Clausola di gradimento ed acquisto di azioni proprie nella S.r.l.:
analisi di un caso concreto
Il lavoro, traendo spunto da una vicenda pratica, analizza le clausole di gradimento, evidenziandone la natura giuridica, la funzione e gli effetti; nonché l'acquisto di quote proprie nella disciplina (statutaria e non) delle s.r.l., nel testo previgente (art. 2483 c.c.) e in quello novellato dal D.Lgs. n. 6/2003 (art. 2474 c.c.); soffermandosi, in particolare, sulle ragioni del divieto imposto dalle citate norme e sulle conseguenze che da tale divieto derivano in rapporto sia alla delibera consiliare che imponga alla società di acquistare le quote proprie sia alla clausola statutaria che imponga alla stessa l'acquisto di proprie quote.
Il caso concreto
Il presente lavoro segue una vicenda che va qui brevemente riassunta. Recita l'art. 7 dello statuto di una società a responsabilità limitata (costituitasi prima della riforma delle società di capitali e che chiameremo "Alfa s.r.l."): "Le quote non possono essere alienate, né sottoposte a pegno e vincolo di sorta a favore di terzi senza l'autorizzazione del consiglio di amministrazione. Mancando tale autorizzazione ed insistendo il socio nella richiesta, il consiglio di amministrazione è tenuto ad acquistare le quote offerte valutandole sulla base delle risultanze dell'ultimo bilancio approvato".
Con una prima raccomandata, uno dei soci (che chiameremo "Beta s.p.a."), ottemperando all'obbligo stabilito da una delle clausole contenute nel citato articolo, chiede al consiglio di amministrazione l'autorizzazione a cedere ad un terzo, la propria quota di partecipazione al capitale sociale della "Alfa s.r.l.".
Con un seconda raccomandata, l'organo amministrativo esprime parere negativo alla formulata richiesta, non rilasciando, conseguentemente, alcuna autorizzazione.
Con una terza raccomandata, la società "Beta s.p.a.", insistendo nella propria richiesta (rilascio dell'autorizzazione alla cessione), sollecita il consiglio di amministrazione ad assumere con urgenza le deliberazioni previste dallo statuto societario (acquisto della detta partecipazione sociale, secondo quanto impone l'altra clausola dell'art. 7), essendo sua intenzione cedere in ogni caso la propria quota di partecipazione.
Appare di tutta evidenza come la sintetizzata vicenda sollevi parecchie questioni, la soluzione delle quali dipende dal chiarimento di alcuni aspetti della disciplina delle società di capitali in generale e di quella della s.r.l. in particolare.
Per giungere a simile risultato, sembra sia tuttavia necessario scomporre il contenuto del citato art. 7 in due ordini dispositivi, di modo che il primo ("Le quote non possono essere alienate, né sottoposte a pegno e vincolo di sorta a favore di terzi senza l'autorizzazione del consiglio di amministrazione."), venga separato dal secondo ("Mancando tale autorizzazione ed insistendo il socio nella richiesta, il consiglio di amministrazione è tenuto ad acquistare le quote offerte valutandole sulla base delle risultanze dell'ultimo bilancio approvato."): procedimento che, come si avrà modo di comprendere in seguito, potrà considerasi di certa utilità per lo sviluppo stesso delle tematiche collegate alle principali questioni sollevate da detta vicenda.
Come anticipato, tocca considerare separatamente il valore giudico delle due clausole contenute nel citato art. 7 dello statuto della società "Alfa s.r.l.".
a) Natura giuridica della clausola di gradimento
Passando alla prima delle due, era opinione consolidata, anche in giurisprudenza, che simile disposizione ("Le quote non possono essere alienate, né sottoposte a pegno e vincolo di sorta a favore di terzi senza l'autorizzazione del consiglio di amministrazione."), raffigurasse, prima dell'entrata in vigore del D.Lgs. 17 gennaio 2003 n. 6, una precisa tipologia di clausola di gradimento: quella, cioè, che subordina l'alienazione (o la disposizione in senso ampio) della quota di partecipazione al giudizio discrezionale di un organo sociale (1).. Il lavoro sviluppa, con le opportune modifiche, un parere pro veritate dell'autore.
In particolare, essa costituiva una limitazione statutaria alla libera trasferibilità della partecipazione sociale (2) che, atteggiandosi a clausola in grado di investire profili organizzativi della società ' fra i quali principalmente l'interesse a regolamentare in maniera determinata il procedimento di ingresso nell'assemblea ' finiva per diventare regola sociale: vale a dire regola opponibile erga omnes (3).
Tali precisazioni, decisive in passato per stabilire se una clausola atipica come quella di gradimento (tale perché non prevista dalla legge in materia di s.r.l.), potesse atteggiarsi, se inserita in uno statuto, a valida disposizione sociale opponibile ai terzi, sono oggi meno incidenti, giacché il comma 2, art. 2469 c. c., nel testo novellato dal D. Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, prevede il gradimento quale ipotesi espressa di limitazione statutaria al trasferimento della quota di partecipazione di una s.r.l., gradimento che del quale possono farsi carico anche "organi sociali".
Tuttavia, poiché nella clausola in esame non si specificano le condizioni secondo cui l'autorizzazione può essere denegata ' da qui la frequente definizione di clausola "di mero gradimento" (4) ' sorge il problema di verificarne la legittimità.
In passato ed in assenza di qualsiasi specifico referente normativo, i sostenitori della tesi maggioritaria (5), volta a riconoscerne la validità e l'efficacia limitatamente alla società a responsabilità limitata, basavano le proprie ragioni su due principali ordini di argomentazioni:
1) l'inefficacia della clausola di mero gradimento, prevista dall'art. 22, L. 4 giugno 1985, n. 281, faceva espresso riferimento alle sole società per azioni e non anche alle s.r.l.;
2) la possibilità per la s.r.l., ex art. 2479, comma 1, c.c., di impedire del tutto la trasferibilità delle relative quote di partecipazione, giustificava l'ammissibilità di una clausola di gradimento svincolata da condizioni o parametri prestabiliti, che del genus clausola d'intrasferibilità costituiva una species.
Oggi, sempre con l'entrata in vigore del D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, tale tesi ha trovato ingresso definitivo nel nostro codice.
Infatti, il nuovo testo, come si desume dal comma 2, art. 2469 c.c., ammette la clausola di gradimento c.d. mero, giacché prevede l'inclusione nello statuto di una s.r.l. di una clausola di gradimento "senza previsione di condizioni o limiti" (6) ed accorda al socio che dovesse subire il diniego del placet , il diritto di recesso da esercitarsi nelle forme e nei limiti stabiliti dal successivo art. 2473 c.c. (anch'esso riformato) (7).
b) Natura giuridica del gradimento
Assodata la legittimità di tale clausola, occorre previamente analizzare la natura giuridica dell'atto di gradimento.
In proposito va detto che, poiché legittimato ad esternarlo è l'organo amministrativo ed in particolare il consiglio di amministrazione della società competente a rilasciarlo, il gradimento è frutto di una delibera consiliare: dunque, chiedersi quale sia la natura giuridica dell'atto di gradimento, vale quanto chiedersi quale sia la natura giuridica di una deliberazione emessa dal consiglio di amministrazione di una società di capitali.
La questione tocca un punto oscuro e controverso nella teoria del diritto societario (8), che costringe a fare anzitutto una premessa: in considerazione della natura collegiale del consiglio di amministrazione, l'orientamento prevalente è nel senso di richiamare, limitatamente al problema che qui interessa esaminare, anche i principi che regolano l'organo collegiale tipico della società di capitali, cioè l'assemblea, e le soluzioni suggerite in merito alla natura giuridica della relativa delibera (9). E' dunque tenendo presente questa prospettiva che andrà affrontata la questione. Secondo illustre insegnamento, il gradimento deliberato dal consiglio di amministrazione (ovvero la deliberazione di gradimento manifestata dal consiglio di amministrazione) sarebbe un atto unilaterale, composto di tante dichiarazioni (i voti dei consiglieri) che concorrono a formare un'unica dichiarazione (atto) di volontà imputabile ad un soggetto (l'organo amministrativo) distinto dagli agenti10. In quanto tale, esso prenderebbe il nome di atto collegiale e sarebbe diverso dall'atto collettivo, perché in quest'ultimo caso l'atto (anch'esso composto di tante dichiarazioni di volontà quanti sono gli agenti) non sarebbe imputabile ad un organo distinto dai dichiaranti.
Questo concetto sarebbe poi arricchito dall'affermazione secondo cui le delibere assembleari e consiliari, per il tramite degli organi sociali che li emettono, sarebbero atti unilaterali di valore interno alla società, con rilievo giuridico limitato ai soggetti che l'abbiano concretato11 ed in grado di manifestare la volontà (sempre "interna") della società (12) ovvero del gruppo operante nell'organo sociale (13).
Questa tesi, tuttavia, oltre a dar corpo ad una raffigurazione plastica del fenomeno secondo un'ottica "organicistica" ed "antropomorfica" oramai superata (14), è stata criticata perché impone un concetto (quello di atto collegiale) che risulta privo di basi normative (15), oltre che privo di significato giuridico quando qualifica la deliberazione (assembleare o consiliare) quale atto interno di volontà dell'organo (e, quindi, della società).
Secondo altra dottrina perciò, ed in riferimento al più generale tema della delibera assembleare, questa, lungi dal rappresentare un atto di volontà della società o
dell'organo sociale che l'emette, sarebbe la sommatoria di una pluralità di dichiarazioni individuali (le manifestazioni di voto) (16), le quali ultime sarebbero altrettanti atti (o negozi) unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale, cui applicare, compatibilmente con la disciplina societaria, le regole dei contratti in forza dell'espresso rinvio contenuto nell'art. 1324 c.c. (17): in altri termini e sempre secondo tale orientamento, la collegialità della delibera non muterebbe la qualità della struttura del fenomeno, che rimarrebbe quella (come detto) di una pluralità di dichiarazioni unilaterali (i voti) (18).
Tuttavia, anche questa tesi non pare molto confortante, giacché presuppone che la vera manifestazione di volontà negoziale sia il voto che ciascun socio (o consigliere) esprime in assemblea (o nel consiglio di amministrazione), il che non è, atteso che l'atto decisionale giuridicamente rilevante, e sul quale appuntare l'attenzione, è costituito dalla deliberazione, non dal singolo voto: quest'ultimo, in effetti, costituisce solo un momento di formazione della deliberazione, analogamente a quanto avviene con le reciproche manifestazioni di volontà (proposta ed accettazione) che le parti si scambiano quando danno vita al contratto (19).
Ecco allora apparire più convincente l'opinione (20) che ricostruisce la deliberazione di un organo sociale quale negozio plurilaterale che si perfeziona o per il convergere delle dichiarazioni della maggioranza dei deliberanti (quando vale il principio della maggioranza) oppure per il convergere di quelle della loro totalità (quando vale il principio dell'unanimità): vale a dire attraverso un particolare procedimento di formazione della volontà che, svincolandosi per alcune questioni (quali la convocazione, l'intervento, la rappresentanza, la costituzione, ecc.) dai problemi generali in tema di teoria del negozio giuridico (o del contratto), non ne rinnega tuttavia l'analogia strutturale (21).
In altri termini, il metodo collegiale costituisce soltanto lo strumento tecnico adoperato dal legislatore in materia di società di capitali, per derogare al principio secondo il quale, diversamente, ogni decisione dell'assemblea o del consiglio di amministrazione dovrebbe essere adottata non con le maggioranze previste dalla legge (ex artt. 2368 e 2369 c.c. prev., per l'assemblea dei soci; ex art. 2388 c.c. prev., per il consiglio di amministrazione), ma piuttosto con l'accordo di tutti coloro i quali ne fanno rispettivamente parte, secondo il principio stabilito dal n. 1, art. 1325 c.c.
Questa tesi, per altro, pare esattamente in linea con quell'orientamento che, al fine di rendere applicabile alla deliberazione assembleare i principi in tema di esecuzione in buona fede del contratto (ex art. 1375 c.c.), onde tutelare i soci di minoranza pregiudicati da una decisione presa ai loro danni, ne spiega la natura in termini di atto teso a dare esecuzione al contratto di società, quest'ultimo inquadrato nella particolare tipologia del contratto plurilaterale con comunione di scopo (22).
c) Funzione ed effetti del gradimento
Diverso è invece il discorso circa la qualificazione (giuridico - strutturale) e la funzione da dare all'autorizzazione (rectius, gradimento, placet o consenso che dir si voglia), in riferimento alla soluzione del problema concernente il valore giuridico del negozio traslativo od in senso lato dispositivo della quota di partecipazione, compiuto in vista di un suo diniego.
In proposito sono state prospettate diverse tesi.
Secondo un orientamento dottrinale, il gradimento fungerebbe da evento dedotto in una condizione (sospensiva) cui sarebbe sottoposta l'efficacia del relativo negozio (23). La ricostruzione tuttavia non convince, perché la condizione è una clausola accidentale del negozio, che rientra tra gli elementi costitutivi del negozio solo se voluta dalle parti (24); laddove il gradimento è un atto di autonomia privata che ha comunque rilevanza, a prescindere dalla sua inclusione discrezionale nel negozio in oggetto, quale evento capace di condizionarne l'efficacia (25).
Secondo altro orientamento, perciò, il gradimento si integrerebbe, dall'esterno, col negozio traslativo o dispositivo della quota di partecipazione.
In particolare:
- secondo una tesi, l'atto di autorizzazione sarebbe collegato col negozio traslativo o dispositivo della quota di partecipazione, di modo che, mancando il primo, il secondo verrebbe meno per il mancato perfezionamento dell'intera fattispecie (26);
- secondo altra e preferibile tesi (27), invece, l'atto di autorizzazione tenderebbe soltanto a rendere opponibile alla società il detto negozio.
Invero, la clausola di gradimento recupererebbe uno schema che il legislatore avrebbe già imposto in almeno due occasioni: anzitutto, in materia di società in accomandita semplice, ex art. 2322, comma 2, c.c, per la cessione della quota del socio accomandante (28), quando stabilisce che per avere effetto verso la società, l'operazione deve ricevere il consenso dei soci che rappresentano la maggioranza del capitale sociale, con l'unica differenza che, nel caso che a noi interessa, il consenso non verrebbe più espresso dai soci (rectius, assemblea), ma dall'organo amministrativo (29); poi, in materia di società cooperative, ex art. 2523, comma 1, c.c. prev., ora art. 2530, comma 1, c.c., quando stabilisce che la cessione delle quote non ha effetto verso la società senza l'autorizzazione degli amministratori (30). In tal senso, nell'ipotesi di assenza dell'autorizzazione, ovvero di suo rifiuto, il negozio (in particolare) di cessione della quota di partecipazione avrebbe efficacia solo inter partes e il terzo acquirente:
- non potrebbe essere considerato, dalla società, titolare della quota acquistata;
- non potrebbe essere legittimato, nei confronti della società, ad esercitarne i relativi diritti;
- non potrebbe essere legittimato, sempre nei confronti della società, a chiedere l'iscrizione del proprio nome nel libro dei soci.
L'acquisto di quote proprie nella disciplina statutaria (e non) della s.r.l.
Passando alla seconda disposizione contenuta nell'art. 7 dello statuto della "Alfa s.r.l." ("Mancando tale autorizzazione ed insistendo il socio nella richiesta, il Consiglio di Amministrazione è tenuto ad acquistare le quote offerte valutandole sulla base delle risultanze dell'ultimo bilancio approvato") e per far luce sui suoi aspetti problematici (31), occorre interpretarne previamente il senso precettivo.
In proposito, si possono seguire due percorsi ermeneutici, al fine di ipotizzare alternativamente che:
- con tale clausola, si voglia riconoscere al consiglio di amministrazione, inteso come gruppo di persone che di esso fanno parte, il diritto all'acquisto delle quote di partecipazione in oggetto;
- con tale clausola, si voglia riconoscere alla società, per il tramite dell'organo a ciò abilitato per legge (il consiglio di amministrazione), il diritto all'acquisto delle dette quote.
Ora, non pare possano esservi dubbi sul fatto che il contenuto dispositivo di simileclausola debba ricondursi a questa seconda opzione interpretativa. Infatti, sia nellaprima parte dell'art. 7 dello statuto, sia nella seconda parte dello stesso, il consiglio diamministrazione è preso in considerazione quale organo incaricato dell'esercizio difunzioni da imputarsi alla società, non quale autonomo gruppo organizzato in grado dioperare in maniera separata e distinta da quest'ultima.
a) Ragioni del divieto imposto nell'art. 2483 c.c. prev., ora art. 2474 c.c.
Se questo è vero, tale disposizione deve fare i conti con la norma contenuta nell'art. 2483 c.c. prev., ora art. 2474 c.c. del testo riformato, dove espressamente si precisa che:"In nessun caso la società può acquistare quote (o partecipazioni) proprie ". Secondo l'orientamento assolutamente dominante (32) , si tratterebbe di una norma imperativa ed inderogabile, la quale, nel vietare simile operazione, intenderebbe tutelare l'integrità del capitale sociale, al fine di assicurare:
- le garanzie patrimoniali dei creditori sociali attuali e futuri, contro annacquamenti del capitale sociale;
- l'interesse dei soci ad impedire manovre sulle quote da parte degli amministratori e rimborsi preferenziali di conferimenti ad alcuni di essi;
- la funzione di produzione del reddito che alla sussistenza del capitale è connessa.
b) Conseguenze del divieto rispetto alla delibera consiliare che imponga alla società di acquistare le quote proprie, alla luce delle nuove norme disciplinanti la validità della stessa, e conseguenze del divieto rispetto al successivo atto di acquisto delle dette quote
Nel rispetto di quanto prima ricordato, occorre perciò chiedersi se il consiglio di amministrazione di una società a responsabilità limitata possa deliberare l'acquisto di proprie quote: cioè se possa deliberare il perfezionamento di un atto, come anticipato,contrario a norma imperativa.
Il tema, superabile in relazione a quanto successivamente si dirà circa la (in)validità della clausola sociale contenente simile previsione, appare comunque interessante per gli sviluppi che la questione alimenta dopo l'entrata in vigore della riforma delle società di capitali (33).
In materia va ricordato che la legge, prima dell'entrata in vigore della citata riforma,non dettava al riguardo alcuna disposizione: circostanza questa che aveva prodotto un vivace dibattito fra chi riteneva che, nel silenzio normativo e per l'esigenza di offrire ai terzi elementi di certezza e di stabilità nei rapporti societari, non fosse consentito impugnare delibere consiliari al di fuori dei casi espressamente previsti (conflitto di interesse ex art. 2391, comma 3, c.c. prev.) (34); e chi riteneva che, in forza di argomentazioni di tipo soprattutto analogico (non disgiunte da considerazioni di carattere generale sulla applicabilità della disciplina dei contratti ovvero degli atti unilaterali aventi contenuto patrimoniale, ex art. 1324 c.c., alle delibere consiliari) (35), dette delibere fossero invece impugnabili allo stesso modo in cui lo erano quelle assembleari (36).
Al riguardo, però, si segnalava, soprattutto in giurisprudenza (37) , una posizione intermedia in forza della quale la deliberazione assunta dal consiglio di amministrazione' invalida per gli stessi vizi di natura sostanziale che potevano inficiare, ai sensi dell'art. 2379 c.c. (impossibilità o illiceità dell'oggetto), quella assembleare ' poteva essere impugnata dal socio, quando avesse leso un suo specifico interesse (38) . La premessa teorica di simile orientamento andava ricercata nella constatazione che l'attività di amministrazione è ispirata alla cura di un interesse altrui, riconducibile o a quello della società (e quindi indirettamente a quello dei soci che ne fanno parte) o a quello di costoro, la cui tutela, soprattutto quando regolata dalla legge, non poteva essere violata né soppressa da una delibera consiliare.
Con l'entrata in vigore del D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, il legislatore sembra essersi fatto definitivamente carico della vexata quaestio (39). Infatti, attraverso il comma 4 dell'art. 2388 c.c. ' norma che, riguardante le società per azioni, si ritiene possa essere richiamata anche in materia di società a responsabilità limitata (40) ' non solo si è previsto che la deliberazione consiliare presa in difformità della legge o dello statuto può essere impugnata dal collegio sindacale e dagli amministratori assenti o dissenzienti entro 90 giorni dalla data della stessa; ma si è pure disposto, con ciò accogliendo l'opzione interpretativa prima riassunta (41), che la deliberazione "lesiva dei diritti" dei soci può essere da loro stessi impugnata, nel rispetto delle regole (in quanto compatibili) stabilite dagli artt. 2377 e 2378 c.c.
Tuttavia, va notato come in quest'ultima ipotesi la legge prescinda dalla qualificazione del vizio che inficia la delibera consiliare, stabilendo che la stessa, per essere impugnata, deve soltanto ledere i diritti dei soci (42).
Questa notazione permette di imboccare due strade:
- ritenere che, a prescindere dalla natura giuridica del vizio inficiante la delibera consiliare, il socio possa impugnare solo quelle lesive di propri diritti;
- ritenere, preferibilmente, che il socio possa impugnare le delibere lesive di un suo diritto le quali ' potendo quelle nulle essere da costoro sempre impugnate, in applicazione analogica dell'art. 2379 c.c. (43) ovvero dell'art. 1421 c.c. (sul presupposto che la delibera consiliare sia un contratto (44) o un negozio giuridico unilaterale cui applicare la disciplina del contratto ex art. 1324 c.c.) (45), disposizioni che in ambo i casi legittimano qualsiasi interessato (quindi anche i soci) a farlo ' sarebbero allora viziate da annullabilità (46), con ciò spiegandosi anche il rinvio operato dalla legge agli artt. 2377 e 2378 c.c.
Accettando quest'ultima tesi, non può mettersi allora in dubbio la possibilità, almeno per il socio, di impugnare una deliberazione consiliare come quella di cui si sta discutendo.
Infatti, pur volendosi ammettere che fra le ragioni del divieto legale di acquisto di proprie partecipazioni sociali, v'è quella particolare di tutelare l'interesse (rectius, diritto) del socio ad impedire manovre sulle quote da parte degli amministratori ' in connessione con la tutela di quegli altri interessi (fornire garanzie patrimoniali ai creditori sociali attuali e futuri; proteggere la funzione di produzione del reddito che alla sussistenza del capitale è connessa) che comunque vanno imputati alla società e quindi indirettamente ai soci stessi ' e concludere che una delibera come quella in oggetto potrà essere impugnata da qualsiasi socio ai sensi del comma 4 dell'art. 2388 c.c. (senza applicazione, questa volta, delle norme stabilite dagli artt. 2377 e 2378 c.c., trattandosi di società a responsabilità limitata) (47), non si può non rilevare come la stessa vada considerata in ogni caso nulla per illiceità dell'oggetto (48) e come tale impugnabile da chiunque vi abbia interesse (quindi anche dai soci), sia che si ritenga applicabile in via analogica l'art. 2379 c.c. del testo riformato, sia che si ritenga applicabile l'art. 1421 c.c., sul presupposto, in questa sede accettato, che la detta delibera costituisca un contratto.
Naturalmente, tutto ciò non potrà escludere la nullità del successivo atto di acquisto, ex art. 1418, comma 1, c.c., per contrarietà a norma imperativa (49), ove mai dovesse comunque ipotizzarsi la mancata impugnazione della detta delibera da parte dei soggetti a ciò legittimati.
c) Conseguenze del divieto rispetto alla clausola statutaria che imponga alla società l'acquisto di quote proprie
Qui giunti, non ci si può non chiedere se pure la clausola che imponga alla società tale acquisto (per il tramite dell'organo amministrativo), vada considerata nulla per contrarietà a norma imperativa.
Premessa l'assenza di un puntuale dibattito dottrinale o giurisprudenziale sull'argomento, una prima risposta da dare al formulato interrogativo, potrebbe essere quella di considerare valida tale disposizione sul presupposto che, dal divieto enunciato dal citato art. 2483 c.c. prev., ora art. 2474 c.c., emerga l'intento del legislatore di colpire l'acquisto in sé e non anche la clausola statutaria che voglia imporne l'ipotetica esecuzione in concreto. A parte la sottile quanto artificiosa differenza tra atto di acquisto delle quote proprie, che verrebbe sanzionato da nullità per contrarietà a norma imperativa, e clausola volta a prevederne soltanto l'ipotetica concretizzazione, che sarebbe invece valida, pare che tale risposta vada decisamente respinta e che la soluzione più corretta sia quella di considerare anche detta clausola nulla per contrarietà a norma imperativa.
I motivi che militano a favore di questa tesi sono due. Il primo, fa appello ad una considerazione di carattere istintivo che costituisce spesso un significativo campanello di allarme per la valutazione, a primo impatto, di una certa situazione. Ci si riferisce al fatto che, se la clausola fosse valida, si costringerebbe sia il socio sia l'organo amministrativo, a tenere comportamenti che si credono dovuti, ma che invece non lo sono, giacché prodromici al compimento di un negozio (l'acquisto, da parte della società, di quote proprie) espressamente vietato dalla legge: vale a dire, da un lato, la reiterazione da parte del socio interessato della richiesta dell'autorizzazione;
dall'altro, la deliberazione da parte del consiglio di amministrazione (per altro anch'essa invalida, come accennato in precedenza) di provvedere al detto acquisto.
Il secondo motivo trae invece origine da una considerazione di ordine prettamente giuridico.
La clausola in argomento ("Mancando tale autorizzazione ed insistendo il socio nella richiesta, il consiglio di amministrazione è tenuto ad acquistare le quote offerte valutandole sulla base delle risultanze dell'ultimo bilancio approvato.") costituisce un patto attraverso il quale la società (per il tramite del proprio organo amministrativo) si obbliga (la clausola recita che essa "è tenuta"), subordinatamente al diniego dell'autorizzazione alla cessione delle quote sociali ed alla insistenza del socio alla richiesta della detta autorizzazione, ad acquistare tali quote.
Da un punto di vista societario, siamo di fronte ad una clausola sociale atipica e non ad un mero patto parasociale, perché essa è volta a disciplinare, come già affermato, una fase organizzativa del tipo societario di riferimento (50).
Da un punto di vista negoziale, la sua natura giuridica sembra possa ricondursi a quella di un preliminare unilaterale di acquisto delle dette quote, condizionato sospensivamente al verificarsi di un duplice evento: di un accordo, cioè, mediante il quale la sola parte promittente (in questo caso la società) ' da qui la definizione di preliminare unilaterale (51) ' assume su di sé l'obbligo, nei confronti del socio intenzionato a cedere la propria quota (o parte di essa), di stipulare il contratto definitivo di acquisto delle stessa; accordo la cui efficacia è sospensivamente condizionata al duplice evento di cui in precedenza (52).
In merito, è opportuno fugare ogni dubbio sulla circostanza che, in simile occasione, la società (per il tramite dell'organo amministrativo) non possa rivestire il ruolo di parte del negozio volto a regolare un rapporto giuridico tra la stessa ed i soci che ne fanno parte. Infatti, l'affermazione secondo la quale alla società andrebbe attribuita soltanto la posizione di soggetto esterno, a favore del quale è riconosciuto un diritto (nel caso di specie quello alla conclusione del definitivo di acquisto di quote proprie) e non un obbligo secondo la logica schematica del contratto (o patto) a favore del terzo ex art. 1411 c.c., risulta conferente quando è limitata alla materia dei patti parasociali (53). La stessa affermazione, però, risulta priva di fondamento se riferita al campo dei patti sociali, nei quali alla società (sempre per il tramite dell'organo amministrativo) va attribuita la posizione di parte che, all'interno di un conflitto tra interesse sociale ed interesse individuale dei soci (estraneo a quello sociale), piega questo a favore di quello, avvalendosene per soddisfare le relative funzioni organizzative. In altri termini, il fatto che la soluzione di tale conflitto possa trovare accoglimento in una clausola che costituisce la formazione di un vero e proprio negozio, non ne altera la qualificazione in termini di clausola sociale (54).
Ciò rispettato e tornando al problema di cui in precedenza, la nullità per contrarietà a norma imperativa prevista del contratto definitivo di acquisto delle proprie quote, non potrà non riverberarsi anche sul contratto preliminare che ha come oggetto della prestazione a carico della parte promettente la conclusione del primo, secondo un orientamento diffuso tanto in dottrina quanto in giurisprudenza (55) e, quindi, sulla clausola sociale che contenga simile convenzione; con ciò superandosi (come anticipato) lo stesso discorso sull'incidenza e la impugnabilità della delibera consiliare che esegua l'obbligo in essa contenuto.
d) Rapporto fra clausola di gradimento e clausola che impone alla società l'acquisto di quote proprie in caso di mancata espressione del gradimento alla loro alienazione
Il tema, a questo punto, conduce all'esame di un'altra non meno importante questione: vale a dire se tale nullità vada limitata soltanto alla clausola sinora presa in considerazione (c.d. nullità parziale); oppure se essa possa estendersi anche alla clausola
Della questione si fa carico il comma 1 dell'art. 1419 c.c., quando dispone che la nullità di una singola clausola, importa la nullità dell'intero contratto ' nel nostro caso dell'altra clausola contenuta nell'art. 7 dello statuto ' se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso, senza quella parte del suo contenuto che è colpita da nullità.
La norma, in altre parole, impone di verificare l'esistenza di un vincolo di subordinazione tra clausola nulla e clausola valida, tale da rendere invalida anche quella valida quando si provi che le parti non avrebbero conclusa quest'ultima senza la prima, attraverso un'operazione di natura interpretativa che, nell'avvalersi dell'ausilio delle disposizioni normative contenute negli artt. 1362 ss. c.c. 56, rispetti i seguenti principi:
- quello di conservazione del contratto, secondo il quale la nullità parziale è la regola e quella totale è l'eccezione (57);
- quello secondo il quale il riferimento normativo a ciò che le parti avrebbero concluso, va inteso in relazione alla funzione concreta di ogni singola clausola e del patto che le accoglie nella sua interezza, non alla loro presunta volontà potenziale, la quale sfugge ad ogni obiettivo accertamento e dalla quale non può dipendere la validità o la invalidità del contratto (58).
Nel nostro caso, il criterio interpretativo di separazione funzionale delle clausole contenute nell'art. 7 dello statuto, già adottato sin dalla premessa di questo parere, conduce a ritenere che ' tra la clausola "Le quote non possono essere alienate, né sottoposte a pegno e vincolo di sorta a favore di terzi senza l'autorizzazione del consiglio di amministrazione" e la clausola "Mancando tale autorizzazione ed insistendo il socio nella richiesta, il consiglio di amministrazione è tenuto ad acquistare le quote offerte valutandole sulla base delle risultanze dell'ultimo bilancio approvato" ' se vincolo tra le stesse sussiste, esso va correttamente individuato in quello di subordinazione (e non di reciprocità) che soltanto lega la seconda alla prima.
Infatti, prendendo spunto anche dall'art. 1363 c.c. (secondo il quale "Le clausole del contratto si interpretano le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso che risulta dal complesso dell'atto"), si può sostenere che:
- se la clausola contenuta nella prima parte dell'art. 7 dello statuto (quella valida di gradimento) può trovare realizzazione, quanto a sua funzione (organizzativa), in maniera autonoma ed indipendente, cioè da sola;
- la clausola contenuta nella seconda parte dell'art. 7 dello statuto (quella invalida di obbligo di acquisto delle proprie quote), potrà trovare applicazione, quanto a sua funzione, solo in caso di diniego dell'autorizzazione alla cessione della quota: vale a dire solo quando l'evento caratterizzante quella che la precede si sia verificato.
Questa osservazione permette allora di escludere che, conclamata la nullità della clausola avente ad oggetto l'obbligo di acquisto delle proprie quote da parte della società, le parti interessate (59) possano poi chiedere la nullità anche della clausola regolante il gradimento.
Conclusioni
Serrando le fila delle argomentazioni sin qui svolte, si può allora concludere e dire che:
' il consiglio di amministrazione della società "Alfa s.r.l.", denegando l'autorizzazione alla cessione delle quote di partecipazione in possesso della società "Beta s.p.a." a favore di terzi, impedirà (se non la validità, almeno) l'opponibilità alla detta società "Alfa s.r.l.", di tale operazione;
' la società "Beta s.p.a.", ancorché nel caso concreto abbia già ottemperato alle indicazioni contenute nello statuto, non sarà in teoria affatto tenuta a reiterare la propria richiesta di autorizzazione, al fine di obbligare la società "Alfa s.r.l." (per il tramite del suo organo amministrativo) ad acquisire le quote di partecipazione in suo possesso, stante sia la nullità della clausola statutaria che impone tale soluzione (con superamento del problema relativo alla impugnabilità della delibera consiliare che la autorizzi), sia la nullità del conseguente acquisto, in virtù, in tutti e tre i casi, del divieto espresso dal citato art. 2483 c.c. prev., ora art. 2474 c.c;
' la società "Beta s.p.a.", ove ritenga comunque opportuno liberarsi della propria quota di partecipazione, potrà, ai sensi del comma 2 dell'art. 2469 c.c., recedere dalla società "Alfa s.r.l." nei modi e nei termini stabiliti dai commi 3 e 4 dell'art. 2473 c.c.
Note
1. Per la dottrina, cfr., fra gli autori più risalenti, W. Bigiavi, in Riv. trim. dir. proc. civ.,1953, 4 ss.; T. Ascarelli, in Banca, borsa, tit. cred., 1953, 281 ss.; mentre, tra gli autori più moderni, cfr. B. Ferraro, Statuti di società ed omologazione, Roma, 1986, 27 ss.; A. Gambino, in Giur. comm., 1986, 6 ss.; A. Borgioli, in Giur. comm., 1986, 21 ss.; F. Corsi, in Giur. comm., 1986, 35 ss.; R. Alessi, in Riv. dir. comm, 1987, 64; G. Zuddas, D. Menicucci, M. Palma, in Giur. comm., 1988, 904 ss.; R. Nobili, in Riv. soc., 1990, 433 ss.; C. Angelici, La circolazione della partecipazione azionaria, in Trattato Colombo - Portale, Torino, 1991, 160 ss.; A. Fontana, in Riv. dir. civ., 1992, II, 25 ss.; F. Ricceri, in Nuova giur. civ. comm., 1993, II, 140 ss.; F. Di Sabato, Manuale delle società, Torino, 1995, 342 ss.; M. De Paoli, in Not., 1996, 345; G. Taurini - L. Salvato - F. Fimmanò, Statuti e atti societari nella giurisprudenza onoraria, Padova, 1996, 251 ss.; G. R. Barresi, in Riv. not,. 1996, 959 ss.; G. Sbisà, in Nuova giur. civ. comm., 1996, I, 883 ss.; S. Schirò, in Studium iuris, 1996, II, 909; F. Galgano, in Contratto e impresa 1997, II, 895; S. Cavanna, L'omologazione dell'atto costitutivo delle società di capitali, Milano, 1998, 407 ss.; G. F. Campobasso, Diritto commerciale. Diritto delle società, Torino, 1999, 228. Per la giurisprudenza, cfr. Cass. 20 luglio 1995, n. 7890, in Vita not., 1996, 925 ss.
2) La definizione contenuta nel testo è molto diffusa. Tuttavia, primo a conferirle sistemazione giuridica fu T. Ascarelli in una nota a sentenza pubblicata su Riv. dir. comm., 1931, II, 487 ss., i cui sviluppi critici furono poi più ampiamente svolti dallo stesso autore in Banca, borsa, tit. cred., 1953, 281 ss. Per una ricognizione sistematica sulle pattuizioni nelle quali può sostanziarsi l'autonomia convenzionale dei soci cfr., in particolare, G. Oppo, Contratti parasociali, Milano, 1942, 22 ss. e 40 ss. e D. Corapi, Gli statuti delle società per azioni, Milano, 1971, 125 ss.
3) Cfr. C. Angelici, La costituzione della società per azioni, in Trattato Rescigno, XVI, Torino, 1985, 234 ss.; G. Santoni, Patti parasociali, Napoli, 1985, 142 ss.; L. Farenga, I contratti parasociali, Milano, 1987, 393 ss.; M. De Acutis, Clausole atipiche e patti parasociali, in Statuti di società e patti parasociali: il ruolo del notaio, (Atti della giornata di studio organizzata in Padova, 16 maggio 1992), Padova, 1993, 44 ss, ed ora anche in Vita not.,1992, 485 ss.
4) Cfr. F. Ferrara jr., F. Corsi, Gli imprenditori e le società, Milano, 1987, 434 ss.; F. Di Sabato, op. cit., 342; G. F. Campobasso, op. cit., 228.
5) Cfr. C. Saggio, in Vita not., 1984, 1135; G. Cottino, Diritto commerciale, I, Padova, 1987, 598; P. Picozza, in questa Rivista, 1988, 128 ss.; V. Salafia, in Le Società 1991, 448; A.M. Marocco, A. Morano, D. Raynaud, Società a responsabilità limitata, Milano, 1992, 181 ss.; R. Nobili, Le clausole di gradimento, in Trasferimenti e trasferibilità di azioni e di quote (Giornate di studio organizzate dal Comitato Regionale Notarile Lombardo in Milano, 30 settembre 1989), Milano, 1992, 57; D. Cenni, in Contratto e impresa, 1993; M. De Paoli, in Not., 1996, 475; D. Rozzi, in Giur. comm., 1994, II, 872 ss.; G. Ragusa Maggiore, in Dir. fall., 1995, II, 976 ss.
6) Così M. Ieva, in Riv. not., 2003, 1370; F. Tassinari, in Riv. not., 2003, 1418; R. Rosapepe, in Giur. comm., 2003, 261 ss.; G. C. M. Rivolta, in Banca, borsa, tit. cred., 2003, 694; V. Salafia, in questa Rivista, 2003, 413; C. D'Ambrosio, in Dir. fall., 2003, 405.
7) Sul punto cfr. V. Salafia, in questa Rivista, 2003, 7 ss.; C. Granelli, ivi, 2003, 143 ss.; L. Lanzio, ivi, 2003, 150 ss.; R. Rordorf, ivi, 2003, 923 ss.; M. Maltoni, in Not.,2003, 307 ss.
8) G. Cavalli, M. Marulli, C. Silvetti, La società per azioni. Gli organi e il controllo giudiziario, in Giur. sist. dir. civ.,comm., fondata da W. Bigiavi, 2, Torino, 1996, 260, riportano l'affermazione secondo la quale la questione sarebbe datata e comunque di scarso rilievo pratico.
9) Cfr. F. Bonelli, in Giur. comm., 1974, I, 510; Id., Gli amministratori di società per azioni, Milano, 1985, 435 ss.; O Cagnasso, L'amministrazione collegiale e la delega, in Trattato Colombo - Portale, IV, Torino, 1991, 265 ss.; F. Di Sabato, op. cit., 488 ss.; G. Cavalli, M. Marulli, C. Silvetti, op. cit., 528 ss.
10) F. Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1966, (rist. 1989), 211 s. In una parte della dottrina societaria, il riconoscimento di questa ricostruzione teorica si accompagna, soprattutto in tema di delibera assembleare, all'affermazione secondo la quale l'atto collegiale ' che vale come, ma non è, una dichiarazione della società ' ha di volta in volta, ed a seconda della funzione di ogni singola deliberazione, natura di atto prenegoziale e/o negoziale, di mero atto giuridico, di atto di scienza, di atto di volontà. Così A. Candian, Nullità e annullabilità di delibera di assemblea di società per azioni, Milano, 9 ss., 19 ss. e 28 ss.; C. Vaselli, Deliberazioni nulle e annullabili delle società per azioni, Padova, 1948, 9 ss.; L. Fiorentino, Gli organi delle società di capitali, Napoli, 1950; L. Romano - Pavoni, Le deliberazioni delle assemblee di società, Milano, 1951, 90 ss. e 245 ss.; A. Graziani, Diritto delle società, Napoli, 1962, 346 ss. In giurisprudenza cfr. Cass. 13 maggio 1964, n. 1141, in Giust. civ., 1964, I, 1292 ss. Per F. Ferrara jr., F. Corsi, op. cit., la deliberazione è un atto unilaterale collegiale e plurisoggettivo, in cui le dichiarazioni di voto hanno valore di dichiarazioni di volontà non in sé e per sé, ma solo in quanto emesse nell'assemblea e per l'aliquota di capitale richiesta per la deliberazione. Più di recente cfr. anche G. Cottino, Diritto commerciale, I, Padova, 1987, 467 e A. Serra, L'assemblea: procedimento, in in Trattato Colombo - Portale, III, 1, Torino, 1994, 49 ss.
11) Cfr., in dottrina, G. Ferri, Le società, in Trattato Vassalli, Torino, 1987, 492 ss. e G. Tamburrino, in Giust. civ.,1974, I, 910 ss. per i quali la deliberazione di un'assemblea societaria è senz'altro un negozio unilaterale. Da ultimo cfr. anche V. Salafia, in questa Rivista, 2003, 1468. In giurisprudenza, cfr., in tema di delibera assembleare, Cass. 12 agosto 1997 n. 7525, ivi, 1998, 169 ss. e Cass. 21 febbraio 1987 n. 1894, in Mass. Giust. civ., 1987, fasc. 2, nonché, in tema di delibera consiliare, Cass. 17 novembre 1994, n. 9710, in Giur. it., 1995, I, 1, 1902 ss.
12) Cfr. A. Venditti, Collegialità e maggioranza nelle società di persone, Napoli, 1955, 1 ss.; M. Valentini, La collegialità nella teoria dell'organizzazione, Milano, 1968, 305 ss. Più di recente, ma senza un'attenta disamina della questione, cfr. V. Salafia, in questa Rivista, 1992, 1228; F. Laurini, ivi, 1993, 11 ss. ed ancora V. Salafia, ivi, 1995, 879 ss.; R. Weigmann, voce Società per azioni, in Dig. disc. priv., sez. comm., XIV, Torino, 1997, 382.
13 Cfr. F. Carresi, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1957, 1241 ss.; C. M. Bianca, Diritto civile. Il contratto, 3,
Milano, 1993, 14 ss.; Id., Diritto civile. La proprietà, tomo 6, Milano, 1999, 460 e 472.
14 Per un'analisi decostruttiva del "mito" delle persone giuridiche e degli organi che le compongono, cfr.
per tutti M. S. Giannini, voce Organi (teoria generale), in Enc. dir., XXXI, Milano, 1981, 37 ss. e F.
Galgano, in Riv. dir. civ., 1964, I, 247; Id., in Riv dir. civ., 1965, I, 596; Id., Delle persone giuridiche, in
Commentario Scialoja - Branca, Delle persone e della famiglia (artt. 11 - 35), Bologna - Roma, 1969, 24
ss.; Id., voce Principio di maggioranza, in Enc. dir., XXXV, Milano, 1988, 547 ss.
15 Cfr. in particolare F. Galgano, Diritto civile e commerciale, II, 2, Padova, 1990, 222.
16 Sulla natura negoziale o comunque di atto di autonomia privata della dichiarazione di voto, cfr. R.
Sacchi, L'intervento e il voto nell'assemblea della s.p.a. Profili procedimentali, in Trattato Colombo -
Portale, III, t. 1, Torino, 1994, 267 ss.
17 Cfr. P. Trimarchi, Invalidità delle deliberazioni di assemblea di società per azioni, Milano, 1958, 18
ss.; G. Grippo, in Riv. soc., 1971, 964 ss.; Id., Deliberazione e collegialità nella società per azioni,
Milano, 1979, 56 ss.; Id., L'assemblea nella società per azioni, in Trattato Rescigno, XVI, Torino, 1985,
364 ss.; F. Galgano, La società per azioni, in Tratt. Galgano, Padova, 1988, 210 ss. Secondo altra
dottrina, occorrerebbe distinguere fra delibera "con efficacia interna" (ad es. quella che riguarda il cambio
della sede sociale) la quale, non intaccando diritti individuali dei soci, avrebbe natura di atto giuridico
unilaterale collegiale imputabile all'organo assembleare; e delibera "con efficacia esterna" (ad es. quella
che riguarda la distribuzione del dividendo oppure quella che riguarda la limitazione o l'esclusione del
diritto di opzione) che, toccando diritti individuali dei soci, avrebbe natura di atto collettivo imputabile
non all'assemblea ma a loro stessi. Così S. Landolfi, in questa Rivista, 1992, 1176.
18 Cfr., in particolare, F. Galgano, Diritto civile e commerciale, II, 2, Padova, 1990, 223.
19) Cfr. C. Angelici, voce Società per azioni e in accomandita per azioni, in Enc. dir., XLII, Milano, 1990,
988, che qualifica il voto come mero fatto.
20) Cfr. in particolare P. Pitter, in Commentario breve al codice civile, a cura di G. Cian - A. Trabucchi,
sub art. 2377, Padova, 1992, 1968. In proposito si veda anche F. Di Sabato, op. cit., 424 ss., secondo il
quale le deliberazioni degli organi sociali rappresentano, nell'ottica di una precisa scelta legislativa, la
fase di attuazione dei contratti per adesione, ex art. 1332 c. c., fra i quali quello di società costituisce
esempio tipico.
Credo che tra i sostenitori di questa tesi possa ascriversi anche G. Auletta, Il contratto di società
commerciale, Milano, 1937, 37 ss., le cui parole non sembrano essere state ben pesate da M. Leocata, in
Riv. not., 1997, 1520 ss., il quale, pur richiamando l'intuizione dell'illustre autore ' secondo cui il
contratto di società appartiene al genus dei contratti cc.dd. aperti (ex art. 1332 c.c.) e la delibera di
aumento del capitale sociale sarebbe un contratto intercorso tra i soci (avente ad oggetto, aggiungo io, una
proposta irrevocabile di sottoscrizione del detto aumento in loro favore) ed aperto anche ai terzi in caso di
mancata sottoscrizione del detto aumento da parte dei soci stessi ' ritiene poi che detta delibera sia
costituita da tante proposte contrattuali di sottoscrizione dell'aumento quanti sono i singoli soci
destinatari delle stesse e regolata dall'assemblea in funzione di organo per l'attuazione del contratto (di
sottoscrizione), ai sensi dell'articolo 1332 c.c.
21 Pur qualificandola come "procedimento", C. Angelici, op. cit., 988 ss. non crede nella natura
contrattuale (o di negozio plurilaterale con comunione di scopo) della delibera assembleare (o consiliare).
22) Sul punto cfr., in dottrina, soprattutto D. Preite, L'abuso della regola di maggioranza nelle
deliberazioni assembleari delle società per azioni, Milano, 1992, 133 ss. e Id., Abuso di maggioranza e
conflitto di interessi del socio nelle società per azioni, in Trattato Colombo - Portale, III, 2, Torino, 1993,
114 ss., che però tende a dare rilevanza al voto e non alla delibera, quale atto di esecuzione in buona fede
del contratto di società (come invece giustamente fanno A. Cerrai e A. Mazzoni, in Riv. soc., 1993, 77
ss.). In giurisprudenza cfr. Cass. 26 ottobre 1995, n. 11151, in questa Rivista, 1996, 295 e Cass. 11 marzo
1993, n. 2958, in questa Rivista, 1993, 1049 ss. Contra, per tutti, A. Gambino, Il principio di correttezza
nell'ordinamento delle società per azioni, Milano, 1987, 274 ss., per il quale, a prescindere dalla natura
giuridica della deliberazione (assembleare), la tutela dei soci di minoranza va garantita, in simile
occasione, ricorrendo all'articolo 2373 c.c., sul presupposto che una deliberazione che pregiudichi i loro
interessi, non può essere che una deliberazione in grado di soddisfare interesse particolari ed esterni dei
soci di maggioranza: vale a dire di interessi in ogni caso confliggenti con quelli della società, sul
presupposto che essi coincidano con quelli di tutti i soci.
23 Cfr. T. Ascarelli, op. cit., 294; A. Pavone La Rosa, in Foro pad., 1955, I, 1103. Più di recente anche F.
Di Sabato, op. cit., 348.
24 Cfr., A. Falzea, La condizione e gli elementi dell'atto giuridico, Milano, 1941, 155 ss.; U. Natoli, Della
condizione del contratto, in Commentario del codice civile, diretto da D'Amelio e Finzi, Libro IV, Delle
obbligazioni, I, Firenze, 1948, 423; L. Cariota Ferrara, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano,
Napoli, 617; E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, Torino, 1955, 515; G. Stolfi, Teoria del
negozio giuridico, Padova, 1961, 131 ss.; P. Rescigno, voce Condizione (dir. civ.), in Enc. dir., VIII,
Milano, 1961, 763 ss.; F. Santoro Passarelli, op. cit., 193 ss.; A. Marini, Il modus come elemento
accidentale del negozio gratuito, Milano, 1976, 34 ss; G. Mirabelli, Dei contratti in generale, in Comm.
c.c., Torino, 1980, 224 ss.; V. Maiorca, voce Condizione, in Dig. disc. priv. sez. civ., III, Torino, 1988,
276 ss.; C. M. Bianca, Diritto civile, 3, Il contratto, Milano, 1993, 510.
25 Cfr. Cass. 17 gennaio 1986, n. 272, in questa Rivista, 1986, 604.
26 Cfr. C. Fois, Clausola di gradimento e organizzazione della società per azioni, Milano, 1979, 157; G.
Santini, Società a responsabilità limitata, in Commentario Scialoja - Branca, sub artt. 2472 - 2497 bis,
Bologna, 1992, 123; G. Ferri, Manuale di diritto commerciale, Torino, 1993, 351; G.F. Campobasso, op.
cit., 230 e nt. 3. Secondo P. Casella, in Temi, 1963, 660 ss., la fattispecie sarebbe assimilabile alla
cessione del contratto, in adesione all'orientamento secondo il quale tale figura darebbe luogo o ad un
contratto trilaterale oppure ad un collegamento negoziale tra cessione e consenso del contraente ceduto.
27 Cfr., in dottrina, F. Galgano, La società per azioni, in Trattato Galgano, Padova, 1988, 144 ss.; C.
Angelici, La circolazione della partecipazione azionaria, in Trattato Colombo-Portale, II, 1, Torino,
1991, 178 e nt. 61; V. Salafia, in questa Rivista, 1991, 449; D. U. Santosuosso, Il principio di libera
trasferibilità delle azioni, Milano, 1993, 328; F. Stanghellini, I limiti statutari alla circolazione delle
azioni, Milano, 1997, 478 ss.; L. Calvosa, La partecipazione eccedente ed i limiti al diritto di voto,
Milano 1999, 103 ss. In giurisprudenza, cfr., invece, Cass. 12 gennaio 1989, n. 93, in questa Rivista,
1989, 804; Cass. 17 giugno 1995, n. 6865, in Riv. not., 1997, 170 ss.; Cass. 20 luglio 1995, n. 7890 cit.;
Cass. 29 maggio 1999 n. 5226, in Vita not., 1999, 791 ss.
28 Sul minore rilievo che assume per l'accomandante il c.d. intuitus personae ' causa la limitazione di
responsabilità alla quota conferita e l'esclusione di costui dall'amministrazione della società ' e sulla
conseguente possibilità di avvicinare la sua partecipazione a quella del socio di una società di capitali, cfr.
A. Graziani, op. cit., 163; G. Ferri, Delle società, in Commentario Scialoja - Branca, Sub artt. 2247 -
2324, Bologna, 1981, 498 ss.; P. Montalenti, Il socio accomandante, Milano, 1985; F. Ferrara jr., F.
Corsi, op. cit., 378 ss.
29 Per questo specifico tipo di argomentazione, cfr., in dottrina, P. Magnani, in Not., 1998, 57. In
giurisprudenza cfr. invece Cass. 23 gennaio 1997, n. 697, in questa Rivista, 1997, 647 ss., che, in presenza
di una clausola di gradimento, esclude la struttura trilaterale della cessione di una quota di s.r.l. da
autorizzarsi da parte dell'organo amministrativo, con ciò implicitamente confermando quanto espresso
nel testo. Quanto alla natura del consenso della maggioranza dei soci, quale elemento di mera opponibilità
dell'efficacia della cessione della quota del socio accomandante, nei confronti della società, cfr., in
dottrina, G.F. Campobasso, op. cit., 136 e nt. 3; F. Di Sabato, op. cit., 219 e nt. 86 e, in giurisprudenza,
Cass. 10 aprile 1979, n. 2055, in Mass. Giust. Civ., 1979, fasc. 4; Trib. Vercelli 4 luglio 1990 inedita.;
Trib. Napoli 19 febbraio 1991, in Dir. e giur., 1992, 942 ss.
30 Di clausola di gradimento ex lege parla, ad esempio, G. Cottino, op. cit., 816 ss. Sul tema cfr. F. Di
Sabato, op. cit., 823. Circa la conseguenza della sola inopponibilità alla società cooperativa del
trasferimento di quote perfezionato senza l'autorizzazione degli amministratori, cfr. in giurisprudenza
Cass. 17 giugno 1995 n. 6865, in Riv. not., 1997, 170 ss. e Cass. 29 maggio 1999, n. 5226, in Vita not.,
1999, 791 ss.
31 Naturalmente, non è nostro compito sindacare sulla circostanza che né il notaio rogante, né l'autorità
giudiziaria competente in sede di omologa, abbiano avuto all'epoca da ridire sulla legittimità di simile
clausola.
32 Cfr., in dottrina e con riferimento al testo previgente, G. C. M. Rivolta, La società a responsabilità limitata, in Trattato Cicu - Messineo, Milano, 1982, 378 ss; G. Zanarone, Società a responsabilità limitata, in Trattato Galgano, Padova, 1985, 51 ss; L. F. Paolucci, Le società a responsabilità limitata, in Trattato Rescigno, XVII, Torino, 1986, 251 ss.; F. Ferrara jr., F. Corsi, op. cit., 722; O. Cagnasso, M. Irrera, La società a responsabilità limitata, in Giur. sist. dir. civ. comm., fondata da W. Bigiavi, artt. 2458 - 2510, Torino, 1990, 183 ss.; G. Racugno, voce Società a responsabilità limitata, XLII, Milano, 1990, 1062; V. Salafia, in questa Rivista, 1992, 1059 ss.; G. Santini, op. cit., 179 ss.; F. Di Sabato, op. cit., 736; G. F. Campobasso, op. cit., 522; nonché, con riferimento al testo riformato, G. Zanarone, in Riv. soc., 2003, 58 ss. e G. C. M. Rivolta, in Banca, borsa, tit. cred., 2003, 699 ss. In giurisprudenza cfr. invece Cass. 25 gennaio 2000, n. 796, in questa Rivista, 2000, 1092 e Cass. 4 ottobre 1984 n. 4916, in Foro it. 1985, I, 2069 ss.
33 Solo tale interesse è stato quindi in grado di giustificare l'inversione dell'iter logico procedimentale che avrebbe dovuto portare, prima di tutto, ad esaminare la legittimità di una clausola statutaria contenentesimile disposizione. Sennonché, i risultati di tale indagine (invalidità di detta clausola) non avrebbero piùpotuto giustificare (superandola per superfluità), la domanda in merito alla liceità di una deliberaconsiliare avente ad oggetto l'acquisto di quote proprie.
34 Per questa soluzione cfr., in dottrina, A. Graziani, op. cit., 379; G. Oppo, in Riv. soc., 1962, 921 ss.; R. Weigmann, Responsabilità e potere legittimo degli amministratori, Torino, 1974, 87 ss; G. Oppo, in Riv. soc., 1977, 961; V. Allegri, Contributo allo studio della responsabilità civile degli amministratori, Milano, 1979, 150 ss.; G. Grippo, Deliberazione e collegialità nelle società per azioni, Milano, 1979, 167 ss; F. Chiomenti, in Riv. dir. comm., 1983, II, 180 ss.; B. Ferraro, in questa Rivista, 1983, 1368 ss.; A. Borgioli, L'amministratore delegato, Firenze, 1986, 84 ss.; F. Ferrara jr., F. Corsi, op. cit., 508 e nota 5; F. Galgano, La società per azioni, in Trattato Galgano, Padova, 1988, 249 ss.; F. Di Sabato, op. cit., 489 ss.; G. F. Campobasso, op. cit., 357 ss.; in giurisprudenza cfr. Trib. Roma 1 marzo 1999, in questa Rivista, 1999, 1209 ss.; Trib. Napoli 18 ottobre 1988, in Dir. fall., 1989, II, 765 ss.; Trib. Milano 29 gennaio 1987, in questa Rivista, 1987, 715 ss.; Trib. Torino 16 dicembre 1985, ivi, 1986, 523 ss.; Trib. Milano 5 maggio 1980, in Giur. comm,. 1980, II, 938; Cass. 10 aprile 1973 n. 1016, in Giust. civ., 1974, I, 343 ss.; Cass. 9 marzo 1968, n. 775, in Banca, borsa, tit. cred.,1969, II, 9.
35 A seconda, cioè, che la delibera consiliare fosse considerata un negozio plurilaterale ovvero un atto giuridico unilaterale di contenuto patrimoniale: questione sulla quale ci si è già in precedenza soffermati.
36) Per quest'altra soluzione cfr., in dottrina, G. Minervini, Gli amministratori di società per azioni, Milano, 1956, 423 ss.; A. Mignoli, R. Nobili, voce Amministratori (di società), in Enc. dir., II, Milano, 1959, 149 ss.; A. Pavone La Rosa, in Riv. soc., 1960, 1083 ss.; P. Greco, in Riv. soc., 1963, 793 ss.; N. Salanitro, L'invalidità delle deliberazioni del consiglio di amministrazione di società per azioni, Milano, 1965, 67 ss. e 239 ss.; G. Cottino, Diritto commerciale, I, Padova, 1987, 543 ss.; G. Ferri, Le società, in Trattato Vassalli, 1987, 651 ss.; R. Rordorf, in questa Rivista, 1987, 695 ss.; E. Rimini, in Giur. comm.1988, II, 785 ss.; L. Giaccardi Marmo, in questa Rivista, 1990, 291; U. Carnevali, ivi, 1990, 753 ss.; O.Cagnasso, L'amministrazione collegiale e la delega, in Trattato Colombo - Portale, IV, Torino, 1991, 280 ss.; R. Ambrosini, in questa Rivista, 1992, 1183 ss. e 1198 ss.; R. Rordorf, ivi, 1992, 1209 ss.; M. Di Rienzo, in Riv. soc. 1992, 192; in giurisprudenza, Trib. Como (ord.) 11 febbraio 1999, in Giur. it. 1999, 1881 con nota di G. Cottino; Trib. Catania 7 gennaio 1997, in Giur. comm. 1998, II, 406; Trib. Milano 20 dicembre 1996, in Giur. comm. 1998, II, 79; Trib. Milano 11 novembre 1993, in Gius. 1994, 128; Trib. Milano 5 ottobre 1987, in Giur. it., 1988, I, 2, 418; Trib. Roma 18 marzo 1982, in Giur. comm., 1983, II, 592; Cass. 11 marzo 1980, n. 1625, in Riv. not., 1980, 911.
37 Cass. 14 dicembre 2000, n. 15786, Mass. Giust. civ., 2000, 2599; Trib. Vicenza, in Dir. fall., 1999, II, 566 ss.; Cass. 26 novembre 1998, n. 12012, in questa Rivista, 1999, 674 ss.; Cass. 28 marzo 1996, n. 2850, in Vita not., 1997, 330 ss.; App. Milano 6 novembre 1992, in questa Rivista, 1993, 781; Cass. 24 gennaio 1990, n. 420, in questa Rivista, 1990, 750 ss.; Cass. 21 maggio 1988, n. 3544, in questa Rivista,1988, 1017; Trib. Milano 5 novembre 1987, in Giur. comm., 1988, II, 775. A queste pronunce vanno aggiunte, per conseguenze logico-giuridiche, quelle citate nella precedente nota 22. Va segnalato cheparte della dottrina contesta simile criterio, perché capace di dar luogo a disarmonie di disciplina nonfacilmente giustificabili: così L. Giaccardi Marmo, in questa Rivista, 1988, 1023; R. Rosapepe, in Riv. dir. impr., 1990, 415; M. Cerchiara, in Giust. civ. 1990, I, 2635; O. Cagnasso, op. cit., 276; R. Ambrosini, op. cit., 1199.
38 Parte della dottrina, ha sempre ritenuto che l'interesse sociale (nella concezione c.d. "istituzionalistica" della società) andasse distinto da quello dei soci (nella concezione c.d. "contrattualistica" della società) eche, in ogni caso, tanto il primo quanto il secondo non potessero trovare protezione attraverso ilriconoscimento, al singolo socio, del potere di impugnare una delibera consiliare che pregiudichi l'uno ol'altro: cfr. F. Ferrara jr., F. Corsi, op. cit., 508 e nt. 5 e G. Frè, Società per azioni, in Commentario Scialoja-Branca, Libro V, Del Lavoro (artt. 2325-2461), Bologna - Roma, 1972, 498 ss. Di diverso avviso, e nel senso del testo, sono invece G. Minervini, in Riv. dir. civ., 1956, I, 330 ss.; A. Mignoli, in Riv. soc., 1958, 742 ss.; P. Greco, op. cit., 829; P. G. Jaeger, L'interesse sociale, Milano, 1963, 13 ss; G. Ferri, op. cit., 654 ss.; F. D'Alessandro, in Foro it. 1988, V, 48 ss.; M. Cassottana, L'abuso di potere a danno della maggioranza assembleare, Milano, 1991, 9 ss.; D. Preite, Abuso di maggioranza e conflitto di interessi del socio nelle società per azioni, in Trattato Colombo - Portale, III, 2, Torino, 1993, 8 ss., secondo i quali l'interesse sociale coincide con l'interesse comune dei soci alla realizzazione del contratto di società. In giurisprudenza si segnala Cass. 7 gennaio 2000, n. 82, in questa Rivista, 2000, 699 ss., secondo cui, nei rapporti interni, l'interesse del socio riceve tutela diretta nei casi previsti dagli artt. 2377, 2379 e 2408 c.c.; mentre, nei rapporti esterni, il suo interesse è assorbito da quello della società, che potrà tutelarlo per mezzo degli organi sociali preposti. Secondo F. Galgano, Diritto commerciale. Le società, Bologna, 1991, 356 ss. la legislazione italiana contiene innegabili spunti istituzionalistici, che si amalgamano con quelli contrattualistici.
39 Cfr. A. Busani, La riforma delle società e dei bilanci. Le nuove regole per s.p.a. e s.r.l., Milano, 2003,
407, secondo cui la norma copre uno spazio che la previgente normativa lasciava in materia. Silente sul punto è invece D. U. Santosuosso, in Vita not., 2003, 628 ss.
40 Cfr. L. De Angelis, Riv. Soc,. 2003, 479 ss.
41 In questo senso cfr. V. Salafia, in questa Rivista, 2002, 1467.
42 Di strumento ' unitario per il petitum e differenziato in considerazione della causa pretendi (in concreto il tipo di "vizio" fatto valere) ' volto a rimuovere la deliberazione, parla, a proposito della impugnativa offerta al socio, C. Angelici, La riforma delle società di capitali. Lezioni di diritto commerciale, Padova, 2003, 102.
43 In questo senso S. Ambrosini, in Riv. soc., 2003, 315.
44 Come si è ritenuto già in precedenza di sostenere.
45 Come invece ritiene V. Salafia, op. cit., 1468.
46 Pur con dei dubbi, cfr. S. Ambrosini, op. cit., 315.
47 In questo caso, si pone il problema se la delibera consiliare, come quella assembleare avente oggetto illecito o impossibile, possa essere impugnata, ex art. 2479 ter c. c., entro tre anni dalla trascrizione della stessa nel libro delle decisioni non dei soci, ma degli amministratori (ex art. 2478, n. 3, c. c.), ovvero nel termine più breve (tre mesi dalla decisione) stabilito dall'art. 2475 ter c.c., per l'impugnazione delle delibere consiliari adottate in situazione di conflitto di interessi.
48 Cfr. espressamente ed in relazione al sistema previgente, M. Di Rienzo, op. cit., 192.
49 Cfr. espressamente, in dottrina, G. Racugno, in Riv. soc., 1987, 70 e nt. 9; M. Di Rienzo, op. cit., 194; G. Santini, op. cit., 179 ss. In giurisprudenza cfr. invece Cass. 4 ottobre 1984, n. 4916 cit. e Cass. 11 dicembre 1992, n. 13123, in Nuova giur. civ. comm., 1993, I, 1009.
50 Per una lucida e riassuntiva lettura sul tema dei patti parasociali e della loro distinzione rispetto ai patti (o contratti) sociali, cfr. L. Farenga, voce Patti parasociali, in Dig. Disc. priv., sez. comm., X, Torino, 1995, 12 ss. Sulla natura negoziale della clausola statutaria di una società di capitali, cfr., per tutti, G. Oppo, in Riv. dir. civ., 1987, I, 517 ss., nonché, per una rassegna di tipo riassuntivo, A. Morano ' Toti Musumeci, in Riv. not., 1989, 535 ss.
51 Cfr. G. Tamburino, I vincoli unilaterali nella formazione progressiva del contratto, Milano, 1954, 186 ss, tematica dallo stesso autore ripresa nell'edizione più attuale della sua opera I vincoli unilaterali nella formazione progressiva del contratto, Milano, 1991, 200 ss.; P. Forchielli, voce Contratto preliminare, in Noviss. Dig. it., IV, Torino, 1959, 683 ss.; F. Messineo, voce Contratto preliminare, contratto preparatorio e contratto di coordinamento, in Enc. dir., X, Milano 1962, 192. Per la dottrina più recente, cfr. A. Chianale, voce Contratto preliminare, in Dig. disc. priv., sez. civ., IV, Torino, 1989, 279 ss.; C. M. Bianca, op. cit., 200; F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 1993, 828. In giurisprudenza, cfr. Cass. 26 marzo 1997, n. 2692, in Mass. Giust. civ., 1997, 469; Cass. 13 dicembre 199, n. 10649, ivi, 1994, fasc. 12; Cass. 11 ottobre 1986, n. 5950, in ivi, 1986, fasc. 10.Va comunque ricordato che parte minoritaria della dottrina riconduce il preliminare unilaterale al patto di opzione. Cfr., per tutti, L. Montesano, Contratto preliminare e sentenza costitutiva, Napoli, 1953, 114 ss; G. Gabrielli, Il contratto preliminare, Milano, 1970, 255 ss.; G. Gabrielli - V. Franceschelli, voce Contratto preliminare, in Enc. giur., I, Diritto civile, III, Roma, 1990, 7.
52 Sulla possibilità che una clausola condizionale possa ospitare un duplice evento, cfr. in particolare F. Gazzoni, in Riv. not., 1994, 1201 ss.
53) Cfr., in dottrina, G. Oppo, Contratti parasociali, Milano, 1942, 109 ss.; Id., in Giur. it. 1962, I, 2, 704; Id, in Riv. dir. civ., 1987, I, 517 ss.; G. Auletta, in Riv. soc., 1961, 282 ss.; G. Santoni, op. cit., 172; L. Farenga, I contratti parasociali, Milano, 1987, 292 ss.; Id., voce Patti parasociali, in Dig. disc. priv., sez. comm., X, Torino, 1995, 20; in giurisprudenza, Cass. 29 gennaio 1964, n. 234, in Giur. it. 1964, I, 1, 982 ss.; Cass. 11 dicembre 1975 n. 4143, in Giur. comm., 1976, II, 309 ss. e Cass. 23 febbraio 1981, n. 1056, in Riv. not., 1981, 670 ss.
54) Sul punto cfr. in particolare F. Anelli, in Riv. soc., 1991, 1087 ss.
55) Cfr., in dottrina, soprattutto A. Chianale, op. cit., 280. In giurisprudenza hanno applicato questo principio Cass. 3 maggio 1996, n. 4070, in Mass. Giust. civ., 1996, 656, a proposito della nullità del preliminare di vendita di un terreno rientrante in una lottizzazione accertata in sede penale come abusiva; Cass. 2 settembre 1995 n. 9266 in Giust. civ., 1996, I, 3265, a proposito della nullità del preliminare di vendita di alloggio di edilizia residenziale pubblica che prevedeva la stipula del contratto definitivo prima della scadenza del periodo di inalienabilità stabilito dagli artt. 35, comma 15, e 19, L. 22 ottobre 1971, n. 865; Cass. 16 agosto 1990, n. 8325, in Giur. it., 1991, I, 1, 1208 a proposito della nullità del preliminare di una vendita a scopo di garanzia, quest'ultima invalida per il divieto del patto commissorio stabilito dall'articolo 2744 c.c. contenuta nella prima parte dell'art. 7 dello statuto della società "Alfa s.r.l." (c.d. nullità totale).
56) Sull'appartenenza del comma 1, art. 1419 c.c. al novero dei canoni interpretativi, cfr. G. Criscuoli, La nullità parziale del negozio giuridico, Milano, 1959, 237 ss.; G. B. Ferri, in Riv. dir. comm., 1963, II, 278; G. Criscuoli, in Giur. it. 1966, I, 1, 1166 ss.; F. Ziccardi, Le norme interpretative speciali, Milano, 1972, 236 ss.; Id., voce Interpretazione del negozio giuridico, in Enc. giur., XVII, Roma, 1989, 8; G. Filanti, voce Nullità, I, Diritto civile, in Enc. giur., XXI, Roma, 1990, 7; C. Donisi, in Rass. dir. civ., 1992, 515 ss.
57) In giurisprudenza cfr. Cass. 13 novembre 1997 n. 11248, in Mass. Giust. civ ,1997, 2165.
58) Cfr. A. D'Antonio, La modificazione legislativa del regolamento negoziale, Padova, 1974, 235 ss.; nonché C. M. Bianca, op. cit., 600 s.
59) Secondo l'orientamento giurisprudenziale prevalente, è onere della parte che intende far valere la nullità totale, provare che sussistono gli estremi per l'estensione della nullità: cfr. Cass. 8 giugno 1979, n. 3268, in Mass. Giust. civ., 1979, fasc. 6; Cass. 11 agosto 1980, n. 4921, ivi, 1980, fasc. 8; Cass. 13 novembre 1997, n. 11248 cit.
Autore: Salvatore D'Agostino - tratto da: Le Società on line www.ipsoa.it/