Cassazione Civile, sez. I°, 16/05/08 n. 12451
Pres. CARNEVALE Corrado - Est. GIULIANI Paolo - P.M. CENICCOLA Raffaele - I.C.I.S. s.n.c. di Torchio Vincenzo & C c / COMUNE di RACCONIGI
In tema di appalto di opere pubbliche, la rata di saldo è dovuta (se e) dopo che i lavori siano stati ultimati e l'intera opera sia stata realizzata e collaudata positivamente, ovvero, nell'ipotesi in cui il collaudo non venga effettuato ed approvato, dopo la scadenza del termine fissato dall'art. 5, 4° co., l. 10.12.1981, n. 741, dal momento che l'inutile decorso di tale termine, senza che l'amministrazione abbia fornito la prova che la relativa omissione o il relativo ritardo siano dipesi da fatto imputabile all'impresa, determina, per ciò solo, l'insorgere del diritto dell'appaltatore al pagamento del saldo.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato il 7.2.1995, la I.C.I.S. s.n.c. di Torchio Vincenzo & C. conveniva davanti al Tribunale di Saluzzo il Comune di Racconigi, chiedendone la condanna al pagamento della somma di L. 49.461.247, oltre agli accessori, vuoi a titolo di compenso residuo dovutole a saldo per la realizzazione dei lavori di costruzione della rete fognaria e del depuratore della zona ad (OMISSIS), di cui al contratto di appalto in data 18.8.1983, vuoi a titolo di compenso per l'esecuzione dei lavori extracontrattuali relativi all'allacciamento delle nuove opere alla rete fognaria già esistente.
Si costituiva in giudizio il convenuto, il quale contestava il fondamento della domanda avversaria, deducendo il mancato rispetto del termine di ultimazione dei lavori e l'assenza sia della comunicazione della fine di questi ultimi sia della richiesta di collaudo, nonchè contestando altresì la validità e l'efficacia della perizia suppletiva e di variante redatta in occasione dei lavori medesimi.
Il Giudice adito, con sentenza del 21.3/27.4.2000, respingeva la domanda.
Avverso la decisione, proponeva appello la società I.C.I.S..
Resisteva nel grado l'appellato Comune, concludendo per la conferma dell'impugnata pronuncia.
La Corte territoriale di Torino, con sentenza del 23.11.2001/15.7.2002, rigettava l'appello, assumendo per quanto ancora interessa:
a) che fosse infondato il secondo motivo di gravame, mediante il quale era stata contestata dall'appellante la mancata liquidazione del pagamento della rata di saldo dei lavori non essendovi (a giudizio del Tribunale) il certificato di collaudo, la cui redazione (ad avviso dell'appellante) incombeva unicamente sulla stazione appaltante, tenuta a provvedervi entro e non oltre il termine di un anno dalla fine dei lavori, come prescritto dall'art. 32 del capitolato speciale d'appalto;
b) che, in assenza del collaudo da parte del Comune e di una qualche attività dell'impresa appaltatrice per conseguirlo, l'Ente pubblico non potesse procedere alla presa in consegna definitiva dell'opera nè provvedere al pagamento della rata di saldo senza che prima si fosse addivenuti al collaudo secondo le modalità di legge, tale operazione costituendo il presupposto per la definizione di ogni rapporto con l'appaltatore ed avendo una valenza anche formale, basata tra l'altro sull'utilizzo della forma scritta, onde non vi poteva essere accettazione in mancanza dell'approvazione del collaudo;
c) che fosse da rigettare anche il terzo motivo di appello, mediante il quale era stato chiesto che il diritto ad ottenere il pagamento dei maggiori lavori eseguiti venisse riconosciuto sotto il profilo dell'arricchimento senza causa, ai sensi degli artt. 2041 - 2042 c.c.;
d) che in mancanza, infatti, di una valida accettazione dell'opera, restasse fermo il principio secondo cui l'appaltatore il quale abbia eseguito variazioni arbitrarie (perchè non richieste od autorizzate dall'Amministrazione committente, ma introdotte per sua iniziativa unilaterale) non ha diritto ad alcun compenso aggiuntivo o indennizzo di sorta, neppure a titolo di indebito arricchimento della committente stessa.
Avverso tale sentenza, ricorre per cassazione la I.C.I.S. s.n.c. di Torchio Vincenzo & C, deducendo due motivi di gravame ai quali resiste il Comune di Racconigi con controricorso illustrato da memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di impugnazione, lamenta la ricorrente violazione e falsa applicazione del R.D. 25 maggio 1895, n. 350, art. 62, della L. 10 dicembre 1981, n. 741, art. 5, e dell'art. 32 del capitolato speciale d'appalto, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3, assumendo:
a) che la Corte territoriale ha ritenuto che l'Impresa ricorrente non avesse diritto a percepire il pagamento della rata di saldo dei lavori eseguiti e riconosciuti dal Comune, perchè l'opera non sarebbe stata ancora collaudata;
b) che le norme di legge e di contratto, la cui violazione è oggetto del motivo in esame, nulla dicono in ordine a presunti oneri dell'Impresa di adoperarsi affinchè l'Amministrazione collaudi l'opera realizzata;
c) che era, invece, preciso e specifico obbligo del Comune collaudare l'opera entro il termine previsto dalle disposizioni di legge e del capitolato speciale d'appalto sopraindicate, laddove la Corte territoriale ha negato alla ricorrente il diritto a percepire la rata di saldo in considerazione della mancata emissione del certificato di collaudo, dimenticando di apprezzare su chi effettivamente incomba l'obbligo di collaudare l'opera, senza, poi, trascurare di aggiungere che era agli atti la prova dell'esecuzione dell'opera entro i termini contrattuali, della sua presa in consegna da parte della stazione appaltante e delle reiterate richieste, rivolte al Comune, ancorchè non necessarie, di provvedere alla redazione degli atti di contabilità che occorrevano per la liquidazione finale dei lavori.
Il motivo è fondato.
La Corte territoriale, in sede di esame del secondo motivo di appello (là dove era stata contestata la mancata liquidazione della rata di saldo dei lavori riconosciuti dal Comune, sostenendosi dall'appellante che il conto finale ed il certificato di collaudo, sul cui difetto si fondava appunto il relativo diniego opposto dal primo Giudice, sono atti la redazione dei quali incombe unicamente sulla stazione appaltante, che deve provvedervi entro e non oltre il termine di un anno dalla fine dei lavori, come prescritto dall'art. 32 del capitolato speciale d'appalto, laddove il mancato collaudo delle opere non può costituire pretesto per non riconoscere all'impresa il corrispettivo dei lavori eseguiti), ne ha ritenuto l'infondatezza sulla base dei seguenti rilievi: "Preso atto dell'assenza del collaudo da parte del Comune e di una qualche attività dell'impresa appaltatrice per conseguirlo, ne deriva necessariamente che l'ente pubblico non può procedere alla presa in consegna definitiva dell'opera nè provvedere al pagamento della rata di saldo se prima non si addiviene al collaudo secondo le modalità prescritte dalla legge; tale operazione costituisce presupposto per la definizione di ogni rapporto con l'appaltatore ed ha una valenza anche formale, richiedendo la legge un'esplicita manifestazione della volontà di accettare e prendere in consegna l'opera, dopo l'osservanza di una particolare procedura, basata tra l'altro sull'utilizzo della forma scritta; nè può ammettersi un'accettazione implicita o tacita dell'opera o un'accettazione dedotta da fatti concludenti: non vi è un'accettazione se non vi è un atto formale di approvazione del collaudo".
Simili argomentazioni non possono essere condivise.
In tema di appalto di opere pubbliche, mentre tutte le rate che comportano pagamenti in acconto, ivi compresa l'ultima, presuppongono che l'opera sia ancora in corso e devono essere versate per il solo fatto che l'ammontare dei lavori abbia raggiunto l'importo contrattualmente previsto e che la direzione dei lavori abbia certificato il relativo stato di avanzamento, la rata di saldo è, invece, dovuta (se e) dopo che i lavori stessi siano stati ultimati e l'intera opera sia stata realizzata e collaudata positivamente, ovvero, nell'ipotesi in cui il collaudo non venga effettuato ed approvato nei termini di legge, alla scadenza del termine di "otto" mesi dalla data di ultimazione dei lavori, di cui alla L. 10 dicembre 1981, n. 741, art. 5, costituito da "sei" mesi a decorrere da quest'ultima data (salvo il prolungamento, "non superiore ad un anno", contenuto nel capitolato speciale), per l'effettuazione del collaudo, ai quali debbono aggiungersi "due" mesi per l'approvazione del relativo certificato (Cass. 26 giugno 2001, n. 8705; Cass. 29 luglio 2004, n. 14460).
Al riguardo, infatti, vale notare come, in materia di appalti assegnati sotto il vigore della L. n. 741 del 1981, richiamato art. 5, quest'ultima disposizione, segnatamente ai commi quarto e quinto, stabilisca che, scaduto inutilmente il termine di due mesi per l'approvazione del certificato di collaudo (o di quello di regolare esecuzione), decorrente a propria volta dalla scadenza del termine stabilito per la sua emissione, il quale decorre, a propria volta, dalla data di ultimazione dei lavori, l'appaltatore, sia stato o meno iniziato il collaudo medesimo ovvero vi sia ritardo nelle relative operazioni ovvero nell'emissione o nell'approvazione dell'atto corrispondente e salva l'ipotesi che il ritardo non dipenda da fatto imputabile all'impresa, ha diritto alla restituzione delle somme costituenti la cauzione definitiva e le ritenute di garanzia (detenute ex art. 48, comma 1, del regolamento per l'amministrazione del patrimonio e per la contabilità generale dello Stato, approvato con R.D. 23 maggio 1924, n. 827), nonchè di tutte quelle consimili trattenute a titolo di garanzia, che così diventano esigibili, laddove, alla stessa data di scadenza del termine anzidetto, si estinguono ipso iure le eventuali garanzie fideiussorie, bancarie o assicurative, costituite in sostituzione delle ritenute di garanzia e può essere istituito giudizio arbitrale o ordinario per le controversie nascenti dal contratto di appalto.
Orbene, sulla base di una corretta lettura della L. n. 741 del 1981, sopra riportato art. 5, è dato di argomentare che tale disposizione, mirando evidentemente ad indurre l'amministrazione committente a svolgere i suoi compiti istituzionali di collaudo in tempi ragionevolmente brevi (Cass. 13 maggio 2002, n. 6805), abbia, ai fini del riconoscimento dell'esigibilità del diritto dell'appaltatore alla restituzione delle somme costituenti la cauzione definitiva e le ritenute di garanzia, nonchè di tutte quelle consimili trattenute allo stesso titolo, come pure dell'estinzione delle eventuali garanzie sostitutive e della proponibilità delle domande tese al conseguimento dei diritti nascenti dall'approvazione del collaudo dell'opera pubblica (tra cui, appunto, oltre a quelli già indicati, il pagamento del saldo e la liberazione dai doveri di custodia e manutenzione), riguardato l'inerzia dell'appaltante con esclusivo riferimento all'inutile decorso dei termini per la conclusione delle operazioni di collaudo e l'approvazione del corrispondente certificato, escludendo così ogni margine di discrezionalità del giudice circa la valutazione della congruità o meno del tempo trascorso (Cass. 17 giugno 1998, n. 6036) e finendo, quindi, per assimilare l'evento obiettivo di un simile, inutile decorso all'ipotesi dell'effettivo e tempestivo intervento di detta approvazione, secondo quanto comprova la stessa possibilità, riconosciuta all'appaltatore, di esercitare, in ragione di tale decorso, diritti (e segnatamente quelli risultanti dal disposto del quarto comma del già citato art. 5) altrimenti subordinati al compimento formale degli atti di cui trattasi.
In questo senso, cioè, appare evidente che l'inutile spirare del termine previsto dal quarto comma della L. n. 741 del 1981, art. 5, determina, in forza di espressa previsione normativa, il venir meno delle garanzie dell'amministrazione appaltante ivi meglio indicate (comprendenti, oltre quelle specificatamente tipizzate, del genere appunto della cauzione definitiva e delle ritenute di garanzia, altresì "tutte quelle consimili"), restando a carico della medesima amministrazione, allo scopo di liberarsi dalle conseguenti obbligazioni, l'onere di provare che l'omissione, o anche il semplice ritardo, circa l'effettuazione del collaudo e l'approvazione del relativo certificato, siano dipesi da fatto imputabile all'impresa, tale dovendo intendersi una condotta o un evento comunque riferibile a quest'ultima, il quale impedisca od ostacoli lo svolgimento delle operazioni di collaudo nei termini di legge (come, ad esempio, la mancata consegna delle opere o la mancata rimozione di materiali od attrezzi) e che non può consistere in ulteriori inadempienze riscontrate in sede di tardivo collaudo, attenendo simili inadempienze, espressamente fatte salve dal richiamato art. 5, comma 4, al diverso (e successivo) profilo della responsabilità dell'appaltatore accertata in sede di collaudo appunto (Cass. 5 giugno 2001, n. 7596; Cass. 13 febbraio 2002, n. 2069).
Nella specie, la Corte territoriale non ha fatto corretta applicazione dei principi dianzi illustrati, avendo in particolare trascurato di considerare che, ai fini del diniego della liquidazione della rata di saldo, non è sufficiente prendere atto "dell'assenza del collaudo da parte del (committente) e di una qualche attività dell'impresa appaltatrice per conseguirlo", così da addivenire all'inaccettabile conclusione secondo la quale "l'ente pubblico non può procedere alla presa in consegna definitiva dell'opera nè provvedere al pagamento della rata di saldo se prima non si addiviene al collaudo secondo le modalità prescritte dalla legge (e) se non vi è un atto formale di approvazione del collaudo" stesso, occorrendo piuttosto apprezzare se sia o meno intervenuta la scadenza dei termini fissati dalla L. 10 dicembre 1981, n. 741, art. 5, dal momento che l'inutile decorso di siffatti termini, senza che l'Amministrazione abbia fornito la prova che la relativa omissione o il relativo ritardo siano dipesi da fatto imputabile all'impresa, determina per ciò solo, secondo quanto accennato, l'insorgere del diritto dell'appaltatore al pagamento della rata di saldo.
Con il secondo motivo di impugnazione, lamenta la ricorrente violazione e falsa applicazione degli artt. 2041 e 2042 c.c., ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3, deducendo:
a) che la Corte territoriale ha confermato la decisione di primo grado là dove il Tribunale aveva negato il diritto dell'Impresa ad ottenere il pagamento del corrispettivo per le opere previste dalla perizia di variante, assumendo che, nel vigore, in materia di appalti pubblici, del principio della forma scritta ad substantiam, il direttore dei lavori avrebbe dovuto ordinare per iscritto all'Impresa stessa di eseguire le nuove opere, facendo contestualmente menzione dell'avvenuta approvazione della perizia da parte del Comune; b) che detta Impresa, tuttavia, aveva proposto anche l'azione generale di arricchimento per ottenere il pagamento, nei limiti della locupletazione conseguita dall'Amministrazione, delle opere eseguite in esecuzione della perizia di variante, ancorchè non approvata dal Comune;
c) che, sull'esecuzione dei lavori, non vi è mai stata contestazione da parte del medesimo Comune, avendo, anzi, la consulenza tecnica svoltasi nel corso del giudizio di primo grado certificato l'esecuzione di tutte le opere di cui alla perizia di variante;
d) che è anche pacifico che l'Amministrazione, sin dal 1984, utilizza l'opera eseguita dalla ricorrente senza avere mai contestato alcunchè;
e) che la Corte territoriale, dunque, non poteva negare il fondamento dell'azione di arricchimento, avendo la difesa dell'Impresa sin dal giudizio di primo grado specificato che, nel caso in cui si fosse negata la fonte contrattuale del diritto di credito, tale diritto doveva trovare tutela attraverso l'azione generale di arricchimento;
f) che detto Giudice, invece, ha respinto la domanda dell'Impresa, ritenendo che anche la proposizione dell'azione di arricchimento sia condizionata al collaudo dell'opera ("valida acccttazione" si legge alla pagina 7 della sentenza impugnata) e richiamando una decisione che nulla aveva a che fare con il caso concreto, in quanto, oltre a presupporre l'inizio delle operazioni di collaudo, si riferisce ad opere arbitrariamente eseguite dall'appaltatore e di nessuna utilità per l'Amministrazione.
Il motivo non è fondato.
La Corte territoriale, in sede di esame del terzo motivo di appello, mediante il quale si era chiesto che il diritto ad ottenere il pagamento dei maggiori lavori eseguiti venisse riconosciuto sotto il profilo dell'arricchimento senza causa, ai sensi degli artt. 2041 - 2042 c.c., ha ritenuto che, "in mancanza di una valida accettazione dell'opera, resta fermo il principio sancito da Cass. 28.6.1995, n. 7282 (secondo cui) l'appaltatore il quale abbia eseguito variazioni arbitrarie (perchè non richieste od autorizzate dall'Amministrazione committente, ma introdotte per sua iniziativa unilaterale) non ha diritto per tali variazioni, ai sensi della L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 342, comma 2, ali. F, ad alcun aumento di prezzo, compenso aggiuntivo od indennizzo di sorta, neppure a titolo di indebito arricchimento della committente".
Al riguardo, giova premettere come la giurisprudenza di questa Corte, pur se deve essere considerata uniforme nell'affermazione del principio richiamato dal Giudice di merito (alla pronuncia - Cass. n. 7282/1995 - citata nella sentenza impugnata, possono, infatti, aggiungersi Cass. 23 febbraio 1996, n. 1443; Cass. 20 luglio 2000, n. 9530; Cass. 9 luglio 2004, n. 12681; Cass. 3 marzo 2006, n. 4725), abbia, tuttavia, in effetti precisato che detto principio trova applicazione in presenza di opere nuove, strutturalmente e progettualmente autonome da quelle appaltate, realizzate dall'appaltatore a seguito di una propria ed esclusiva iniziativa, non preventivamente assentita, ovvero non già in presenza di una richiesta della stazione appaltante invalida per ragioni formali o sostanziali, ma in carenza, proprio nella sua materialità, di qualsiasi richiesta, anche implicita, della committente, onde tali addizioni e innovazioni, poichè risultano eseguite in violazione del divieto imposto dalle disposizioni dell'ordinamento positivo in tema di appalto di opere pubbliche (L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 342, comma 1, allegato F, là dove recita "Non può l'appaltatore sotto verun pretesto introdurre variazioni o addizioni di sorta al lavoro assunto senza averne ricevuto l'ordine per iscritto dall'ingegnere direttore, nel qua ordine sia citata la intervenuta superiore approvazione"), vengono comunemente identificate con il termine di "variazioni arbitrarie", differenziandosi appunto (come sopra accennato) dalle variazioni richieste dalla committente in modo radicalmente invalido, alle quali (come pure accennato) non si applica il già menzionato art. 342, in forza del cui comma 2, per le variazioni non richieste o autorizzate dalla stazione appaltante, ma introdotte per sua iniziativa unilaterale e, perciò, eseguite in violazione del divieto anzidetto, l'appaltatore non può pretendere alcun compenso aggiuntivo o indennità di sorta, neppure a titolo di indebito arricchimento, così come induce a ritenere la stessa previsione normativa che esclude "alcun aumento di prezzo" e qualunque "indennità".
Peraltro, è noto come l'azione di indebito arricchimento proposta, ex art. 2041 c.c., nei confronti della Pubblica Amministrazione differisca da quella ordinaria, in quanto presuppone non solo il fatto materiale dell'esecuzione di un'opera o di una prestazione vantaggiosa per l'Ente pubblico, ma anche il riconoscimento, da parte di quest'ultimo, dell'utilità dell'opera o della prestazione, laddove tale riconoscimento può avvenire in maniera esplicita, mediante, cioè, un atto formale, oppure in modo implicito, mediante, cioè, qualsiasi forma di concreta utilizzazione dell'opera ricevuta o della prestazione svolta, da cui abbia tratto vantaggio economico o arricchimento, consapevolmente attuata dagli organi rappresentativi dell'Ente anzidetto in termini di effettiva e reale corrispondenza dell'opera o della prestazione stesse alle esigenze del pubblico servizio, secondo una destinazione oggettivamente rilevabile ed equivalente, nel risultato, ad un esplicito riconoscimento di utilità (Cass. 26 luglio 1999, n. 8070; Cass. 17 luglio 2001, n. 9694; Cass. 11 febbraio 2002, n. 1884; Cass. 27 giugno 2002, n. 9348; Cass. 27 luglio 2002, n. 11133; Cass. 18 novembre 2003, n. 17440; Cass. 25 febbraio 2004, n. 3811; Cass. 18 marzo 2004, n. 5506; Cass. 20 agosto 2004, n. 16348).
Tanto premesso, giova osservare nella specie come l'odierna ricorrente, a fronte dell'apprezzamento di fatto (di per sè incensurato), contenuto nell'impugnata sentenza., circa l'intervento, ancorchè "non firmata", di una "perizia suppletiva e di variante (relativa a) lavori ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal contratto di appalto sottoscritto dalle parti in data 18 agosto 1983", abbia semplicemente (ed unicamente) prospettato:
a) che "sull'esecuzione dei lavori non v'è mai stata contestazione da parte del Comune resistente: anzi la CTU svoltasi nel corso del giudizio di primo grado, ha certificato l'esecuzione di tutte le opere di cui alla perizia di variante";
b) che, cioè, "la CTU ha provato che le opere eseguite dall'impresa corrispondevano a quelle indicate nella perizia suppletiva e di variante";
c) che "è anche pacifico che l'Amministrazione sin dal 1984 utilizza l'opera eseguita dalla ricorrente senza aver mai contestato alcunchè";
d) che "l'Amministrazione appellata ha pacificamente ed implicitamente provato l'utilità dell'opera che da quasi vent'anni viene utilizzata senza che sia mai stato contestato alcunchè".
Pure, quindi, ad ammettere che la "perizia suppletiva e di variante", nonchè i documenti ad essa collegati (atto di sottomissione, computo metrico e quadro comparativo), possano considerarsi come "ordini", ovvero come richieste, sia pure radicalmente invalide in quanto "non firmate dal direttore dei lavori ma da questo redatte e consegnate all'Impresa", di lavori ulteriori e diversi (onde l'inapplicabilità della giurisprudenza di questa Corte, sopra richiamata in tema di "variazioni arbitrarie", circa la mancata possibilità di esperire, in questo caso, l'azione di indebito arricchimento della committente), giova considerare che, ai fini dell'accoglimento della relativa domanda di indennizzo ex art. 2041 c.c., non è circostanza di per sè sola sufficiente "l'esecuzione di tutte le opere di cui alla perizia di variante", laddove, per quanto attiene all'utilizzo dell'opera, l'odierna ricorrente, contravvenendo allo stesso principio di autosufficienza del ricorso, non ha minimamente specificato nè da quali circostanze risulti che sia "pacifico che l'Amministrazione sin dal 1984 utilizza l'opera eseguita dalla ricorrente senza aver mai contestato alcunchè", nè, comunque, facendone semmai analitico richiamo (e, ove necessario, addirittura trascrivendoli), da quali elementi istruttori raccolti in sede di merito sia dato di ricavare la prova dell'utilizzo "dell'opera...da quasi vent'anni...senza che sia mai stato contestato alcunchè", di guisa che, in conclusione, le censure della ricorrente medesima non appaiono per nulla decisive, ovvero tali da indurre con certezza ad una decisione difforme da quella adottata dalla Corte territoriale nell'impugnata sentenza.
Pertanto, il primo motivo del ricorso merita accoglimento, laddove il secondo va rigettato, onde la sentenza anzidetta deve essere cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio, anche ai fini delle spese del giudizio di cassazione, alla Corte di Appello di Torino in diversa composizione, affinchè tale Giudice provveda a statuire sul punto ancora controverso facendo applicazione dei principi dianzi enunciati.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo del ricorso, rigetta il secondo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche ai fini delle spese del giudizio di cassazione, alla Corte di Appello di Torino in diversa composizione.