Il tentativo obbligatorio di conciliazione nel pubblico impiego

 

Il legislatore della riforma del pubblico impiego ha creato un articolato sistema di gestione delle liti che mira a ricomporre la separazione fra azione sindacale e processo, configurando, da un canto, una zona ibrida destinata agli strumenti di amministrazione del contratto collettivo, che possono essere attivati (anche) durante l'istruzione della causa e, dall'altro, una fase pregiudiziale del contenzioso affidata alle tradizionali forme di risoluzione stragiudiziale delle controversie, quali la conciliazione

Con il trasferimento della giurisdizione delle controversie degli ex pubblici dipendenti al giudice (ordinario) del lavoro, il legislatore ha ritenuto opportuno introdurre forme compositive delle liti destinate a prevenire disfunzioni dovute al sovraccarico del contenzioso giudiziario al fine di evitare un ulteriore aggravamento della gestione dei tribunali del lavoro.

Tuttavia, sarebbe riduttivo ritenere che la ratio dell'introduzione dello strumento della conciliazione sia stata determinata esclusivamente dall'esigenza di deflazionare il contenzioso. In realtà, osservando l'evoluzione storica della materia e la previsione contenuta nella prima proposta della commissione di esperti nominata dal governo di una conciliazione collettiva per dirimere le controversie sull'interpretazione delle clausole contrattuali accanto al tentativo obbligatorio di conciliazione delle controversie individuali, si rileva che l'obiettivo fosse quello di aprire spazi alla gestione sindacale del complesso processo di privatizzazione del lavoro pubblico anche nella fase del contenzioso.

Quest'operazione di politica del diritto verrà nella seconda fase della riforma ad assumere contorni meglio definiti e sarà estesa, nella parte concernente la conciliazione, a tutte le controversie di lavoro, pur mantenendo significativi e talora non giustificati profili di differenziazione.

Il legislatore nel 1997, con la seconda delega, ha operato una estensione del diritto del lavoro comune, riconducendo nell'ambito dei poteri privati e del regime del contratto i poteri organizzativi della pubblica amministrazione, con la conseguenza di "defunzionalizzare" gli atti di gestione dei rapporti di lavoro e di eliminare ogni forma residua di interesse legittimo del dipendente; da ciò trae origine l'esclusività del giudice ordinario a conoscere le controversie relative al rapporto di lavoro privatizzato.

Prima di individuare gli elementi essenziali del tentativo di conciliazione, va affrontato il problema principale della decisione in merito alla natura facoltativa ovvero obbligatoria della procedura in argomento, in considerazione del fatto che il sistema giudiziale italiano è imperniato sulla disposizione dell'art. 24 della Costituzione, che stabilisce il diritto di tutti di "....agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi".

La Corte Costituzionale (sent. 13 luglio 2000 n. 276) è intervenuta sulla materia del tentativo obbligatorio di conciliazione nell'ambito delle controversie privatistiche, ribadendone l'obbligatorietà e la piena legittimità costituzionale. In particolare, per quanto attiene alla presunta violazione dell'art. 24 la Consulta ha rilevato come del tutto infondata appare la censura di incostituzionalità in quanto se è vero che la Costituzione afferma solennemente l'effettività della tutela giurisdizionale, è altrettanto vero che "l'ineffettività del modo di tutela può risolversi nella violazione della norma costituzionale, in quanto derivi direttamente dalla legge così come formulata e strutturata e non dalle modalità, più o meno efficaci della sua applicazione". Né la violazione potrebbe sussistere, a parere della Corte, nell'eventuale ritardo che l'azione innanzi l'Autorità Giudiziaria andrebbe ad accumulare, perché l'art. 24 non garantisce l'immediatezza dell'azione, essendo possibili oneri ex lege finalizzati alla tutela di interessi superiori.

Trattando, poi, più nello specifico l'argomento, occorre incentrare l'attenzione sulla circostanza che il legislatore delegato (d.lgs. 80/1998 e d.lgs 387/1998) estende la nuova disciplina a tutto il contenzioso del lavoro, quindi sia alle controversie che riguardano i rapporti di lavoro con le nuove norme del Codice di procedura civile, modificando gli artt. 410 e ss., e, nel contempo ha dettato agli artt. 69 e 69 bis del d.lgs 29/1993, novellati dagli artt. 65 e 66 del d. lgs. 165/2001 una disciplina speciale del tentativo obbligatorio di conciliazione per le controversie concernenti i rapporti di impiego con le amministrazioni pubbliche. In sostanza, nel momento in cui si generalizza tale meccanismo, la conciliazione nel settore del pubblico impiego non si pone più come autonoma e separata, ma si inserisce nell'ambito dell'istituto disciplinato dall'art. 410 C.p.c.; tuttavia essa presenta marcati caratteri di specialità, la cui opportunità (e, forse, legittimità) deve essere verificata alla luce del principio generale della riforma di parificazione sostanziale e processuale del rapporto di lavoro pubblico con quello privato. I suddetti elementi differenziali riguardano in primo luogo la competenza territoriale: coerentemente con quanto dettato dall'art.413, comma 5, C.p.c. per l'individuazione del giudice, l'art. 66 comma 1, d. lgs. n. 165 del 2001, prevede che il tentativo si svolga "presso la Direzione provinciale del lavoro nella cui circoscrizione si trova l'ufficio cui il lavoratore è addetto, ovvero era addetto al momento della cessazione del rapporto". Non è pero prevista l'applicazione degli altri fori di cui all'art. 413 c.p.c., o di quelli indicati in via residuale dall'art. 18 c.p.c. così come invece statuito dal combinato disposto degli artt. 410, comma 1, e 413 c.p.c. per il rapporto di lavoro privato.

Diverso è poi l'organo che deve gestire la conciliazione: il collegio si istituisce pur sempre presso la Direzione Provinciale del Lavoro, ma è, per così dire, a composizione variabile, in quanto di esso fanno parte il direttore dell'ufficio o un suo delegato, un rappresentante dell'Amministrazione e un rappresentante del lavoratore. La Direzione provinciale ha poi il compito di dare supporto logistico al collegio, mettendogli a disposizione una segreteria tecnica. Sarebbe stato opportuno prevedere il medesimo tipo di collegio anche per le conciliazioni sulle controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze di privati, eliminando, così le pletoriche commissioni di conciliazione previste dall'art. 410, comma 4, c.p.c.

Un altro punto riguarda il procedimento. Quello proprio delle conciliazioni nel pubblico impiego è molto più formalizzato; infatti sono statuiti espressamente taluni adempimenti che devono essere svolti sia dal lavoratore dipendente che dall'Amministrazione. Sotto questo profilo occorre segnalare gli obblighi sussistenti a carico dell'Amministrazione, i quali fanno supporre l'esistenza di una fase prodromica che possiamo chiamare di pre-conciliazione.

L'amministrazione, infatti, entro 30 giorni dal momento in cui riceve, con raccomandata, la richiesta del tentativo di conciliazione - che deve contenere l'indicazione della pretesa e delle ragioni poste a suo fondamento, anticipando il petitum e la causa petendi - deve presentare le proprie deduzioni scritte, a meno che non intenda aderire alle richieste del lavoratore. L'adesione dell'amministrazione, secondo la dottrina, andrebbe qualificata come atto dispositivo del diritto che non fa sorgere la controversia.

Il punto è dubbio, perché si porrebbe in tal modo un onere particolarmente gravoso per la p.a., non previsto per gli altri datori di lavoro. Si potrebbe perciò sostenere che l'assenza della p.a. in questa fase rileva esclusivamente ai fini del regolamento delle spese processuali (art. 66 comma 7, d.lgs. n. 165 del 2001). Tuttavia, la prima lettura dell'enunciato normativo appare rispondente all'obbligo posto a carico delle amministrazioni pubbliche dall'art. 12 bis del d. lgs. n. 29 del 1993 di "organizzare la gestione del contenzioso del lavoro, anche creando appositi uffici, in modo da assicurare l'efficace svolgimento di tutte le attività stragiudiziali e giudiziali inerenti alle controversie". La p.a. è dunque in possesso o deve dotarsi di tutti gli strumenti organizzativi per gestire nel modo più efficiente il contenzioso; essa è quindi in grado di valutare la proposta del dipendente prima che questi agisca in giudizio.

La fase conciliativa si instaura soltanto nell'eventualità che la p.a. non intenda aderire alla richiesta e quindi abbia presentato le proprie controdeduzioni e nominato il rappresentante in seno al collegio.

Il sistema così strutturato porta a ritenere che, diversamente dalla disciplina generale, la conciliazione qui incide sulla situazione litigiosa perché, oltre ad operare (come di consueto) sul piano sostanziale, individua e fissa una volta per tutte la determinazione formale delle posizioni di pretesa ed eccezione delle parti, condizionando dunque anche il contenuto dell'eventuale domanda riconvenzionale della p.a.

La fase conciliativa in senso proprio diverge dalla disciplina contenuta nel codice di rito in particolare nella parte relativa alla proposta di bonario componimento della controversia e alla previsione di esenzione della responsabilità amministrativa a carico del funzionario che l'abbia accettata.

Il legislatore ha esentato da responsabilità amministrativa il funzionario incaricato di rappresentare la p.a. e munito del potere di conciliare (questo, ai sensi dell'art. 16, comma 1, lett. f), d.lgs. n. 29 del 1993, appartiene ai dirigenti di uffici dirigenziali generali, che dunque, dovranno delegarlo).

La disposizione in parola non era probabilmente indispensabile dal momento che l'oggetto della transazione riguarda diritti che non fanno più parte della sfera pubblicistica e di cui quindi la p.a. può disporre. In realtà il legislatore ha ritenuto di limitare tale potere dispositivo in capo al funzionario rappresentante, stabilendo che l'esenzione di responsabilità è limitata all'ipotesi in cui questi si limiti ad aderire alla proposta formulata dal collegio, ma non quando la conciliazione avvenga su sua autonoma iniziativa. La cautela è opportuna e coerente con la previsione della fase pre conciliativa sopra ricordata.

La domanda giudiziale - ai sensi dell'art. 65, comma 2, d.lgs. n. 165 del 2001, "diviene procedibile trascorsi novanta giorni dalla presentazione della richiesta del tentativo di conciliazione". L'allungamento del termine, rispetto a quello indicato dall'art. 410 bis risulta comprensibile alla luce della maggiore formalizzazione della conciliazione nel settore pubblico e, in particolare, negli adempimenti posti a carico delle parti, nonché nella composizione variabile del collegio.

Discutibili invece sono due disposizioni speciali. La prima nell'ultima parte del comma 3 dell'art. 65 stabilisce che la parte "contro la quale è stata proposta la domanda" in violazione delle disposizioni sul tentativo obbligatorio di conciliazione, dopo che questo sia stato sperimentato a seguito dell'improcedibilità rilevata dal giudice, "con l'atto di riassunzione o con memoria... può modificare o integrare le proprie difese e proporre nuove eccezioni processuali e di merito, che non siano rilevabili d'ufficio". La norma, formalmente neutrale, attribuisce, in realtà, "un privilegio alle pubbliche amministrazioni rispetto al datore di lavoro privato convenuto in un ordinario processo del lavoro", che è soggetto a preclusioni del rito in materia di nuove prove e di nuove deduzioni.

L'altra differenza è contenuta nell'art. 669 otcties, comma 4, c.p.c., secondo cui il termine per riassumere la causa di merito dopo l'ordinanza di accoglimento di un provvedimento cautelare "decorre dal momento in cui la domanda è divenuta procedibile o, in caso di mancata presentazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione, decorsi trenta giorni". Non è data comprendere perché non sia stata conferita portata generale alla disposizione; così che nel settore privato dovrà applicarsi la diversa disciplina risultante dal combinato disposto degli artt. 669 octies, commi 1 e 2, e 410, comma 2, C.p.c. (sempre che si ritenga che la sospensione ivi indicata si estenda ai termini processuali).

Autore: Dott.ssa Rosa Tangredi (Funzionario della Presidenza del Consiglio dei Ministri) - tratto dal sito www.lexitalia.it