Convenzioni patrimoniali
fra conviventi more uxorio

 

Il nostro ordinamento disciplina espressamente la sola famiglia legittima, cioè quella fondata sul matrimonio; ed infatti, l'art. 29, primo comma, Cost. riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, ed il Codice civile, agli artt. 143 e ss., ne regola i vari ed importanti aspetti.

Tuttavia, il costume tende a riconoscere il fenomeno della c.d. famiglia di fatto; si tratta di una stabile convivenza di un uomo e di una donna, indipendentemente dal matrimonio. La convivenza more uxorio è considerata una realtà sociale che si è oggi andata affermando positivamente con l'evoluzione dei costumi e dei rapporti sociali.

Due sono i suoi elementi costitutivi: uno di carattere soggettivo, consistente nell'affectio, vale a dire nella partecipazione di ognuno dei due partners alla vita dell'altro; l'altro di carattere oggettivo, che è costituito dalla stabile convivenza, cioè da un impegno serio e duraturo.

Si è discusso anzitutto se sia ammissibile nel nostro ordinamento la figura della famiglia di fatto, posto che l'art. 29 Cost. riguarda esclusivamente la famiglia legittima fondata sul matrimonio. Nonostante le varie concezioni in merito, l'orientamento maggioritario (Bianca, Perlingieri, Falzea, Bessone) ritiene che le limitazioni, derivanti dal riconoscimento costituzionale alla sola famiglia legittima, non possono essere intese come un segno di "negazione dei vincoli non formalizzati" (Bonilini-Cattaneo); infatti, se la funzione dell'art. 29 Cost. è quella di accordare preminenza e garanzia costituzionale alla famiglia legittima, tale preminenza non esclude, tuttavia, un riconoscimento, sia pure di minore rilievo, della famiglia non fondata sul matrimonio (Balestra). Dottrina e giurisprudenza rinvengono nell'art. 2 Cost. la norma che dà rilevanza e dignità costituzionale alla famiglia di fatto, la quale svolgerebbe, sia nel rapporto di coppia sia in quello genitori-figli, una funzione di socializzazione della persona; è chiaro, infatti, che anche a coloro che convivono senza essere coniugati spettano i diritti inviolabili, attraverso i quali si può esprimere la personalità dell'uomo (Bonilini-Cattaneo).

Secondo un certo orientamento dottrinale (Segreto) la tutela costituzionale riconosciuta alla famiglia di fatto sarebbe rinvenibile anche nell'art. 30, primo comma, Cost., nella parte in cui si parifica, in relazione all'identità di funzioni, il rapporto tra genitore e figlio legittimo e quello tra genitore e figlio naturale, assegnando ad essi identità di contenuto, di diritti e di doveri. Di contro però, c'è chi afferma (Gazzoni) che il fatto di attribuire rilevanza giuridica alla filiazione naturale, anche alla luce della lettura dell'art. 317-bis Codice civile, non significa automaticamente attribuire rilevanza giuridica alla famiglia di fatto, perché la norma non regola i rapporti familiari, ma unicamente i rapporti di filiazione. Ed infatti la convivenza di cui all'art. 317-bis Codice civile non si riferisce alla convivenza tra i partners, ma a quella con il figlio. Non sembra, perciò, potersi sostenere la tesi in base alla quale il legislatore, attraverso l'art. 317-bis Codice civile, abbia inteso dare rilevanza alla famiglia di fatto in quanto tale, visto, che, tra l'altro, se così fosse, finirebbe con il considerare famiglia di fatto soltanto quel nucleo familiare che presenti figli e fino a quando costoro siano minorenni, il che sarebbe riduttivo.

Sul piano del diritto positivo si può constatare che la famiglia di fatto sta divenendo sempre di più un fenomeno la cui rilevanza giuridica è andata crescendo negli ultimi decenni. Così per esempio l'art. 199 del nuovo Codice di procedura penale del 1988 estende la facoltà di astensione dalla testimonianza al convivente more uxorio (applicabile anche al processo civile ex art. 249 Codice di procedura civile); l'art. 681 Codice di procedura penale ammette anche il convivente a presentare la domanda di grazia; l'art. 42 della legge 18 marzo 1968, n. 313 riconosce il diritto alla pensione di guerra alla donna convivente da almeno un anno con il militare deceduto per cause belliche; in materia di locazione di immobili ad uso di abitazione, il convivente more uxorio del conduttore defunto è oggi compreso (in base alla nota sentenza della Corte cost.) fra gli aventi titolo a succedergli nel contratto di locazione; un'altra ipotesi di successione anomala a favore del convivente more uxorio (in mancanza di coniuge e figli) è prevista in materia di edilizia pubblica residenziale ai sensi dell'art. 17 della legge 17 febbraio 1992, n. 179. Si può ricordare anche l'art. 4 della legge 20 ottobre 1990, n. 302 relativa alle disposizioni in favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata che prevede elargizioni anche a favore dell'eventuale convivente more uxorio.

Si può aggiungere, inoltre, che la rilevanza della famiglia di fatto risulta, in taluni casi, in modo implicito, come, per esempio, nel caso in cui essa è ricompresa nella nozione di "famiglia anagrafica", giacché questa consiste in un insieme di persone legate non solo "da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela", ma anche da "vincoli affettivi".

Quanto finora detto dimostra che la convivenza senza matrimonio non soltanto è giuridicamente rilevante, ma è anche valutata con crescente favore dell'ordinamento (Bonilini-Cattaneo). Tuttavia ciò non significa che dalle norme citate possa desumersi un "riconoscimento" della famiglia di fatto analogo a quello di cui è destinataria la famiglia legittima (art. 29 Cost.), infatti, benché taluno, dimenticando il ruolo di esclusività che è riservato dalla Costituzione alla sola famiglia legittima, ritiene che anche la famiglia di fatto possa qualificarsi come famiglia in senso tecnico-giuridico e quindi possa essere regolata mediante estensione analogica in toto della disciplina sulla famiglia legittima, è maggioritaria, invece, quella dottrina che nega tale equiparazione e ricerca, di volta in volta, criteri e soluzioni diverse per tutelare la convivenza more uxorio, non senza applicare, ma solo in taluni casi, anche le norme che disciplinano la famiglia legittima.

In nessun campo come in quello del diritto di famiglia il legislatore è tenuto a considerare e, per certi versi, "arrendersi di fronte alla particolare natura dell'istituto familiare, lambita ma non governata dal diritto, incapace di pianificare e programmare un insieme di affetti, sentimenti, regole etiche, morali e religiose" (Del Dotto). Non deve, quindi, meravigliare il fatto che, nonostante gli sforzi del giurista, le relazioni familiari di tale tipo siano poi regolate dalla autonomia privata, attraverso convenzioni ed accordi diffusi nella pratica, ritenuti validi dalla giurisprudenza in quanto sensibili alle esigenze familiari. Tuttavia va subito chiarito che autonomia e libertà non significano indifferenza giuridica, bensì riconoscimento giuridico accordato alla famiglia. Le unioni di fatto rappresentano esplicazione di libere scelte dei soggetti che si rifiutano di legalizzare la loro unione, ma, comunque, si tratterà di una iniziativa che merita tutela in quanto espressione dei valori dell'autonomia e libertà del singolo; in essa, quindi, l'intervento del legislatore dovrà mirare a far realizzare in maniera equa le scelte autonomiste dei partners. In tale prospettiva, di non poco rilievo, appare la diversa natura dei rapporti a cui può dar vita una famiglia di fatto, infatti a seconda della loro natura, personale o patrimoniale, si avrà una diversa soluzione normativa.

Alla luce delle considerazioni fin qui condotte si delineano sostanzialmente due situazioni da analizzare: da un lato, il profilo interno del rapporto extra-matrimoniale, vale a dire le relazioni di natura personale e patrimoniale che si istaurano tra la coppia convivente, con o senza figli; dall'altro lato, invece, viene in considerazione il profilo esterno della unione di fatto nei confronti della collettività: "cioè i rapporti tra i conviventi ed i terzi, che possono essere, di volta in volta, soggetti privati, lo Stato, Regioni, Comuni, enti previdenziali ed assistenziali, il Fisco, e così via"(Balestra).

Il primo aspetto che occorre esaminare attiene ai rapporti personali tra i conviventi. In argomento il quadro che si prospetta appare privo di riferimenti normativi, sia espliciti che desumibili in via interpretativa; per cui sia l'assenza di un atto giuridico impegnativo per le parti, sia la mancanza di dati normativi di riferimento, implicano che dalla mera convivenza non possono discendere le prescrizioni tipiche del rapporto di coniugio (Solaini). E' opportuno sottolineare, quindi, che obblighi di questo genere non possono essere oggetto neanche di pattuizioni convenzionali tra i conviventi, ed infatti eventuali convenzioni stipulate, sarebbero radicalmente nulle, sia per mancanza di un rapporto giuridico patrimoniale da regolare, sia perché si porrebbero come sostitutive della previsione degli effetti legali discendenti dal matrimonio e, come tali, quindi, sarebbero illecite (Bonilini-Cattaneo).

Per quanto riguarda, invece, le questioni relative ai rapporti patrimoniali tra i conviventi, esse assumono, in subiecta materia, particolare importanza.

In quest'ambito non sorgono problemi per quanto riguarda l'onere di mantenimento della prole naturale, stante il rinvio normativo dall'art. 261 Codice civile all'art. 148 Codice civile, in tema di concorso agli oneri, riferito ai genitori legittimi. Ma, al di fuori di tale specifica disposizione riguardante la prole, non sono rinvenibili per i conviventi more uxorio obblighi di contribuzione agli oneri del ménage giuridicamente coercibili, quali quelli che incombono, invece, sui coniugi, ex art. 143, secondo comma, Codice civile (Solaini). I partners che si prestano reciproca assistenza materiale e morale concorrono spontaneamente a sostenere gli oneri economici della vita familiare, adempiendo, in tal modo, ad una obbligazione naturale ex art. 2034 Codice civile, per cui, se tutto ciò venisse a cessare per volontà unilaterale o bilaterale dei conviventi, non sarebbe azionabile in nessun caso alcuna pretesa di mantenimento.

Infine, con riferimento ai rapporti con i terzi ciò che rileverà non è tanto l'esistenza di una famiglia di fatto in quanto tale, piuttosto la convivenza dei due soggetti, ed infatti, con riferimento, ad esempio, all'uccisione di uno dei partners, è ammesso il risarcimento del danno conseguente alla morte del convivente a favore del superstite, a prescindere dall'assenza di un rapporto di doverosità coniugale.

Ribadito che né ai rapporti personali né a quelli patrimoniali fra conviventi more uxorio si possono applicare, in linea di principio, neppure analogicamente, le norme dettate sul rapporto coniugale, conviene, allora, illustrare la possibilità di dare regolamentazione pattizia agli aspetti patrimoniali della vita in comune dei conviventi more uxorio, mediante la stipulazione di apposite convenzioni.

Al fine di pianificare gli aspetti patrimoniali intercorrenti tra i conviventi, molte esperienze straniere ricorrono, sempre più di sovente, alla stipulazione di apposite convenzioni, capaci di regolamentare, nel migliore dei modi, situazioni giuridiche di fatto. Si pensi ai c.d. contrats de ménage in Francia e i c.d. cohabitation contracts in Inghilterra (Oberto). Tali pattuizioni realizzano, in via negoziale, la preventiva soluzione di eventuali problemi patrimoniali della famiglia non fondata sul matrimonio, consentendo di evitare liti future e di fornire un minimo di sicurezza al convivente meno abbiente (Oberto); in altre parole esse presuppongono l'impegno, pur non formale né coercibile, a proiettare nel futuro la vita in comune.

Nell'esperienza italiana, al momento tali convenzioni, pur se riconosciute dall'ordinamento, non sono ancora preferite dai conviventi; anche se, visti i crescenti i casi di convivenza more uxorio, sembra verosimile che diventeranno sempre più frequenti, anche nel nostro sistema, i casi di regolamentazioni convenzionali di alcuni aspetti di carattere patrimoniale della vita in comune.

Con l'espressione "contratti di convivenza" si intende riferirsi ai contratti che hanno per oggetto la regolamentazione del ménage tra i conviventi, "da intendersi come la distribuzione del costo della convivenza tra le parti, il regime degli acquisti durante la convivenza o compiuti in precedenza, ed, entro certi limiti, la disciplina della rottura di quella convivenza eventualmente dovuta alla morte di uno dei coniugi" (Bonilini-Cattaneo). Diverse sono le eventuali problematiche che possono derivare dalla conclusione di questi contratti, infatti molti sono gli ostacoli astrattamente individuabili nell'ammetterne la validità: si pensi ad esempio al fatto che gli obblighi che nascono da una convenzione di fatto vengono considerati rientranti nella specie delle obbligazioni naturali; si pensi al fatto che, seppure ad altri fini, spesso in queste convenzioni possono esservi clausole che richiamano il dovere di convivenza o di fedeltà che fuoriescono dal regolamento contrattuale; si pensi, ancora, al fatto che questi contratti possono violare il divieto di concludere patti successori alla morte di uno dei conviventi (Bonilini-Cattaneo).

La dottrina, che si è con maggiore attenzione occupata del fenomeno (Oberto), ha anche messo in luce i principali problemi di validità di codeste convenzioni, e, con salda valutazione della problematica delle obbligazioni naturali, in riferimento precipuo ai doveri tra conviventi di reciproca assistenza e contribuzione, ha concluso che quelle convenzioni trovano la loro causa nello scambio tra le vicendevoli promesse di adempiere i doveri morali-sociali scaturenti dal legame more uxorio; così, ad esempio, è per gli obblighi alimentari o di mantenimento che un coniuge corrisponde all'altro durante la convivenza, lo stesso discorso vale per le somme che un coniuge versi all'altro al momento dello scioglimento del vincolo. Tali prestazioni sono considerate dalla coscienza sociale come dovute, per cui non è richiesto uno specifico animus donandi; essendo, però, obbligazioni naturali esse sono caratterizzate dalla spontaneità, e ciò significa che non sono escutibili coattivamente, tuttavia, una volta eseguite, non ammettono la ripetizione secondo la regola della soluti retentio prevista dall'art. 2034 Codice civile Alla luce di tali premesse si pone, però, un interrogativo, e cioè se sia possibile che tali obblighi possano formare oggetto di un contratto, vale a dire se un'obbligazione naturale possa divenire un'obbligazione giuridica nel momento in cui la sua fonte diventi un contratto. Per poter rispondere a tale quesito occorre innanzitutto fare una considerazione e cioè, se è pur vero che la causa di una obbligazione naturale è l'adempimento di un dovere sociale o morale, non è altrettanto vero che la causa di un'obbligazione derivante dal contratto è la medesima (Bonilini-Cattaneo). Per cui se le parti hanno deciso di regolare contrattualmente un rapporto, la causa dell'obbligazione nascente è il contratto. In tal caso l'indagine non si effettuerà più sulla causa dell'obbligazione, ma sulla causa del contratto il quale, avendo ad oggetto la regolamentazione dei rapporti di convivenza, attua un interesse meritevole di tutela secondo l'ordinamento giuridico; pertanto è un contratto che presenta una propria causa, benché atipica. Al più, occorrerà esaminare se la causa di questi contratti si avvicini maggiormente ai contratti con prestazioni corrispettive, a quelli a titolo gratuito, o ai contratti con causa di liberalità, ed in quest'ultimo caso occorrerà valutare se sussistano i requisiti di forma richiesta per la donazione.

Per quanto riguarda, invece, il profilo della validità di dette convenzioni in riferimento al buon costume e all'ordine pubblico, essa si ricava considerando che l'accordo tra i conviventi rileva esclusivamente sull'assetto economico da imprimere alla convivenza di fatto, escludendosi la regolamentazione di aspetti di natura personale (Oberto). Non appare inutile ribadire, infatti, che le convenzioni in esame possono disciplinare solo l'assistenza materiale reciproca, e non doveri quali quello della fedeltà, coabitazione, assistenza morale, che sono del tutto inidonei ad essere calati in tali contrattazioni giacché privi, in quanto prestazioni, del carattere della patrimonialità indefettibile ex art. 1174 Codice civile; né potrebbe aggirarsi l'ostacolo attraverso l'impiego di una penale. E' rilevante considerare che non si può, in alcun modo, "imbrigliare" la libertà dei soggetti, sicché vanno riprovate quelle convenzioni, che, mirando, ad esempio, a far sì che permanga la coabitazione, fanno ricorso ad incentivi di tipo economico. Per lo stesso motivo, dunque, sono nulle quelle convenzioni relative alle prestazioni sessuali, all'assunzione di un determinato cognome (mediante ricorso al Presidente della Repubblica), alla procreazione o alla non procreazione; né possono regolarsi i rapporti di filiazione in modo differente da quello prospettato dalle norme di legge, che sono cogenti (Oberto).

Viceversa sono ammesse le pattuizioni di clausole compromissorie, ovvero di deroga alla competenza territoriale dell'autorità giudiziaria per quanto riguarda le possibili controversie legate alle convenzioni tra conviventi more uxorio, come pure "l'inserimento di un accordo, di carattere transattivo, in relazione ai rapporti pregressi" quando la convenzione si perfeziona in un tempo successivo dall'inizio della convivenza (Bonilini-Cattaneo).

La dottrina (Oberto), con riguardo all'esame dei possibili contenuti di carattere patrimoniale delle convenzioni tra i conviventi, si sofferma, anzitutto, sulla possibilità di regolare l'impegno reciproco di contribuire alle necessità della vita in comune, mediante la corresponsione, periodica o una tantum, di somme di danaro, ovvero per mezzo della messa a disposizione di beni o della propria attività lavorativa, anche soltanto domestica.

Un aspetto che, poi, molto spesso, viene anche disciplinato nelle convenzioni in esame è quello relativo all'abitazione comune, sia essa di proprietà di uno solo dei conviventi sia essa da uno solo di questi condotta in locazione. Sull'argomento la giurisprudenza è stata in più occasioni interrogata, soprattutto con riguardo alla successione del contratto di locazione, sia nel caso di morte del convivente titolare del contratto di locazione che in quello di scioglimento della coppia di conviventi; in modo specifico ci si chiede se il convivente possa vantare un diritto di abitazione sulla casa dove ha convissuto analogo a quello espressamente riconosciuto al coniuge. In un primo momento la Corte costituzionale si era espressa negativamente circa la possibilità di equiparare la posizione giuridica del convivente a quella del coniuge, in quanto non riteneva ciò contrastare con le norme costituzionali, non riconoscendo, in tal modo, al convivente alcun diritto di abitazione attraverso la successione al contratto di locazione. Solo successivamente all'entrata in vigore della legge sull' "equo canone" n. 392 del 1978, l'orientamento della Cassazione mutò completamente, ed infatti, con la ormai nota sentenza 404/88, si è dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 6 della succitata legge nella parte in cui non prevede tra i successibili nel contratto di locazione, in caso di morte del conduttore, il convivente more uxorio. L' art. 6 si limitava a disporre che, in caso di morte del conduttore, gli potessero succedere nel contratto di locazione esclusivamente il coniuge, gli eredi, i parenti ed affini con lui abitualmente conviventi; e la medesima disciplina poteva essere applicabile anche nei casi di separazione, divorzio e nullità del matrimonio se tale diritto fosse stato riconosciuto dal giudice o se così fosse stato convenuto tra i coniugi stessi. Nulla si era detto a proposito del convivente. La stessa sentenza ha, inoltre, dichiarato ancora illegittimo lo stesso art. 6 nella parte in cui non ha previsto la successione del contratto di locazione, in caso di cessazione della convivenza, a favore dell'ex convivente, quando vi sia prole naturale.

I contratti di convivenza, poi, possono, anche avere ad oggetto la disciplina del regime patrimoniale dei beni acquistati in costanza di convivenza. Anche in questo caso occorre ribadire l'inapplicabilità analogica delle norme dettate per la famiglia legittima, come conferma la stessa giurisprudenza; tuttavia non può escludersi la mutuazione, in via convenzionale, di alcune delle regole dettate per la comunione legale tra coniugi, quale quella dell'acquisto automatico ex art. 177, lett. a), Codice civile, indipendentemente dalla parità di quote. In alternativa i conviventi potrebbe concludere un patto reciproco assimilabile al genere del mandato, "in forza del quale si potrebbe prevedere che tutti gli acquisti effettuati durante la convivenza separatamente da ciascun partners devono essere ritrasferiti all'altro in una certa percentuale" (Bonilini-Cattaneo), e ciò permetterebbe di applicare l'art. 1706 Codice civile e dunque di attribuire al convivente la tutela del mandatario.

La dottrina (Oberto) non manca, poi, di soffermarsi sulle eventuali problematiche che dette convenzioni possano presentare in ordine ai rapporti con i terzi; infatti tali pattuizioni non potranno essere fatte valere né, di conseguenza, essere opposte nei confronti di coloro che sono estranei alla convenzione stessa; in tal caso, l'unico rimedio che i conviventi possano ipotizzare al fine di tutelarsi da eventuali violazioni "interne" dei c.d. contratti di convivenza sarà quello di prevedere una soluzione pattizia da far valere esclusivamente tra di loro stessi, senza poter godere del diritto di riscatto sui terzi.

Un altro aspetto che solleva non pochi problemi è quello relativo all'amministrazione dei beni in comunione da parte dei conviventi. Trattandosi di acquisti in regime di comunione ordinaria, ai sensi dell'art. 1100 Codice civile, i contitolari godranno della massima autonomia di regolamentazione; volta per volta, pertanto, attraverso le convenzioni, si potranno stabilire le regole ritenute più adatte circa l'amministrazione ordinaria e straordinaria; sono, in ogni caso, richiamabili le norme che consentono di prevedere l'indivisibilità entro il termine decennale di legge, ex art. 1111 Codice civile, così come quelle che ammettono il ricorso all'autorità giudiziaria se l'amministrazione non può essere eseguita non potendosi formare una maggioranza, ex art. 1105 Codice civile (Oberto).

Appare necessario, in ogni caso, sottolineare il fatto che conviene accompagnare sempre alle convenzioni in esame un inventario dettagliato dei beni mobili che sono in proprietà di ciascuno dei conviventi, specificando, accanto ad ognuno di essi, il rispettivo titolo di acquisto.

Si dibatte in dottrina circa la natura giuridica che assume il lavoro domestico svolto da un convivente a favore della famiglia o dell'impresa familiare, e soprattutto se esso possa essere oggetto di una qualche retribuzione.

Per quanto riguarda la famiglia legittima vige la disciplina regolata dall'art. 230-bis Codice civile in tema di impresa familiare, che vale ad assicurare al familiare "il diritto al mantenimento secondo le condizioni patrimoniali della famiglia, la partecipazione agli utili dell'impresa, ai beni acquistati con essi ed agli incrementi in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato, la partecipazione alle decisioni relativi alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla gestione dell'impresa" (Balestra). La dottrina si interroga, invece, per stabilire se anche la famiglia c.d. di fatto si possa fare rientrare nella nozione che definisce i soggetti facenti parte dell'impresa familiare, e, quindi, se si possa applicare o meno la disciplina normativa prevista nell'art. 230-bis Codice civile L'orientamento prevalente (Oberto, Trabucchi, Carbone) esclude l'estensione dell'art. 230-bis Codice civile al convivente more uxorio, facendo leva principalmente sul dato letterale della norma che indica espressamente quali sono i familiari a favore dei quali la sua disciplina si applica. Anche la giurisprudenza si è espressa negativamente sulla possibile estensione dell'art. 230-bis Codice civile, e la Corte di Cassazione, all'indomani della riforma del diritto di famiglia, chiamata a pronunciarsi sulla questione, ha osservato che la norma presuppone la famiglia legittima e ne ha, pertanto, escluso l'applicabilità al convivente more uxorio. Nonostante alcuni sporadici orientamenti giurisprudenziali di apertura verso l'applicabilità dell'art. 230-bis Codice civile al lavoro prestato dal convivente (Trib. Ivrea, 30 settembre 1983; Trib. Torino, 24 novembre 1990), anche il recente orientamento della Cassazione ha ribadito l'inapplicabilità della disciplina alla famiglia di fatto, affermando che l'art. 230-bis Codice civile è una norma a carattere eccezionale rispetto a quelle generali in tema di prestazioni di lavoro, per cui, in quanto tale, non è suscettibile di applicazione analogica.

In quest'ottica le prestazioni di lavoro del convivente, ancorché non tutelabili alla stregua dell'art. 230-bis Codice civile, potrebbero acquistare rilievo al cospetto di istituti diversi, ed infatti c'è chi sostiene (Oberto) che la tutela del convivente more uxorio, tranne i rari casi in cui sia possibile ravvisare un rapporto di lavoro subordinato, debba essere ricercata "non già nel campo giusfamiliare o giuslavoristico, bensì in quello delle obbligazioni" (Balestra). Gli strumenti utilizzabili in questo caso sono di tipo convenzionale a carattere preventivo costituiti attraverso la stipulazione di contratti di convivenza o di società, o di tipo non pattizio costituiti dalle obbligazioni naturali e dall'arricchimento senza causa. Alla luce di queste considerazioni, quindi, anche l'attività lavorativa prestata da un convivente può essere oggetto di una apposita convenzione, che stabilisce in via preventiva la retribuzione spettante al convivente more uxorio per il suo lavoro offerto.

In caso di scioglimento della convivenza nulla spetta al partner che si sia allontanato né a quello che sia stato abbandonato a meno che ciò sia stato preventivamente stabilito in via convenzionale dai due conviventi. I precedenti accordi convenzionali tra le parti giustificano la validità della promessa di prestazioni di carattere economico per il tempo successivo alla rottura della convivenza. Si badi, sono nulle le pattuizioni che possono interpretarsi come penale per il caso di abbandono perché sono limitative della libertà dei conviventi; sono valide, invece, quelle convenzioni rette dall'accertabile intento di predisporre una forma di aiuto per il soggetto destinato a trovarsi privo di reddito adeguato dopo la rottura della convivenza. Mai potrà trattarsi, dunque, di uno strumento di dissuasione per il convivente intenzionato a far cessare la convivenza.

Modalità adeguate per rendere concreto tale aiuto potranno essere sia la previsione di un assegno, una sorta di diritto agli alimenti; sia l'attribuzione del diritto di abitazione nella casa in cui si svolgeva la convivenza. Quanto all'assegno, sarà opportuno fissarne anche il quantum, pel tramite, ad esempio, di una percentuale del reddito annuo risultante dall'ultima dichiarazione dei redditi. Per quanto riguarda l'abitazione, invece, sarà opportuno distinguere due possibili situazioni, e cioè se la casa è in proprietà di uno o di entrambi i conviventi oppure se essa è in locazione; nel primo caso, infatti, sarà possibile la convenzione di un diritto reale di abitazione, sottoposto alla condizione sospensiva della cessazione del rapporto di convivenza, oppure un mero rapporto di comodato; se l'abitazione, invece, è condotta in locazione, allora si prospetta un'ipotesi di cessione condizionata del contratto di locazione, che potrebbe essere opponibile anche al locatore, alla luce della sentenza della Corte costituzionale.

Per quanto riguarda la forma che tali convenzioni debbano rivestire, sembra doversi condividere quella dottrina (Oberto) che afferma che esse necessitano di un'esplicita manifestazione di volontà delle parti.

E' evidente che minori rischi li offriranno quelle convenzioni inequivoche, che saranno redatte per iscritto, non tanto, come regola, per la loro validità, ma per rendere più spedita la soluzione di possibili problemi probatori. Per le stesse motivazioni, inoltre, si sostiene (Oberto) l'opportunità di convenire, ex art. 1352 Codice civile, che anche le eventuali modifiche alla convenzione siano da apportarsi per iscritto.

Un problema sulla forma si pone quando si voglia desumere l'esistenza di un contratto di convivenza dalla sola circostanza di aver istaurato un ménage di fatto. Infatti si potrebbe dedurre che, per il solo fatto di aver intrapreso una convivenza, le parti abbiano anche raggiunto una intesa sul modo di condurre la parte economica del rapporto; in questo caso si pone il problema della forma non ai fini della validità dell'atto, bensì ai fini della sua prova, tema questo importante visto che si ritiene che in mancanza di un atto formale non si possa desumere un accordo diretto a perfezionare un contratto (Bonilini-Cattaneo). Il punto è che, se si ammette la atipicità di questi contratti di convivenza, poi, è quasi contraddittorio far dipendere l'esistenza di un accordo dalla sussistenza della forma. Dunque, per giustificare una tale affermazione si potrebbe dire che dalla convivenza di fatto può desumersi un accordo sul modo di condurre il rapporto economico tra i conviventi e si può addirittura affermare che la mera convivenza faccia presumere l'esistenza di un accordo, ma non se ne potrà ricavare il suo contenuto (Bonilini-Cattaneo). Questa soluzione incontra, però, un limite non facilmente superabile; ed infatti, considerando che le prestazioni rese nell'ambito della convivenza sono considerate quali obbligazioni naturali, è necessario accertare con cura l'esistenza e la natura dell'accordo espresso, per cui, sia secondo la dottrina che la giurisprudenza, solo quando l'accordo risulta da atto scritto, i contratti di convivenza fuoriescono dall'obbligazione naturale. D'altronde è fuori dubbio che i conviventi tendono a rendere il meno formale possibile il loro rapporto, di conseguenza, la scrittura privata rappresenta la forma preferenziale per attribuire giuridicità al rapporto di convivenza more uxorio.

Allo stato attuale, nessuna pretesa successoria è assicurabile al convivente more uxorio: esso non potrà certo essere parificato al coniuge ed essere considerato legittimario, ex artt. 536 e ss. Codice civile, o legittimo. Tuttavia l'altro convivente potrà istituirlo erede, o legatario, con testamento (Bonilini); in tal caso, però, non dovrà trattarsi di testamento che dia semplicemente esecuzione ad un patto successorio, altrimenti mancherebbe la spontaneità dell'atto di ultima volontà (Oberto).

Ai fini di ottenere gli effetti di una successione, è possibile che i conviventi inseriscano nel contratto di convivenza clausole che producano effetti solo dopo la morte di uno dei parteners, le c.d. clausole post mortem, si pensi alla pattuizione con la quale si prevede che il superstite sarà beneficiato di una somma di denaro quale forma di riconoscenza per l'attività prestata in costanza di convivenza o alla clausola che subordini il trasferimento della proprietà di un immobile alla morte dell'alienante (Bonilini-Cattaneo). Lo scopo di tali previsioni è, da un lato, garantire una certa tranquillità economica al convivente superstite, dall'altro, tutelare l'interesse del dante causa, che è quello di perdere la disponibilità del bene solo dopo la sua morte. Senonchè, diversamente da quanto si verifica nelle altre esperienze straniere, - ove è in uso l'inserimento, nelle convenzioni patrimoniali fra conviventi more uxorio, di una clausola relativa agli effetti giuridici che si produrranno dopo la morte di un convivente per assicurare all'altro un'adeguata tranquillità economica - l'ordinamento italiano, ponendo il divieto dei patti successorii (art. 458, Codice civile), impedisce l'attuazione di meccanismi convenzionali con efficacia post mortem. L'art. 458 Codice civile comporta la nullità del patto o del contratto sotto il profilo della illiceità, così come è nullo il testamento che successivamente abbia confermato una precedente disposizione istitutiva; e lo stesso discorso vale anche nel caso di donazione fatta a causa di morte i cui effetti vengano sospensivamente condizionati alla morte del donante. Posto il divieto dei patti successori in cui si imbattono le clausole post mortem, resta da accertare se possano esistere patti stipulati tra i conviventi che abbiano effetto dopo la morte di uno dei due partners e che possano essere ritenuti validi. Possono considerarsi validi quei patti con cui una parte si impegni a concludere a favore dell'altro partners un contratto di assicurazione sulla vita, visto che i contratti a favore di terzo sono estranei al divieto dei patti successori, "sia perché l'acquisto non dipende dall'esistenza di un bene che fa parte di una futura successione (ed infatti il capitale perviene al promittente per effetto del contratto concluso) sia perché il titolo dell'acquisto è un atto tra vivi e non a causa di morte" (Bonilini-Cattaneo). Ancora si può immaginare la costituzione di una rendita vitalizia o di un vitalizio alimentare secondo lo schema e con la forma indicata dall'art. 1875 Codice civile, quindi sempre come un contratto a favore di terzi (Bonolini-Cattaneo).

La dottrina ha anche ipotizzato ulteriori possibilità, che, rispettose delle norme di legge, possano dirsi in qualche misura in grado di tutelare il convivente anche dopo la morte dell'altro, come, per esempio, il caso di adozione di persone maggiori di età o, ultimo cenno, va dedicato ad una figura di ispirazione francese, che può essere vista come clausola regolamentare del regime degli acquisti in un contratto di convivenza. Essa consiste "nel sottoporre l'acquisto di un immobile effettuato dai conviventi alla condizione che il premoriente si considera come non aver mai acquistato nulla, sicché l'intero vada al superstite" (Bonilini-Cattaneo). In tal modo solo la morte del partner, realizzerebbe da condizione risolutiva dell'avvenuto acquisto del premorto e da condizione sospensiva dell'acquisto per il superstite. Si esclude, in questo caso, il divieto del patto successorio, poiché in forza della condizione risolutiva l'acquisto è come se non si fosse mai verificato, per cui il bene non può costituire oggetto di futura eredità. Tuttavia, c'è il rischio che una tale condizione venga considerata illecita per frode alla legge (10), soprattutto nel caso in cui si escluda il diritto alla restituzione del prezzo pagato, quale conseguenza dell'avveramento della condizione (Bonilini-Cattaneo).

In ogni caso, va sottolineato che la dottrina non manca di segnalare gli inconvenienti e gli aspetti negativi di siffatti meccanismi alternativi al testamento, il quale resta, comunque la soluzione preferibile per tutelare il superstite.

Ciò nonostante anche il testamento è, comunque, esposto all'azione di riduzione da parte dei legittimari (come, del resto, le donazioni anche indirette), ed è revocabile sino all'ultimo momento di vita del testatore.

La convivenza può cessare oltre che in caso di morte di uno o di entrambi i conviventi, anche a seguito del venir meno dell'affectio che li legava, senza che gli organi giurisdizionali dello Stato debbano sancirlo; infatti, in molti casi, è proprio la possibilità di sciogliere con assoluta libertà e semplicità il rapporto - c.d. cessazione ad nutum - che spinge un uomo ed una donna a non vincolarsi matrimonialmente. Ci si è interrogati in dottrina sulla possibilità di configurare, a carico dell'ex convivente che ha voluto interrompere la relazione, un'obbligazione risarcitoria consistente nell'erogazione di una somma di denaro per le conseguenze negative derivanti all'altro soggetto dalla rottura del rapporto (Prosperi), ma è opinione consolidata (Gazzoni) che non è configurabile un obbligo di risarcire il danno causato dalla rottura del ménage, proprio perché la famiglia di fatto si caratterizza come unione improntata sulla libertà e spontaneità, da cui non sorgono diritti e obblighi giuridicamente protetti. Dunque, non incontra consensi quell'orientamento dottrinale che, al fine di disciplinare la vicenda, intende estendere analogicamente la normativa dell'art. 129 Codice civile in tema di matrimonio putativo.

Un altro aspetto che merita di essere analizzato è quello volto ad esaminare la sorte del contratto di convivenza nel caso in cui viene meno il suo presupposto, cioè la convivenza stessa; ed infatti, la scelta di sciogliere la convivenza può incidere in vario modo sull'impegno, preso dalle parti, di rispettare gli accordi di vita in comune, sempre nel rispetto e nella salvaguardia della libertà personale di ciascun partner. Pertanto, a seguito della cessazione del vincolo si potranno prospettare diverse soluzioni: per esempio che l'abbandono costituisca una causa di risoluzione del rapporto, in base al quale si potrà stabilire che le parti non hanno nulla da pretendere l'una nei confronti dell'altra; o che il semplice abbandono della vita comune, da parte di uno o di entrambi i partners, costituisca una condizione risolutiva che, una volta realizzata, faccia cessare gli effetti dell'accordo convenzionale dei conviventi, oppure, al contrario, si potrà ipotizzare che chi godeva già del mantenimento, continuerà a fruire di questo vantaggio, anche dopo lo scioglimento del rapporto.

In ogni caso le convenzioni fra conviventi more uxorio, come già si è anticipato, non possono intaccare le scelte personali dei conviventi, né incidere sulla libertà di far cessare il rapporto more uxorio. Al più, possono contemplare una clausola che prescriva il rispetto della forma scritta, a fine probatorio, per l'esercizio del mutuo dissenso (Oberto).