La condizione risolutiva di inadempimento

 

 

 

La clausola del contratto di costituzione di rendita vitalizia dietro trasferimento della proprietà di un bene con cui le parti prevedono, nell'interesse esclusivo del vitaliziato, la risoluzione del contratto nel caso di mancato pagamento da parte del vitaliziante di due rate costituisce condizione risolutiva e non clausola risolutiva espressa; ne consegue che, anche in caso di vendita del bene a terzi aventi causa da vitaliziante, trascritta prima dell'atto di citazione del vitaliziato, all'accertamento dell'inadempimento dedotto in condizione consegue la retrocessione della proprietà del bene.

(Cass. civ., Sez. II, sentenza 15 novembre 2006, n. 24299)

 

 

Sommario:

1. La fattispecie oggetto della pronunzia: questioni, argomenti e profili problematici

2. La concorrenza di qualificazioni: il carattere accidentale dell'adempimento tra atto dovuto ed evento condizionale

3. L'estrinsecità dell'interesse tutelato dalla condizione risolutiva di inadempimento: la ricomposizione qualitativa del patrimonio e le analogie funzionali con la risoluzione ordinaria

4. Ulteriori profili problematici in relazione alla disciplina applicabile: i) l'opponibilità ai terzi

5. Segue: ii) la risarcibilità del danno

 

 

1. La fattispecie oggetto della pronunzia: questioni, argomenti e profili problematici

 

La Corte di Cassazione aggiunge un tassello al mosaico giurisprudenziale in tema di condizione risolutiva di inadempimento.

 

Nella fattispecie all'esame della Corte, una società si è resa inadempiente all'obbligo di corrispondere i canoni pattuiti in un contratto di rendita vitalizia con cui le era stata trasferita la nuda proprietà di un immobile. Si era inoltre convenuto che in caso di omesso pagamento di due rate consecutive, decorsi venti giorni, il contratto si sarebbe risolto e la nuda proprietà retrocessa alla vitaliziata, la quale avrebbe trattenuto a titolo di penale le rate già percepite.

 

Prima di rendersi inadempiente, la società vitaliziante aveva alienato la nuda proprietà ad un'altra società, che aveva trascritto l'atto di acquisto ancor prima che la vitaliziata trascrivesse la domanda di risoluzione del contratto di rendita.

 

Accertato l'inadempimento, il Tribunale di Roma dichiarava la risoluzione del contratto di rendita, riconoscendo alla vitaliziata il diritto di trattenere le rate già percepite a titolo di penale. Tuttavia, il giudice di primo grado qualificava la pattuizione come clausola risolutiva espressa ex art. 1456 c.c., e negava la retrocessione della nuda proprietà, sottolineando la priorità della trascrizione dell'atto di acquisto della seconda società.

 

Opposto l'esito interpretativo in sede di appello: non clausola risolutiva espressa, bensì condizione risolutiva di inadempimento. In base all'art. 1357 c.c., in pendenza della condizione, la nuda proprietà della seconda acquirente sottostava pertanto all'effetto risolutivo con portata retroattiva ex art. 1360 c.c.

 

A quanto consta, la sentenza in commento costituisce il primo caso giunto al vaglio della Suprema Corte in cui si è posto un problema concreto di opponibilità ai terzi, prioritari nel trascrivere, dell'effetto risolutivo derivante dall'avveramento della condizione risolutiva di inadempimento(1).

 

Nella pronuncia è stato inoltre affrontato il problema della compatibilità tra la condizione risolutiva di inadempimento e l'apposizione di una clausola penale in favore della parte fedele. Lamentando l'incompatibilità funzionale tra queste due pattuizioni, e più in generale tra risarcimento del danno e condizione risolutiva di inadempimento, la ricorrente aveva tratto argomenti per denunciare l'errore di qualificazione dei giudici d'appello: non si sarebbe dunque trattato di una condizione risolutiva di inadempimento, ma di una clausola risolutiva espressa.

 

A fronte della complessità teorica e della novità di alcune tematiche, l'iter decisorio seguito dalla Corte sembra tuttavia caratterizzarsi - di là dalla condivisibilità delle conclusioni - per un approccio alquanto laconico sul versante dell'approfondimento teorico e sistematico.

 

Per confermare la legittimità della condizione risolutiva di inadempimento, la Corte fa gioco sul principio dell'autonomia privata. Ma questo approccio è successivamente sviluppato sull'accostamento tra tale clausola e il diritto di recesso unilaterale. Da tale accostamento la Corte inferisce la rilevanza in entrambi gli istituti di interessi oggettivi non sintomatici di mera potestatività.

 

Ma l'argomentare della Cassazione - ancorché allineato all'orientamento giurisprudenziale e dottrinale oramai maggioritario - tralascia di approfondire il problema dell'interazione tra vinculum iuris, programma contrattuale e obbligo della prestazione. Si finisce così per adombrare proprio quegli argomenti la cui esteriorizzazione sarebbe stata a dir poco opportuna per giustificare le conclusioni raggiunte in ordine a questioni logicamente subordinate: come il rapporto tra effetti risolutivi derivanti da tale clausola e diritti acquistati dai terzi, nonché il problema della compatibilità tra risoluzione condizionale e risarcimento del danno.

 

La sentenza in commento si rivela comunque di particolare interesse, poiché costituisce una rara pronuncia in cui, accanto al tema principale dell'ammissibilità della condizione risolutiva di inadempimento, vengono affrontati anche altri problemi logicamente subordinati. È perciò possibile, partendo dall'analisi di questa sentenza, sviluppare una riflessione a più ampio spettro in merito a quei "punti di criticità" a cui il sistema parrebbe costretto allorché dalla costruzione della fattispecie si passi all'individuazione della disciplina concretamente applicabile.

 

È infatti evidente il margine di contiguità funzionale tra la condizione risolutiva di inadempimento e la clausola risolutiva espressa di cui all'art. 1456 c.c.: ammettere la legittimità della prima, per poi passare ad individuarne gli esatti "confini" formali di dimensionamento disciplinare, implica innanzi tutto la necessità di giungere ad una compiuta consapevolezza circa le ragioni teoriche della distinzione tra questi due istituti.

 

2. La concorrenza di qualificazioni:
il carattere accidentale dell'adempimento tra atto dovuto ed evento condizionale

 

Passaggio primario nello sviluppo della decisione è stato quello della verifica dell'astratta ammissibilità di una condizione negoziale che assuma ad evento condizionante i possibili esiti della prestazione e, nel caso di specie, l'inadempimento.

 

Un primo orientamento giurisprudenziale(2), avallato da autorevole dottrina(3), ha negato in passato la possibilità di subordinare l'efficacia del contratto all'adempimento o all'inadempimento della prestazione. Tale orientamento poneva in risalto il rapporto di diretta «attinenza» della prestazione sia al momento realizzativo del negozio(4), sia al vinculum iuris posto con il programma contrattuale. Si giungeva così a considerare la prestazione come uno sviluppo logicamente necessario del nucleo essenziale del programma negoziale.

 

Programma negoziale e vincolo precettivo venivano declinati come i "momenti costitutivi" dell'obbligo di adempimento che - proprio in ragione di questa indissolubile connessione funzionale con il programma e il vincolo - non potrebbe rilevare alla stregua di un avvenimento futuro ed incerto (nel senso di cui all'art. 1353 c.c.) al cui avveramento subordinare l'efficacia del contratto. La prestazione è infatti contemplata come la proiezione dinamica del vinculum iuris: l'idea che l'autonomia negoziale possa spingersi sino al punto di prevedere la risoluzione dell'efficacia contrattuale come conseguenza dell'inadempimento della prestazione(5) costituisce - per questa dottrina "tradizionale" - un'affermazione inammissibile nella misura in cui vincolo, programma e prestazione rappresentano l'essenza stessa della funzionalità del contratto.

 

Si spiega, pertanto, come questa dottrina abbia sottolineato, a chiare lettere, che un fatto attinente alla «realizzazione del negozio» (i.e.: l'inadempimento) è in grado di influire «sull'efficacia del negozio medesimo» soltanto «in conformità della legge»(6). Con queste parole, si intendeva sintetizzare l'essenza di una costruzione sistematica per cui alla mancata realizzazione della prestazione l'ordinamento consente di reagire, sul piano della persistenza del vincolo negoziale, soltanto ricorrendo allo strumento rimediale tipico rappresentato dalla risoluzione. Unico strumento, quest'ultimo, idoneo a rimuovere la forza vincolante del programma contrattuale in seguito al verificarsi dell'inadempimento. Si comprende perché in quella prospettiva ricostruttiva l'inadempimento - inteso come inattuazione del programma concordato - è coerentemente spiegato in termini di «mancanza funzionale della causa»(7).

 

Tale impianto ricostruttivo, al di là di ogni valutazione nel merito, si caratterizza per l'evidente linearità: così come all'art. 1372 c.c. l'ordinamento giuridico sanziona la forza vincolante del contratto di cui si postula, alquanto iperbolicamente, la «forza di legge tra le parti», allo stesso modo soltanto l'ordinamento può predisporre moduli rimediali per determinare lo scioglimento del vincolo allorché si verifichi l'inadempimento.

 

In questa dimensione ricostruttiva, il modello rimediale esclusivo - appunto la risoluzione per inadempimento - si "apre" all'autonomia privata tramite l'istituto della clausola risolutiva espressa. Istituto che consente alle parti la preselezione di determinati comportamenti contrattualmente dovuti, il cui inadempimento diviene causa di risoluzione del vincolo, sottraendo tale effetto risolutivo alla valutazione di gravità richiesta dall'art. 1455 c.c.

 

Alle parti di un contratto sarebbe pertanto preclusa la possibilità di fare della prestazione un quid facti operante come presupposto normativo di attivazione di una disciplina - quella della condizione risolutiva - cui è invece sottesa la piena funzionalità del vinculum iuris.

 

All'innegabile linearità logica di tale costruzione, ha fatto da contrappunto un'opposta tendenza ricostruttiva - sposata dalla Cassazione nella sentenza in commento - che è invece giunta ad ammettere la legittimità del congegno condizionale che ponga la prestazione quale evento idoneo a condizionare gli effetti del contratto(8).

 

Certo è - come si diceva in apertura - che la motivazione della sentenza non si discosta da un metodo argomentativo adottato già altre volte, in base al quale l'affermazione della legittimità della condizione risolutiva di inadempimento trascorre dalla citazione di precedenti giurisprudenziali, sino ad un generico richiamo al principio dell'autonomia privata. Correttamente la Corte di Cassazione evoca tale principio, ma il fondamento teorico della legittimità di tale clausola rimane adombrato.

 

Si è ormai giunti, com'è noto, ad ammettere la facoltà per le parti, nel dettare il programma negoziale, di considerare l'adempimento non più soltanto un atto dovuto, ma anche un evento sul quale si appunta una diversa qualificazione giuridica. L'adempimento, in sostanza, cessa di essere soltanto la proiezione dinamica del precetto contrattuale e assume il concorrente significato operativo di evento idoneo ad attivare il meccanismo risolutivo della condizione.

 

Questo, dunque, il problema d'ordine concettuale che interseca quello pratico: come spiegare - di là dal mero richiamo all'autonomia privata - la possibilità che l'inadempimento assurga, nella struttura negoziale e nel contenuto programmatico, a punto di convergenza di due diverse qualificazioni? Atto dovuto, la cui doverosità promana proprio dal vincolo contrattuale; ed evento condizionante situato in una dimensione estranea - tendenzialmente antitetica - al piano dell'obbligo che caratterizza il rapporto tra le parti.

 

Muta la stessa relazione tra programma negoziale, vinculum iuris, prestazione e adempimento: dal carattere di rigorosa linearità logica della tesi tradizionale, si passa ad una diversa costruzione per così dire "circolare". La prestazione, nell'ottica di questa tesi, diviene un plesso logico autonomo e scisso dal momento programmatico e da quello precettivo: come il programma negoziale e il vincolo si proiettano fisiologicamente verso l'obbligo di adempimento, è parimenti possibile che le parti deducano nel programma una regola che assuma una direzione opposta, facendo sì che eventi attinenti alla prestazione consentano di ritornare alle radici stesse del vincolo, sino ad eliderne il piano di effetti già realizzati.

 

L'accordo contrattuale diviene la matrice sia dell'obbligo di adempiere, e quindi di dare realizzazione al programma contrattuale, sia di una diversa e concorrente configurazione che fa dell'adempimento della prestazione una vicenda considerata in una dimensione alternativa a quella presa in considerazione dalla disciplina della risoluzione.

 

La dottrina più recente perviene a tale risultato costruttivo grazie ad un'opera di elaborazione concettuale che determina, in termini di teoria generale del contratto, una scissione logico-sistematica tra precetto e programma contrattuale da un lato, e fase esecutiva dall'altro.

 

La condizionabilità degli effetti contrattuali all'"evento prestazione" è stata infatti affermata(9) soltanto in esito al processo che ha condotto - sulla scorta di importanti contributi - a distinguere nettamente tra il momento programmatico e il momento esecutivo del contratto(10).

 

In termini pratici, compiuto il distacco tra queste due fasi (programmatica ed esecutiva), diviene di conseguenza possibile l'attribuzione alla prestazione dei caratteri di futurità e incertezza che l'art. 1353 c.c. richiede espressamente all'evento condizionale(11).

 

Nel momento in cui il rapporto tra programma negoziale e fase esecutiva viene così costruito, ne consegue che la stessa nozione di inadempimento, quale difetto funzionale della causa, risulta definitivamente superata.

 

E tuttavia v'è stato chi - ancora in tempi recenti - ha ribadito che con la condizione risolutiva di inadempimento si finirebbe per realizzare la commistione tra gli interessi essenziali espressi dalla causa, di cui le prestazioni sarebbero la manifestazione operativa, e gli interessi diversificati di natura soggettiva(12), che dovrebbero collocarsi sul piano accidentale della condizione(13).

 

In replica a tali critiche è frequente il richiamo al mutamento di prospettiva concettuale che ha interessato la nozione di causa(14). Si afferma che una volta abbandonata la nozione tradizionale della causa quale funzione economico-sociale del contratto(15), e adottata quella di funzione economico-individuale(16), l'accertamento del carattere accidentale o essenziale di un elemento del programma deve compiersi in riferimento agli interessi concreti che le parti intendevano perseguire, e non invece in relazione al tipo astratto di cui la causa è manifestazione funzionale. I caratteri dell'essenzialità e dell'accidentalità andrebbero dunque dimensionati sul piano del fine pratico perseguito dall'accordo contrattuale.

 

Però, in base a tali considerazioni, parrebbe in effetti che la condizione risolutiva di inadempimento finisca per assumere i tratti dell'elemento essenziale, così rimanendo inalterati i dubbi circa la possibilità di attribuire anche a tale tipo di condizione il valore accidentale che si richiede, in generale, alla clausola condizionale(17).

 

Nella consapevolezza dell'inidoneità di questa sede per un compiuto approfondimento(18), si deve però osservare che il carattere accidentale della clausola condizionale va verificato sulla scorta di ciò che la dottrina ha descrittivamente definito una «prova di resistenza», che implichi cioè la separazione tra la clausola condizionale e il contenuto regolamentare del programma contrattuale, e che conduca così ad accertare se il programma residuo, scorporata la condizione, possa considerarsi autonomo. Tale tipo di clausola condizionale potrà dunque considerarsi accidentale ogni qual volta l'insieme dei contenuti precettivi, una vola sottratta la clausola condizionale, conservi inalterata una propria autosufficienza programmatica e funzionale(19).

 

Ebbene, la clausola condizionale che assume l'inadempimento quale evento condizionante non è essenziale rispetto al programma contrattuale nella misura in cui l'essenzialità di una pattuizione va verificata in relazione al momento costitutivo del vinculum iuris. In altri termini, com'è stato osservato, «il sorgere dell'obbligo esaurisce la funzione del contratto che appunto perché "creativa" è destinata ad estinguersi una volta che il concreto rapporto sia sorto»(20).

 

Quanto al problema dell'estrinsecità dell'interesse riferibile alla clausola condizionale rispetto al piano degli interessi essenziali perseguiti dal contratto, va considerato che un'altra obiezione, frequentemente sollevata, giunge ad affermare che la condizione risolutiva di inadempimento (e in generale quella che deduca la prestazione quale evento condizionante) perseguirebbe un interesse nient'affatto diverso da quello che le parti intendono conseguire tramite il contratto. Condizionando gli effetti del contratto all'inadempimento si devierebbe l'istituto condizionale dalla funzione tipica(21), ovvero sia l'attribuzione di rilievo programmatico ad interessi esterni all'interesse oggettivato nella prestazione. L'istituto della condizione, in questo caso, verrebbe infatti adoperato per ottenere una «più sicura garanzia della soddisfazione degli interessi contrattuali tipici»(22), e non invece per dare ingresso ai motivi soggettivi di una parte.

 

Anche se la pronuncia in commento tace del tutto su questo profilo problematico, occorre però sottolineare che la definizione dell'interesse perseguito con tale clausola costituisce un passaggio fondamentale dovendosi apportare quegli ulteriori elementi d'analisi necessari per risolvere, in un momento logicamente successivo, le ulteriori problematiche di ordine prettamente disciplinare.

 

Ad un livello più elevato di costruzione del fenomeno, le due configurazioni tipiche di condizione - sospensiva e risolutiva - che assumono le vicende della prestazione come evento condizionante, condividono una comune matrice funzionale: ovvero offrire alle parti una tecnica di controllo dell'operatività del regolamento negoziale che consenta di inserire, in tale dinamica, una valutazione soggettiva in merito all'importanza di un determinato evento(23). Ma all'originaria assimilazione funzionale tra i due tipi, si va ben presto sostituendo una marcata differenziazione; infatti la condizione sospensiva (di adempimento) e quella risolutiva (di inadempimento) vengono utilizzate, in concreto, per realizzare forme del tutto diverse di controllo sull'operatività effettuale del programma. In particolare la seconda, sul versante disciplinare, suscita molteplici dubbi proprio in ragione della contiguità funzionale con l'istituto della clausola risolutiva espressa; dubbi che, invece, non appartengono alla sfera di problemi suscitati dalla condizione sospensiva di adempimento.

 

Ne consegue che nel verificare se vi sia effettivamente un difetto di "estrinsecità" dell'interesse perseguito con la condizione risolutiva di inadempimento, l'analisi va orientata verso la prospettiva peculiare che caratterizza questo tipo di condizione(24).

 

3. L'estrinsecità dell'interesse tutelato dalla condizione risolutiva di inadempimento: la ricomposizione qualitativa del patrimonio e le analogie funzionali con la risoluzione ordinaria

 

Emerge, dal testo della motivazione, la traccia del rapporto problematico che intercorre tra l'istituto della clausola risolutiva espressa e la condizione risolutiva di inadempimento: tant'è vero che un motivo di ricorso è stato fondato proprio sull'asserito errore di qualificazione della clausola da cui discendeva l'effetto risolutivo. Dalla diversa qualificazione dell'intento negoziale derivava che nell'un caso, trattandosi di effetto risolutivo con portata reale e retroattiva (ex artt. 1357 e 1360 c.c.), sarebbero stati travolti anche i diritti medio tempore acquistati dai terzi; mentre nell'altra ipotesi, applicandosi l'art. 1458, 2° co., c.c., l'acquisto in favore della ricorrente si sarebbe salvato poiché quest'ultima aveva trascritto il proprio atto d'acquisto prima della domanda di risoluzione.

 

Il trascorrere del conflitto ermeneutico dall'ipotesi della condizione risolutiva di inadempimento a quella della clausola risolutiva espressa è sintomatico, su un piano empirico, della stretta contiguità funzionale che lega i piani di interesse su cui si collocano le due fattispecie(25).

 

È stato osservato che l'interesse perseguito con la condizione risolutiva di inadempimento è quello alla ricomposizione qualitativa del patrimonio dell'alienante per il caso in cui restino inattuate le prestazioni corrispettive(26). In questi termini, l'interesse oggettivato tramite una condizione di inadempimento si presenta ancora assai contiguo - se non del tutto sovrapponibile - a quello tutelato dalla disciplina della risoluzione ordinaria sub specie di clausola risolutiva espressa. E non è un caso, infatti, che nel codice del 1865 la risoluzione per inadempimento fosse costruita proprio come duplice condizione risolutiva sottintesa(27).

 

Bisogna quindi chiedersi se vi sono - e che portata assumono in concreto - ragioni di differenziazione tra i due poli di questa medesima area funzionale. Se le due fattispecie condividono effettivamente una medesima matrice funzionale, occorre conseguentemente verificare se, calate nel contesto applicativo, le due figure giustifichino una differenza di disciplina a fronte di un quid facti sostanzialmente coincidente: ovvero l'inadempimento di una parte. Di questa verifica non v'è però traccia nella sentenza in commento.

 

Si è notato che nella prospettiva pratica la condizione risolutiva di inadempimento viene adoperata - nelle intenzioni delle parti - proprio come "correttivo" alla tutela risolutoria ordinaria. Il grado di tutela offerto dalla clausola risolutiva espressa attinge ai moduli effettuali dettati per la risoluzione ordinaria, e non è pertanto in grado di assicurare in pieno l'obiettivo ripristinatorio, che potrebbe risultare non conseguibile nell'ipotesi di trasferimento del diritto ad un terzo a cui non sia opponibile la risoluzione (ex art. 1458, 2° co., c.c.).

 

All'inserimento nel programma contrattuale di una condizione risolutiva di inadempimento è quindi sottesa l'individuazione, ad opera delle parti, di un interesse ulteriore e funzionalmente non del tutto coincidente con gli altri interessi - meramente eventuali - che promanano dalla disciplina della risoluzione ordinaria.

 

L'interesse oggettivato dalla condizione di inadempimento consiste nel rafforzamento delle possibilità di ottenere il recupero integrale della prestazione traslativa; e si tratta di un rafforzamento che, trasposto in termini operativi, implica lo spostamento su un piano costituito da effetti giuridici differenti da quelli altrimenti conseguibili con la risoluzione. Sembra pertanto potersi affermare che è proprio in quel margine ulteriore di tutela ripristinatoria, legato al carattere reale e all'efficacia erga omnes dell'effetto risolutivo conseguente all'avveramento della condizione, che va collocata la rilevanza per l'ordinamento di un interesse - differenziato da quello della risoluzione ordinaria - meritevole di tutela e sanzione.

 

Non si tratta, dunque, di un interesse prettamente "interno" al programma contrattuale (e in quanto tale già sanzionato dal sinallagma e dall'obbligo di eseguire la prestazione), quanto piuttosto di un interesse ad esso parzialmente "esterno", che anzi sottintende una "devianza" dalla realizzazione del sinallagma stesso(28), implicando la volontà di prevenire i possibili limiti del rimedio risolutorio ordinario.

 

La motivazione della sentenza appare sul punto parzialmente sfocata. Infatti, le censure della ricorrente fondate sul carattere meramente potestativo della condizione risolutiva di inadempimento, che rimetterebbe alla volontà di una parte il verificarsi o meno dell'evento, sono state disattese dalla Cassazione sulla scorta dell'accostamento tra condizione risolutiva di inadempimento e recesso unilaterale.

 

Ma, a ben vedere, l'esercizio del diritto di recesso opera come concretizzazione di una facoltà concessa alla parte e che, in qualche misura, rientra nello svolgimento "regolare" del programma contrattuale; mentre la condizione di inadempimento guarda al programma negoziale come qualcosa che ha subito uno svolgimento "irregolare", anche se tale svolgimento "irregolare" è stato preso in considerazione per farne seguire lo scioglimento del vincolo. Non sembra pertanto necessario, ed anzi potrebbe risultare fuorviante, evocare l'istituto del recesso unilaterale per attestare la meritevolezza dell'interesse oggettivato dalla condizione risolutiva di inadempimento: le differenze tra i due istituti - strutturali, funzionali e sul piano dell'efficacia - impediscono tale accostamento(29).

 

Occorre evidenziare, in conclusione di questo primo passaggio, che la meritevolezza e la legittimità della condizione risolutiva di inadempimento va invece affermata proprio in ragione della rilevanza per l'ordinamento della selezione, operata dalle parti, di una sfera di interessi che vale ad attribuire al rapporto contrattuale un modulo rimediale alternativo a quello della risoluzione ordinaria. E si è visto che sul piano concettuale costituito dalle interazioni tra vincolo, programma e prestazione, l'attribuzione di questo diverso modulo rimediale è resa possibile in ragione della distinzione tra momento programmatico e momento esecutivo dell'accordo.

 

Il fatto che la motivazione della sentenza non abbia scandito in profondità l'analisi dei presupposti teorici a sostegno dell'ammissibilità della condizione risolutiva di inadempimento, e soprattutto l'omessa evidenziazione delle differenze tra questo istituto e la clausola risolutiva espressa, sono riflessi negativamente sulle tematiche di carattere "subordinato" che la Corte è stata chiamata ad affrontare nella fattispecie in esame.

 

4. Ulteriori profili problematici in relazione alla disciplina applicabile:
i) l'opponibilità ai terzi

 

Risolto positivamente il passaggio costituito dall'individuazione delle ragioni di legittimità della condizione risolutiva di inadempimento, occorre ora rivolgere l'analisi verso quel secondo livello di "tensioni ricostruttive" che non attengono più alla sostanza del problema e ai confini della fattispecie, quanto piuttosto alla disciplina concreta ad essa applicabile.

 

Occorre in primis appurare se nel caso in cui l'inadempimento venga dedotto in condizione si verifichino interferenze disciplinari tra il modulo della condizione e quello della risoluzione ordinaria. E occorre poi accertare se, all'atto pratico, questo eventuale conflitto tra plessi disciplinari vada risolto nel senso della prevalenza delle regole dettate per la risoluzione ordinaria a discapito di quelle in tema di condizione.

 

In dottrina vi è stato chi(30), traendo spunto dal conflitto che sembrerebbe delinearsi tra i due moduli disciplinari, ha infatti affermato la prevalenza delle regole stabilite per la risoluzione su quelle dettate in via generale per la condizione(31). Si ritiene, secondo questa dottrina, che pur dovendosi riconoscere in via generale la validità della condizione risolutiva di inadempimento, tale pattuizione dovrebbe comunque soggiacere agli stessi limiti di incidenza previsti per la risoluzione, ed in particolare a quello di cui all'art. 1458, 2° co., c.c., che regola il profilo dell'inopponibilità dell'effetto risolutivo ai terzi primi trascriventi.

 

Ma tale osservazione sembra muovere da quella stessa prospettiva che, nell'analisi della fattispecie, ha portato taluni autori a lamentare un difetto di estrinsecità o autonomia dell'interesse perseguito. Se invece si giunge - in linea con la dottrina più recente - a riconoscere un'autonoma sfera di rilevanza alla condizione di inadempimento distinguendola, sul versante interno, dalla funzione espressa dalla causa e, sul versante rimediale, dalla funzione espressa dalla risoluzione, ne segue che tra l'interesse perseguito dalla condizione di inadempimento e quello offerto dalla tutela risolutoria v'è una significativa differenza di sostanza, ancor prima che di disciplina.

 

Si giustifica così il completo riconoscimento anche alla condizione di inadempimento - al pari di una qualunque altra condizione risolutiva - dell'opponibilità ai terzi dell'effetto risolutivo in base all'art. 1357 c.c.(32).

 

Da una differente visuale, si può inoltre constatare che la condizione apposta ad un contratto ad effetti reali opera non solo sulla cessazione dell'efficacia contrattuale al momento in cui l'evento si realizza; ma opera già in un momento anteriore, andando a incidere sulla conformazione originaria della situazione giuridico-soggettiva trasferita, che è per sua natura "instabile"(33). Nella situazione di pendenza, il negozio risolutivamente condizionato è una fattispecie che ha già prodotto una propria dimensione di efficacia, ma che tuttavia non ha ancora esaurito e consolidato i propri effetti finali(34).

 

La dottrina che ha approfondito l'argomento con maggiore attenzione ha rilevato l'assenza, a livello ordinamentale, di una regola unitaria che stabilisca l'inopponibilità dell'inadempimento in quanto tale. Vi sono infatti emersioni normative di segno contrario, in cui l'inadempimento risulta opponibile ai terzi, ancorché in via di eccezione(35). La regola consacrata dall'art. 1458, 2° co., c.c. parrebbe pertanto sancire l'inopponibilità soltanto della risoluzione, intesa come modulo effettuale conseguente all'inadempimento, e non dell'inadempimento in quanto tale. Ne discende che se l'inadempimento è inserito, come nel caso della condizione risolutiva, in una diversa cornice strutturale e funzionale, esso risulterà opponibile anche ai terzi aventi causa, senza che trovi applicazione la regola limitativa di cui all'art. 1458, 2° co., c.c.

 

In altri termini, ciò che tale disposizione definisce come inopponibile ai terzi non è l'inadempimento in se stesso, ma l'insieme di effetti giuridici - ovvero la risoluzione del contratto - che in quel contesto disciplinare conseguono all'inadempimento.

 

Affermata l'astratta ammissibilità della condizione di inadempimento e chiarito che ad essa si applica la regola della retroattività reale ex art. 1357 c.c., anche in danno dei terzi subacquirenti, resta da appurare se tale effetto può essere ostacolato dalle regole specifiche dettate in tema di trascrizione degli atti condizionati(36). Infatti, anche se l'art. 1458, 2° co., c.c. non risulta applicabile, neppure estensivamente, al caso della risoluzione che consegue all'avveramento della condizione risolutiva, occorre comunque ricordare che il codice civile detta regole specifiche in tema di trascrizione degli atti condizionati, sicché ulteriori problematiche applicative potrebbero derivare dall'omessa o irregolare trascrizione dell'atto originario sottoposto a condizione.

 

La sentenza non affronta tali problematiche, e ciò in quanto il conflitto di titolarità è stato "sbrogliato" limitandosi a sfruttare un dato di fatto presente nella fattispecie concreta. La ricorrente, nel contratto d'acquisto della nuda proprietà, aveva infatti espressamente accettato la condizione «di carattere obiettivo, costituita dall'inadempimento»(37): i giudici hanno così ritenuto che tale dichiarazione valesse a "proiettare" gli effetti risolutivi derivanti dalla condizione di inadempimento apposta al contratto di rendita vitalizia anche al secondo contratto con cui era stata alienata la nuda proprietà.

 

Ma come si accennava in apertura, il caso de quo è comunque uno dei primi in cui sia emerso un conflitto di titolarità susseguente all'avverarsi della condizione risolutiva di inadempimento e pertanto costituisce un'utile occasione di riflessione sul rapporto tra retroattività dell'effetto risolutivo e norme sulla trascrizione degli atti condizionati.

 

L'art. 2659, 2° co., c.c. stabilisce che della condizione si debba fare menzione nella nota di trascrizione(38), ma nulla si dice circa le conseguenze della mancata menzione di questo elemento nel caso in cui l'atto sia comunque trascritto. Il quadro delle disposizioni codicistiche è infine completato dall'art. 2655 c.c. (39), che al 1° co. prescrive che qualora un atto trascritto sia soggetto a condizione risolutiva, l'avveramento della condizione - sia essa accertata in via convenzionale o tramite sentenza - deve essere annotato a margine della trascrizione dell'atto. Il problema pratico che si potrebbe porre in tema di condizione risolutiva di inadempimento è dunque quello dell'omessa menzione dell'esistenza della condizione risolutiva nella nota di trascrizione.

 

Sono prospettabili, sul punto, due soluzioni antitetiche(40). In base alla prima, l'omessa menzione della condizione rende inopponibile l'effetto risolutivo ai terzi aventi causa dal primo acquirente che abbiano trascritto il proprio atto prima della domanda di risoluzione(41). La seconda tesi tende a ridimensionare il ruolo pratico di tale menzione: se l'atto è stato trascritto, i terzi avrebbero comunque la possibilità di prendere conoscenza (simultanea) dell'atto e della condizione stessa(42). In questa seconda prospettiva, l'effetto risolutivo derivante dall'avveramento della condizione sarebbe opponibile anche ai terzi che abbiano trascritto il proprio atto di acquisto prima della domanda di risoluzione.

 

Il problema esigerebbe ulteriori approfondimenti. Basti però osservare, sinteticamente, che la tesi che richiede l'espressa menzione della condizione risolutiva di inadempimento nella nota di trascrizione ex art. 2659, 2° co., c.c. al fine di rendere pienamente opponibile l'effetto risolutivo anche ai terzi che abbiano trascritto il proprio atto d'acquisto prima della domanda di risoluzione, denota maggiore sintonia col dato sistematico. Occorre infatti considerare il valore multiprospettico assunto dall'art. 2655 c.c.: norma che sanziona l'inefficacia delle successive trascrizioni contro l'alienante che ha ottenuto la risoluzione laddove non si sia provveduto ad annotare l'avveramento della condizione risolutiva.

 

Tale norma introduce in primis un onere a carico della parte che intenda trascrivere un titolo contro il soggetto che - in seguito all'avveramento della condizione - abbia recuperato il diritto precedentemente alienato(43). Ma si è osservato che l'art. 2655 c.c. opera anche come onere a carico dell'alienante. In questa seconda direzione, l'art. 2655 c.c. funziona come regola di "consolidamento" dell'effetto risolutivo nei confronti dei terzi aventi causa(44). Il titolare del diritto che abbia trascritto l'atto, ma senza menzione della condizione, potrebbe così sanare l'originario difetto della trascrizione soltanto procedendo, in un secondo momento, ad annotare l'avveramento della condizione.

 

Questa seconda funzionalità della regola espressa dall'art. 2655 c.c. consente di affermare che una trascrizione a cui faccia difetto, alternativamente, l'originaria menzione della condizione o la successiva annotazione dell'avveramento della condizione non è opponibile ai terzi acquirenti che abbiano regolarmente trascritto il proprio atto.

 

Nulla quaestio, in conclusione, se nella nota di trascrizione è menzionata la condizione di inadempimento, poiché in tal caso ogni ulteriore avente causa soccombe, anche se abbia trascritto il proprio atto di acquisto prima della trascrizione della domanda di risoluzione dell'alienante originario. Se invece nella trascrizione è stata omessa la menzione della condizione, l'originario alienante recupererà il diritto sottoposto a condizione risolutiva soltanto se, prima della trascrizione dell'atto del secondo avente causa, procederà a trascrivere la domanda giudiziale di risoluzione o ad annotare l'avveramento della condizione nelle forme richieste(45).

 

5. Segue:
ii) la risarcibilità del danno

 

Un ulteriore passaggio della motivazione ha interessato la presenza di una clausola penale in favore della parte fedele. La Cassazione ha affermato che l'inadempimento dedotto in condizione non è incompatibile con la pattuizione di una penale, essendo irrilevante l'individuazione della colpa nella condotta del debitore.

 

Occorre a tal proposito menzionare un precedente del 2003 in cui la Cassazione ha prima affermato la legittimità della condizione risolutiva di inadempimento, ma è poi giunta a negare il risarcimento alla parte fedele(46). In quel caso, però, il contratto non contemplava una penale in favore del creditore e la Cassazione è stata chiamata ad una valutazione di più ampio respiro: ovvero stabilire se, stante la portata retroattiva dell'effetto risolutivo, possa giustificarsi l'obbligazione risarcitoria in capo all'inadempiente.

 

Per la Cassazione del 2003, l'inadempimento dedotto come condizione risolutiva determinerebbe l'inefficacia ab origine del contratto, con l'ulteriore conseguenza che verrebbe preclusa la configurabilità del comportamento del debitore in termini di inadempimento vero e proprio.

 

La presenza di una clausola penale dovrebbe tuttavia consentire di prevenire ogni contestazione in merito: è noto che per àmbiti significativi della dottrina la penale non costituisce una pattuizione accessoria, ma un negozio autonomo caratterizzato non da una funzione risarcitoria, bensì da una funzione prevalentemente punitivo-sanzionatoria(47) o, comunque, mista.

 

In qualsiasi modo la si voglia declinare sul piano della funzione, la clausola penale conserva una dimensione in buona parte autonoma in relazione al momento dell'obbligazione e al suo inadempimento.

 

È vero sì che la violazione della lex contractus viene assunta come fatto oggettivo da cui discende il venir meno, con effetto retroattivo, dell'efficacia contrattuale; ma ciò non consente di affermare che la caducazione dell'efficacia contrattuale comporti anche l'assorbimento di ogni profilo di rilevanza dell'inadempimento. Così come l'eliminazione retroattiva del vinculum iuris non può (ovviamente) comportare la caducazione di quella stessa clausola che fa dell'inadempimento un evento condizionante, allo stesso modo il fatto storico dell'inadempimento non cessa di assumere rilevanza nella prospettiva del rapporto obbligatorio rimasto inadempiuto: se in questa prospettiva si va ad inserire - su iniziativa delle parti - una clausola penale, sembra dunque ragionevole che essa trovi sanzione anche nel caso di contratto risolto tramite clausola condizionale di inadempimento.

 

Ampliando il discorso dal caso specifico della penale, si può sinteticamente rilevare che anche la risoluzione ha, di regola, effetto retroattivo, consentendo comunque il risarcimento del danno in favore della parte fedele che agisce per la risoluzione. Tale norma potrebbe prima facie apparire come un indice eccezionale che segna la "sopravvivenza" del vincolo contrattuale risolto ancorché limitatamente al solo profilo risarcitorio. Ma la dottrina più recente, sia quella che si è occupata specificamente della condizione di inadempimento(48), sia quella che ha rivisitato l'istituto della risoluzione(49), è concorde nel ritenere che la compatibilità tra l'estinzione ex tunc del rapporto negoziale e la rilevanza dell'inadempimento a fini risarcitori è espressione di un principio generale e non una caratteristica esclusiva della risoluzione ex art. 1453 c.c.

 

Ne consegue che non sembrano sussistere ragioni d'ordine sistematico per negare, su un piano generale, la compatibilità tra condizione di inadempimento e risarcibilità del danno in favore della parte fedele.

 

Autore: Benedetto Colosimo - Fonte: Obbl. e Contr., 2008, 3, 215

 

Note:

 

(1) P. Carbone, I tanti volti della cd. condizione unilaterale, in Contratto e impresa, 2002, 247, nell'analizzare il tema dalla condizione unilaterale, rileva infatti che «in nessuna delle decisioni edite vi è conflitto con i terzi da risolvere in base ai principi in materia di condizione». La constatazione risale al 2002, ma ad oggi non è dato registrare altri precedenti editi.

 

(2) Per un'analisi delle fasi giurisprudenziali cfr. Peccenini, La condizione nei contratti, Padova, 1995, 24 ss.; si veda soprattutto l'opera di Amadio, La condizione di inadempimento. Contributo alla teoria del negozio condizionato, Padova, 1996, passim ma spec. 76, in nota. In via di estrema sintesi, si può rilevare che in un primo momento - tra gli anni '50 e il finire del decennio seguente - l'orientamento prevalentemente sfavorevole (cfr. ex plurimis Cass., 21.12.1962, in Foro padano, 1963, 271; Cass., 20.10.1972, n. 3154, in Giur. it., 1973, I, 1, 106) era intervallato da poche pronunce difformi che, viceversa, riconoscevano la legittimità della condizione di inadempimento (cfr. Cass., 8.2.1963, n. 266, in Rep. Foro it., 1963, Obbligazioni e contratti, n. 166).

 

(3) Cfr. in particolare la cristallina posizione espressa da F. Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, 9a ed., Napoli, 1966, 199, il quale afferma che «un avvenimento futuro ed incerto, ma attinente alla realizzazione del negozio... non può essere oggetto di una vera e propria condizione». In senso negativo si sono espressi, più di recente, anche C.M. Bianca, Diritto civile, III, Il contratto, Milano, 1998, 516 ss.; e F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, 7a ed., Napoli, 1998, 879.

 

(4) Il termine «attinenza», di cui al testo, rievoca il classico scritto di F. Santoro-Passarelli, op. cit., 199, e la sua tesi notoriamente orientata verso il rifiuto della condizione di inadempimento.

 

(5) Oppure, nel caso di condizione sospensiva di adempimento, prevedere che l'efficacia resti sospesa sino all'adempimento.

 

(6) L'espressione riportata tra virgolette nel testo nel testo costituisce la chiara e sintetica presa di posizione di F. Santoro-Passarelli, op. loc. ult. cit.

 

(7) Cfr. F. Santoro-Passarelli, op. cit., 183-185 e anche 199, dove, con specifico riferimento alla condizione risolutiva di inadempimento, si precisa che «l'inadempimento di una delle prestazioni nel contratto con prestazioni corrispettive costituisce un difetto funzionale della causa».

 

(8) Il mutamento giurisprudenziale si verifica nel corso degli anni '70, a partire da due decisioni coeve delle Sezioni Unite (Cass., S.U., 9.5.1977, n. 1767 e Cass., S.U., 10.5.1977, n. 1805, entrambe in Giur. it., 1977, I, 1, 1259). Nondimeno, anche in tempi relativamente recenti, è dato registrare pronunce distoniche rispetto all'orientamento ad oggi prevalente: da segnalare, in particolare, Cass., 24.1.1993, n. 7007, in Riv. notariato, 1994, 1112; e in Giur. it., 1994, I, 1, 902 ss., con nota critica di Calvo, Deducibilità dell'adempimento in condizione e autonomia negoziale; e ivi, 1995, I, 1, 329, con nota di Iannaccone, L'adempimento dedotto in condizione. Tale ultima pronuncia ha incontrato la censura pressoché unanime della dottrina (cfr. in particolare Amadio, op. cit., 2, nt. 3).

 

(9) Si schierano a favore di questo tipo di condizione, tra gli altri, Sacco, in Sacco e De Nova, Il contratto, I, in Tratt. Sacco, Torino, 2004, 150, per il quale si veda quanto precisato infra in nota per quanto concerne il problema dell'opponibilità ai terzi dell'effetto risolutivo sul piano sostanziale; Maiorca, Condizione, in Digesto. civ., III, Torino, 1988, 382; Amadio, op. cit., passim; Patti, La condizione di adempimento, in Vita notarile, 2000, 1163; Calvo, op. cit., 901; De Cristofaro, Sulla c.d. condizione di adempimento, in Corriere giur., 1997, 1103.

 

(10) Cfr. in particolare Di Majo Giaquinto, L'esecuzione del contratto, Milano, 1967, passim ma spec. 135 e 319 ss., che porta a compimento, nell'ordinamento italiano, i rilievi in parte emersi nella dottrina tedesca con Larenz, Die Methode der Auslegung des Rechtsgeschäfts, Leipzig, 1930.

 

(11) Se non v'è dubbio che l'adempimento è, rispetto al vincolo contrattuale e alla clausola condizionale, un evento che può considerarsi futuro, la dottrina più risalente (cfr. Gorla, Del rischio e pericolo nelle obbligazioni, Padova, 1934, 384) aveva comunque affermato il carattere certo dell'adempimento, in quanto suscettibile di coercibilità. L'adempimento, così inteso, non risulterebbe compatibile con il tratto dell'incertezza che caratterizza l'evento condizionale. L'impostazione - tributaria delle ricostruzioni di matrice pandettistica (cfr. Savigny, System des heutigen Römischen Rechts, III, Berlin, 1840, § 128, 231) - cela un equivoco concettuale in quanto sovrappone, confondendole, la doverosità giuridica con la necessità reale. Né si può sostenere, almeno nell'ottica sostanziale, l'equivalenza tra adempimento spontaneo ed esecuzione forzata, come invece sembra talora affermare la dottrina processualista (cfr. Mandrioli, L'azione esecutiva, Milano, 1955, 523). Autorevole dottrina ha puntualmente osservato che «l'azione dovuta al tempo della nascita dell'obbligo non è nel presente ma nel futuro», e rappresenta «non qualcosa che è, ma qualcosa che potrà essere o non essere» e che pertanto «giace nel campo della mera eventualità» (Irti, Due saggi sul dovere giuridico (obbligo-onere), Napoli, 1973, 22). Sinteticamente, dunque, «la incertezza dell'evento si misura sul piano del fatto. L'evento giuridicamente certo, ma incerto in via di fatto, può essere dedotto in condizione. In particolare possono essere dedotti in condizione l'adempimento e l'inadempimento» (così Sacco, op. cit., 150). In giurisprudenza, per la tesi del difetto dell'incertezza nell'adempimento, v. Cass., 5.1.1983, n. 9, in Nuovo dir., 1983, 638; e in Giust. civ., 1983, I, 1524, con nota di M. Costanza, Finzione di avveramento e condizione potestativa.

 

(12) L'obiezione fondata su una pretesa alterazione del rapporto tra programma contrattuale, causa e motivi individuali si riscontra, in tempi relativamente recenti, in Fusco, Ancora in tema di adempimento come condizione, in Vita notarile, 1984, 291, il quale afferma che non è «possibile che l'autonomia contrattuale possa trasformare l'adempimento da causa in senso tecnico ad elemento accidentale del negozio», pervenendo così alla discutibile conclusione per cui «un contratto in cui le parti abbiano dedotto in condizione l'adempimento (o l'inadempimento, n.d.r.) è un contratto nullo per difetto di causa (art. 1418, c.c. 2° comma)».

 

(13) Sposano questa impostazione critica Cass., 5.1.1983, n. 1, cit.; e ancor prima Cass., 20.10.1972, n. 3154, cit.

 

(14) Cfr. in tal senso Calvo, op. cit., 904; Scarlatelli, La c.d. condizione di adempimento: un problema ancora aperto, in Vita notarile, 1995, 180.

 

(15) Immediato il richiamo, quanto a questa nozione di causa, a Betti, Teoria generale del negozio giuridico, rist. 2a ed., Camerino-Napoli, 1994, 174 ss.

 

(16) Cfr. il contributo, fondamentale sul tema, di G.B. Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, 1966, 370. Per la più recente riaffermazione del principio in giurisprudenza v. Cass., 8.5.2006, n. 10490, in Corriere giur., 2006, 1718, con nota di Rolfi, La causa come «funzione economico sociale»: tramonto di un idolum tribus?

 

(17) Si consideri che C.M. Bianca, che aderisce alla tesi della causa in senso economico-individuale, giunge infatti a negare la legittimità della condizione che sospenda o risolva gli effetti del contratto in connessione alle vicende della prestazione (v. supra, nt. 3).

 

(18) Per il quale si rimanda all'approfondimento monografico di Amadio, op. cit., 107-140.

 

(19) In prospettiva generale, cfr. Falzea, La condizione e gli elementi giuridici dell'atto, Milano, 1941, passim spec. 130 ss.; Id., Condizione, in Enc. giur., VII, Roma, 1988, passim. In relazione al tema specifico della condizione di inadempimento cfr. Amadio, op. cit., 135 e 305, che spiega il problema in termini di «prova di resistenza» del programma negoziale e che, a tal fine, apporta alcuni esempi concreti in nota. Si rinvia anche alle considerazioni di Sacco, op. cit., 140, in tema di promesse unilaterali condizionate.

 

(20) Così G.B. Ferri, op. cit., 47 ss. e nt. 75.

 

(21) Cfr. per quest'impostazione tradizionale il fondamentale contributo monografico di Falzea, La condizione e gli elementi giuridici dell'atto, cit., passim.

 

(22) Così, testualmente, Castiglia, Promesse unilaterali atipiche, in Riv. dir. comm., 1983, I, 375. Per un'esaustiva e completa analisi del problema dell'estrinsecità della condizione risolutiva di inadempimento si rinvia ad Amadio, op. cit., 140 e, soprattutto, 295 ss., il quale osserva che il fatto che la condizione di inadempimento persegua un interesse consistente nel rafforzamento della possibilità di soddisfazione degli interessi contrattuali divisati nel regolamento è una constatazione talmente diffusa in dottrina che è al contempo menzionata sia da coloro che negano la legittimità di tale clausola, sia da coloro che la riconoscono (cfr., tra coloro che ammettono tale clausola sulla base di queste considerazioni, Lenzi, In tema di adempimento come condizione: ammissibilità, qualificazione, disciplina, in Riv. notariato, 1986, 88-89).

 

(23) Cfr. Maiorca, op. cit., 282.

 

(24) Secondo Falzea, op. ult. cit., 235 ss., il rapporto tra condizione sospensiva e condizione risolutiva andrebbe costruito in termini di irriducibile diversità ontologica: la condizione sospensiva sarebbe coelemento d'efficacia che si colloca in posizione marginale rispetto all'atto, operante in un ambito intermedio tra la mera rilevanza e la piena efficacia; la condizione risolutiva è un quid strutturalmente autonomo, che incide sull'atto dall'esterno e dopo che questo abbia già raggiunto la fase dell'efficacia. Sarebbe pertanto fuorviante, secondo l'illustre Autore, ogni tentativo di costruzione unitaria del fenomeno condizionale. La tesi di Falzea, improntata ad una visione normativistica della fattispecie negoziale, cede alle critiche di altra parte della dottrina che sottolinea l'incongruità di tale netta distinzione tra i due tipi di condizione. Infatti, in relazione alle posizioni soggettive, si riscontra una «costante simmetria di posizioni tra alienante sotto condizione sospensiva e acquirente sotto condizione risolutiva» (cfr. Betti, op. cit., 524; e, di recente, Amadio, op. cit., 51 ss., di cui le parole tra virgolette).

 

(25) Tant'è vero che Fusco, L'adempimento come condizione del contratto, in Vita notarile, 1983, 309, che in un primo momento afferma l'inammissibilità della condizione risolutiva di inadempimento, giunge ad un'ulteriore conclusione allorché sottolinea che tra la condizione risolutiva di inadempimento e la clausola risolutiva espressa sussisterebbe «identità sotto il profilo sostanziale». In prospettiva diversa, invece, Besozzi, La condizione di inadempimento (nota a Cass., 24.11.2003, n. 17859), in Contr., 2004, 677, che rileva come dal confronto tra i due istituti, ben lungi dal potersi trarre la conclusione dell'inutilità pratica della condizione risolutiva di inadempimento, si dovrebbe semmai arguire la meritevolezza degli interessi perseguiti tramite quest'ultima pattuizione.

 

(26) Così Amadio, op. cit., 2, 35 e 311.

 

(27) Recita il testo dell'art. 1165, 1° co., del codice previgente: «La condizione risolutiva è sempre sottintesa nei contratti bilaterali, pel caso in cui una delle parti non soddisfaccia la sua obbligazione». Si veda, sul punto, G. Benedetti, La categoria generale del contratto, in Riv. dir. civ., 1991, I, 667-669, e Id., Il diritto comune dei contratti e degli atti unilaterali tra vivi a contenuto patrimoniale, 2a ed., Napoli, 1997, 65.

 

(28) Cfr. Amadio, op. cit., 307, il quale poi sviluppa un'approfondita analisi per dimostrare l'autonomia e le peculiarità della funzione perseguita tramite la condizione risolutiva di inadempimento.

 

(29) L'accostamento, presente tal quale anche nella massima di Cass., 24.11.2003, n. 17859, cit., non è da apprezzare sul piano dell'ordine sistematico. È vero che taluni Autori hanno in passato sottolineato la «somiglianza» tra il diritto di recesso e la condizione risolutiva unilaterale (cfr. Mirabelli, Dei contratti in generale, in Comm. cod. civ., Torino, 1958, 175). Tuttavia, l'accostamento tra gli istituti operato dalla Cassazione resta tecnicamente inesatto. Infatti, anche ammettendo la compatibilità tra recesso e contratti ad effetti reali (tesi oggi largamente condivisa, cfr. ex plurimis, C.M. Bianca, op. cit., 703), resta il fatto che è proprio nella differente estensione degli effetti che si ravvisa la più evidente diversità operativa tra i due istituti. Alla retroattività reale sancita dall'art. 1357 c.c. per la condizione si contrappone, infatti, la retroattività meramente obbligatoria del recesso, che pertanto non è in grado di coinvolgere le posizioni soggettive maturate dai terzi (cfr. G. Gabrielli e Padovini, Recesso (diritto privato), in Enc. dir., XXXIX, Milano, 1988, 40). Sul piano della struttura, poi, ulteriore differenza risiede nel fatto che la condizione richiede la ricorrenza di un evento che una volta verificatosi determina l'automatica cessazione degli effetti, senza la necessità di alcuna dichiarazione, come avviene, invece, nel recesso. Nel caso della condizione risolutiva unilaterale, la dichiarazione della parte serve, semmai, a rinunciare all'effetto già prodottosi in suo favore (cfr. Franzoni, Degli effetti del contratto: efficacia del contratto e recesso unilaterale, in Comm. Schlesinger, Milano, 1998, 365). Di questa distinzione, che sembra sfumare nella sentenza in commento, è ben consapevole la Cassazione in altre sentenze (v. Cass., 7.8.1989, n. 3626, in Giust. civ., 1990, I, 1850).

 

(30) Cfr. G. Tatarano, "Incertezza", autonomia privata e modello condizionale, Napoli, 1976, 89-92.

 

(31) Va a tal proposito osservato che anche un autorevole Autore (Sacco, op. cit., 148), che pure ammette la legittimità della condizione di inadempimento, si chiede, in prospettiva dubitativa, se in tal caso non sia necessario procedere ad un adeguamento in via d'interpretazione dei meccanismi di funzionamento della condizione. Adeguamento che dovrebbe servire a tutelare i terzi in ragione delle «esigenze di protezione della buona fede, dell'apparenza e dell'affidamento».

 

(32) Ed è questa, come si è visto, la strada seguita in modo eccessivamente sintetico dalla Corte di Cassazione nella sentenza in commento.

 

(33) Così Amadio, op. cit., 388.

 

(34) Cfr. S. Maiorca, op. cit., 293, in nota. Dovendo qui trascendere la dibattuta questione della spettanza del diritto in fase di pendenza della condizione, si può osservare che le diverse costruzioni teoriche sono concordi nel considerare la situazione soggettiva dell'acquirente come "instabile" ab origine. Che la si configuri come sommatoria di poteri cui non corrisponde ancora la piena titolarità del diritto (cfr. Amadio, op. cit., 394), che la si qualifichi come aspettativa giuridicamente tutelata (cfr. Rescigno, Condizione (dir. civ.), in Enc. dir., VIII, Milano, 1961, 780), o che infine si giunga, sulla scia della dottrina tedesca (non facilmente obliterabile in Italia) a costruirla come un'ipotesi di diritto reale parziario su un bene altrui (cfr. Blomeyer, Studien zur Bedingungslehre, II, Berlin-Leipzig, 1938, 172 ss.), resta comunque assodato che il terzo subacquirente, acquistando dall'alienante un diritto soggetto agli incerti esiti della vicenda condizionale, subentra in una posizione che nasce già "conformata" in modo qualitativamente diverso rispetto all'ipotesi del trasferimento incondizionato.

 

(35) Vedi sul punto Amadio, op. cit., 365 ss., il quale cita, a sostegno, i casi previsti dall'art. 1519 c.c., in tema di compravendita di cose mobili, e quello di cui all'art. 2805 c.c. in materia di eccezioni opponibili dal debitore del credito dato in pegno.

 

(36) Sul punto, senza pretesa di completezza, si rinvia a G. Gabrielli, Pubblicità degli atti condizionati, in Riv. dir. civ., 1991, I, 21; Gazzoni, op. cit., 1195; nonché a Pugliatti, La trascrizione. L'organizzazione e l'attuazione della pubblicità patrimoniale. Testo curato e aggiornato da G. Giacobbe e M.E. La Torre, in Tratt. Cicu e Messineo, continuato da Mengoni, XIV, 2, Milano, 1989, 430 ss.

 

(37) Così nel testo della motivazione.

 

(38) La norma ha risolto un aspetto particolarmente controverso, che aveva costituito oggetto di accese dispute teoriche nel vigore del precedente codice, che nulla prevedeva a riguardo. Cfr. N. Coviello, Della trascrizione, II, rist. 2a ed., riveduta da L. Coviello, Napoli-Torino, 1924, 16 ss., che si prodigò a sostegno della tesi della necessità dell'immediata trascrizione del negozio condizionato. Sforzo argomentativo che, tuttavia, non ebbe seguito giurisprudenziale.

 

(39) V. però anche l'art. 17, l. 27.2.1985, n. 52, che al 4° co. sancisce che eventuali condizioni o patti di natura reale devono essere riportati nella nota di trascrizione.

 

(40) Per completezza, occorre menzionare una terza ipotesi, affacciatasi nei primi anni di vigenza del c.c. 1942, secondo cui l'omessa menzione della condizione rileverebbe come motivo di nullità della trascrizione, ex art. 2665 c.c., a causa dell'oggettiva incertezza sul rapporto giuridico trascritto. Questa ipotesi, ancorché richiamata in termini peraltro dubitativi nella Relazione del Guardasigilli (n. 1091), appare effettivamente eccessiva e sistematicamente errata. Per un approfondimento cfr. G. Gabrielli, op. cit., 24, dove ulteriori riferimenti bibliografici.

 

(41) Per questa tesi cfr. Natoli, Della tutela dei diritti, a cura di Natoli e Ferrucci, in Comm. cod. civ., VI, 1, Torino, 1971, 204.

 

(42) Di questa tesi v'è emersione, ancora una volta soltanto in termini dubitativi, nella stessa Relazione del Guardasigilli (n. 1090).

 

(43) Cfr. G. Gabrielli, op. cit., 33.

 

(44) Per questa tesi, cfr. Natoli, op. cit., 190 ss.; Triola, La trascrizione del negozio condizionato, in Vita notarile, 1975, 669; Zucconi Galli Fonseca, Note schematiche intorno al rapporto fra pubblicità ed efficacia della sentenza contro gli aventi causa "post rem iudicatum", in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1968, 1444; Sorace, Annotazione di atti e provvedimenti, in Enc. giur., II, Roma, 1988, 2 ss.

 

(45) In questo senso, cfr. Zucconi Galli Fonseca, op. cit., 1444; Triola, op. cit., 670.

 

(46) Cass., 24.11.2003, n. 17859, cit., 667.

 

(47) Cfr. Magazzù, Clausola penale, in Enc. dir., VII, Milano, 1960, 188-189; Moscati, Pena privata e autonomia privata, in Riv. dir. civ., 1985, I, 511 ss.; Trimarchi, La clausola penale, Milano, 1954, 21 ss.

 

(48) Cfr. in particolare le pagine di Amadio, op. cit., 420-446.

 

(49) Cfr. Luminoso, Della risoluzione per inadempimento, I, 1, in Comm. Scialoja-Branca, a cura di F. Galgano, Bologna-Roma, 1990, 351-352.