Vincitori e vinti  (… dopo la sentenza 11 luglio 2003 n. 233 della Corte costituzionale).

PAOLO CENDON
(Ordinario di istituzioni di diritto privato – Università di Trieste)

PATRIZIA ZIVIZ
(Docente di istituzioni di diritto privato – Università di Trieste)


Il nuovo incontro avvenuto  tra art. 2059 c.c. e Corte costituzionale, a metà dell’anno 2003,  non sembra candidarsi tra gli eventi indimenticabili della storia del diritto italiano.
Nel   complesso percorso che ha visto l’intelaiatura della norma in esame sottoposta (rispetto alle prime prese di posizioni degli interpreti,  lungo i decenni successivi al 1942) a frequenti rivisitazioni   e riletture, la pronuncia odierna della Consulta  pare destinata  a costituire nient’altro che una tappa intermedia. -  se è vero che molte  tra le questioni attinenti al danno non patrimoniale, all’interno della 233/2003,  appaiono  sorvolate o   restano comunque  irrisolte. 

Siamo dinanzi in effetti  -  come tanti fra gli addetti ai lavori pronosticavano  del resto, soprattutto da qualche mese a questa parte (ma voci del genere, bisogna dire,  circolavano  da tempo nell’ambiente) -   a una mera pronuncia  per relationem,  scarna ed essenziale nei contenuti.
Un testo alquanto opaco nello stile, di poche pagine, in cui si dà quasi tutto per scontato.
La Consulta mostra di non volere  - o di non aver bisogno di  - esprimere una propria posizione,  in qualche modo originale o innovativa,  con riguardo all’art.   2059 c.c.;  anche perché l’ordinanza  di base del Tribunale investiva,   più che altro,  i nodi della risarcibilità del danno morale rispetto ai casi di responsabilità oggettiva (meglio, in ordine ai fatti lesivi tali da non consentire,  nella loro storicità,  la prova di colpe specifiche del convenuto,  e governati astrattamente dal c.c., in punto di danno patrimoniale,   secondo modulazioni arieggianti  criteri non soggettivi  o presuntivi di imputazione).
L’obiettivo per i giudici costituzionali  è in sostanza (la fornitura di) un avallo, autorevole, probabilmente opportuno,   rispetto alle più recenti indicazioni  della Cassazione, circa la portata da riconoscere in generale all’art. 2059 stesso.  Il discorso si esaurisce in poco più che un rinvio  - burocratico, semi-parassitario -   rispetto a   quanto deciso ultimamente dalla Suprema Corte.
Ci si  limita,  nella 233/2003, ad una ripresa verbale  delle argomentazioni di recente espresse da quest’ultima: alcuni  succinti capoversi, non poche somiglianze lessicali, nessuna aggiunta imprevista o stravolgente rispetto all’ordito di base   - quello,  per intenderci,  che era  stato tracciato   poche settimane prima dal  terzetto delle sentenze di Cassazione  nn. 7281, 7282 e 7283, nonché dalla coppia di sentenze gemelle nn. 8827 e 8828 (tutte del maggio del 2003).
Un perfetto lavoro di squadra fra i due organi giurisdizionali;  un gioco delle parti ben preciso.

Vi  sono comunque alcuni tratti  – di  puntualizzazione “alta”, di riassetto nominale -  che appaiono  affrontati in modo esplicito dalla 233/2003.  Poco più che rifiniture di maniera,  a prima vista,  ma nient’affatto scontate o irrisorie.
Rispetto a questi passaggi sarà interessante  tentare,  qui,  un primo inventario.
Ci si potrebbe anzi chiedere, semplicemente. Fra le tante posizioni dottrinarie e giurisprudenziali che sono emerse  durante l’ultimo decennio,  nel dibattito sul danno non patrimoniale  (le varie tesi e contro-tesi di cui la   Consulta parla,  a un certo punto,  come di un “tormentato capitolo della tutela risarcitoria del danno alla persona”:  e viene da obiettare che    di “tutela” occorrerebbe,   in verità,     discorrere con riferimento  alla vittima della lesione;  che non può essere mai un  “danno”  ciò  che il diritto mira a tutelare; che la precisione  appare tanto più necessaria, nel linguaggio,   quanto più ci si trova al centro del guado)   quali in concreto sono atteggiabili come  premiate, trionfanti?  Quali invece, alla luce dell’evoluzione della giurisprudenza di grado più elevato,  quelle che risultano sconfessate, accantonate?

Insomma: chi o che cosa – fra gli autori, le visioni d’insieme, le vie d’uscita ermeneutiche o gestionali, le accademie  cimentatesi sul terreno dei “nuovi danni” -  può dire di aver vinto,   chi o  e che cosa di aver  perso,  in questa sentenza di mezza estate?
Prime  impressioni - allora – “di bottega”,   inerenti allo stile di reazione prescelto.
Vince  sicuramente,  nell’impianto della 233/2003,  il favor per un certo di tipo di  strategia diplomatico/cerimoniale  -  quella da sempre imboccata in materia, ad opera della nostra  Consulta. Il protocollo contrario, cioè, a sancire formalmente l’incostituzionalità dell’art. 2059,   e orientato invece a ritoccare in via interpretativa (prudentemente, sommessamente) il sistema dalla stessa congegnato.
E’ cambiata  rispetto a ieri, nelle opzioni della Corte,  la tattica contingente di  manovra   - e il  risultato consisterà, agli effetti pratici, in un’ennesima apertura nel ventaglio delle ipotesi  di risarcibilità, per il  danno non patrimoniale  nel suo insieme (infra,  §§ 8, 24 ss.).
L’art. 2059,  in quanto tale,  appare ancora tuttavia al suo posto; la scelta di non bollarlo con lo stigma dell’illegittimità è quella che,  ancora una volta, ha prevalso.

Mutamento di tattica abbiamo detto.
Vale a dire:  se,  in passato,  il traguardo di quell’ allargamento veniva perseguito   dai giudici  attraverso uno  svuotamento contenutistico  dell’art. 2059 -   con  operazioni di traghettamento all’esterno di tanti materiali significativi (smistando  le schegge più intriganti del danno non patrimoniale verso altri contesti statutari) -   oggi l’itinerario della Corte  appare differente, per certi versi opposto.
Il  “colpo” alle angustie della precedente disciplina (perché di un colpo si è trattato, in realtà, e non da poco: volendo continuare il gioco, si potrebbe   dire che a vincere,  più di tutto,  è stata   proprio la decisione  di sferrarlo tout court, di  voltare drasticamente le spalle alla tradizione) figura assestato dall’interno.
Da parte della Consulta si interviene,  senza mezze misure,  su quello che rappresenta  da sempre   il cuore pulsante di tale disciplina:    vale a dire il danno morale derivante da illecito penale.
In particolare: a  risultare abbandonato,  da oggi in poi,  è  il   - tralatizio, monolitico -  orientamento secondo cui l’accertamento del reato richiede/richiederebbe  la dimostrazione (della ricorrenza) di tutti quanti gli elementi costitutivi del torto penale, anche quelli di carattere soggettivo. Escludendosi ogni possibile raggiungimento di tale prova nelle ipotesi di negligenza (dell’autore del  fatto criminoso)  affidata semplicemente, come evidenza processuale,   al gioco di qualche presunzione.
A metà dell’anno  2003, sull’onda dei recenti (e stravolgenti) assunti   della S.C.   in proposito, i giudici costituzionali proclamano,    senza più riserve o titubanze,  che il danno non patrimoniale derivante da reato   sarà  risarcibile pur allorquando la colpa dell’autore del fatto risulti, in sede di giudizio civile,  semplicemente da una presunzione di legge – e ciò sempre che manchi, verosimilmente,  la fornitura di prova contraria da parte del convenuto.
(Ed  è interessante rilevare come, per respingere la questione di illegittimità così come prospettata dall’ordinanza di rimessione, figurino utilizzate dalla Consulta  proprio le argomentazioni formulate in quella sede dal Tribunale – in punto di rapporto tra giudizio penale e civile e possibilità di avvalersi, nell’ambito di quest’ultimo, di uno dei mezzi di prova tipici dello stesso – argomentazioni   le quali sono state, nel frattempo, fatte proprie dalla Cassazione, assurgendo così al rango di diritto vivente).

Detto altrimenti   - simmetricamente -  allora.
Escono perdenti, nella 233/2003,  tutti gli auspici o scenari militari  che miravano a qualche rimozione plateale, stentorea,  dell’art. 2059 dall’ordinamento nostrano,  tramite una vera e propria pronuncia di incostituzionalità.
La norma in questione,  sorta di araba fenice del diritto privato,  continua a vivere oggigiorno (a vegetare secondo alcuni) impenitente entro il sistema italiano,   benché modificata in profondità nella sua fisionomia – per certi versi   elevata a splendori mai raggiunti (infra, §§ 8, 24 ss.),  per altri “spennacchiata” e  ridotta  a una sorta di art. 2043 bis (infra, § 31).
Il  numero di quattro cifre fra  2058 e  2060 esiste ancora, comunque,   entro il  c.c.;  la rubrica dell’articolo non è mutata di una sillaba. Il testo della disposizione (stringato, guardingo)  è in apparenza quello di sempre,  coi suoi vocaboli, i suoi avverbi,  le sue preposizioni. 
Un non giurista ,  fors’anche un non tortman,  potrebbe   a prima vista non accorgersi di nulla.

Resta da precisare come l’operazione di maquillage  sia avvenuta,   ancora una volta, nel segno della scarsa chiarezza dogmatica – se non vogliamo parlare proprio di scaltrezze  laboratoriali,   di  silenziose ipocrisie.
In effetti: il risultato concreto cui si potrà o non si potrà pervenire, nella law in action, appare  destinato a  dipendere  in larga misura dalla (maggiore o minor) disponibilità  a procedere, volta per volta,  a  letture incardinantisi sul primato testuale di un criterio  di imputazione “colpevolistico” -   e ciò anche all’interno dei regimi “speciali” di responsabilità.
Ecco il terreno franoso allora,  per gli interpreti   -  e non servirà  neppur richiamare, in proposito,  l’annoso dibattito dipanatosi intorno alla ricorrenza, fuori dall’art. 2043 c.c., di ipotesi di responsabilità fondate su criteri di imputazione di carattere oggettivo. Ecco il busillis,  cioè, il doppio legame, per qualche aspetto l’ossimoro:  a tutti è ben noto come    la  curvatura oggettivistica in esame (cioè la prospettazione in chiave decolpevolizzata di molte fra le fattispecie di cui agli artt. 2048-2054 c.c., senza contare tante altre  disposizioni normative) sia stata propugnata, in ordine a   tutta una serie di ipotesi, pur a livello giurisprudenziale.
E’ evidente allora  come,  rispetto a quelle situazioni codicistiche,   finirà  spesso per riproporsi nella pratica  il problema del (che fare dinanzi ad un) mancato accertamento in giudizio degli estremi del reato -  visto che l’elemento soggettivo non risulterebbe provato/provabile  nemmeno attraverso il meccanismo della presunzione (v. anche infra, § 31).

Quanto alle competenze dell’art. 2059, adesso.
Il quadro che esce complessivamente dalla 233/2003. è ben chiaro. Vince un’indicazione di forte rilancio applicativo  per questa norma. 
Dopo anni di  progressivo “svuotamento” -  attraverso la sottrazione costante di voci biologico/esistenziali   alle sue competenze,  e il mantenimento  entro quell’orbita del solo danno morale soggettivo -  la Consulta, accogliendo in pieno le posizioni espresse da Cass. 8827 e 8828,  mostra di voler avallare (il ripristino di) una convinta signoria di  bandiera, per l’art. 2059,  sull’intero comparto non patrimoniale.
Inutile sottolineare come, agli effetti disciplinari,   tutto ciò vada in senso esattamente opposto rispetto a  certe invocazioni del passato,   favorevoli a un  “ritorno” di principio verso i lidi dell’art. 2059 c.c. (v. anche infra, § 24 ss. ).
Sciolta ormai nell’universo a 360° della Costituzione, la norma in esame appare oggi ben  altra cosa rispetto a ieri. La  riaggregazione dei materiali   sofferenziali/areddituali mostra di avvenire nel segno di una cultura affatto diversa,   di una linea statutaria  per certi versi opposta a  prima.

Note ulteriori di consuntivo.
Escono   perdenti   - nella 233/2003   - gli orientamenti   volti  a caldeggiare, a sessant’anni dalla prima apparizione dell’art. 2059, una lettura di tipo sanzionatorio  per  l’ultima  norma del IV° libro del c.c.
In effetti: la Consulta afferma a chiare lettere come  ogni registro di natura   affittiva (a suo tempo avallato dalla stessa Relazione al codice civile -  in verità alquanto sbrigativa e superficiale  già allora!) debba ritenersi   smentito/superato,  alla luce delle più recenti innovazioni positive;    ossia degli sviluppi nella legislazione   italiana che hanno visto affiancarsi progressivamente, alla previsione di cui all’art. 185 c.p.,   numerose altre figure di risarcibilità del danno non patrimoniale. 
Casi ai quali, bisogna dire,  risultano completamente  estranei  - già ad un  primo sguardo  -  risvolti e valenze di carattere repressivo.
E ulteriore conferma di un simile assunto deriverebbe, nell’opinione dei giudici costituzionali, dal necessario riscontro per le evoluzioni giurisprudenziali che attengono all’universo non patrimoniale,  complessivamente inteso. Ciò in ragione dell’esistenza di voci  lesive (prima fra tutte il danno biologico)  che figurano attualmente risarcite, ex art. 2043 c.c.,  ben al di fuori di una rilevanza penale dell’illecito -  eventualità, questa,  idonea  a postulare il gioco di  finalità non recriminatorie per quanto riguarda la riparazione del danno non patrimoniale.

Al di là ogni ispirazione punitiva, l’art. 2059 c.c. assolverebbe in definitiva, secondo l’opinione della Consulta, una “funzione tipizzante dei singoli casi di risarcibilità del danno non patrimoniale”.
Ebbene, da tale punto di vista  - può osservarsi  - i  dilemmi per la responsabilità restano in larga misura  insoluti (v. anche infra, § 24 ss.).
Con quella formula non si fa, in effetti, che sintetizzare il mero dettato  esteriore della norma. Resta oscuro e inespresso, invece,  lo scopo ultimo di una disciplina che appare volta ad ammettere,  come questa,      il ristoro del danno non patrimoniale in alcuni casi  sì e in altri casi no.
Detto altrimenti. Se il punto cruciale non è,  o non è più per il diritto civile,   quello di castigare un colpevole (in situazioni di spiccata reprensibilità del suo comportamento), la spiegazione della differenza dovrà/dovrebbe  focalizzarsi sul versante specifico della vittima. Per cui si tratterebbe – si  tratterà - di chiedersi perché  mai in alcuni frangenti il danneggiato andrebbe salvaguardato ex lege Aquilia,  in ordine ai patimenti  e nocumenti subiti, e in altri casi invece no,   pur restando identico di per sé  il pregiudizio patito.
Rimane aperto in definitiva,  con riguardo all’illecito,  il problema dell’individuazione circa le ragioni giustificatrici  su cui assiedere, funzionalmente,  il quia della limitazione di risarcibilità del danno non patrimoniale ai soli “casi determinati dalla legge”.
Si tratta di interrogativi che,   nella sentenza n. 233/2003,    mostrano di essere ex professo  accantonati -   poiché considerati privi di rilevanza, e quindi inammissibili, riguardo alla vicenda sottoposta al suo giudizio. E’ invece un punto che andrebbe, in generale,  ripensato e attentamente valutato   oggigiorno, alla luce del quadro emergente dalle più recenti prese di posizione della Suprema Corte.

Altro passaggio  (forte, manifesto)  da rimarcare nella 233/2003: esce   perdente, con questa sentenza,  ogni possibilità di atteggiare di qui in poi il territorio non patrimoniale come realtà esaurentesi,  distribuita a metà,     nel semplice gioco del duetto “danno biologico” più   “danno morale”. 
Battute in breccia appaiono, in particolare,  le tesi secondo cui pregiudizio “morale” e pregiudizio “esistenziale” sarebbero, strutturalmente, la medesima  cosa - due facce di un’unica medaglia,  un quid da riparare una volta sola ( al di là delle parole impiegate)  nel contesto di una  stessa sentenza.
E per i frequentatori di convegni sarà interessante, d’ora in avanti,    vedere se e come  i sostenitori di simile identificazione continueranno ancora a perorarla,  cimentandosi alla tribuna in esempi   lambiccati e impossibili.
Nessun dubbio,  comunque,  quanto al pensiero e alle indicazioni della   Consulta. Pur  a livello di obiter  dictum (v. retro, § 2), vi è un formale riconoscimento  circa la pluralità  morfologica da ravvisare  -    quanto cioè alla distinzione  di campo da mantenere - tra le poste classiche del ceppo non patrimoniale.
Più precisamente, vengono  elevate/ricomprese sotto l’egida di quest’ultimo, senza più reticenze di sorta (diversamente che nella sent. 8828 della Cassazione),   tre  partite generali di danno:

(a)    il danno morale, 

(b)   il danno biologico,

(c)    il danno  derivante   da    lesione    di   interessi   inerenti   alla    persona  costituzionalmente protetti

(quest’ultimo,  definito, secondo le  indicazioni dottrinarie, quale pregiudizio esistenziale).

Respinte del tutto appaiono, in definitiva, le  postulazioni dottrinarie circa la (pretesa) sufficienza di una nozione di danno non patrimoniale tratteggiata in termini   puramente negativi -  a fronte di una scansione tassonomica, che ricalca quella offerta dalle scuole più moderne,  e che individua in maniera compiuta e non formale i distinti segmenti riportabili a quella nozione.

Altra posizione che esce sconfitta, nella 233/2003: quella  vagheggiante il rifiuto del danno  esistenziale quale categoria ufficiale,  indipendente,    del lemmario della responsabilità civile in Italia (possibilità adombrata, in maniera alquanto apodittica, dalla Cassazione nelle sentenze 8827 e 8828).
E’ in tale passaggio della motivazione  della Consulta anzi – nel crisma offerto solennemente al danno esistenziale,  quale  figura corrente ed unitaria dell’illecito  aquiliano - che deve salutarsi, probabilmente,  la nota di maggior originalità  “catastale” rispetto alle recenti decisioni della   S.C.

Bollata ancora dalla Corte costituzionale, seppellita  anzi per sempre,  è poi  l’opinione  secondo  cui il danno biologico -  in vista della sua (supposta) misurabilità attraverso una scala di valori omogenei, socialmente condivisi - costituirebbe una voce di  natura patrimoniale (in qualsiasi modo inteso).
E’ questa in verità  una notazione  su cui -  negli scritti  e negli incontri di studio -  si era venuto insistendo sempre meno,  e sempre più pudicamente,  durante gli ultimi tempi.
Anche  i (volonterosi) artefici di un’acrobazia qualificatoria del genere   - diceva André Gide: “Con i buoni sentimenti non si fanno i buoni libri” -   glissavano  oramai da tempo   sul punto,  preferendo affidare  a nuovi spunti l’apologia  del danno biologico.
I funerali  ufficiali  non erano stati   però ancora celebrati.
Il  - già preannunciato -  trasloco sotto l’egida dell’art. 2059 ha l’effetto di sancire   per tabulas, da parte della Corte costituzionale,   il   (riconoscimento del)  tenore “non patrimoniale” di tale posta.

Ad uscire esaltata nella  233/2003 – ecco il vessillo che   più sventola -   è  soprattutto la percezione circa la comunanza che lega fra di loro,  ontologicamente e funzionalmente,     il danno biologico e tutti gli altri danni non patrimoniali  derivanti dalla lesione di interessi di rango costituzionale inerenti alla persona, nel segno della compromissione di qualche attività realizzatrice.
Sul fondale di tale ricomposizione  -  che  valorizza come non mai i topoi   dell’attenzione  per il “fare/essere”, per l’ “agenda quotidiana”, per la “qualità della  vita” degli esseri umani (che consolida il soffio di questi motivi al centro del giudizio di responsabilità) -   sarà appena il caso di sottolineare come perda di significato, nello strumentario del giurista, ogni pretesa di contrapposizione fra un danno “biologico” (pretesamente) oggettivo e un danno “esistenziale”  (pretesamente) soggettivo, da assoggettarsi  per tale motivo  a  differenti falsarighe disciplinari.

Nessun riscontro d’altronde -   proseguendo con il censimento dei “sì” e dei “no” per le tesi passate  -   trovano nella 233/2003     le indicazioni circa la necessità/plausibilità  di un   qualche approccio restrittivo,  fondato in particolare  sull’inserimento di filtri quali la “gravità dell’offesa”,  per le poste esistenziali non ricollegabili  direttamente alla lesione della salute   (anche uno sbarramento del genere era stato suggerito, a  un certo punto della discussione; non senza buoni  propositi,    però forse con troppa immaginazione, e   con un pizzico di diffidenza ingiustificata;  si legge allora nell’Antologia di Spoon River, di Edgar  Lee  Master, epitaffio di George Gray: “And now I know that we must lift the sail – and catch the winds of destiny – wherever they   drive the boat. – To  put meaning in one’s life may end in madness, - but life without meaning is the torture – of restlessness and vague destre – it is a boat longing for the sea and yet afraid”).

Più d’una   – all’esito di questi vari raffronti – le domande generali  che si pongono.
Anzitutto. Ha senso  dopo la 233/2003   puntare ancora,  nominalmente o intellettivamente,  sulla distinzione tra “danno/danni di tipo (esistenziale) biologico” e “danno/danni di tipo esistenziale (non biologico)”?  Non   sarebbe più fondato un percorso di unificazione concettuale fra le due figure,   come suggerito di recente anche dalle Sezioni  riunite della Corte dei conti?
Le sub-categorie proprie del danno patrimoniale, d’altro canto:  sono in grado di offrire,  per il modo in cui si presenta la loro diarchia,   qualche indicazione di lavoro?
A scorrere il testo della  stessa 233/2003, poi: vi sono indicazioni di rilievo, fornite dalla Corte su questo  punto? Il taglio consequenzialistico  appare presentato  in maniera diversa, fra d. biologico e d.esistenziale?
In generale: si può ancora parlare in Italia di un sistema “bipolare”? Lemmi come “patrimoniale” e “non patrimoniale” mantengono una ricchezza apprezzabile di contenuto?

Quanto al primo punto allora.
Più il tempo passa, meno facile diventa contestare  -  avendo riguardo alla natura delle conseguenze prese in considerazione  (cioè  alla comunanza dei profili  relazionale e  dialogico ) -  la forte affinità di struttura tra le figure  del danno biologico e del danno esistenziale.
Sono palesi  beninteso,   fra i due capitoli,  le diversità  di tipo “chimico/genetico” -   con le varie peculiarità che   possono derivarne in sede organizzativa; ad esempio,   ai fini del ruolo da far giocare alla medicina legale, rispetto  al senso e al peso orientativo   da riconoscere alle tabelle, e così via.
Il rinnovarsi odierno, da parte della Consulta,   quanto all’identità di sede normativa, cioè di destino disciplinare, diventa tuttavia  (ai fini della modellistica aquiliana)  l’elemento determinante per orientarsi.  
Si è passati ad un 2059 che è,  ormai,  una sorta di controfigura secolare/esecutiva  del 2043. Ogni diversificazione fra biologico e non biologico pare  quindi destinata ad assumere,  di qui in poi,   valori puramente storico/archivistici (in ragione della nascita anticipata del primo, rispetto al nido comune di appartenenza). 

Di qui l’approdo tendenziale – nella sala di comando dell’illecito - ad una  categoria  generale ed unitaria,  intitolata  appunto al danno esistenziale,   e ricomprensiva di due sotto-alvei fondamentali:

(a) quello  del danno “esistenziale biologico” (luogo cui ricondurre tutte le ipotesi effettive di aggressione alla salute);

(b) quello  del danno “esistenziale non biologico” (sede per le menomazioni inerenti a beni diversi  dall’integrità psicofisica).

Non si  tratta,  del resto, di una metodologia  di riscontri   circoscritta al settore delle  ripercussioni “da attività realizzatrici compromesse”. Analoghe, per tanti versi,   le modulazioni architettoniche ravvisabili presso agli altri settori del danno.
Il “danno patrimoniale”, anzitutto. Nessuna distinzione  appare   registrabile, nella nomenclatura ufficiale,   tra   (a) le figure risarcitorie in cui il valore  della persona  - che è stato colpito   - corrisponda alla salute fisica   o psichica;  e (b) le figure in cui il valore personale  calpestato corrisponda invece   a beni o diritti d’altro genere (onore, riservatezza, nome, etc.).
Il “danno morale soggettivo”, in secondo luogo. Fra (x)  il dolore e le sofferenze di chi  sia stato (mettiamo)  ferito o sfregiato al viso,  o sia impazzito per colpa di un altro, e (y) il dolore e i malesseri di chi si è visto invece toccato nella sia reputazione o nella sua libertà, nessun  solco di rilievo appare tracciato mai dal legislatore, in dottrina,  in giurisprudenza.

Quanto alla  stessa sent. 233/2003, poi: non sembra diversa, a tener conto di certe spie linguistiche,  l’impalcatura classificatoria che la pronuncia suggerisce.
La citata sentenza fa, in effetti,  riferimento al “danno biologico in senso stretto, inteso come lesione dell’interesse, costituzionalmente garantito, all’integrità psichica e fisica della persona, conseguente ad un accertamento medico” -  e   subito dopo accenna al “ danno (spesso definito in dottrina ed in giurisprudenza come esistenziale) derivante dalla lesione di (altri) interessi di rango costituzionale inerenti alla persona”.
E’ palese fino a che punto la Consulta ravvisi  per prima,  implicitamente, nelle due voci in esame (il d.biologico,  il d.esistenziale) semplici terminali   di una medesima realtà di partenza:  vale a dire -  ancora una volta,   per restare alla formula  di cui alla “madre di tutte le sentenze” -   la compromissione delle attività realizzatrici della persona. 

In merito poi al taglio consequenzialistico.  Può notarsi magari, pesando le parole col bilancino,  come nel testo della  233/2003   esso   risulti  marcato:
- con maggior nettezza, in sede di definizione del danno esistenziale;
- meno limpidamente, in sede di definizione di pregiudizio biologico (dove l’accento sulle conseguenze figura posto addirittura, con notevole goffaggine, sul profilo probatorio, laddove si parla di un pregiudizio conseguente ad un accertamento medico!!!).
Non sembra  che a tutto ciò debba, peraltro,  attribuirsi particolare risalto.
Se così  non fosse comunque - qualora sopravvivesse, nell’inconscio della Corte costituzionale, riguardo al d.biologico,  una sorta di incrostazione eventistica (magari  in forza della suggestione proveniente da qualche  cattivo,    recente, testo di legge)  -   si tratterebbe,   semplicemente,  di prendere coscienza dei  vizi  oscuri  di fondo e  delle scorrettezze espressive.
Anzi, il corollario immediato    (poiché la posta in gioco non appare proprio trascurabile, sul terreno del processo)  è   che la prossima volta la Corte dovrebbe vigilare maggiormente,  nella scelta del  linguaggio:   meglio rifuggire, in effetti,  da qualsiasi possibilità di equivoco -    meglio che   l’omogeneità verbale/sintattica tra le sotto-aree del danno esistenziale venga scandita con  fermezza.

E’  palese a questo punto, guardando le cose dall’alto della cattedrale,   come ogni  insistenza sui meriti di una classificazione binaria,  o tripartita, minacci di assumere  sapori quanto mai riduttivi.
La realtà è che la mappa  generale del danno aquiliano sarebbe   casomai    da articolare, per il futuro,  secondo una  scansione intonata al 2 + 3  oppure al 2 + 2 :

- con l’area del danno patrimoniale distribuita, cioè,  fra le due sezioni del danno emergente e del lucro cessante;

- quella del danno non patrimoniale frazionata nei  poli del d.biologico e   del d. esistenziale (questi due appunto accorpabili insieme), nonché del    d. morale.

Circa l’opportunità o meno di far capo,  tecnicamente e idealmente, ad un sistema risarcitorio di tipo  “bipolare”, si tratterà poi di valutare -   per capire dove  stanno esattamente i vincitori e i vinti -   come siano destinate a  svilupparsi,  oggigiorno,  le restrizioni in materia di ristoro del danno non patrimoniale.
Occorre chiedersi, in buona sostanza, se dalla sovrapposizione tra “ingiustizia” di cui all’art. 2043 c.c. e “lesione di interessi di rango costituzionale inerenti alla persona”, rilevante ex art. 2059, emerga o meno una zona scoperta -   un’area a fronte della quale risulterebbe garantito il ristoro dei pregiudizi patrimoniali, restando invece escluso quello delle poste di carattere non patrimoniale.

Va detto subito allora come la reazione dell’interprete,   dinanzi a ipotesi siffatte di scomposizione,  non possa che essere radicalmente negativa.
E ciò  proprio alla luce di quanto affermato direttamente dalla Cassazione,   nell’ambito delle sentenze nn. 8827 e 8828 del 2003.
Vediamo infatti come la posizione della S.C. – formalmente improntata all’apparente rigore di un ritorno all’art. 2059 c.c. – finisca per delineare,  in materia,  una griglia operativa estremamente ampia. Basta rammentare come i giudici di legittimità fondino la risarcibilità, senza limitazioni, del danno morale (subito dai familiari del soggetto ucciso) sulla lesione di un interesse all’integrità morale, protetto dall’art. 2 Cost.; mentre il ristoro delle conseguenze di carattere esistenziale appare anch’esso garantito, in assenza di qualsiasi vincolo, una volta constatata la violazione di un interesse “all’intangibilità delle relazioni familiari”, protetto dagli artt. 2, 29 e 30 Cost.
Orbene, molte appaiono le considerazioni da formulare a tale riguardo (ad esempio, ci si potrebbe chiedere se quelli che vengono individuati come interessi distinti non siano, invece,  esplicazioni del godimento di una medesima situazione giuridica: in questo caso, un diritto di natura familiare). Di certo vi è che il medesimo ragionamento potrà applicarsi a fronte di qualunque ripercussione non patrimoniale:

(a)    per i pregiudizi di carattere morale potrà sempre essere messa in campo, come  fa la S.C., la violazione dell’interesse all’integrità morale;

(b)   per le ripercussioni dannose che coinvolgano la sfera personale esterna del soggetto, sarà comunque possibile ravvisare la violazione di un interesse alla libera esplicazione della personalità, protetto dall’art. 2 della Cost.

Tutto ciò, beninteso, con  le riserve dogmatiche da rinnovare  in merito a siffatti processi di “eventizzazione” -  attraverso i quali il tipo di pregiudizio sofferto finisce, volta per volta,  proiettato automaticamente al livello di interesse protetto. Tentazioni, preme sottolineare, neppur tanto nuove per la S.C., come testimonia la recente decisione Sezioni Unite n. 2515/2002 relativa al caso Seveso.

Ecco che, in quest’ottica, la neo-interpretazione costituzionale dell’art. 2059 verrebbe a corrispondere ad un vero e proprio smantellamento del sistema restrittivo. Nessun’area (del pregiudizio) non patrimoniale si troverebbe  a subire limitazioni risarcitorie -  tali da prevedere un margine di tutela compresso rispetto a quello assicurato ai pregiudizi suscettibili di valutazione economica.
S’intende, ad ogni modo, come tale conclusione finisca per apparire ovvia nel momento in cui si prende atto del rango costituzionale che è destinato, di per sé, ad assumere il danno non patrimoniale -  in quanto lo stesso si palesa quale compromissione   di quella libera esplicazione (emotiva ed esistenziale)  della persona umana che appare alla base stessa della nostra Carta fondamentale.

Alla  stregua di tali considerazioni  sarà  appena il caso di rimarcare il significato  che acquista -  in  generale -   il    trasloco del danno esistenziale dall’art. 2043 al 2059.
E’ fin troppo palese come tale passaggio corrisponda a un pieno, indiscusso,   successo della (idea favorevole alla)  necessità di una tutela senza vincoli “speciali”,   per simile posta risarcitoria.
La sottrazione all’art. 2059 c.c. figurava  bensì   indispensabile, sino ad ora, ma ciò proprio in ragione delle (anacronistiche) ristrettezze previste da un “brontosauro” del genere.
E il danno esistenziale – è stato detto – appare  destinato per sua natura   a muoversi come l’acqua, la quale scorre verso  dove c’è possibilità di movimento;  come i soldi, che si indirizzano dove ci sono maggiori convenienze;  come un bambino, che corre presso  chi gli offre i dolci migliori.
Nel momento in cui si è  dall’alto  (attraverso la 8828)  rinunciato a diaframmi e  tagliole di sorta, ecco l’approdo o il ritorno formale    a quella norma. Uno spostamento che andrà comunque salutato  (assieme -   preme ancora una volta sottolineare -  a quello per la posta gemella del danno biologico, rimasto per circa un ventennio entro l’art. 2043)  quale momento di positiva armonizzazione per  l’intero  sistema. Graecia capta ferum victorem cepit.   

Ciò cui si perviene nel sistema è, in definitiva,   una piena uniformità di trattamento per l’universo non patrimoniale,  complessivamente inteso.
E’ anzi probabile che,  in cambio della  perduta  o vacillante sovranità  disciplinare (sotto il profilo dell’an respondeatur),   l’art. 2059 c.c.   si  avvii    adesso a diventare – nelle aule di giustizia, nelle riviste di giurisprudenza,  nei siti on line, negli uffici degli assicuratori, nelle aule universitarie, ect.  - la norma  più “gettonata” dell’intero codice civile. 
Potrebbero venire alla mente i vecchi avari di Dickens,  convertitisi a un certo punto alla generosità natalizia e all’indulgenza (e che verranno da quel momento   salutati festosamente dai bambini poveri, ad ogni uscita per strada). Oppure – tra i personaggi delle favole – ecco l’art.  2059 c.c. nelle vesti di bella addormentata nel bosco, e il danno esistenziale come principe vagabondo e coraggioso (un bacio nel bosco che risveglia dal sonno, allora, l’inizio a tanti anni dal 1942 di una nuova vita rigogliosa!).

Alcune notazioni  di lavoro, per concludere.
Anzitutto: non è solo l’art. 2059 c.c. a richiedere di essere interpretato (re-interpretato) costituzionalmente. Lo  stesso varrà  per quanto concerne   l’art.  2043 e norme collegate.
E  sarà la persona umana, sottolineiamo,  a trarne di nuovo  i   maggiori giovamenti -  questa volta per quanto concerne  (appunto) il danno patrimoniale. In particolare,  il danno emergente e il lucro cessante collegato a una lesione della salute;  più in generale le  ripercussioni patrimoniali per gli assalti a tutti gli altri interessi protetti della persona.
Nessuna differenza, da questo punto di vista, fra i  due ordini di norme.

Inutile rimarcare, sotto altro profilo, quanto insoddisfacente riuscirebbe un’interpretazione “costituzionale” (dell’istituto aquiliano) che si incentrasse,   accanitamente,  sul culto per la lettera pura e semplice della Costituzione.
E il pensiero, materiali internazionalistici  a parte,  non può che andare in proposito a tante fra le nostre leggi speciali più recenti.
In pochi altri casi,  come nell’illecito, - la normativa speciale mostra   in effetti   di aver influenzato tanto profondamente i concetti generali: così soprattutto per le norme speciali sul danno non patrimoniale, approvate negli ultimi dieci anni,  che hanno rivelato a tutti come non fossimo sempre davanti  a   danni morali in senso stretto, come non avesse senso una lettura in chiave sanzionatoria del 2059, e così via. 
Di qui appunto il no – ancor più categorico, oggigiorno  - rispetto a qualsiasi (tentativo di) prospettazione  della Costituzione  quale lastra tombale dei   diritti della persona, come luogo meramente  autoreferenziale, ove ogni riferimento sarebbe definitivo  e mummificato.

Ora che i tormenti dell’an respondeatur e delle norme di fondo sembrano attenuati, potrà  inaugurarsi,   finalmente,  una  stagione di seria attenzione per i profili del quantum? E’ sperabile di sì.
Ed è appena il caso di sottolineare – aggiungiamo - come ciò appaia destinato a valere non solo per il danno esistenziale non biologico (che pur avverte con particolare acutezza,  sulla sua pelle,  sfide e rovelli del genere, e che  non può dire di vedere ancora all’orizzonte un sistema di risposte davvero appagante e consapevole), ma anche per il danno biologico in senso stretto (dove le questioni rimangono quelle di sempre, ma tutt’altro che composte in modo soddisfacente), in   particolare per il danno psichico (vera stanza del castello in attesa di spalancare i suoi segreti al visitatore), e per lo stesso danno morale.

Di quest’ultimo abbiamo appena detto l’essenziale:  restano pendenti    - oltre al resto - i   vari nodi che attengono ai profili dell’an respondeatur.  
Bollettino per il lavoro immediato della Consulta, dunque:  quanto  a lungo, parlando di  dolore e di lacrime,  ci si potrà  accontentare dell’odierno allargamento gestionale ai casi di responsabilità  speciali?  Quali ipotesi   significative, nella law in action,  rischiano di restare scoperte?  Se, come ha sottolineato la 8828/2003, è il  2043 che “comanda”   essenzialmente rispetto al 2059,  non è  sensato che la clausola dell’ingiustizia vada  ripresa e additata quanto prima,  anche sul terreno del danno morale, quale stella cometa (necessaria e sufficiente) di riferimento?
A quando  insomma  l’ufficializzazione dello stemperamento  - per il limite normativo dei “casi determinati dalla legge”    - nell’orizzonte generale della  Costituzione, e cioè in definitiva dell’ordinamento giuridico per intero, con tutte le sue  severità e le sue ricchezze?
Sono punti su cui la 8828  della Cassazione sembra essersi già espressa con relativa chiarezza. Non  sarebbe male se la Corte costituzionale facesse altrettanto quanto prima.