Il decreto correttivo della riforma delle procedure concorsuali

 

1. Il Consiglio dei Ministri del 07/09/07 ha approvato il testo del decreto legislativo di modifica della riforma fallimentare, il c.d. "correttivo".
Il contenuto del nuovo testo legislativo, la cui pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale è imminente, era noto da tempo nelle sue linee essenziali, anche se non sono mancate modifiche dell'ultima ora, dopo che le commissioni parlamentari della Camera e del Senato avevano espresso il loro parere, di cui peraltro non pare che il legislatore abbia tenuto particolarmente conto.

Le innovazioni introdotte riguardano sia le procedure conservative che il fallimento.

2. Per quanto concerne il concordato preventivo le modifiche introdotte all'art. 162 prevedono che il tribunale verifichi, a seguito della presentazione della domanda di concordato, se ricorrono le condizioni previste dall'art. 160, primo e secondo comma, e dall'art. 161, dichiarando in difetto inammissibile la domanda di concordato. Giova ricordare che il primo comma dell'art. 160 stabilisce che la proposta di concordato può prevedere la ristrutturazione o la liquidazione dell'impresa, anche nelle forme del concordato con assuntore, la suddivisione dei creditori in classi e trattamenti differenziati tra creditori appartenenti a classi diverse. Il secondo comma precisa che il presupposto oggettivo della procedura, lo stato di crisi, comprende anche lo stato d'insolvenza. L'art. 161 stabilisce che la domanda di concordato deve essere accompagnata dalla relazione di un professionista iscritto nel registro dei revisori contabili ed in possesso dei requisiti per la nomina a curatore, che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano medesimo

Sembra dunque potersene ricavare la possibilità per il tribunale di effettuare un'indagine assai ampia sul contenuto della domanda. Ciò, se da un lato elimina i rischi di abuso della procedura e di domande presentate a fini strumentali, dall'altro rischia di allungare i tempi dell'istruttoria e di aprire spazi per una "contrattazione" tra il tribunale ed il debitore sui contenuti della proposta. Sembra peraltro di poter concludere che il disegno del legislatore del 2006 di eliminare il controllo del giudice sul merito della proposta concordataria sia stato definitivamente accantonato.

La dichiarazione d'inammissibilità della domanda può portare alla dichiarazione di fallimento, ma soltanto su istanza dei creditori o del pubblico ministero. Sparisce così definitivamente il fallimento come conseguenza automatica del rigetto della domanda di concordato preventivo, soluzione prevista dalla legge fallimentare del 1942, che non era più compatibile sia con il fatto che il concordato può aprirsi anche in presenza non dell'insolvenza, ma del solo stato di crisi, sia con la soppressione, già attuata dalla riforma del 2006, dei poteri del tribunale di dichiarare il fallimento d'ufficio.

Analoga disciplina è prevista in tutti i casi in cui nel corso del procedimento può venir meno il concordato: a seguito dell'esito negativo della votazione, della mancata omologazione e nelle ipotesi previste dall'art.173 l.fall. quando il debitore abbia compiuto atti in frode ai creditori o risulti che difettavano le condizioni di ammissibilità della domanda.

Altri interventi riguardano la disciplina del voto dei creditori privilegiati incapienti. Si è previsto che anche tali creditori possano trovare soddisfacimento in percentuale alla pari dei creditori chirografari, stabilendo contemporaneamente che per la parte del credito degradato a chirografario essi siano ammessi al voto. Non pare invece che tale possibilità possa valere, nella maggior parte dei casi, per i creditori investiti di privilegio generale mobiliare, perché essi potrebbero essere considerati incapienti soltanto nel caso in cui non vi fosse alcun attivo realizzabile o fosse quantomeno certo che l'attivo realizzabile è idoneo a soddisfare soltanto creditori di grado poziore.

Va detto che questa disciplina, mutuata da quanto già stabiliva la riforma del 2006 per il concordato fallimentare, è ora estesa in modo uniforme ad entrambi i concordati, con una soluzione che merita approvazione perché evita che i creditori privilegiati beneficino di un trattamento che non corrisponde alle effettive possibilità di soddisfacimento e vengano quindi ad ottenere più di quanto potrebbero conseguire in caso di esecuzione individuale e nel contempo consente loro di votare come i creditori chirografari, cui per la parte incapiente del credito sono equiparati.

Anche la disciplina delle maggioranze è stata corretta. Si è previsto espressamente che anche nel caso di concordato con classi, la domanda debba comunque riportare la maggioranza semplice dei creditori, per evitare, si è detto, che il debitore possa raccogliere in un'unica classe i creditori dissenzienti e giovarsi del fatto che è sufficiente che la proposta sia approvata dalla maggioranza delle classi.

Ci pare peraltro che il timore fosse infondato, perché il debitore non può formare le classi a suo piacimento, che debbono invece essere costituite secondo posizione giuridica ed interessi economici omogenei.

Ancora si è previsto che il cram down non sia più effettuato dal tribunale d'ufficio, ma soltanto quando il creditore dissenziente abbia proposto opposizione.

La riforma del 2006 aveva stabilito che nel caso di concordato con classi, ove la proposta fosse stata approvata soltanto dalla maggioranza delle classi, il tribunale doveva verificare d'ufficio se i creditori appartenenti alle classi dissenzienti avrebbero ricevuto dal concordato non meno di quanto avrebbero potuto conseguire con le "alternative concretamente praticabili", in pratica con il fallimento. A seguito del correttivo, la verifica d'ufficio della convenienza del concordato per i creditori dissenzienti è soppressa. Se un creditore appartenente ad una classe dissenziente contesta la convenienza della proposta, proponendo opposizione all'omologazione, il tribunale può omologare il concordato qualora ritenga che il credito possa risultare soddisfatto in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili ( nuovo art. 180, comma 4). La scelta è opinabile, perché si obbliga il creditore dissenziente a proporre opposizione onerandolo di un onere forse eccessivo e si incentiva la presentazione di proposte non rispettose dei diritti dei piccoli creditori, confidando sul fatto che costoro, pur danneggiati nei loro diritti dal concordato, non avranno interesse a proporre opposizione. Si sarebbero dovute prevedere, per riequilibrare la situazione, incentivi alla formazione di rappresentanze collettive dei piccoli creditori.

Vanno segnalati alcuni appesantimenti che sono stati introdotti nella procedura di concordato preventivo, rivitalizzando la figura del liquidatore, prevedendo che le modalità delle vendite di beni in esecuzione del concordato debbano essere autorizzate dal comitato dei creditori come nel fallimento e che ad esse trovi applicazione la disciplina della liquidazione fallimentare. Prevale l'esigenza di garanzia formale delle ragioni dei creditori, affidata a momenti di controllo burocratico, sull'esigenza di celerità ed efficienza nell'esecuzione di un concordato, ove l'unica sanzione dovrebbe essere costituita dalla risoluzione e dal conseguente fallimento.

3. Il legislatore è intervenuto anche sulla disciplina degli accordi di ristrutturazione. L'istituto, accolto con interesse dalla dottrina, sino ad oggi non è stato utilizzato che in pochi casi.

Il legislatore è intervenuto migliorando il testo con il prevedere da un lato che la domanda sia presentata da un imprenditore in stato di crisi ( in precedenza il presupposto oggettivo della procedura non era definito). Escluso pertanto che la domanda possa essere formulata dall'insolvente civile, resta la possibilità che essa sia proposta da chi non è imprenditore commerciale ( quindi l'imprenditore agricolo) e dall'imprenditore che non soddisfa i requisiti dimensionali stabiliti dall'art.1 l.fall. e dunque dagli imprenditori piccoli. Il presupposto oggettivo è ora precisato nello stato di crisi, ma è ragionevole ritenere che anche l'imprenditore in stato d'insolvenza possa proporre domanda, posto che l'art. 160, comma 2, prevede tale possibilità nel caso di concordato preventivo, precisando che lo stato di crisi comprende lo stato d'insolvenza.

Il decreto correttivo ha inoltre stabilito la sospensione delle azioni esecutive e cautelari in via automatica per un periodo di sessanta giorni dalla pubblicazione dell'accordo sul registro delle imprese. Nelle more le prescrizioni rimangono sospese e le decadenze non si verificano.

Questa modifica era stata domandata a gran voce da molti operatori, convinti che senza rappresentato dalla sospensione delle azioni esecutive il nuovo istituto non potesse andare a buon fine. In realtà essa è in contrasto con le finalità dell'accordo che si fonda sulla scommessa che, grazie all'intesa raggiunta con alcuni creditori che accettano un pagamento differito o in percentuale o entrambe le cose, sia possibile all'imprenditore proseguire la sua attività normalmente e risanare l'impresa. Per questa ragione l'accordo non incide sui diritti dei creditori estranei che debbono essere pagati regolarmente, e dunque alla scadenza contrattuale. La modifica altera questo stato di cose. Sia pur per un tempo limitato, i creditori estranei non possono essere soddisfatti. Va peraltro detto che una sospensione limitata nel tempo può essere giustificata dal superiore interesse alla composizione della crisi e può trovare copertura costituzionale nell'art. 42 Cost. che garantisce la funzione sociale della proprietà e quindi anche del diritto di credito.

E', piuttosto, lecito dubitare che la soluzione prescelta dal legislatore sia efficace. La sospensione delle azioni esecutive dovrebbe servire a dare fiato all'imprenditore che sta cercando di raggiungere l'accordo con i creditori e che necessita nel frattempo di poter operare senza l'intralcio delle iniziative assunte dai creditori stessi, prima di averli potuti sentire e di aver trovato con essi una soluzione. Il legislatore ha però previsto che la sospensione scatti dal momento della pubblicazione dell'accordo sul registro delle imprese, quando dunque tale accordo, ancorché non omologato, è già efficace e, dunque, è stato raggiunto e riguarda almeno il 60% dei creditori. Sarebbe stato più coerente prevedere che la sospensione avesse una decorrenza anteriore, anche se indubbiamente la disciplina di tale soluzione non era semplice.

Un punto negativo della nuova disciplina riguarda la mancata previsione di un'adeguata normativa fiscale. Proprio l'incertezza sul trattamento fiscale degli accordi di ristrutturazione è stata indicata come una delle cause principali del mancato successo dell'istituto ed è da ritenere che, fino a quando non si sarà fatta chiarezza sul punto, le cose non cambieranno.

4. Le innovazioni introdotte alla disciplina del concordato fallimentare sono rilevanti. Esse in parte rispecchiano le corrispondenti modifiche delle norme in tema di concordato preventivo. Vi sono però modifiche autonome. Tra di esse merita di essere sottolineata la soppressione del potere del curatore di presentare la proposta di concordato. Tale potere era previsto nel testo della riforma del 2006 dall'art. 129, dove si stabiliva che il parere sulla proposta, dopo il voto favorevole dei creditori, era redatto dal comitato dei creditori ove la proposta fosse stata presentata dal curatore. Il nuovo testo dell'art. 129 non prevede più tale possibilità e poiché l'art. 124 prevede tra i soggetti legittimati uno o più creditori, i terzi ed il fallito, ne deriva che il curatore non è più compreso in tale ambito. Si tratta di scelta da valutare in termini negativi, perché, come ha scritto Lorenzo Stanghellini, "si è voluta togliere al curatore la possibilità di proporre un concordato fallimentare, vera chance di soluzione rapida del fallimento ad opera di un soggetto informato, imparziale e professionale. L'esperienza Parmalat, con un organo commissariale attivo ed efficiente, è stata apparentemente giudicata pericolosa, preferendo che siano solo il fallito e gli affaristi a contendersi la partita".

E' stato mantenuto, nonostante le molte voci che si erano espresse in senso contrario, il divieto per il debitore fallito di proporre immediatamente il concordato fallimentare, a vantaggio di eventuali domande in tal senso dei creditori e dei terzi. Anzi il termine che il legislatore del 2006 aveva limitato, incongruamente, a sei mesi è stato portato ad un anno. In tal modo viene favorito il disegno della riforma di incentivare la soluzione anticipata della crisi e di garantire la contendibilità sul mercato dell'impresa insolvente, quando naturalmente ve ne siano le condizioni in ragione delle dimensioni dell'impresa e della concreta possibilità di ristrutturazione.

Il legislatore ha però previsto che la possibilità di proporre il concordato prima dell'esecutività dello stato passivo sia limitata ai casi in cui sia stata tenuta la contabilità ed i dati risultanti da essa e le altre notizie disponibili consentano al curatore di predisporre un elenco provvisorio dei creditori del fallito da sottoporre all'approvazione del giudice delegato. La disposizione è forse troppo rigorosa, perché offre al fallendo che voglia escludere che terzi possano proporre il concordato nel periodo in cui a lui è interdetto, una facile soluzione. E' noto ai pratici che sovente la contabilità viene rubata prima del fallimento, come risulta da denunce ai Carabinieri che mai spiegano perché i documenti fossero oggetto di trasporto sull'auto rubata.

Opportuna invece la previsione che il divieto di proporre il concordato riguardi non soltanto il fallito, ma le società cui egli partecipi o le società sottoposte a comune controllo.

Una correzione opportuna riguarda l'art.125 l.fall. Il testo introdotto dalla riforma del 2006 prevedeva che il giudice delegato ordinasse la comunicazione della proposta di concordato ai creditori dopo aver acquisito "il parere favorevole del curatore". In questo modo, almeno stando alla lettera della legge, il curatore diventava l'arbitro insindacabile dell'ammissibilità della proposta. Le critiche e i tentativi di interpretazione alternativa della norma erano stati numerosi. Il nuovo testo dell'art. 125 introdotto dal correttivo prevede ora che il giudice delegato, acquisito il parere favorevole del comitato dei creditori e valutata la ritualità della proposta, ne ordini la comunicazione ai creditori con i pareri del comitato e del curatore. In questo modo al giudice delegato viene attribuito il controllo di legalità sulla proposta, mentre la valutazione sul merito viene riservata al comitato dei creditori, con previsione che, in ragione del carattere rappresentativo del ceto creditorio proprio del comitato, appare ragionevole.

La disciplina dei creditori privilegiati incapienti è del tutto analoga a quella prevista per il concordato preventivo. Anche le maggioranze previste nel caso di concordato con classi sono state regolate in termini corrispondenti ed il cram down è limitato ai casi in cui il creditore dissenziente abbia proposto opposizione.

5. La nuova disciplina delle soglie di fallibilità introdotta dal legislatore del 2006 aveva fatto registrare una drastica riduzione delle procedure aperte, forse al di là delle previsioni del legislatore. I dati risultanti sia dall'indagine compiuta da Il Sole 24Ore sia dai rilievi effettuati dall'Osservatorio Assonime sulle procedure concorsuali indicavano una riduzione del numero dei fallimenti dichiarati variante tra il 30-35% di taluni tribunali e l'80% del tribunale di Napoli. Le diverse cifre si spiegavano con la differente interpretazione del nuovo testo dell'art.1 l.fall. adottata dai giudici. Erano diminuito non soltanto il numero dei fallimenti, ma anche quello delle istanze di fallimento presentate, segno evidente che funzione impropria, di strumento di recupero del credito, che nel tempo le istanze di fallimento erano venute a ricoprire, era, almeno in parte, cessata.

L'intento deflattivo del numero dei fallimenti, a fronte di dati sconfortanti sulla durata e sull'esito in termini di soddisfacimento dei creditori, era stato certamente voluto dal legislatore, ma l'impressione generale era che si fosse andati oltre. Inoltre, come s'è detto, la non felice formulazione dell'art.1 l.fall. da parte del legislatore del 2006 aveva sollevato numerose controversie interpretative, che richiedevano di emendare la legge.

Di qui la scelta del correttivo di riscrivere la norma, abolendo ogni riferimento alla nozione di piccolo imprenditore, rivedendo i requisiti dimensionali previsti per l'esclusione dal fallimento ( ai due esistenti, se n'è aggiunto un altro rappresentato dall'ammontare dei debiti, anche non scaduti), prevedendo che l'onere della prova del possesso congiunto delle soglie di fallibilità gravi sul debitore.

Il legislatore ha risolto, in termini negativi, la questione della residua possibilità di applicare l'art. 2083 c.c. Il nuovo testo dell'art.1 l.fall. previsto dallo schema di decreto correttivo sopprime infatti ogni riferimento all'art. 2083, affermando soltanto che sono soggetti al fallimento e al concordato preventivo gli imprenditori commerciali, esclusi gli enti pubblici. Il secondo comma della norma aggiunge che non sono soggetti al fallimento e al concordato preventivo gli imprenditori che dimostrino il possesso congiunto dei tre requisiti quantitativi costituiti dall'attivo patrimoniale, dai ricavi lordi e dall'ammontare dei debiti, anche non scaduti, non superiore ad euro 500.000.

Con ciò peraltro il legislatore non ha risolto ogni problema perché in forza dell'art. 2221 c.c. sarebbe pur sempre possibile sostenere che sono sottratti al fallimento i piccoli imprenditori che siano tali ai sensi della definizione dettata dall'art. 2083 c.c. Tale soluzione peraltro è certamente inaccettabile alla luce dei lavori preparatori, del testo della legge delega che si proponeva la deflazione dei fallimenti ( impossibile se la tesi in esame fosse fondata) e della stessa ratio del legislatore del correttivo. E' ragionevole ritenere che l'art. 2221 debba ritenersi abrogato per essere stata la materia interamente regolata ex novo.

Non è possibile nei limiti di questo scritto dire altro se non che al requisito degli investimenti, di incerta interpretazione, si è sostituita la nozione di attivo patrimoniale, di assai più semplice lettura, e che l'arco temporale di riferimento per la sussistenza dei requisiti dell'attivo patrimoniale e dei ricavi lordi è stato espressamente indicato negli ultimi tre esercizi. Ancora la previsione del terzo requisito relativo ai debiti risolve la questione se il legislatore ai fini della fallibilità avesse inteso far riferimento alle dimensioni dell'impresa o alle dimensioni dell'insolvenza (dalla prima opzione derivava che in caso di impresa inattiva e quindi priva di investimenti e ricavi, non si sarebbe dovuto far luogo a fallimento, pur in presenza di rilevanti debiti), essendosi ora chiaramente tenuto conto anche di questo requisito.

La previsione che non si faccia luogo a fallimento soltanto quando risulta il possesso congiunto dei tre requisiti dimensionali, relativi all'attivo patrimoniale, ai ricavi lordi e all'ammontare dei debiti, anche non scaduti, dovrebbe comportare una riduzione del novero delle esenzioni e quindi l'attenuazione di quella spinta deflazionistica rispetto alla quale si era detto che si era passato il segno.

La chiara affermazione che l'onere della prova della sussistenza dei requisiti in parola grava sul debitore, risolve la querelle che era sorta subito dopo l'entrata in vigore della riforma, secondo il criterio, costituzionalmente corretto, per cui la prova deve essere data, secondo un criterio di prossimità, da chi è in genere in possesso dei dati e documenti ad essa relativi, e dunque dal debitore e non dal creditore, che può nulla sapere in proposito. Nel contempo la previsione che il tribunale conservi i suoi poteri istruttori d'ufficio evita che l'onere della prova costituisca nulla di più che un'extrema ratio per la decisione, dovendo altrimenti il giudice reperire comunque gli elementi mancanti ai fini dell'istruttoria.

Attribuendo al debitore l'onere di dimostrare la sussistenza dei requisiti quantitativi per l'assoggettabilità a fallimento, il legislatore sembra essersi mosso in una logica che appartiene al passato e di cui è indice l'espressa volontà di non premiare (così la Relazione al correttivo) chi non collabora nel corso dell'istruttoria prefallimentare scegliendo di non difendersi o di non fornire la documentazione contabile necessaria per la verifica della sussistenza dei parametri quantitativi. Il fatto è che l'imprenditore commerciale può avere interesse a fallire per beneficiare dell'esdebitazione o, più semplicemente, per sottrarsi alle azioni esecutive dei creditori o ancora per proporre un concordato. Con la riforma del 2006 il fallimento ha cessato di essere causa d'indegnità e d'incapacità per il fallito; è divenuto una tecnica di liquidazione dell'insolvenza e può rappresentare un risultato appetibile per l'imprenditore e anche per chi non sia imprenditore. Senza arrivare ad immaginare il caso che il fallimento possa essere il risultato del dolo o della collusione delle parti, creditore istante e fallendo, si può pensare che la scelta del debitore di non difendersi possa rispondere all'intento di ottenere l'apertura della procedura concorsuale, anche in difetto dei requisiti dimensionali. Del resto il fallimento può seguire non soltanto all'istanza del creditore o alla richiesta del P.M., ma alla domanda in proprio presentata dal debitore, ai sensi dell'art. 14 l.fall., situazione questa che, non sussistendo un processo di parti, non può certo essere regolata dai principi in tema di onere della prova dettati dall'art. 1.

I requisiti dimensionali costituiscono un limite non soltanto per l'accesso al fallimento, ma anche al concordato preventivo. L'art. 1 infatti stabilisce, al primo comma, che sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori commerciali, esclusi coloro che non superano le soglie stabilite dal secondo comma. Anche in questo caso la previsione dell'onere della prova dei requisiti dimensionali a carico dell'imprenditore ha scarso significato. Colui che presenta la domanda di concordato non ha alcun interesse a fornire elementi che possano indurre il giudice a ritenere che non siano soddisfatti tali requisiti per l'ammissione alla procedura. Per altro verso i requisiti dimensionali non sono posti nell'esclusivo interesse dell'imprenditore. Le soglie sono in funzione della razionalità ed economicità della procedura, per evitare di far luogo a procedimenti inutili perché relativi ad imprese di dimensioni troppo ridotte, che intaserebbero inutilmente gli uffici giudiziari senza vantaggio per i creditori e sarebbero fonte unicamente di costi per la collettività.

6. Il decreto correttivo è intervenuto anche sulla disciplina dell'istruttoria prefallimentare, le cui caratteristiche peraltro rimangono sostanzialmente conformi alle linee dettate dalla riforma del 2006, che già prevedeva che il procedimento si svolgesse davanti al tribunale, in composizione collegiale, secondo il rito camerale. Si stabilisce ora che il tribunale disponga che l'imprenditore depositi, oltre alla situazione patrimoniale, economica e finanziaria aggiornata già prevista dal testo del 2006, i bilanci relativi agli ultimi tre esercizi, e che possa richiedere eventuali informazioni urgenti. Il deposito dei bilanci relativi agli ultimi tre esercizi corrisponde all'obbligo già previsto dall'art.14 a carico dell'imprenditore che chiede il fallimento in proprio e si coordina con il periodo di riferimento per la sussistenza dei requisiti quantitativi di cui all'art. 1 per l'assoggettabilità a fallimento.

L'art. 15 mantiene la previsione che il tribunale possa non soltanto disporre i mezzi di prova richiesti dalle parti, ivi compresa la consulenza tecnica, ma anche possa provvedere.
La sussistenza dei requisiti per la dichiarazione di fallimento è dunque materia sottratta alla disponibilità delle parti, mentre l'onere della prova addossato al debitore rimane un criterio per la definizione dei casi dubbi. Come in passato il tribunale può delegare al giudice relatore l'audizione delle parti e l'esperimento dei mezzi di prova, fermo restando che la decisione è collegiale. A questo proposito era stato sottolineato in dottrina, con riferimento alla riforma del 2006, che il legislatore non aveva coordinato il passaggio dall'istruttoria avanti al relatore alla decisione da parte del tribunale in composizione collegiale, con particolare riferimento alla tutela del diritto di difesa in ordine ai risultati dell'istruttoria esperita. Tale lacuna, peraltro colmabile in via di interpretazione, non è stata colmata.

Il testo del 2006 prevedeva l'obbligo per il tribunale di astenersi dal dichiarare il fallimento qualora l'ammontare dei debiti scaduti e non pagati risultanti dagli atti dell'istruttoria prefallimentare fosse inferiore a venticinquemila euro (ultimo comma dell'art. 15). Il decreto correttivo innalza questo limite a trentamila euro, con scarsa coerenza con il dichiarato proposito di ridurre l'effetto deflazionistico del primo intervento di riforma.

Il termine di non oltre 120 giorni, stabilito con la sentenza dichiarativa di fallimento, entro il quale deve svolgersi l'adunanza dei creditori (termine inutilmente definito perentorio, posto che a tale previsione non può accompagnarsi alcuna sanzione di decadenza), viene elevato a 180 giorni nel caso di particolare complessità della procedura.

Il decreto correttivo ha previsto che la sentenza di fallimento sia comunicata oltre che al debitore anche al pubblico ministero, con ciò migliorando il vecchio testo dell'art.17 l.fall.
Innovazioni più rilevanti sono state introdotte alla disciplina dell'impugnazione della sentenza di fallimento, che è proposta non più con l'appello, ma con il reclamo, per sottolineare il carattere camerale del procedimento, cui non si applica la disciplina del giudizio ordinario di cognizione ( non erano mancati in dottrina interventi diretti ad avvicinare il giudizio per dichiarazione di fallimento a tale ultimo tipo di procedimento). Il legislatore ha dettato regole più precise per lo svolgimento del giudizio di impugnazione, che va proposta con ricorso che deve contenere l'indicazione della corte d'appello competente; le generalità dell'impugnante e l'elezione del domicilio nel comune in cui ha sede la corte d'appello; l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto su cui si basa l'impugnazione, con le relative conclusioni; l'indicazione dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e dei documenti prodotti.

E' stato anche precisato il contenuto dell'atto di costituzione delle parti resistenti, da effettuarsi con memoria contenente l'esposizione delle difese in fatto e in diritto, nonché l'indicazione dei mezzi di prova e dei documenti prodotti. Tutta la disciplina dei termini è stata ridisegnata. Mentre è rimasta sostanzialmente immutata la disciplina dell'udienza avanti la corte d'appello, salva la previsione che il collegio possa delegare un suo componente per l'esperimento dei mezzi di prova (ma non, almeno stando alla lettera della norma, per l'audizione delle parti), è scomparsa la possibilità, prevista dal testo del 2006, che il giudice dell'impugnazione decida con sentenza pronunciata ai sensi dell'art. 281 sexies.

Complessivamente il giudizio che si deve dare su queste innovazioni è positivo, perché il legislatore ha dettato una disciplina più analitica e precisa dello svolgimento del processo, anche per quel che concerne il contenuto dell'atto introduttivo e delle difese delle parti resistenti. Ancorché si tratti di giudizio di impugnazione, non sono previste preclusioni né con riferimento alle conclusioni assunte nel corso dell'istruttoria prefallimentare né con riguardo alle conclusioni e alle domande proposte con il ricorso e con la memoria di costituzione.

7. Venendo ora alla disciplina del fallimento e limitando l'esame agli interventi di maggior rilievo, va detto che il legislatore è intervenuto sulla disciplina degli organi, e sulle competenze del giudice delegato nella liquidazione dell'attivo.

Il legislatore ha cercato di rimuovere, sia pur in parte, le ragioni che rendono poco appetibile la partecipazione al comitato dei creditori, cancellando la norma che parificava la responsabilità dei componenti del comitato a quella dei sindaci attraverso il richiamo all'art. 2407, comma 2, c.c.

Continuano a trovare applicazione il primo ed il terzo comma dell'art.2407, in quanto compatibili. Ne deriva che i membri del comitato debbono adempiere ai propri doveri con la professionalità e la diligenza richieste dalla natura dell'incarico e debbono conservare il segreto sui fatti e sui documenti di cui hanno conoscenza per ragione del loro ufficio. Ciò comporta, alla luce degli studi compiuti sulla responsabilità del collegio sindacale, un rinvio alla nozione di diligenza media nell'espletamento delle proprie funzioni, da valutarsi peraltro secondo il requisito della professionalità. Il terzo comma dell'art. 2409 rinvia agli artt. 2393 - 2395 c.c. che regolano la responsabilità degli amministratori, con norme peraltro che per la maggior parte non possono trovare applicazione, come ad esempio l'art. 2393 bis che regola l'azione di responsabilità della minoranza. Va anzi sottolineato per quanto concerne la legittimazione all'esperimento dell'azione di responsabilità, che l'ultimo comma dell'art. 41 l.fall., nel testo novellato, precisa che durante lo svolgimento della procedura la legittimazione spetta al curatore, con norma che ha carattere speciale rispetto all'art. 2394 bis.

L'inapplicabilità dell'art. 2407, comma 2, comporta che non vale per i membri del comitato dei creditori il principio della responsabilità solidale con i soggetti, in pratica il curatore, sottoposti alla loro vigilanza e controllo ove "il danno non si sarebbe prodotto, se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi della loro carica". In questo modo i creditori istituzionali, in particolare le banche, non dovrebbero più temere di divenire destinatarie di azioni di responsabilità per mala gestio da parte degli altri creditori, ove accettino di far parte del comitato.. E' infatti noto che in molti casi i creditori, in particolare i c.d. creditori istituzionali tra cui le banche, non soltanto non hanno accettato di far parte del comitato, ma addirittura hanno indicato in via preventiva ai tribunali il loro desiderio di non essere mai chiamati a far parte di tale organo. E' peraltro dubbio che l'intervento possa essere decisivo, sia perché la responsabilità dei componenti del comitato é comunque rimasta ai sensi dell'art. 2043 c.c., anche se non espressamente regolata, sia perché la partecipazione al comitato è causa di oneri che non sono compensati che in misura molto modesta dalla previsione di un compenso del tutto eventuale. Non resta che registrare che il legislatore non è stato in grado di trovare soluzioni per rivitalizzare un organo il cui funzionamento lascia adito a forti dubbi.

Va sottolineata la modifica della disciplina dell'art. 37 bis, che assicura che la sostituzione del curatore da parte dell'adunanza dei creditori possa avvenire soltanto al termine delle operazioni di verifica dei crediti ( si è così posto rimedio all'imperfetta formulazione tecnica della norma) e che il tribunale possa aderire o meno alla proposta di sostituzione. Si evita in questo modo che il curatore, come alcuni avevano osservato, potesse divenire ostaggio di maggioranze ostili in seno al ceto creditorio, soprattutto ove intendesse esperire azioni revocatorie e risarcitorie nei confronti di creditori titolari di ingenti crediti.

Il legislatore è anche intervenuto sull'art. 41, quarto comma, l.fall. chiarendo che il potere di sostituzione del giudice delegato al comitato dei creditori si esercita non soltanto in caso di inerzia, di impossibilità di funzionamento del comitato o di urgenza, ma anche di impossibilità di costituzione, in contrasto con l'interpretazione proposta da taluni secondo i quali in questi casi il giudice delegato avrebbe goduto del potere di nomina coattiva dei componenti del comitato. I dubbi, già segnalati, sulle concrete possibilità di funzionamento dell'organo, rendono opportuno quest'intervento. E' probabile, infatti, che in molte procedure il giudice delegato dovrà sostituirsi ad un comitato dei creditori assente o riottoso.

Come si è accennato, il decreto correttivo è intervenuto sui poteri del giudice delegato e sui rapporti tra giudice delegato e comitato dei creditori. Ha accentuato i poteri del comitato dei creditori, prevedendo che ad esso spetti l'approvazione del programma di liquidazione, che deve essere soltanto comunicato al giudice delegato perché autorizzi gli atti ad esso conformi. Tale modifica peraltro sembra derogare a quanto previsto dall'art. 1, comma 6, lett. a), n. 10, della legge delega, che espressamente richiede l'autorizzazione del giudice delegato.

La necessità di un'autorizzazione espressa di ogni atto di esecuzione del programma di liquidazione appare inoltre un inutile appesantimento burocratico che va contro quella che era un'apprezzabile tendenza della riforma: rimuovere le formalità non indispensabili al controllo ed attribuire finalmente al curatore autonomia gestionale.

Il decreto correttivo precisa che il programma costituisce l'atto di pianificazione e di indirizzo in ordine alle modalità e ai termini previsti per la realizzazione dell'attivo. Ciò sta probabilmente a significare, in un con la previsione di autorizzazioni dei singoli atti da parte del giudice delegato, che il programma ha assunto una funzione di atto quadro, privo nella maggior parte dei casi di immediata efficacia applicativa. Le concrete modalità della liquidazione verranno specificate in seguito, mano a mano che sia possibile uscire dal generico e pervenire a soluzioni concrete. Con ciò il legislatore sembra aver riconosciuto che in molti casi la redazione del programma di liquidazione, dettagliato ed analitico, a soli sessanta giorni dall'inventario, poteva apparire velleitaria, ma se ciò è vero uno dei tratti più rilevanti della riforma ne esce svilito e ridimensionato.

Un'altra innovazione introdotta dal decreto correttivo dispone ( art.107 l.fall.) che il curatore può prevedere nel programma di liquidazione che le vendite dei beni mobili, immobili e mobili registrati vengano effettuate dal giudice delegato secondo le disposizioni del codice di procedura civile in quanto compatibili. Anche in questo caso si torna al passato. In luogo della libertà di forme della liquidazione prevista dalla riforma, si richiama la vendita con incanto o senza incanto, secondo formalità rigide, che l'esperienza ha dimostrato essere scarsamente efficaci sia dal punto di vista delle garanzie sia dal punto di vista dell'idoneità ad ottenere risultati apprezzabili in ordine al prezzo raggiungibile. Ed è il curatore ad obbligare il giudice a seguire queste forme di vendita, pur se il giudice deve autorizzare gli atti di esecuzione del programma di liquidazione e pur se il giudice ha la vigilanza sulla procedura. Non vi è nessuna possibilità per il giudice di sottrarsi a scelte che possono essere palesemente in contrasto con le esigenze di efficienza dell'ufficio giudiziario, in una prospettiva più ampia di quella della singola procedura.

Il decreto correttivo è intervenuto anche sulla disciplina del riparto dell'attivo e della chiusura del fallimento. Per quanto concerne il primo argomento l'art.110, in coerenza con la già ricordata modifica dell'art. 52 l.fall., stabilisce che nel progetto di riparto sono collocati anche i crediti per i quali non si applica il divieto di azioni esecutive e cautelari di cui all'articolo 51.

Una delle critiche mosse unanimemente alla disciplina dettata dalla riforma del 2006 riguardava il deposito del progetto di riparto che doveva essere disposto dal giudice delegato dopo aver sentito il comitato dei creditori. Contro il progetto i creditori potevano proporre opposizione al tribunale nelle forme del reclamo ex art.26 l.fall. Si era osservato che mal si comprendeva a che servisse il parere del comitato dei creditori, se poi il giudice delegato non aveva il potere di modificare il progetto e ne doveva disporre il deposito in cancelleria. Ed ancora si era rilevato che non era chiaro perché il deposito non potesse essere effettuato direttamente dal curatore, che predisponeva il progetto di riparto, se il giudice delegato, oltre a non poter modificare il progetto, non era neppure competente a decidere i reclami dei creditori.

Il decreto correttivo ha modificato l'art. 110, abolendo il parere del comitato dei creditori e prevedendo che il reclamo sia proposto direttamente al giudice delegato e quindi nelle forme dell'art.36 l.fall. e non dell'art. 26, trattandosi di reclamo contro un atto del curatore, posto che il deposito in cancelleria da parte del giudice delegato costituisce atto dovuto. Continua invece ad essere escluso, contrariamente a quanto disponeva la legge fallimentare del 1942, che il giudice delegato possa modificare motu proprio il progetto di riparto, possibilità che in passato si è rivelata assai utile per ovviare ad errori e sviste del curatore, ma che oggi appare inattuabile nel momento in cui si è scelto di ridurre i poteri del giudice, subordinando il suo intervento all'impugnazione della parte.

Anche la disciplina dettata dall'art.111 l.fall. per i crediti prededucibili è stata modificata, ma si tratta di interventi di scarso rilievo, diretti a migliorare la formulazione della norma. Così si è precisato che il soddisfacimento dei crediti prededucibili deve essere effettuato non più secondo un criterio proporzionale, come aveva affermato il legislatore del 2006, ma nel rispetto delle cause di prelazione, essendo evidente che per i crediti non assistiti da cause di prelazione dovrà provvedersi al pagamento in proporzione ove non vi sia capienza per l'intero ammontare, come del resto stabilisce l'art. 111, ultimo comma.

Ancora si è soppresso il secondo comma dell'art. 111 che avvertiva che i crediti prededucibili sorti dopo l'udienza di verificazione dello stato passivo dovevano essere accertati nelle forme previste per i crediti tardivi, essendo evidente che non sarebbe possibile altra forma di insinuazione. Infine si è previsto che il pagamento diretto dei crediti prededucibili non contestati, quando vi sia attivo sufficiente per il pagamento di tutti i crediti, possa essere disposto dal comitato dei creditori o dal giudice delegato indifferentemente, abolendo la diversa competenza a seconda che il valore fosse o meno inferiore ai 25.000 euro e la possibilità di aggiornamento di tale valore con decreto ministeriale.

Opportuna anche la precisazione nell'art.115 l.fall. che in caso di surrogazione di un creditore ad altro creditore, ad esempio il fideiussore che ha pagato, non occorre nuova insinuazione al passivo, così come il legislatore del 2006 aveva già previsto nel caso di cessione del credito in favore del cessionario.

Per quanto attiene alla chiusura merita approvazione la precisazione da parte del correttivo che il curatore deve chiedere la cancellazione della società fallita dal registro delle imprese soltanto nel caso di chiusura del fallimento per insufficienza di attivo o per avvenuta ripartizione dell'attivo ( art. 118 nn. 3 e 4 l.fall.), perché negli altri casi di chiusura per mancanza di passivo o per avvenuto soddisfacimento integrale dei creditori possono residuare attività, sì che la società tornata in bonis deve avere la possibilità di riprendere l'attività o di proseguire la liquidazione nelle forme ordinarie. Va poi ricordata la modifica dell'art. 119 con una più completa disciplina dei termini per il ricorso per cassazione contro il provvedimento che decide il reclamo avverso il decreto di chiusura.

8. Per quanto concerne le azioni revocatorie la riforma attuata soprattutto con il D.L. 35/2005 ha ridotto drasticamente la portata della vecchia disciplina dettata dalla legge del 1942, riducendo alla metà il periodo sospetto ed introducendo un rilevante numero di ipotesi di esenzione.

E' stato osservato che la riduzione del periodo sospetto, pur coerente con la disciplina vigente nella maggior parte dei Paesi industrializzati e dunque indispensabile per evitare o ridurre i fenomeni di forum shopping, mal si accordava con i tempi lunghi dell'istruttoria prefallimentare secondo le prassi vigenti nella maggior parte dei nostri tribunali. Sul punto il decreto correttivo, tace. Esso opera modesti interventi sulla disciplina delle esenzioni da revocatoria, in tema di vendite di immobili ad uso abitativo, ed in tema di conseguenze dell'inefficacia dell'atto oggetto di revoca, che la riforma del 2006 ha limitato al massimo scoperto. A quest'ultimo proposito si è previsto che il soggetto revocato sia tenuto alla restituzione del percetto nei limiti del massimo scoperto non soltanto nei casi di atti estintivi di rapporti continuativi o reiterati, come già stabiliva la riforma del 2006, ma anche quando sia questione di "posizioni passive derivanti da rapporti di conto corrente bancario", evidentemente per il caso in cui tali posizioni passive non derivino da rapporti continuativi o reiterati. Si tratta di un caso abbastanza raro, che forse non giustificava l'intervento legislativo perché la limitazione della somma da rigurgitare al massimo scoperto presuppone un rapporto di concessione di credito perdurante nel tempo. Soltanto in questo caso, infatti, può accadere che la somma restituita dal debitore possa, guardando soltanto alla natura solutoria dell'atto, essere superiore all'ammontare di credito che il finanziatore ha inteso mettere a disposizione del sovvenuto.

Il legislatore non ha invece preso posizione sulla possibilità di applicare la nuova disciplina del massimo scoperto prevista dall'art.70 l.fall. alle azioni revocatorie vecchio rito, promosse in fallimenti ancora disciplinati dalla legge del 1942. Alcuni giudici di merito nei mesi passati si erano espressi in senso affermativo, anche se con soluzioni discutibili sul piano tecnico, che però davano la possibilità di arrivare ad una più sollecita definizione dei contenziosi pendenti, aprendo la strada a soluzioni transattive. L'eventuale percorribilità di queste soluzioni è ora interamente rimessa alla giurisprudenza.

Si è persa l'occasione per una riscrittura delle ipotesi di esenzione previste dal terzo comma dell'art. 67, prima tra tutte quella di cui alla lettera a), che per unanime riconoscimento dei commentatori, è piuttosto carente sul piano tecnico.

Un posto a sé occupa la modifica della disciplina dei piani attestati ( art. 67, comma 3, lett. d) ove, in coerenza con quanto previsto per la relazione dell'esperto sul piano nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione, si prevede che la relazione sia redatta da un revisore dei conti, in possesso dei requisiti per la nomina a curatore.

9. In tema di accertamento del passivo va anzitutto segnalata la modifica dell'art. 52 l.fall., con la previsione che anche i crediti che godono dell'esenzione dal divieto di azioni esecutive in caso di fallimento debbono essere accertati nelle forme proprie del rito concorsuale. Tra i crediti che godono del beneficio dell'esenzione vanno ricordati i crediti bancari che trovano titolo in un contratto di mutuo fondiario garantito da ipoteca di primo grado nonché i crediti garantiti da privilegio pignoratizio ex art. 53 l.fall. Con ciò si chiarisce quanto già sostenuto in passato dalla giurisprudenza e cioè che l'esenzione dal divieto di azioni esecutive costituisce soltanto un privilegio di carattere processuale e non esime dall'obbligo del concorso.

Il legislatore ha modificato il testo degli artt. 93 e 96 l.fall. per escludere che il giudice delegato debba provvedere, in sede di ammissione del credito, anche alla graduazione. E' prevalsa in proposito l'opinione, conforme all'orientamento della giurisprudenza, che alla graduazione debba procedersi soltanto al momento della formazione del piano di riparto.

Il legislatore del 2006 aveva previsto con l'art. 93, comma 7 l.fall., che i creditori potessero depositare i documenti non presentati con la domanda d'insinuazione almeno quindici giorni prima dell'udienza di verifica, mentre l'art. 95 l.f. stabiliva che il curatore dovesse depositare il progetto di stato passivo nello stesso termine. Ciò comportava che il curatore dovesse formare il progetto senza tener conto di documenti depositati in termini, ma troppo tardi perché egli ne potesse tener conto, con la necessità di rimediare in sede di verifica.

La questione è stata affrontata e risolta dal decreto correttivo, che ha abrogato l'art. 93, comma 7. L'art. 95, comma 2, prevede ora che i creditori possono esaminare il progetto di stato passivo redatto dal curatore e presentare osservazioni scritte e documenti integrativi fino all'udienza. Il risultato è che il giudice delegato, quando i documenti siano presentati all'udienza, non potrà che rinviare la verifica a data successiva. In questo modo si perpetuano i difetti del vecchio sistema previsto dalla legge del 1942. La soluzione corretta era la riscrittura dei termini, in modo che il termine di deposito dei documenti per i creditori scadesse prima del termine per il curatore per la redazione del progetto di stato passivo. E' anche scomparsa la previsione che il curatore desse avviso ai creditori ed al fallito dell'avvenuto deposito delle sue osservazioni, soppressione che può essere condivisa posto che il deposito delle osservazioni costituisce per il curatore atto dovuto, da effettuarsi in un termine stabilito dalla legge, sì che i creditori ed il fallito non hanno che da verificare in cancelleria il contenuto delle osservazioni del curatore.

Ulteriori modifiche riguardano il contenuto del provvedimento del giudice delegato che deve essere succintamente motivato in tutti i casi e non soltanto nell'ipotesi di contestazione del credito da parte del curatore, come prevedeva la disciplina del 2006. E' stata inoltre soppressa la previsione che l'inammissibilità della domanda non ne precludesse la successiva riproposizione. Può peraltro quantomeno dubitarsi che se ne debba ricavare che la riproposizione della domanda sia effettivamente inammissibile, posto che essa potrà essere ripresentata nelle forme della domanda tardiva.

Il legislatore ha riscritto la disciplina del giudizio di impugnazione dello stato passivo ( opposizione, impugnazione dei crediti ammessi, revocazione). Da un lato si è tenuto conto della natura camerale del procedimento, che pertanto si chiude con una decisione nella forma del decreto motivato ( art. 99, penultimo comma). Dall'altro si è regolato il procedimento in forme analoghe a quelle del rito del lavoro, prevedendo non soltanto, come in passato, che nel ricorso debba essere precisato il petitum e debbano essere anche esposti i motivi di fatto ovvero diritto sui quali si fonda la domanda, ma anche, sotto comminatoria di decadenza, che debbano essere indicati in ricorso i mezzi di prova nonché debbano essere sollevate le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d'ufficio.

Analogamente la costituzione del convenuto deve avvenire con memoria da depositarsi in cancelleria entro dieci giorni dall'udienza. Memoria in cui a pena di decadenza debbono essere sollevate le eccezioni processuali ovvero di merito non rilevabili d'ufficio e debbono essere pure indicate le prove documentali e quelle costituende.

Oltre ad una più completa disciplina dei termini, si è previsto che il presidente del tribunale, con il decreto di fissazione dell'udienza possa delegare ad uno dei componenti la trattazione del procedimento e non più, come nella disciplina del 2006, la sola assunzione dei mezzi di prova, anche se la decisione rimane collegiale (art. 96, penultimo comma).

Non è possibile procedere in questa sede ad un commento più preciso e dettagliato. Va detto che le innovazioni introdotte meritano approvazione, soprattutto per quanto concerne la più completa regolamentazione del contenuto delle difese delle parti e del regime delle decadenze, secondo un modello, quello del rito del lavoro, collaudato. Anche la delega della trattazione del giudizio e non soltanto dell'assunzione delle prove ad un componente del collegio pare innovazione positiva.

10. La disciplina dei rapporti pendenti è stata oggetto di molteplici modifiche, che peraltro per lo più non innovano realmente la materia, ma si traducono in una riscrittura delle norme o in una loro migliore collocazione sistematica. Così il legislatore ha provveduto negli artt. 72 e 72 bis a sopprimere commi che erano stati ripetuti in entrambe le norme. Nel primo comma dell'art. 72 si è affermato il principio, assolutamente pacifico ed indiscusso, che il contratto traslativo si considera ineseguito sino a quando non si è verificato l'effetto reale. Nel quarto comma si è detto che al contraente in bonis non spetta risarcimento del danno per l'intervenuto scioglimento del contratto, altro principio questo assolutamente pacifico, che il legislatore del 2006 aveva inopportunamente soppresso. L'art. 72, ottavo comma, stabilisce poi a completamento della tutela degli acquirenti di immobili urbani, che la disciplina dettata dall'art. 72 non si applica al contratto preliminare immobiliare trascritto ai sensi dell'art. 2645 c.c., quando abbia ad oggetto una casa di abitazione. Nell'art. 72 bis oltre alle modifiche cui si è già accennato, il legislatore ha soppresso i riferimenti alla nozione di crisi d'impresa relativamente alla disciplina della vendita degli immobili da costruire. La modifica non ha contenuto sostanziale perché il nuovo testo regola lo scioglimento dei contratti di cui all'art. 5 del d.lgs. 20 giugno 2005, n. 122, che disciplina appunto le sorti dei contratti relativi agli immobili da costruire e detta la nozione di stato di crisi.

Nell'art. 72 quater, relativo alla disciplina del contratto di leasing, si è precisato che l'obbligo del concedente di versare al curatore l'eventuale differenza tra il ricavato della vendita del bene in leasing e il credito residuo in linea capitale, si riferisce alla vendita avvenuta a valori di mercato.

Nell'art. 73 si è precisato che la disciplina della vendita a rate si applica soltanto nel caso in cui il contratto sia stato stipulato con la clausola di riservato dominio e quindi la proprietà non sia ancora passata al compratore. In difetto l'obbligo del compratore nel caso in cui il curatore si sciolga dal contratto di restituire le rate riscosse detratto l'equo compenso per l'uso della cosa, non si giustificherebbe.

Nell'art. 74 si è affermato il principio che se il curatore subentra in un contratto ad esecuzione continuata o periodica deve pagare integralmente il prezzo anche delle consegne già avvenute o dei servizi già erogati, principio che la precedente disciplina riferiva alla vendita a consegne ripartite ed alla somministrazione. Per il resto il fallimento comporta la sospensione del contratto e rimette al curatore la scelta di subentrare nel contratto in luogo del fallito, previa autorizzazione del comitato dei creditori, ovvero di sciogliersi dal medesimo. Rimane fermo che il creditore può mettere in mora il curatore, facendogli assegnare dal giudice delegato un termine non superiore ad otto giorni, decorso il quale il contratto si intende sciolto.

Va peraltro ricordato che ai sensi dell'art. 104, comma 7, l.fall., quando sia stato disposto l'esercizio provvisorio dell'impresa, il contratto prosegue, senza necessità di autorizzazione del comitato dei creditori, salvo che il curatore non intenda sospenderne l'esecuzione o scioglierlo.

L'art. 79 contiene ora il testo del precedente art. 80 bis, riprodotto senza modifiche. Il vecchio testo dell'art. 79 è ora contenuto nell'art. 103, che regola la materia del credito dell'avente diritto per le cose che erano nel possesso del fallito a titolo precario, sia pur con diversa formulazione letterale.

Nell'art. 80, relativo alla locazione di immobili, il correttivo ha previsto la facoltà del curatore, nel caso di fallimento del locatore, ove il contratto abbia durata superiore a quattro anni e siano decorsi quattro anni dalla dichiarazione di fallimento, di recedere dal contratto entro un anno dalla dichiarazione di fallimento corrispondendo un equo indennizzo che, nel dissenso delle parti, è determinato dal giudice delegato. In questo modo il legislatore ha tenuto conto della possibilità che per il fallimento sia più vantaggioso vendere l'immobile locato libero, piuttosto che continuare a percepire il canone. Per il resto la disciplina è rimasta sostanzialmente immutata rispetto a quanto stabilito dalla riforma del 2006.

11. Non è possibile in questa sede soffermarsi più di quanto già si sia fatto sulle innovazioni introdotte dal decreto correttivo sulla disciplina processuale.

Va però almeno segnalato che una delle critiche più pesanti mosse dai commentatori alla riforma del 2006 riguardava la disciplina del processo. Il legislatore aveva previsto numerosi riti, tutti caratterizzati dal ricorso alla disciplina camerale, ma tutti diversi. Era stato rilevato che, oltre all'eccesso di riti, che si traduceva in un'obiettiva difficoltà per gli operatori e nel rischio concreto di dar luogo a nullità, il legislatore aveva dettato una disciplina incompleta. La critica più decisa aveva riguardato l'art. 24, comma secondo, l.fall. che nel testo riformato prevedeva che a tutte le controversie derivanti dal fallimento si applicasse il rito camerale, con il risultato che una causa per il fatto solo di essere proposta dal fallimento, fosse soggetta ad un rito diverso da quello che le sarebbe stato altrimenti proprio, un rito non regolato se non in termini largamente incompleti dal legislatore, con evidenti violazioni del principio di uguaglianza, del diritto di difesa e della razionalità dell'intervento legislativo.

Il decreto correttivo è ampiamente intervenuto, abrogando l'art. 24, comma 2, e prevedendo una disciplina più completa non soltanto per l'istruttoria prefallimentare (in cui all'appello, come si è visto, è stato sostituito il reclamo) e per le impugnazioni dello stato passivo, ma anche per il reclamo contro gli atti del giudice delegato ex art.26 l.fall. e per il reclamo contro il provvedimento del tribunale in sede di omologazione del concordato fallimentare.

Si tratta di interventi che meritano approvazione, soprattutto per la maggior cura con cui il legislatore ha indicato il contenuto del ricorso introduttivo e lo svolgimento del procedimento. Permangono carenze tecniche e risulta inspiegabile perché non si sia regolato in modo uniforme il reclamo contro gli atti del giudice delegato ed il reclamo contro gli atti del curatore e del comitato dei creditori, che continua ad essere disciplinato dall'art.36 l.fall. in termini sintetici ed insoddisfacenti, anche se dopo la riforma gli atti del comitato dei creditori hanno assunto importanza centrale nell'ambito del procedimento.

12. Il decreto correttivo è intervenuto anche sulla disciplina delle incapacità che derivano al fallito dalla dichiarazione di fallimento e dell'esdebitazione.

Per quanto concerne il primo tema va osservato che dopo la riforma del 2006 si era osservato che il legislatore non era intervenuto espressamente su tutte le incapacità previste a carico del fallito da leggi speciali, incapacità ormai contrarie alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo secondo la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, ma non espressamente abrogate.

In proposito ora l'art. 120 stabilisce espressamente che con la chiusura del fallimento cessano gli effetti del fallimento sul patrimonio del fallito e le conseguenti incapacità personali. Può ritenersi tuttavia dubbio che con questa formulazione, che fa riferimento alle incapacità connesse allo spossessamento fallimentare, vengano meno tutte le incapacità previste dalle leggi speciali, incapacità che sovente non sono collegate all'iscrizione nel pubblico registro dei falliti, abrogato dalla riforma del 2006. Tale non è però l'opinione del legislatore del correttivo. La Relazione governativa afferma infatti che tutte le incapacità del fallito cessano con la chiusura.

Tuttavia il legislatore con l'art. 21 del decreto correttivo ha abrogato a far tempo dall'entrata in vigore della riforma e quindi dal 1 gennaio 2008 gli artt. a) art. 3, comma 1, lett. q; 5, comma 2, lett. i; 24, comma 1, lett. n; 25, comma 1, lett. n; 26, comma 1, lett. b del D.P.R. 14 novembre 2002, n. 313, che prevedevano l'iscrizione nel casellario giudiziale della dichiarazione di fallimento. Sino al 1 gennaio gli effetti della riabilitazione, già prevista dalla disciplina del 1942 e soppressa dalla riforma del 2006, seguono alla chiusura del fallimento.

Il legislatore ha anche previsto con l'art. 20 del correttivo l'abrogazione della lett. a) dell'art. 5, comma 2, del D.lgs. 31.3.1998, n. 114, che vietava l'iscrizione dei soggetti dichiarati falliti nel registro delle imprese sino alla pronuncia della sentenza di riabilitazione. Con ciò, afferma la Relazione governativa, sarà possibile iscrivere nel registro delle imprese il fallito quale titolare di nuova impresa commerciale, distinta da quella assoggettata a fallimento. Sarebbero inoltre superate le problematiche relative alla soppressione del giudizio di riabilitazione previsto dalla legge del 1942.

Anche questa conclusione lascia perplessi. Se è indubbio che, già nel vigore della legge del 1942, si era sottolineato che la disciplina fallimentare non conteneva un espresso divieto per il fallito di svolgere attività commerciale e che le norme in tema di spossessamento costituivano un ostacolo pratico, ma non un impedimento sul piano teorico, va osservato che l'abrogazione da parte della riforma del 2006 dell'istituto della riabilitazione, ha rilevanti conseguenze per tutti coloro che sono stati dichiarati falliti prima dell'entrata in vigore della nuova disciplina. A prescindere dalla questione, cui si è già accennato, se la chiusura del fallimento comporti il venir meno di tutte le incapacità personali connesse allo status di fallito, è sufficiente ricordare che l'art.241 l.fall. prevedeva la riabilitazione come causa di estinzione del reato di bancarotta semplice. L'abrogazione dell'istituto comporta che non sia più possibile nei vecchi fallimenti chiedere la riabilitazione e beneficiare della causa di estinzione del reato, salvo ritenere che l'art. 241 abbia valore di norma di diritto penale sostanziale, cui si applica la disciplina dettata dall'art. 2 c.p. in tema di successione di leggi penali nel tempo e che pertanto sia possibile tuttora chiedere al tribunale di pronunciare per i vecchi fallimenti la riabilitazione secondo la disciplina previgente. Tale tesi peraltro implica un'evidente forzatura perché le norme che disciplinavano il procedimento di riabilitazione nella legge del 1942 avevano sicuramente carattere processuale.

Per quanto concerne, il decreto correttivo è intervenuto sulla nuova disciplina dettata dalla riforma del 2006. Le modifiche riguardano anzitutto i crediti esclusi dall'esdebitazione. La riforma del 2006 prevedeva che rimanessero al di fuori dell'esdebitazione soltanto i debiti derivanti da rapporti di "natura strettamente personale". Si stabilisce ora che l'ex fallito rimanga vincolato per tutti i debiti "estranei all'esercizio dell'impresa", formula che riduce i vantaggi derivanti dal beneficio e che si presta a problemi interpretativi ( le obbligazioni derivanti da una fideiussione prestata a favore di una società terza sono o meno estranee all'esercizio dell'impresa?).

Un'ulteriore modifica ha semplificato la disciplina introdotta nel 2006. L'art.144 l.fall. prevedeva che l'esdebitazione producesse effetti anche nei confronti dei creditori che non si erano insinuati al passivo, stabilendo che essa operasse per la sola eccedenza rispetto a quanto essi avrebbero avuto diritto di percepire nel concorso. La formula usata dal legislatore dava luogo alla necessità di calcolare per ciascun creditore quale percentuale del credito sarebbe stata soddisfatta ove il creditore si fosse insinuato, con un calcolo non sempre agevole. Ora il legislatore ha previsto, più semplicemente, che i creditori non insinuati vedono cancellato il loro credito dall'esdebitazione per la parte eccedente la percentuale attribuita nel concorso ai creditori di pari grado.

Il decreto correttivo ha ancora previsto, nell'ambito della disciplina transitoria, che l'esdebitazione si applichi anche ai fallimenti dichiarati prima del 16 luglio 2006 e che in tal caso, ove il fallimento risulti chiuso, la domanda possa essere presentata entro un anno dalla data di entrata in vigore del decreto. L'art. 22 con norma sostanzialmente ripetitiva, ha precisato che la disciplina in parola si applica ai fallimenti pendenti alla data di entrata in vigore del d.lgs. 5/2006, aperti o chiusi alla data di entrata in vigore del decreto correttivo. E' stato accolto l'orientamento espresso da una parte della giurisprudenza, che tuttavia non aveva adeguato fondamento nella disciplina pregressa. Va sottolineato che la norma creerà difficoltà di carattere pratico perché è ragionevole ritenere che i tribunali saranno invasi da un numero notevolissimo di domande, il cui smaltimento sarà di difficile soluzione.

13. Omettiamo, per brevità, di soffermarci sulle norme che sono parzialmente intervenute sulla disciplina della liquidazione coatta amministrativa. Per quanto concerne invece la disciplina transitoria, il legislatore con l'art. 22 del decreto correttivo ha stabilito che la nuova disciplina entra in vigore il 1 gennaio 2008. Ne deriva che sino a tale data continua a trovare applicazione la normativa dettata dal d.lgs. 9.1.2006, n. 5. La scelta del legislatore di posticipare l'entrata in vigore della nuova disciplina non è facilmente comprensibile. Molte delle disposizioni del decreto correttivo chiariscono e riformulano, migliorandolo, il testo delle norme introdotte dalla riforma entrata in vigore a luglio 2006. Sarebbe pertanto stato opportuno evitare che ancora per qualche mese si dovesse far luogo all'applicazione di disposizioni che hanno dato cattiva prova, come, ad esempio il testo dell'art. 1 sulle soglie di fallibilità nella vecchia formulazione.

L'art.22 ha poi cura di precisare che le nuove disposizioni si applicano ai procedimenti per dichiarazione di fallimento pendenti alla data di entrata in vigore. Ne deriva che, eccezion fatta per le situazioni esaurite ( ad esempio un atto istruttorio già esperito) le nuove norme dovranno essere applicate ai procedimenti per dichiarazione di fallimento in corso, secondo il principio tempus regit actum.

L'art. 22 dispone ancora che la nuova disciplina si applica alle procedure concorsuali e di concordato fallimentare aperte successivamente alla sua entrata in vigore. Ne deriva che i fallimenti dichiarati dopo l'entrata in vigore della legge saranno regolati dalla nuova normativa, mentre quelli dichiarati prima saranno ancora retti dalla disciplina legislativa stabilita dal d.lgs. 5/2006. Per quanto concerne le procedure di concordato fallimentare dovrà guardarsi alla data di presentazione della domanda di concordato. Anche in questo caso si è persa l'occasione di rendere immediatamente applicabili le nuove norme ai fallimenti dichiarati dopo il 16 luglio 2006, procedure che presumibilmente dureranno ancora alcuni anni, evitando i problemi interpretativi che il testo approvato nel 2006 aveva sollevato.

Per alcune norme il legislatore ha invece previsto che esse si applichino anche alle procedure concorsuali pendenti, ove l'espressione impiegata deve sostanzialmente ritenersi riferita ai fallimenti pendenti alla data di entrata in vigore del decreto correttivo. Si tratta degli artt. 7, comma 6, 18 comma 5 e 20 del decreto correttivo, vale a dire delle norme che modificano la disciplina delle vendite ( art.107 l.fall.), che regolano ex novo la materia del concordato nel caso di liquidazione coatta amministrativa, che abrogano l'art. 5, comma 2, lett. a) del d. lgs. 31 marzo 1998, n. 114, consentendo al fallito l'iscrizione nel registro delle imprese per lo svolgimento di nuova attività.

Infine, come si è già detto, l'art. 19, che regola l'esdebitazione nel caso dei vecchi fallimenti, si applica ai fallimenti pendenti alla data di entrata in vigore del D.lgs. 5.1.2006, n. 5, che siano pendenti o chiusi alla data di entrata in vigore del decreto correttivo.

L'art. 150 D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, conteneva una disposizione transitoria in cui veniva detto: "I ricorsi per dichiarazione di fallimento e le domande di concordato fallimentare depositate prima dell'entrata in vigore del presente decreto, nonché le procedure di fallimento e di concordato fallimentare pendenti alla stessa data, sono definiti secondo la legge anteriore". L'interpretazione di questa norma aveva sollevato molte discussioni in dottrina e giurisprudenza. Secondo una prima tesi l'intera procedura fallimentare avrebbe dovuto essere regolata dalla vecchia normativa, anche in caso di domanda presentata prima della data del 16 luglio 2006, cioè dell'entrata in vigore del d.lgs. 5/2006, in virtù dell'unitarietà della procedura e per esigenze di certezza del diritto; secondo altro orientamento, invece, si riteneva applicabile la nuova disciplina a tutti i fallimenti dichiarati dopo tale data, al fine di evitare disparità di trattamento tra soggetti dichiarati falliti prima del 16 luglio e soggetti dichiarati falliti dopo la stessa data. Lo schema di decreto correttivo approvato dal Governo a giugno di quest'anno conteneva una norma di interpretazione autentica della disciplina transitoria che prevedeva che ai fallimenti dichiarati o riaperti con sentenza successiva al 15 luglio 2006 ed alle domande di concordato fallimentare presentate a partire dalla data del 16 luglio 2006 si applicassero le norme del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5. Tale norma di interpretazione autentica è però scomparsa dal testo definitivo del decreto correttivo, con il risultato che la controversia interpretativa sul contenuto dell'art. 150 rimane irrisolta.

Con ciò peraltro il legislatore non ha potuto evitare che allo stato l'interprete si trovi di fronte a tre diverse discipline applicabili ratione temporis: la legge del 1942 che riguarda i fallimenti dichiarati prima dell'entrata in vigore del d.lgs. 5 gennaio 2006, n. 5 ( ma che per talune parti, come ad esempio in materia di concordato preventivo e di revocatoria fallimentare, era già stata modificata dal D.l. 35/2005 convertito in legge 80/2005), la disciplina entrata in vigore il 16 luglio 2006, la nuova disciplina introdotta dal decreto correttivo a far tempo dal 1 gennaio 2008. Forse non era possibile evitare del tutto questa situazione, ma certo sarebbe stato opportuno intervenire in modo da attenuarne le conseguenze.

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Autore: Dott. Luciano Panzani, Consigliere di Corte di Cassazione. Da "Il Quotidiano Giuridico" 11/09/2007