CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. I° CIVILE 

11 novembre 2010   n. 22915


Motivi della decisione

Con l'unico motivo di ricorso la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 67, II comma, L.F. laddove la Corte d'Appello ha ritenuto sussistere sia il presupposto soggettivo sia quello oggettivo dell'azione revocatoria. Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 c.c. e omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a un punto essenziale della controversia laddove la Corte d'Appello ha ritenuto fornita la dimostrazione della conoscenza dello stato di insolvenza della X da parte della banca attraverso presunzioni.

Deduce la ricorrente che le tre rimesse rispettivamente di lire 80, 910 e 712 milioni (depurate del costo delle operazioni di sconto) effettuate dalla società X nell'anno antecedente la dichiarazione di fallimento sul conto corrente da questa intrattenuto presso la Cassa di Risparmio di Prato, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte d'Appello, non avrebbero carattere solutorio e pertanto non sarebbero revocabili.

Tali rimesse, essendo il conto assistito da fido, avevano soltanto la funzione di ripristino della provvista.

Risulta, infatti, secondo la ricorrente, dai documenti prodotti in giudizio che la banca, dopo la revoca degli affidamenti del 19.10.1987, disposta a seguito della revoca della fideiussione prestata da parte dei soci Tempestini Daniele e Benassai Giuliano, effettuata in conseguenza della cessione delle loro quote sociali, ritenendo la X ciò nonostante degna di fiducia, passò da affidamenti generalizzati ad affidamenti specifici e con delibera del Comitato di Gestione del 14.4.1988 concesse alla X tre linee di credito per gli importi di lire 80.000.000, lire 910.000.000 e lire 712.000.000, corrispondenti agli importi dei titoli negoziati.

Siccome, secondo il consolidato indirizzo della Corte di Cassazione, il carattere solutorio di ogni singola rimessa va determinato tenendo conto della soglia di disponibilità ragguagliata al limite del fido, detti accrediti transitati sul conto nei limiti del fido non potrebbero essere revocati.

Deduce altresì la ricorrente che i fatti (sospensione dei fidi, conseguenti alla revoca delle fideiussioni prestate da Tempestini e Benassi, ritorni di insoluti, richiesta di un decreto ingiuntivo e del sequestro conservativo da parte di un creditore per grosse somme, la vendita dell'azienda) ritenuti dalla Corte d'Appello fonte di prova della conoscenza da parte della banca dello stato di insolvenza della società fallita, pur in sé considerati secondo un criterio di normalità non avrebbero affatto il significato univoco di manifestazioni esteriori di uno stato di insolvenza. Inoltre anche a prescindere dal significato oggettivo di tali fatti, non sarebbe stata fornita la prova che essi fossero stati conosciuti e, se conosciuti, fossero stati percepiti quali elementi rivelatori di difficoltà finanziarie dell'impresa.

Il motivo è infondato.

Detto motivo si articola su due censure: con la prima si censura la ritenuta natura solutoria delle rimesse bancarie; con la seconda la ritenuta conoscenza da parte della banca dello stato di insolvenza della società poi dichiarata fallita.

La prima censura impone innanzitutto di chiarire quale sia la causa dell'apertura di credito.

Con il contratto di apertura di credito bancario la banca si obbliga a tenere a disposizione dell'altra parte una somma di danaro per un dato periodo di tempo o a tempo determinato (art. 1842 c.c.); l'accreditato, se non è convenuto altrimenti, può utilizzare in più volte il credito e può con successivi versamenti ripristinare la sua disponibilità.

Se tra un cliente imprenditore, che si trovi in una situazione di difficoltà economica, e la banca viene concluso un contratto di apertura di credito senza che i successivi versamenti possano essere riutilizzati dal cliente, il contratto di apertura di credito è soltanto apparente, atteso che, in tal modo, viene posta in essere una attività negoziale, cui non corrisponde il regolamento di interessi tipico di detto contratto, ma un diverso regolamento di interessi.

Lo scopo in tal caso non è quello di mantenere una determinata somma e per un dato periodo di tempo a disposizione del cliente, ma di consentire alla banca di recuperare i crediti nei confronti del cliente, senza che i versamenti effettuati da questi, nei limiti dell'apertura di credito, possano essere ritenuti di natura solutoria e come tali fatti oggetto di azione revocatoria.

È evidente che in tal caso la mancanza della causa tipica - il tenere una somma di danaro a disposizione del cliente costituisce un elemento essenziale della causa del contratto di apertura di credito - impone di ritenere detti versamenti solutori e non ripristinatori della provvista.

Una simile vicenda si è verificata nel caso di specie. Risulta dalla sentenza impugnata, che la Banca ricorrente verso la fine di settembre 1987 revocò gli affidamenti concessi alla X, invitandola nel contempo ad eliminare il pesante scoperto; che fin dall'ottobre 1987 detta società ebbe a cessare ogni attività; che nel marzo 1988 ebbe anche a vendere il proprio stabilimento, unico bene di suo proprietà; che dopo la vendita dello stabilimento e quando la società non era, quindi, più operativa, la banca aveva, con delibera del comitato di gestione del 1988, accordato alla società ulteriori linee di credito corrispondenti all'importo di tre cambiali cedute alla banca, che la X aveva avuto in pagamento dello stabilimento da parte della acquirente Superfil s.r.l., rispettivamente dell'importo di 80, 910, 712 milioni di lire.

Il giudice a quo ha affermato che la concessione di dette linee di credito era strumentalmente diretta esclusivamente a scongiurare la revocabilità dei versamenti, in quanto avrebbero dovuto ritenersi ripristinatori della provvista, perché effettuati dentro la scopertura autorizzata; che può ritenersi ripristinatore della provvista il versamento di somme che il cliente può tornare ad utilizzare a suo piacimento, ma non di quelle che, come nel caso di specie, vanno a senso unico per essere incassate in via definitiva dalla banca ad estinzione del suo credito; che le tre rimesse di cui sopra servivano esclusivamente a decurtare il rilevante passivo della società verso la banca e non a ricostituire la provvista; che le suddette linee di credito erano, quindi, apparenti, in quanto servite esclusivamente a consentire lo sconto delle cambiali rilasciate dalla Superfil a pagamento del prezzo di acquisto dello stabilimento.

Tale motivazione non è stata censurata dalla banca ricorrente che assume nel ricorso che, per il solo fatto della esistenza delle tre linee di credito concesse alla X, corrispondenti agli importi dei titoli negoziati, le rimesse in questione non avrebbero natura di pagamento, ma di ripristino della provvista.

Nulla dice la ricorrente per confutare la ritenuta apparenza delle concesse linee di credito e, quindi, il ritenuto conseguente carattere solutorio delle rimesse, non potendosi queste ritenere effettuate nell'ambito di una scopertura effettivamente autorizzata.

Anche la seconda censura attinente alla conoscenza dello stato di insolvenza non ha pregio.

La ricorrente sostiene che lo stato di insolvenza sarebbe stato ritenuto sulla base di fatti, quali l'esistenza di un decreto ingiuntivo ed il sequestro ottenuto da un creditore di grosse somme, che non potevano considerarsi noti alla banca.

Il collegio osserva che il giudice a quo ha dedotto la conoscenza da parte della banca dello stato di insolvenza della società da fatti intervenuti nell'ambito dei rapporti con la società e, quindi, direttamente conosciuti dalla banca, mentre gli elementi che la ricorrente ritiene non conosciuti sono stati considerati dal giudice a quo solamente come "sintomi aggiuntivi che confermano l'evoluzione negativa della situazione, sfociata infine nel fallimento".

Anche con riferimento all'elemento soggettivo della revocatoria la sentenza impugnata appare pertanto adeguatamente motivata ed immune da errori logico-giuridici.

Per le considerazioni che precedono il ricorso deve essere respinto e la ricorrente condannata a rimborsare al Fallimento resistente le spese del giudizio di cassazione, che appare giusto liquidare in complessivi euro 8.200,00, di cui euro 8000,00 per onorari, oltre spese generali ed accessori di legge.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in euro 8.200,00, di cui euro 8.000,00 per onorari, oltre spese generali ed accessori di legge.