto in termini di contributo fattivo; forse alla mera luce delle ore trascorse insieme senza alcuna valutazione qualitativa?); non si esige un risultato.

Più semplicemente, ex art. 30 Costituzione, si esige lo spiegamento di forze, qualunque ne sia l'esito: in altri termini tutto, o quasi tutto, salvi i maltrattamenti, purché al fatto naturale del concepimento, proprio ad ogni specie animale, non consegua il mero disinteresse, la morte presunta, per così dire, della figura genitoriale.

Ed ecco allora, poiché detta morte presunta, nella specie, si è consumata per certo con tutto quanto ne consegue in termini schiettamente privativi, che il tema si sposta sul piano probatorio e ancor prima eziologico.

Date le predette coordinate (il dovere genitoriale di essere in qualche modo presente; nella specie la totale immotivata reiterata e perdurante assenza del padre quivi convenuto), ebbene F.V. ha sofferto conseguenze lesive, manifeste e apprezzabili, nel suo percorso di maturazione e crescita evolutiva, fossero anche esse, come è ovvio nella specie, fortemente legate alle stesse valutazioni soggettive dell'interessata?

Soccorre, in primo luogo, il dato tanto ovvio quanto empirico per il quale la circostanza, comprovata, di una totale assenza di contributo assistenziale, oltre l'ambito strettamente patrimoniale, sia, ragionevolmente, foriera di conseguenze lesive.

F. ebbe negli anni, ma solo progressivamente, l'apporto, anche affettivo, dei nonni e del marito della madre: ma appunto solo progressivamente.

Come riferito al c.t.u., e non v'è ragione di non credere alla interessata, (d'altra parte il convenuto contumace nulla ci dice in merito), la bambina conosceva sin dall'età di tre anni l'esistenza di un padre naturale che non viveva con la famiglia; a tutt'oggi, su domanda del perito, indica nella madre la persona di riferimento, con la quale sostituì, in sostanza, il padre; nega di avere maturato, ma sarebbe strano il contrario, sentimenti affettivi negativi verso la figura assente; ricorda, con senso critico, osserva il c.t.u. sufficientemente elaborato, un senso di diversità rispetto ai compagni ai tempi della frequentazione delle scuole elementari, un qual certo disagio ovvero disorientamento nel dover riferire il cognome della madre; l'attrice, F., è, a tutt'oggi, a conoscenza del tentativo del padre naturale di inviare, senza successo, la madre ad una interruzione della gravidanza; ricorda di avere sostanzialmente fantasticato sulla figura paterna, non avendo altri dati a disposizione, sino, tuttavia, alla maturata e determinata decisione di rintracciarlo; descrive, e si tratta di fatti interessanti ai fini di causa, l'ansia che ha accompagnato la ricerca, la brevità del colloquio infine ottenuto; la maturazione di aspettative per altri incontri costruttivi, sino allo scambio dei rispettivi numeri di telefono; l'esito sostanzialmente negativo di tale tentato contatto, sino all'abbandono del relativo disegno; la delusione provata nella constatazione, affatto scontata, a ben vedere, del detto esito così deludente.

Quanto al resto, ma per ogni altra valutazione per così dire storica, si fa espresso rinvio alla c.t.u. e alla relativa anamnesi aut colloquio, la perizianda vive con serenità, oggi, un proprio autonomo rapporto affettivo

(Trib. Venezia, 30.6.2004).

Come spesso accade in questi casi non si discute di un danno biologico, non rilevandosi alcuna apprezzabile patologia (non emergendo elemento alcuno dal punto di vista di alterazione psicopatologicamente apprezzabile, data l'assenza, appunto, di sintomi di disturbi comportamentali), ma di danno esistenziale.

Ma non è di questo, di un danno biologico chiaramente da escludersi, che si va ora discorrendo.

Dunque, anche alla luce delle dichiarazioni della interessata, ma si legga anche l'esito dell'indagine istruttoria testimoniale, il convenuto non ha mai contattato né tentato di contattare la figlia; una volta trovato, sembra proprio la parola giusta, con ogni ragionevolezza, non ha messo la giovane nelle condizioni di maturare un seppur tardivo contatto.

F. è consapevolmente cresciuta nella consapevolezza di avere un padre (quello vero) completamente assente; il marito della madre ha avuto un ruolo certo positivo, peraltro mai vissuto come sostitutivo.

Non si è verificato, e questo appare ragionevole, come osservato dal c.t.u., un improvviso distacco: bensì, più realisticamente, una totale assenza, tuttavia nota, consapevolmente nota, all'attrice.

Con specifico riferimento a tale descritto ultimo deludente esito della annosa vicenda, non trascurando certo il lungo tempo trascorso, ritiene dunque provato il Tribunale che la totale assenza della figura paterna sia stata avvertita e sofferta, seppur con la fortunata esistenza di strumenti compensativi che hanno consentito alla giovane di sviluppare con sostanziale equilibrio la propria personalità.

Ciò detto, malgrado l'assenza di esiti apprezzabili sul piano psicopatologico, nonché valutato, anche sulla base della c.t.u., il relativo predetto equilibrio complessivo e l'assenza di turbe comportamentali, vi è stata e v'è lesione del diritto fondamentale dell'attrice all'apporto anche morale ed assistenziale chiaramente mancato.

Trattasi di un coacervo di situazioni e fatti, apporti concreti, i quali, a prescindere dalla qualità del di loro contenuto, certo non giudicabile dallo scrivente, non sono stati forniti, malgrado l'obbligo di legge relativo.

L'effetto privativo, tanto premesso, è eclatante: nello sviluppo della propria personalità, nel coacervo delle scelte esistenziali della crescita di cui l'attrice avrebbe potuto godere, con un contributo, con le modalità, i tempi ed i criteri, sostanzialmente non sindacabili, offribili dal convenuto, F. non ha in sostanza ricevuto alcunché.

La violazione del detto diritto fondamentale - il diritto alla educazione, alla assistenza non solo economica, comunque mancata - è stato in effetti reiteratamente violato: in effetti ne perdura, senza nessuna giustificazione, la violazione.

La percezione di quanto sopra da parte della interessata, che in tutti questi anni non ha ricevuto alcun segnale da chi aveva, volente o nolente, che importa, contribuito alla di lei generazione, ne è la prima prova, in uno con elementi presuntivi di intuibile comprensione.

La consapevolezza, infine raggiunta, dalla attrice di essere stata trattata come il figlio di un mammifero di specie diversa da quella umana (sebbene molti mammiferi, a ben vedere, pongono a lungo cura alla prole), è in sé una conseguenza lesiva della altrui condotta illecita e merita un risarcimento riequilibratorio.

La relativa domanda va dunque accolta.

Quanto alla non semplice entificazione del danno soccorre, nell'economia di liquidazione equitativa, il coacervo degli elementi di fatto ricordati, anche con riferimento all'intensità del dolo, riflesse nella percezione della danneggiata.

Il convenuto, a quanto è dato di conoscere in causa, una volta rifiutata la paternità, per ragioni che, si ribadisce, non hanno rilievo, si è creato una famiglia e una professionalità: la circostanza aggrava, per così dire, la valutazione della di lui condotta dal punto di vista della percezione negativa che della stessa ha avuto l'attrice, con quanto ne consegue in punto intensità dell'immotivata dolorosa privazione di un apporto che la Costituzione le garantiva (le avrebbe dovuto garantire)

(Trib. Venezia, 30.6.2004).

 

In conclusione possiamo, quindi affermare che il genitore sarà tenuto al risarcimento del danno non per la violazione in sè dei doveri genitoriali, ma piuttosto qualora, violando i propri obblighi nei confronti dei figli, abbia inciso negativamente sul corretto sviluppo della loro personalità.

 

4. La responsabilità del genitore non affidatario per mancato esercizio del diritto - dovere di visita.

Una particolare ipotesi di responsabilità a carico del genitore può ravvisarsi nell'ipotesi in cui questi, non essendo affidatario della prole, ometta di esercitare il c.d. diritto di visita, che  costituisce lo strumento giuridico attraverso il quale garantire la sussistenza del rapporto tra i figli e il genitori non affidatario.

Tale diritto non è espressamente previsto dal legislatore, ma va desunto dalle espressioni contenute nell'art. 155, comma 2, c.c., e nell'art. 6, comma 3, della L. n. 898/70 che attribuiscono al giudice il compito di stabilire le modalità di esercizio dei diritti del genitore non affidatario nei rapporti con i figli.

In materia di affidamento dei figli minori il giudice della separazione e del divorzio deve attenersi al criterio fondamentale - posto, per la separazione, dal legislatore della riforma del diritto di famiglia, nell'art. 155 comma primo cod. civ. (che ha esplicitamente codificato un principio costantemente adottato in precedenza dalla giurisprudenza e dalla dottrina), e, per il divorzio, dall'art. 6 della legge n. 898/70 - rappresentato dall'esclusivo interesse morale e materiale della prole, privilegiando quel genitore che appaia il più idoneo a ridurre al massimo - nei limiti consentiti da una situazione comunque traumatizzante - i danni derivati dalla disgregazione del nucleo familiare e ad assicurare il migliore sviluppo possibile della personalità del minore. In tale prospettiva consegue, da un lato, che la stessa posizione del genitore affidatario si configuri piuttosto che come un "diritto", come un "munus", e che la stessa regolamentazione del c.d. "diritto di visita" del genitore non affidatario debba far conto del profilo per cui un tal "diritto" si configuri esso stesso come uno strumento in forma affievolita o ridotta per l'esercizio del fondamentale "diritto - dovere" di entrambi i genitori, di mantenere, istruire ed educare i figli, il quale trova riconoscimento costituzionale nell'art. 30, comma primo della Costituzione, e viene posto, dall'art. 147 cod. civ., fra gli effetti del matrimonio

(Cass. civ., sez. I, 19.4.02, n. 5714 );

In tema di separazione personale dei coniugi, il diritto del genitore non affidatario a mantenere vivo il rapporto affettivo con i figli, interessandosi anche della loro educazione e istruzione, essendo sempre finalizzato e subordinato al perseguimento dell'interesse dei minori, può essere legittimamente disciplinato dal giudice della separazione in modo da non recare pregiudizio alla salute psicofisica dei minori medesimi, anche prevedendo particolari cautele e restrizioni agli incontri, ovvero arrivando perfino a sospenderli del tutto se necessario

(Cass. civ, sez. I, 17.1.96, n. 364).

 

Il coniuge separato ha, quindi, diritto di vedersi assicurata una sufficiente possibilità di rapporti con il figlio affidato all'altro coniuge, al fine di essere in grado di guadagnarsi l'affetto ed il rispetto del figlio stesso. Trattasi, però, di un diritto che, sia in dottrina (De Filippis) che in giurisprudenza (Cass. n. 6446/80) è ritenuto non illimitato, in quanto il giudice può disconoscerlo e, quindi, escluderlo, qualora ricorrano gravi e comprovate ragioni di incompatibilità del suo esercizio con la salute psico-fisica del minore.

Il diritto del coniuge separato di vedersi assicurata una sufficiente possibilità di rapporti con il figlio minore affidato all'altro coniuge. ed anche al fine di essere in grado di guadagnarsi l'affetto ed il rispetto del figlio stesso, ha carattere non assoluto, atteso che resta subordinato ai preminenti interessi morali e materiali del minore, sicché può essere limitato od anche disconosciuto dal giudice, ove ricorrano gravi e comprovate ragioni d'incompatibilità del suo esercizio con la salute psico-fisica del minore stesso

(Cass. civ., sez. I, 13.12.80, n. 6446;  Cass. civ., sez. I, 9.7.89, n. 3249).

Il diritto di visita del genitore non affidatario, dunque, resta subordinato sempre al principio basilare in tema di affidamento che è l'interesse morale e materiale della prole.

La Suprema Corte, in passato, ha individuato nella esasperata conflittualità dei coniugi, emersa in sede di separazione, la causa di una possibile esclusione e/o limitazione del diritto di visita da parte del genitore non affidatario, poiché gli incontri ripetuti e frequenti del minore con quest'ultimo potrebbero pregiudicare il suo sano sviluppo fisico e mentale.

In tema di provvedimenti riguardanti la prole di genitori separati, il diritto del coniuge non affidatario di vedersi assicurata una sufficiente possibilità di rapporti con il figlio (cosiddetto diritto di visita), in correlazione della sua potestà di controllarne l'educazione ed istruzione, se non può essere negato per considerazioni di tipo sanzionatorio attinenti alla responsabilità della separazione, né per mere valutazioni di opportunità relative al coniuge affidatario, è suscettibile di esclusione o limitazione alla stregua dei preminenti interessi del minore, alla cui tutela i suddetti provvedimenti devono essere essenzialmente rivolti, come nel caso nel quale i frequenti incontri del minore stesso con il genitore non affidatario, indipendentemente da un comportamento censurabile di quest'ultimo, possano implicare pregiudizio al suo sviluppo fisico e psichico (nella specie, in considerazione di una esasperata conflittualità esistente fra i coniugi)

(Cass. civ., sez. I, 9.5.85, n. 2882).

La giurisprudenza ha inoltre avuto modo di affermare che il diritto di visita, anche se deve essere necessariamente subordinato al criterio guida del preminente interesse del minore, non può, tuttavia, essere escluso, se non in presenza di gravi e comprovati motivi:

In tema di separazione personale dei coniugi, il diritto del genitore non affidatario dei figli a vedersi assicurata una sufficiente possibilità di rapporti con i minori affidati all'altro coniuge, per quanto non abbia carattere assoluto, essendo subordinato ai preminenti interessi dei minori, nondimeno non può essere del tutto escluso per un periodo più o meno lungo di tempo se non in presenza di gravi motivi, che non possano essere ricondotti unicamente alla pregressa condotta del genitore, occorrendo invece a tal fine aver riguardo anche e soprattutto all'impatto psicologico sui minori delle vicende dalle quali si fa derivare la sospensione del diritto di visita ed al conseguente pregiudizio psico-fisico per questi ultimi

(Cass. civ., sez.I, 12.7.94, n. 6548);

In tema di separazione personale dei coniugi, il diritto del genitore non affidatario a mantenere vivo il rapporto affettivo con i figli, interessandosi anche della loro educazione e istruzione, essendo sempre finalizzato e subordinato al perseguimento dell'interesse dei minori, può essere legittimamente disciplinato dal giudice della separazione in modo da non recare pregiudizio alla salute psicofisica dei minori medesimi, anche prevedendo particolari cautele e restrizioni agli incontri, ovvero arrivando perfino a sospenderli del tutto se necessario

(Cass. civ., sez.I, 17.1.96, n. 364).

La visita del genitore affidatario, inoltre, non deve essere inteso soltanto alla stregua di un diritto, ma deve configurarsi anche come un dovere, il cui mancato esercizio può essere comportare la decadenza dalla potestà parentale,ai sensi dell'art. 330 c.c., e integrare gli estremi del reato di cui all'art. 570 c.p.(violazione degli obblighi di assistenza familiare).

L'esercizio della c.d. visita del non affidatario non è solo facoltà ma anche dovere, da inquadrare tra le posizioni dei componenti la famiglia e nella solidarietà che deve legarli nel gruppo, anche se i genitori siano separati o divorziati..il dovere dell'affidatario verso il figlio è un obbligo verso l'altro genitore, espressione della solidarietà negli oneri per i figli

(Cass.civ., sez. I, 8.2.00, n. 1365);

Nell'ipotesi di separazione personale dei coniugi (o di divorzio), il genitore non affidatario della prole, oltre che il diritto, ha, al tempo stesso, il dovere/obbligo, categorico e primario, di visitare i figli e permanere con essi anche nei periodi, di regola coincidenti con le vacanze e con le festività, nei quali i figli stessi hanno il diritto di permanere con il genitore non affidatario per un, più o meno lungo, lasso continuativo di tempo

(Trib. Catania, 2.7.91).

 

Tutto ciò, però, non implica che si dia luogo ad un obbligo coercibile, sia perché nessun rimedio giudiziario è previsto per il caso di non attuazione (il genitore affidatario non può rivolgersi al giudice, come invece il medesimo art. 155 c.c. prevede, al terzo comma, che possa fare il non affidatario), sia perché non appare percorribile, data la natura dell'obbligo e del provvedimento che lo prevede, la via del ricorso all' art. 612 c.p.c. (esecuzione forzata di obblighi di fare) (De Filippis).

Partendo, dunque, dalla considerazione che il c. d. diritto di visita è configurato anche come dovere per il genitore  non affidatario, da svolgere nell'interesse della prole, il mancato adempimento dello stesso può comportare, in primis, una responsabilità nei confronti dei figli, e poi dare luogo anche ad una responsabilità nei confronti del coniuge affidatario, in quanto "espressione della solidarietà negli oneri per i figli" (Cass. civ., n. 1365/00).

È stato infatti riconosciuto un risarcimento del danno patrimoniale a favore del genitore affidatario di una figlia disabile, a titolo di rimborso per le spese sostenute per l'assistenza della stessa nei giorni in cui il genitore non affidatario avrebbe dovuto tenerla presso di sé (Cass. n. 1365/00).

Per quanto attiene, invece, alla responsabilità del genitore non affidatario, assenteista, nei confronti del figlio, è necessario che questi abbia subito un danno consistente per esempio nella lesione della sua serenità personale, o in un pregiudizio allo sviluppo della sua personalità ecc. Insomma si dovrà verificare che tale comportamento abbia inciso in maniera negativa sul corretto sviluppo della personalità del figlio (Facci).

Ovviamente non sarà possibile imputare al genitore non affidatario nessuna responsabilità qualora esista un rifiuto insuperabile da parte del figlio, ad intrattenere rapporti col genitore stesso. In tale ipotesi si potrà giungere anche ad una sospensione del diritto-dovere di visita a tempo indeterminato, proprio per salvaguardare l'interesse del minore ad una crescita serena ed equilibrata.

In tema di provvedimenti relativi alla prole, conseguenti alla dichiarazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio, ed anche in base ai principi sanciti dalla Convenzione di New York del 20 novembre 1989, ratificata con legge n. 176 del 1991, la circostanza che un figlio minore, divenuto ormai adolescente e perfettamente consapevole dei propri sentimenti e delle loro motivazioni, provi nei confronti del genitore non affidatario sentimenti di avversione o, addirittura, di ripulsa - a tal punto radicati da doversi escludere che possano essere rapidamente e facilmente rimossi, nonostante il supporto di strutture sociali e psicopedagogiche - costituisce fatto idoneo a giustificare anche la totale sospensione degli incontri tra il minore stesso ed il coniuge non affidatario. Tale sospensione può essere disposta indipendentemente dalle eventuali responsabilità di ciascuno dei genitori rispetto all'atteggiamento del figlio ed indipendentemente anche dalla fondatezza delle motivazioni addotte da quest'ultimo per giustificare detti sentimenti, dei quali vanno solo valutate la profondità e l'intensità, al fine di prevedere se disporre il prosieguo degli incontri con il genitore avversato potrebbe portare ad un superamento senza gravi traumi psichici della sua animosità iniziale ovvero ad una dannosa radicalizzazione della stessa

(Cass. civ., sez. I, 15.1.98, n. 317).

La sentenza su citata, si è visto, non esclude il ricorso al  supporto di strutture sociali e psicopedagogiche, per superare la situazione di ostilità del minore, ma conclude affermando che, se essa non è facilmente rimuovibile, deve portare alla sospensione della facoltà di visita, a prescindere dal fatto che l'animosità sia stata determinata da comportamenti negativi del genitore.

Parte della dottrina (De Filippis, Casaburi),  ritiene che la conclusione raggiunta dalla sentenza non possa essere elevata a principio generale, ma possa eventualmente essere valida soltanto per singoli casi. Resta, infatti nella convinzione che il rapporto tra figlio e genitore sia di fondamentale importanza per lo sviluppo psichico dell'adolescente e che assecondare la volontà del ragazzo di non frequentare il genitore può solo formalmente realizzare l'interesse dello stesso, ma lo nega invece da un punto di vista sostanziale. Ciò a maggior ragione se il coniuge non affidatario non abbia avuto comportamenti negativi e non sia una persona la cui personalità o stile di vita possano esercitare conseguenze negative sul minore.

Nello stesso periodo anche la Corte Europea dei diritti dell'uomo affermava:

 

Anche se il genitore separato, divorziato, o, comunque, non convivente più con il partner e non affidatario della prole ha il diritto/dovere di visitarla, di permanere con essa e di mantenere costanti rapporti parentali, l'esercizio di tale diritto/dovere può essere, anche a tempo indeterminato, sospeso qualora la prole, a prescindere dai meriti o dai demeriti del genitore non affidatario, manifesti, nei confronti di quest'ultimo, anche in virtù dell'influenza esercitata da persone che la circondano, radicati, costanti sentimenti di rifiuto e di ripulsa, dovendosi riconoscere al diritto del minore alla serenità personale e familiare ed all'integrale suo benessere psicologico poziorità assoluta

(Corte eur. dir. uomo, 21.10.98).

 

Risultano ispirate al principio del rispetto della personalità del minore anche due pronunce del Tribunale catanese:

 

Nel decidere in ordine alle modalità di esercizio del diritto di visita del genitore, non affidatario, il giudice della separazione deve tenere conto della volontà della prole adolescente (nella specie, di quindici e tredici anni), per cui, qualora essa abbia manifestato il rifiuto di incontrare il padre in giorni ed in orari prestabiliti, allegando di non voler subire l'ossessionante, continuo recriminare paterno contro la madre, il giudice non deve coartare la volontà della prole, ma deve disporre che gli incontri con il genitore non affidatario avvengano una volta al mese, ma nel giorno liberamente scelto dalla prole stessa

(Trib. Catania 17.4.96 );

 

Qualora in un procedimento di separazione personale tra coniugi ravvisata l'opportunità di affidare al padre la figlia minore, ormai adolescente, sia necessario regolare il diritto di visita della madre, il giudice non può prescindere dalla particolare situazione psicologica della minore, il cui rapporto con la genitrice sia talmente difficile e conflittuale, fino all'esasperazione, da indurre la minore a rifiutare gli incontri con la madre secondo modalità preordinate dal giudice e controllate dagli operatori sociali; allo scopo, pertanto, di evitare la radicalizzazione, forse irreversibile, di tale stato d'animo e di favorire, anzi, il recupero del rapporto parentale, nel rispetto della volontà della minore, va disposto che i suoi incontri con la madre avvengano, ma con le modalità prescelte solo dalla stessa minore

(Trib. Catania 6.12.95).

 

5. La responsabilità del genitore affidatario che ostacola i rapporti con l'altro genitore.

La responsabilità di un genitore nei confronti del figlio può sussistere anche nell'ipotesi in cui impedisca, ostacoli o comunque non agevoli i rapporti dello stesso con l'altro genitore, perpetrando il più delle volte la fattispecie di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice, prevista e punita dall'art. 388, comma 2, c.p.  

 

. integra il reato di cui all'art. 388 c.p. il comportamento del coniuge che non osservi i provvedimenti dati dal giudice di primo grado in tema di affidamento dei figli minori.

(Cass.  pen., sez. V, 16.3.00, n. 4730);

 

Pur dovendosi ritenere che, di regola, la semplice inattività non possa costituire la condotta "elusiva" dei provvedimenti del giudice in materia di affidamento di minori, prevista come reato dall'art. 388 comma 2 c.p., deve tuttavia riconoscersi la configurabilità di tale reato quando, richiedendosi da parte del soggetto tenuto all'osservanza degli obblighi ingiunti con taluno dei suddetti provvedimenti una certa attività collaborativa, questa venga ingiustificatamente negata. (Nella specie, in applicazione di tale principio, la S.C. dopo aver posto in luce il "ruolo centrale che assume il genitore affidatario nel favorire gli incontri dei figli minori con l'altro genitore", ha affermato che: "Il rifiuto di fatto opposto dal genitore affidatario alla richiesta - verbale o scritta - dell'altro genitore di esercitare il diritto di visita dei figli concreta l'elusione del provvedimento giurisdizionale che regolamenta tale rapporto, proprio perché l'atteggiamento omissivo dell'obbligato finisce con il riflettersi negativamente sulla psicologia dei minori, indotti così a contrastare essi stessi gli incontri col genitore non affidatario perché non sensibilizzati ed educati al rapporto con costui dall'altro genitore")

(Cass. pen., sez. VI, 18.11.99, n. 2925);

 

Ai fini della sussistenza del delitto di dolosa mancata esecuzione di un provvedimento del giudice che concerna l'affidamento di minori, la condotta cosiddetta "elusiva" deve essere intesa come comprensiva di qualsiasi comportamento positivo o negativo, che non esige nè scaltrezza di sorta o subdole modalità nè richiede che la pretesa di attuazione dell'ordine del giudice debba essere avanzata nei modi e nelle forme della minacciata esecuzione degli ordini di fare, secondo il rito processuale civile, bastando anche il semplice rifiuto del soggetto obbligato alla istanza verbale o scritta del privato interessato

Cass. pen., sez. VI, 8.5.96, n. 6042);

 

Ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 388 cpv. c.p. il termine "elude" va inteso in senso lato, comprensivo di qualsiasi comportamento - positivo o negativo - ad evitare l'esecuzione del provvedimento del giudice civile. (Nella specie, si è ritenuta sussistente la condotta tipica nel fatto del genitore che abbia portato i figli minori, da affidare alla madre per tre mesi, nell'abitazione del proprio fratello anziché in quella di lei, ed abbia subordinato la consegna alla volontà dei figli e al trasferimento della moglie nella propria abitazione)

(Cass.  pen. sez. VI, 4.6.90);

 

In tema di mancata esecuzione di un provvedimento del giudice civile concernente l'affidamento di un figlio minore, qualora il genitore affidatario, pur obbligato a consentire l'esercizio del diritto di visita da parte dell'altro genitore secondo le prescrizioni stabilite dal giudice, viene a trovarsi in una concreta situazione di difficoltà determinata dalla resistenza del minore, ed essendo egli nello stesso tempo tenuto a garantire la crescita serena ed equilibrata del minore a norma dell'art. 155 comma 3 c.c., ha in ogni momento il diritto-dovere di assicurare massima tutela all'interesse preminente del minore, ove tale interesse, per la naturale fluidità di ogni situazione umana, non sia potuto essere tempestivamente stato portato alla valutazione del giudice civile. Ne consegue che, ai fini della sussistenza del dolo, occorre stabilire da parte del giudice penale se il genitore affidatario, nell'impedire al genitore non affidatario il diritto di visita ricusato dal minore, sia stato eventualmente mosso dalla necessità di tutelare l'interesse morale e materiale del minore medesimo, soggetto di diritti e non mero oggetto di finalità esecutive perseguite da altri

(Cass. pen., sez. VI, 16.3.99, n. 7077).

 

In un caso di qualche anno fa il Tribunale di Roma si è trovato ad esaminare il caso di una madre divorziata, cui era stata affidato  il figlio, che sistematicamente e senza giustificate ragioni impediva all'altro genitore di intrattenere rapporti con il minore, contravvenendo, quindi alle specifiche disposizioni dettate dal giudice e in sede di separazione e in sede di divorzio.

Il genitore non affidatario, quindi, vista la situazione, si rivolgeva al Tribunale romano chiedendo la condanna della ex moglie al risarcimento del danno biologico e morale sia suo che del figlio minore, poiché il comportamento della donna aveva inciso "sulle loro proiezioni di vita, sul loro inserimento sociale, sulla tutela e conservazione della famiglia, sui loro rapporti affettivi, sui rapporti socio-culturali, sulle loro condizioni fisio-psichiche".

Il giudice investito ha ravvisato, pertanto, nel comportamento della moglie gli estremi del reato di "Mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice", previsto all'art. 388 c.p., e ha riconosciuto al padre, ostacolato nel rapporto col figlio, il diritto al risarcimento del danno morale e del danno alla salute fisio-psichica (in realtà più che di danno biologico si tratta di danno esistenziale):

 

.laddove egli non possa, incolpevolmente assolvere i predetti suoi importanti doveri verso il proprio figlio, né soddisfare il suo diritto di conoscerlo, di frequentarlo e di educarlo, in ragione e in proporzione anche del proprio senso di responsabilità e del proprio prolungato, ma vano, impegno posto in essere per il soddisfacimento di setto diritto-dovere: circostanze tutte, queste, accertate nel caso di specie.

Sicchè nella fattispecie è certamente ravvisabile e risarcibile- a mente degli artt. 2043, 2057 e 2059 c.c, in relazione all'art. 32 Cost.-il danno permanete biologico, oltre che morale, cagionato dalla  P.R. alla persona del B.A., la cui esistenza ontologica, in termini di subito pregiudizio alle sue preesistenti condizioni fisio-psichiche, è provata in re ipsa

e va comunque presunta ai sensi degli artt. 2727 e 2729 c.c., trattandosi di danno emergente che deriva dai prolungati turbamenti neuro-psichici, dal dolore, dalle ansie e dalla logorante angoscia in lui prodottisi per  non aver potuto assolvere, non per la sua volontà, agli stringenti doveri verso il figlio, né soddisfare i suoi legittimi diritti di padre, con pregiudizievoli riflessi anche sulla propria vita di relazione (nei rapporti parentali, speciali, ricreativi ecc.),menomazioni tutte fortemente incidenti sulla salute fisio-psichica d un individuo anche in proiezione futura e, perciò, di concreta e permanente rilevanza biologica, per le quali, quindi, può essere fatta valere l'aspettativa riparatrice

(Trib. Roma, 13.6.00).

 

Il risarcimento nei confronti del figlio, invece, riconosciuto in astratto, veniva negato in concreto, per difetto di legitimatio ad processum (Trib. Roma, 13.6.00).

Più recente, invece, è una pronuncia del Tribunale di Monza la quale ha evidenziato come la compromissione sofferta dalla madre, nella sfera dei rapporti affettivi con il figlio minore (affidato al padre), attraverso l'interruzione di ogni apprezzabile relazione per un periodo di dieci anni - dovuto al comportamento del padre che non ha mai dato un reale contributo positivo all'evoluzione della relazione del figlio con la madre-, integri una lesione di un diritto personale costituzionalmente garantito, e rappresenti quindi un fatto costitutivo del diritto al risarcimento dei danni non patrimoniali, sotto l'aspetto sia del danno morale soggettivo (patema d'animo), sia dell'ulteriore pregiudizio derivante dalla privazione delle positività derivanti dal rapporto parentale.

 

Il genitore non affidatario che venga meno al fondamentale dovere, morale e giuridico, di non ostacolare, ma anzi di favorire la partecipazione dell'altro genitore alla crescita ed alla vita affettiva del figlio, è responsabile per il grave pregiudizio arrecato al diritto personale del genitore non affidatario alla piena realizzazione del rapporto parentale ( nel caso di specie, l'organo giudicante ha condannato il genitore ostacolante a risarcire, a titolo di danno morale ed esistenziale, al genitore non affidatario la somma di E. 50.000,00)

(Trib. Monza, 5.11.04);

 

Ha diritto al risarcimento del danno il genitore non affidatario che non aveva potuto esercitare per lungo tempo il diritto di visita al figlio per effetto, oltre che di problemi personali dello stesso non affidatario,   delle   condotta ostruzionistica del genitore affidatario

(Trib. Monza, 5.11.04).

In particolare, dunque, il Tribunale di Monza, con tale pronuncia- che costituisce una delle prime decisioni che riconoscono la risarcibilità del danno non patrimoniale sofferto dal genitore non affidatario per gli ostacoli frapposti all'esercizio del diritto di visita da parte dell'altro genitore-  ha riconosciuto in capo alla madre il diritto ad essere risarcita in relazione ai turbamenti prolungati, al dolore, alle ansie prodottisi in lei per non avere potuto assolvere - non per sua volontà - agli stringenti doveri verso il figlio, né soddisfare i suoi legittimi diritti di madre a partecipare alla crescita ed alla vita affettiva del figlio (Ramaccioni).

 

6. Responsabilità da riconoscimento non veritiero di paternità. Il disconoscimento della paternità.

Può sussistere responsabilità extracontrattuale, ex art. 2043 c.c., del genitore nei confronti della prole, anche nell'ipotesi in cui venga accertato che sia stato fatto un riconoscimento non veritiero di figlio naturale. Tale fatto, oltre che integrare gli estremi del reato contemplato all'art. 483 c.p (Falsità ideologica commessa da privato in atto pubblico), può comportare anche una lesione, un pregiudizio al figlio che, credendo- fino a quel momento - di essere realmente figlio di quel genitore, scopra all'improvviso che c'è una discrasia tra la situazione reale e quella legale.

Un caso di tal specie è stato analizzato dal Tribunale di Torino nel 1992, il quale, dopo aver accertato la nullità del riconoscimento della figlia naturale, per difetto di veridicità, e aver riscontrato l'esistenza degli estremi del reato di cui all'art. 483 c.p., aveva condannato il padre, autore del falso riconoscimento, al risarcimento del danno in favore della figlia allora dodicenne, per i pregiudizi alla stessa arrecati.

 

Nel giudizio promosso dal preteso padre per la declaratoria di nullità, per difetto di veridicità, del riconoscimento di figlio naturale, deve considerarsi ammissibile e può nel merito essere accolta la domanda, del curatore speciale del minore, diretta ad ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale causato al minore dal riconoscimento falso, danno psicofisico e di carattere anche sociale inevitabilmente inferto; il danno non patrimoniale è risarcibile perché il falso riconoscimento integra il reato di falso ideologico

(Trib. Torino, 31.3.92).

 

Il Tribunale evidenziava come, dalla situazione prospettata, la minore avrebbe subito un notevole pregiudizio psico-fisico, consistente nella difficoltà a reinserirsi col nuovo cognome nell'ambiente sociale e scolastico, nelle notevoli sofferenze che le sarebbero derivate dai commenti dei terzi sul suo conto e sulla sua vicenda e nel grave dolore nello scoprire all'improvviso la nuova realtà.

Maggiore è, infatti l'età della persona interessata, e più gravi saranno i danni da lei subiti, in quanto persona in grado di rendersi pienamente conto della situazione circostante e di quanto accaduto alla sua vita.

Nel caso in esame l'impugnazione del riconoscimento da parte del falso padre era avvenuto a distanza di molti anni sia dal riconoscimento stesso che dalla rottura dei rapporti affettivi con la madre della bambina. Senza dubbio,  secondo l'opinione del giudice torinese, questo ha contribuito ad aumentare le ripercussioni negative della vicenda sulla sfera personale della bambina.

Anche il disconoscimento di paternità, che provoca la perdita dello status di figlio legittimo, può essere causa di grave pregiudizio- soprattutto di carattere non patrimoniale- sia per il minore che per il figlio ormai adulto.

Comunque, in ogni caso, il termine abbastanza ristretto per la proposizione della domanda (ad eccezione dell'ipotesi in cui la stessa venga proposta dal figlio stesso entro un anno dal raggiungimento della maggiore età o dal momento in cui venga a conoscenza dei fatti che rendono ammissibile il disconoscimento), dovrebbe comportare una riduzione dei pregiudizi subiti.

 

 

7. La responsabilità da procreazione.

Il dibattito su questa problematica si è sviluppato nel nostro paese nei primi anni '50, sulla scia di una pronuncia del Tribunale di Piacenza che riconobbe ad una donna, venuta al mondo con lue congenita, il diritto al risarcimento del danno ex art. 2043 c.c. nei confronti dei genitori (Trib. Piacenza 31.7.1950).

La questione, poi, non è stata riaffrontata nel merito dalla Corte d'Appello di Bologna poiché, avendo il Tribunale di Piacenza dichiarato solidalmente responsabili entrambi i genitori, è stata negata alla madre la legittimazione ad agire per i danni quale rappresentante legale della figlia, ritenendosi necessaria la nomina di un curatore speciale (App. Bologna, 7.6.1951).

In ogni caso numerose sono state le voci di critica che si sono sollevate in merito alla pronuncia (Carnelutti, Rescigno).

Si riteneva essenzialmente che esistessero degli ostacoli a ravvisare l'esistenza di una responsabilità: in primis si dubitava dell'esistenza di un danno, data la possibilià di curare la malattia  e la non apprezzabile diminuzione di rendimento lavorativo del leutico, ma la difficoltà maggiore per la configurabilità dell'esistenza di una responsabilità è stata individuata nell'impossibilità di configurare una lesione alla salute, ossia un bene della vita, costituzionalmente tutelato, in capo ad un soggetto non ancora vivente, essendo stata l'infezione, nella fattispecie,  contestuale al concepimento (Patti).

Altra parte della dottrina, pur se minoritaria (Rescigno), osservava, invece, che "se l'illecito e la conseguenza dannosa possono essere separati nel tempo, non è necessario che il soggetto passivo già esista nel momento in cui l'atto è compiuto, così come non si richiede che tuttora esista l'autore dell'illecito nel momento in cui il danno si produce. Una conferma viene tratta dalla risarcibilità del danno morale per un'ingiuria subita prima del nascere. Si pensi al caso del nascituro che venga ingiuriato come bastardo: si potrebbe dire che, mancando il soggetto manca l'opinione della propria onorabilità e la volontà di tutelarla. Ma la nozione oggettiva di onore consente di risarcire il danno che il soggetto subisce affacciandosi alla vita ed entrando nella società.