Sentenza Cassazione, Sez. I°
12/01 - 24/03/2006 n. 6685

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VITRONE Ugo - Presidente
Dott. BERRUTI Giuseppe Maria - Consigliere
Dott. CECCHERINI Aldo - rel. Consigliere
Dott. DEL CORE Sergio - Consigliere
Dott. SALVATO Luigi - Consigliere
ha pronunciato la seguente sentenza
sul ricorso proposto da:
CASONI FABBRICAZIONE LIQUORI S.P.A., in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA ASIAGO 8, presso l'avvocato AURELI Stanislao, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati MICHELE AURELI, ALBERTO CALTABIANO, giusta procura a margine del ricorso;
- ricorrente -
contro
ILLVA SARONNO S.P.A., in persona dell'Amministratore Delegato pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma LUNGOTEVERE MICHELANGELO 9, presso l'avvocato BIAMONTI Luigi, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati ADRIANO VANZETTI, CESARE GALLI, giusta delega a margine dal controricorso;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 665/2002 della Corte d'Appello di BOLOGNA, depositata il 29/05/2002;
udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 12/01/2006 dal Consigliere Dott. Aldo CECCHERINI;
udito per il ricorrente l'Avvocato AURELI che ha chiesto l'accoglimento del ricorso;
udito per il resistente l'Avvocato BIAMONTI, con delega, che ha chiesto il rigetto del ricorso;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ABBRITTI Pietro, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

Con citazione in data 23 febbraio 1994, la ILLVA Saronno s.p.a. (nel seguito, anche: ILLVA), espose di essere produttrice dell'amaretto di Saronno, bevanda venduta in tutto il mondo e confezionata in una bottiglia dalla forma parallelepipeda con le facce laterali più brevi, in vetro "glassato", con un'etichetta che riproduce un cartiglio, ed un tappo di plastica scura di grandi dimensioni a forma parallelepipeda e a base quadrata; di aver registrato fin dal 1971 la bottiglia come marchio di forma, di aver rinnovato tale marchio regolarmente, e di aver depositato nel 1991 un altro marchio. Sulla base di questa premesse, l'attrice chiamò il giudizio davanti al Tribunale di Modena la Casoni Fabbricazione Liquori s.p.a. (nel seguito, anche: C.F.L.), perchè fosse accertata la responsabilità della convenuta per la contraffazione dei due marchi nella produzione e commercio della sua bevanda, denominata amaretto Casoni, anche all'estero, e in particolare in Russia, e per la concorrenza sleale commessa ai suoi danni; e perchè fossero adottate le pronunce consequenziali di inibitoria alla prosecuzione degli illeciti, di distruzione dei prodotti recanti il marchio contraffatto, e di condanna sia al risarcimento dei danni da liquidarsi in separato giudizio e sia alla pubblicazione della sentenza.
La convenuta si costituì e resistette alla domanda. Per quel che qui ancora interessa, negò la somiglianza della sua bottiglia con quella oggetto di privativa da parte dell'attrice, e la presenza nei suoi prodotti del tappo della forma descritta, che sarebbe stato apposto sulle bottiglie dai distributori russi su loro iniziativa.
In corso di causa, l'attrice, avendo rinvenuto nella Repubblica Ceca altre confezioni del prodotto della convenuta confezionato in bottiglia recanti il caratteristico tappo, chiese ed ottenne il sequestro di altre confezioni prodotte dalla convenuta. Il sequestro fu eseguito presso la sede della C.F.L. su bottiglie di Amaretto Casoni, le quali risultarono prive del tappo rivendicato; il Giudice istruttore, tuttavia, respinse il ricorso, proposto ex art. 669 duodecies c.p.c., affermando che l'inibitoria cautelare e il sequestro erano stati concessi senza alcuna specificazione circa la presenza o meno del tappo.
Con sentenza il data 23 giugno 1999, il Tribunale accertò la contraffazione del marchio e la concorrenza sleale; inibì alla convenuta l'ulteriore commercializzazione delle bottiglie del suo prodotto e ordinò la distruzione di quelle sequestrate, stabilendo una penale per ogni giorno di ritardo nell'esecuzione della sentenza;
ordinò la pubblicazione di quest'ultima e condannò la convenuta al risarcimento dei danni da liquidare in separata sede.
La C.F.L. propose appello, e la Corte d'Appello di Bologna, con sentenza in data 29 maggio 2002, lo respinse. La Corte considerò che oggetto della contraffazione era la stessa bottiglia, registrata come marchio tridimensionale. Il confronto tra le bottiglie dell'ILLVA e quelle della C.F.L. dimostrava la loro estrema somiglianza e la confondibilità che la presenza sul mercato dell'amaretto Casoni in simile confezione imitata poteva obiettivamente provocare. In contrasto con l'assunto dell'appellante, la forma del tappo non era l'unico elemento distintivo rivendicato, avendo la Illva, già nel primo grado di giudizio, sempre precisato che l'eventuale assenza del tappo non escludeva la contraffazione. Il Tribunale aveva infatti accertato che la forma della bottiglia, il caratteristico vetro martellato e l'etichetta a forma di pergamena rendevano possibile al consumatore medio associare la bottiglia dell'amaretto Casoni a quella del più famoso amaretto di Saranno, e confondibili i contenitori usati per commercializzare i due prodotti. Secondo la Corte, trattandosi di marchio complesso, la tutela si estendeva a tutti gli elementi distintivi ai quali è affidata la funzione differenziatrice, sicchè costituiva contraffazione anche la riproduzione di un componente del marchio tridimensionale diverso dal tappo, purchè dotato di efficacia distintiva; detta efficacia, che doveva riconoscersi ai tre elementi già identificati dal Tribunale, era stata rafforzata dalla distribuzione a dalla pubblicità che avevano conferito notorietà al prodotto confezionato, individuato dal consumatore proprio attraverso la bottiglia. Le differenze tra le due bottiglia allogata dalla C.F.L., e costituita dalla diversa foggia della etichette e dal fatto che il vetro era lavorato ma non "glassato" non valevano ad escludere la confondibilità nel caso concreto, tenuto conto della necessità di giudicare quest'ultima in base ad un esame unitario e sintetico, nè a giustificare la pretesa di escludere la contraffazione nel caso di bottiglie della C.F.L. prive del tappo caratteristico o con etichette differenti, essendo sufficiente - perchè dotata di efficacia distintiva - anche la sola caratteristica forma della bottiglia.
Quanto poi alla circostanza - peraltro non provata - che il tappo sarebbe stato apposto all'estero da terzi sulle bottiglie contraffatte, essa, quand'anche provata, non avrebbe escluso la responsabilità dell'appellante per quelle manipolazioni, per omissione dei controlli e per non aver fatto cessare la condotta abusiva.
Sulla base di questi accertamenti, giusta era la condanna generica al risarcimento dei danni da contraffazione del marchio, comportamento potenzialmente dannoso.
Per la cassazione di questa sentenza, notificata il 10 luglio 2002 in forma esecutiva al procuratore domiciliatario della C.F.L. -, nel giudizio d'appello, quest'ultima ricorre con atto notificato il 24 ottobre 2002 alla ILLVA e al Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Bologna, con sette motivi.
L'intimata resiste con controricorso notificato il 3 dicembre 2002.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia la violazione dell'art. 184 c.p.c.. Si premette che in appello la C.F.L. aveva denunciato l'ultrapetizione in cui il Tribunale era incorso, prendendo in considerazione le bottiglie dell'amaretto Casoni anche se prive di tappo a base quadrata, sebbene l'attrice avesse prodotto in causa la sua domanda con riguardo alla bottiglia riprodotta in fotografia, che presentava il caratteristico tappo dell'ILLVA. La ricorrente censura la motivazione generica con la quale la Corte Territoriale ha respinto il motivo di gravame. Che, nel giudizio di primo grado, l'ILLVA avesse rivendicato sempre la bottiglia, indipendentemente dalla presenza del tappo, era mera affermazione, priva di indicazione degli elementi a tal fine utilizzati, se non con riferimento all'ordinanza cautelare del Giudice istruttore del Tribunale in data 10 dicembre 1997, e alla successiva ordinanza collegiale di conferma.
Ha questi elementi, costituiti da affermazioni fatte dalla parte attrice in relazione al provvedimento cautelare, che era stato richiesto dopo la precisazione delle conclusioni, erano stati introdotti in violazione della regola dell'art. 184 c.p.c., che vieta qualsiasi modifica della domanda dopo che la causa sia stata rimessa al collegio per la decisione.
La censura non può essere condivisa. Il motivo di appello sul quale la Corte Territoriale era chiamata a pronunciarsi, era imperniato sull'argomento che la domanda avversaria aveva riguardo esclusivamente alla bottiglia "di cui in narrativa" dell'atto di citazione, ossia, secondo l'appellante, a quella riprodotta in una fotografia esibita in giudizio dall'attrice. La decisione su questo motivo di appello, pertanto, doveva vertere sul contenuto dell'atto di citazione.
A questo riguardo, tuttavia, la motivazione della sentenza impugnata deve essere esaminata nella sua interezza, non essendo il Giudice tenuto, nella redazione della sentenza, a ripetere per ogni argomento affermazioni già fatte ad altro proposito, e che per tale ragione assumono normalmente il valore di premesse implicite. Nella fattispecie, la Corte Territoriale aveva già riferito, nella parte della sentenza dedicata allo svolgimento del processo, il contenuto dell'atto di citazione, là dove la rivendicazione è descritta non già con rinvio alla bottiglia riprodotta in foto, in quanto tale, ma con l'indicazione di tutti gli elementi rilevanti, e senza la supposta limitazione dell'ipotesi di contraffazione alla presenza del tappo (la "narrativa" vera e propria, insomma, alla quale lo stesso appellante si richiamava nel suo motivo di gravame, sia pur sostituendole poi il riferimento ad una fotografia, al fine di meglio fondare la sua doglianza). A questa parte della sentenza deve essere riferita l'affermazione, che con il motivo in esame è sottoposta a censura, e questo riferimento all'atto di citazione esclude la denunciata violazione dell'art. 184 c.p.c., a nulla rilevando che, a conferma dell'interpretazione della domanda inizialmente proposta, si richiamino poi atti giudiziali posteriori alla precisazione delle conclusioni. Appartiene, invece, al giudizio di merito (e non all'identificazione della domanda) la verifica della tesi di parte convenuta dell'indispensabilità del tappo della bottiglia, come unico elemento distintivo.

2. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia la violazione del R.D. 21 giugno 1942, n. 929, art. 1, nel testo vigente all'epoca dei fatti, già modificato dal D.Lgs. 4 dicembre 1992, n. 480, art. 1, ma non ancora dal D.Lgs. 19 marzo 1996, n. 198, art. 1, per il quale l'uso di un segno simile a quello registrato costituisce violazione della privativa solo se v'è rischio di confusione per il pubblico.
Ritenendo di dover prescindere dalla circostanza che le bottiglie della C.F.L. accusate fossero munite del caratteristico tappo, ed affermando che il segno registrato affidava la sua capacità distintiva anche ad altri elementi singolarmente considerati, quali l'etichetta a cartiglio, la forma parallelepipeda della bottiglia e il vetro glassato, la Corte felsinea aveva ravvisato la violazione dell'esclusiva nell'uso di un segno per l'associazione, che il pubblico poteva fare, di esso con il marchio registrato, e, dunque, sulla base della semplice somiglianza tra i due segni complessi, e non invece, come avrebbe dovuto, del rischio di confusione. La ricorrente richiama la giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, nella quale si chiarisce che il criterio del "rischio di confusione che comprende il rischio d'associazione con il marchio anteriore" contenuto nell'art. 4, p. 1, sub b), della prima direttiva 89/104 di riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri sui marchi (e pertanto anche nel R.D. 21 giugno 1942, n. 929, art. 1, come modificato dal D.Lgs. 4 dicembre 1992, n. 480, art. 1) deve interpretarsi nel senso che la semplice associazione fra due marchi, che il pubblico potrebbe fare sotto il profilo del loro contenuto semantico, non basta da sola a dimostrare l'esistenza di un rischio di confusione e che la nozione di rischio di associazione non è un'alternativa alla nozione di rischio di confusione, ma serve a precisarne l'estensione.
La ricorrente censura inoltre la sentenza per avere affermato che costituisce violazione di un marchio complesso anche la riproduzione di un solo componente del marchio. Al contrario, si osserva, secondo la giurisprudenza il divieto di riproduzione anche di un solo elemento del marchio complesso è subordinato alla condizione che esso dia luogo a rischio di confusione, e tale rischio deve essere apprezzato sulla base dell'impressione sintetica che si trae dall'insieme di ciascuno dei segni posti a confronto.
Con il terzo motivo di ricorso si denuncia la violazione dell'art. 3598 c.c., n. 1. Si deduce che l'azione di accertamento della concorrenza sleale può essere cumulata a quella di contraffazione del marchio solo se siano poeti in essere atti idonei a produrre confusione con i segni distintivi legittimamente usati da altri.
Omettendo il giudizio di confondibilità, la Corte Territoriale era incorsa nella violazione della disposizione richiamata.
Questi due motivi sono strettamente collegati, giacchè censurano, per la violazione di due diverse disposizioni di legge, il medesimo punto della sentenza impugnata, costituito dall'affermazione della somiglianza tra i segni, che sarebbe viziata dall'omessa valutazione del rischio di confusione. Essi sono peraltro infondati.
La Corte Territoriale non si è limitata a rilevare la somiglianza dei segni, che può giustificare l'associazione tra di essi, ma non comporta necessariamente la confusione circa l'origine dei prodotti.
A questo riguardo il Giudice di merito ha accertato (a nulla rilevando il fatto che nei passi della motivazione della sentenza dedicati a questo argomento ricorra o no l'uso della parola "confusione") che ciascuno degli elementi del marchio rivendicati costituisce una peculiarità tipica della bottiglia dell'Amaretto di Saronno e ha capacità distintiva, non avendo questi elementi alcuna attinenza concettuale con il prodotto e non esistendo, al momento della sua immissione sul mercato, nessun altro liquore venduto in contenitori dotati di caratteristiche analoghe; e che l'efficacia distintiva degli elementi che caratterizzano la bottiglia dell'Amaretto Saronno è andata progressivamente rafforzandosi per la notorietà del prodotto, acquisita per i notevoli investimenti pubblicitari effettuati dall'ILVA, cosicchè la percezione di quella particolare bottiglia da parte del consumatore è idonea a suscitare un'immediata individuazione dell'Amaretto di Saronno ILLVA. Quest'ultima affermazione, in modo particolare, dimostra che il Giudice di merito s'è posto il problema dell'incidenza che la somiglianza dei segni poteva avere, nell'indurre il consumatore ad individuare una confezione dell'Amaretto di Saronno, prodotto dalla ILLVA, sulla base della forma della bottiglia contraffatta dalla Casoni, in definitiva, il Giudice di merito ha fatto leva su due elementi, e cioè sia sulla capacità distintiva di ciascun elemento del segno (non già considerato ai fini della validità del segno medesimo, come si assume in ricorso, bensì in quanto) associato al medesimo prodotto "amaretto"; e sia la massiccia pubblicità che aveva portato ad "individuare" (termine che implica necessariamente la confusione indotta da ogni altra confezione dello stesso prodotto) il liquore in vendita attraverso il segno distintivo.
Tale procedimento, che valorizzando accanto al rapporto tra i segni distintivi quello tra i prodotti contrassegnati contraddice la censura della ricorrente, è logicamente e giuridicamente corretto, infatti, proprio la valutazione globale, che si richiede per l'accertamento della confondibilità, implica una certa interdipendenza tra i fattori presi in considerazione: in particolare, la somiglianza dei marchi e quella dei prodotti o dei servizi designati (anche un tenue grado di somiglianza tra i prodotti o i servizi designati può essere compensato da un elevato grado di somiglianza tra i marchi e viceversa in questo senso, v. già Corte di Giustizia CE, sentenza 29 settembre 1998, in Causa C-39/97).
Deve pertanto escludersi la denunciata violazione di legge, che sarebbe consistita nel ridurre l'accertamento della contraffazione del marchio ad un mero giudizio di somiglianza di segni, idonea a giustificare la loro associazione, anche indipendentemente dalla confusione circa l'origine dei prodotti.
Quanto alla censura dell'affermazione che ravvisa la violazione di un marchio complesso nella riproduzione anche di un solo componente del marchio, così trascurando la necessità del rischio di confusione, essa è assorbita dalle considerazioni che precedono, non avendo la Corte Territoriale omesso di trascurare questo aspetto essenziale della contraffazione, ed avendo poi fatto specificamente applicazione del criterio dell'esame sintetico per negare rilevanza a differenze secondarie dei segni. Nell'affermazione censurata dalla ricorrente, la Corte s'è limitata a ribadire un principio - quello dell'efficacia distintiva dei singoli componenti dei segni complessi - in sè esatto e saldamente affermato nella giurisprudenza.

3. Con il quarto motivo si denunciano vizi di motivazione sul punto della responsabilità derivante dall'applicazione, imputabile a terzi operanti all'estero, del caratteristico tappo dell'ILLVA per la chiusura della bottiglia. Si censura l'affermazione della Corte di merito, secondo la quale tale responsabilità deriverebbe dall'omissione dei controlli che competevano alla C.F.L. per la tutela del suo stesso marchio, e per non aver usato degli strumenti dei quali disponeva per far cessare la condotta illecita. Si osserva che il produttore, che abbia trasferito i suoi prodotti ad un distributore al quale non sia altrimenti legato, non è consentito di ingerirsi nell'attività del cessionario - o dei suoi aventi causa - per evitare l'apposizione di segni confondibili con quelli di terzi, non è tenuto ad esercitare una vigilanza al fine di impedire tale condotta illecita, e non dispone al riguardo di strumenti repressivi.
Tenuto conto del rigetto dei motivi precedenti, miranti a circoscrivere il giudizio di contraffazione alle sole bottiglie munite del caratteristico tappo, il motivo in esame deve essere considerato infondato per il difetto, nel passo della motivazione congiurato, del carattere decisivo. La Corte, infatti, ha logicamente ritenuto che se la sola imitazione di altri elementi distintivi componenti il marchio complesso, diversi dal tappo rivendicato, è di per sè illecita, ciò rende irrilevante l'esame delle circostanze relative all'apposizione del tappo e alla sua stessa presenza. Gli argomenti spesi, ciò nondimeno, al riguardo, devono considerarsi meramente aggiuntivi ed inidonei a condizionare la legittimità della pronuncia con riguardo alla motivazione.

4. Con il quinto motivo si denuncia la violazione dell'art. 278 c.p.c., per avere la Corte di merito pronunciato condanna generica al risarcimento dei danni, senza accertare che vi fosse la prova che un danno era stato effettivamente prodotto. Si sostiene che tale prova non era mai stata data, che la potenzialità dannosa della contraffazione del marchio era stata argomentata dall'utile realizzato dal contraffattore, e che la prova era stata ravvisata nel fatto stesso che la C.F.L. aveva venduto per anni il suo prodotto sui mercati internazionali; e si censura specificamente l'affermazione che il danno risarcibile andrebbe rapportato all'utile del contraffattore. In mancanza di altra prova, e di indicazione dei mezzi di prova che si intendeva affidare il successivo giudizio di liquidazione, il Giudice di merito avrebbe dovuto respingere la domanda di condanna generica.
Anche questo motivo è infondato. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, la pronuncia di condanna generica al risarcimento del danno per fatto illecito integra un accertamento di potenziale idoneità lesiva di quel fatto, e non anche l'accertamento del fatto effettivo, la cui prova è riservata alla successiva fase di liquidazione. Tale accertamento di lesività potenziale prescinde dalla misura ed anche dalla stessa concreta esistenza del danno, con la conseguenza che il giudicato formatosi su detta pronuncia non osta a che nel giudizio instaurato per la liquidazione venga negato il fondamento della demanda risarcitoria, previo accertamento del fatto che il danno non si sia in concreto verificato (giurisprudenza consolidata, da Cass. 34 luglio 1987 n. 6447, a Cass. Sez. un. 3 agosto 1993 n. 8643, e Cass. 29 marzo 1999 n. 2986, alle più recenti 18 giugno 2003 n. 9709, e 27 luglio 2005 n. 15686). Ne discende il rigetto del mezzo d'impugnazione.

5. Con il sesto motivo di ricorso si denuncia la violazione dell'art. 66 legge marchi. Si censura l'affermazione della Corte di Bologna, che le penalità di mora potrebbero essere inflitte anche con una sentenza di condanna generica al risarcimento dei danni, e si sostiene che, al contrario, la penale di cui al R.D. 21 giugno 1942, n. 929, art. 66, presuppone la liquidazione del danno pregresso.
Il motivo solleva la questione dell'interpretazione del R.D. 21 giugno 1942, n. 929, art. 66, comma 2, norma applicabile ratione temporis. Questa disposizione, dopo aver previsto che la sentenza "che provvede sul risarcimento dei danni" può farne, ad istanza di parte, la liquidazione in una somma globale stabilita in base agli atti della causa e alle presunzioni che ne derivano, aggiungeva, con un successivo autonomo periodo, che essa può fissare altresì una somma dovuta per ogni violazione o inosservanza successivamente constatata e per ogni ritardo nell'esecuzione dei provvedimenti contenuti nella sentenza stessa. Secondo il ricorrente, ciò significa che la facoltà di fissare una somma per ogni infrazione successiva ed ogni ritardo nell'esecuzione dei provvedimenti contenuti nella sentenza presuppone una sentenza che liquida il danno risarcibile, non bastando, quindi, la condanna generica che era stata pronunciata nella fattispecie.
Sulla questione, variamente risolta nella giurisprudenza di merito (oggi superata dal nuovo testo del D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, art. 124, che però è inapplicabile alla fattispecie), non risultano precedenti in termini di questa Corte. Tale non è, in particolare, la sentenza 12 dicembre 2002, n. 17705, richiamata dal ricorrente, nella quale si affronta il diverso problema se la sentenza che stabilisce la penale in questione sia anche per questa parte titolo esecutivo.
Al riguardo ritiene il collegio che la collocazione della norma nello stesso secondo comma dell'art. 66 Legge marchi, che consente una liquidazione globale su basi presuntive nella sentenza "che provvede sul risarcimento dei danni", non sia decisiva per la soluzione del quesito. L'elemento comune che giustifica lo stretto accostamento delle due norme e quello delle obbligazioni pecuniarie di natura risarcitola conseguenti alla commissione dell'illecito (delle "parole, figure o segni" con le quali la contraffazione o la lesione è stata commessa si occupa invece il primo comma; delle "cose costituenti violazione di diritti di marchio", il terzo). Tra le due norme che trovano posto nel medesimo camma, però, vi è una evidente contrapposizione: il risarcimento dei danni si riferisce a quelli accertati, anche presuntivamente, e quindi già verificatisi, mentre la somma dovuta per ogni successiva violazione o inosservanza e per ogni ritardo nell'esecuzione ai riferisce a danni futuri (per i quali la previsione può ritenerli eccezionali, esercitandosi di regola la giurisdizione su accadimenti passati). D'altra parte, la liquidazione anticipata di un danno futuro, la cui stessa verificazione è incerta e la cui precisa collocazione nel tempo, ordinariamente imprevedibile, incide necessariamente anche sulle conseguenze dannose (se spiega la sua ricorrente - ancorchè non pacifica - qualificazione in termini di penale), comporta in ogni caso l'inutilizzabilità degli ordinar criteri di liquidazione del danno.
D'altra parte, la considerevole ampiezza del potere discrezionale riconosciuto al Giudice nella liquidazione del danno in una somma globale, in base agli atti di causa e delle presunzioni che ne derivano (nella consapevolezza del legislatore della particolari difficoltà applicative che si incontrano nel dare la prova del danno in questa materia, e nella concorrente necessità di assicurare comunque un'efficace presidio al precetto), rende poco persuasiva l'ipotesi che la liquidazione del danno accertato possa costituire la base per la determinazione della cosiddetta penale: proprio la liquidazione in una somma globale, prevista nel primo periodo della disposizione in esame, renderebbe particolarmente problematica la determinazione unitaria ("per ogni violazione o inosservanza", "per ogni ritardo") dalla somma di cui al secondo periodo.
Da queste considerazioni discenda che l'accostamento dalle due norme nel R.D. 21 giugno 1942, n. 929, art. 66, comma 2, non esprime l'intento di dettare una disciplina unitaria quanto ai presupposti (vale a dire, secondo la tesi qui respinta, alla necessità di una sentenza di liquidazione dei danni già subiti per affatto dalla lesione della privativa), ma soltanto quello di affiancare all'istituto del risarcimento quello dell'inibitoria.
Ritiene dunque la Corte che la noma in esame, siccome funzionale non già al risarcimento del danno, inteso nell'ordinario senso ristretto dell'espressione, bensì all'inibitoria (come è reso oggi esplicito nel D.Lgs. n. 30 del 2005, art. 124), non presupponesse la liquidazione del danno, ma soltanto l'esistenza, nella sentenza, di provvedimenti inibitori. Da ciò discende che anche su tale punto la sentenza impugnata è conforme a diritto.

6. Con il settimo motivo si censura la contraddittorietà della motivazione dell'impugnata sentenza, nella parte in cui conferma l'ordine di pubblicazione della sentenza sia su un giornale italiano, sebbene le unione contraffazioni siano state accertate in due bottiglie rinvenute rispettivamente Russia e nella Repubblica Ceca, e sia su una rivista internazionale, sebbene non sia dato sapere se quel periodico sia diffuso in Russia e nella Repubblica Ceca, si tratti di una rivista in lingua inglese, e sia destinata pressochè esclusivamente a operatori professionali del settore.
Il motivo presuppone l'accoglimento dei motivi secondo e terzo, con i quali si afferma che per le bottiglie prive del tappo rivendicato non vi sarebbe confondibilità, ed è assorbito dal rigetto di essi.
In conclusione il ricorso deve essere respinto. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P. Q. M.

La Corte rigetta il ricorso, e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 6.100,00, di cui Euro 6.000,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori come per legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Prima civile della Corte Suprema di Cassazione, il 12 gennaio 2006.
Depositato in Cancelleria il 24 marzo 2006