Le richieste delle imprese appaltatrici di opere pubbliche, a seguito delle variazioni dei costi dei materiali (c.d. "caro-acciaio"). Art.1, comma 550, legge 30 dicembre 2004, n. 311.

A tutti è noto il fenomeno del cd. "caro acciaio" a seguito del quale, a partire dall'anno 2003, sono notevolmente aumentati i prezzi dei materiali e quindi i costi dei cantieri residenziali e di quelli per le opere pubbliche. Le imprese hanno lamentato sia il fatto di dover subire rincari dei prezzi che a catena si ripercuotono, poi,  su tutta la filiera produttiva, sia la difficoltà di reperire la materia prima. L'origine di questa spirale è ricondotta ai quei paesi dove la domanda di alcuni materiali è in continua ascesa.

In particolare, le imprese edili che eseguono appalti di lavori pubblici, ritengono di essere fortemente penalizzate da una normativa statale che impedisce alla stazione appaltante di riconoscere all'impresa qualsiasi forma di indennizzo o di revisione del prezzo. La norma incriminata è l'art. 26 (Disciplina economica dell'esecuzione dei lavori pubblici) della legge 11 febbraio 1994, n. 109 che dispone  per i lavori  pubblici:

a)     il prezzo chiuso, consistente nel prezzo dei lavori al netto del ribasso d'asta, aumentato di una percentuale da applicarsi, nel caso in cui la differenza tra il tasso di inflazione reale e il tasso di inflazione programmato nell'anno precedente sia superiore al 2%, all'importo dei lavori ancora da eseguire per ogni anno intero previsto per l'ultimazione dei lavori stessi;

b)     l'abrogazione dell'articolo 33 della legge 28 febbraio 1986, n. 41, relativo alla revisione prezzi per la parte ancora in vigore dopo le modifiche ad esso apportate dall'art. 3 del d.l. 11 luglio 1992, n. 333 convertito in legge 8 agosto 1992, n. 359;

c)      il divieto di procedere alla revisione dei prezzi;

d)     l'inapplicabilità del primo comma dell'articolo 1664 del Codice civile.

Le imprese edili chiedono, allora, al Governo l'adozione di misure ad hoc (il cd. decreto salva imprese)  e nel contempo, allo scopo di tutelare i loro legittimi interessi, formulano riserve in corso d'opera nell'ambito delle quali chiedono la revisione del corrispettivo dell'appalto, ai sensi dell'articolo 1664 comma 1° c.c., o in subordine, un equo compenso, ai sensi  dell'articolo 1664, secondo  comma del c.c. In caso di mancato accoglimento minacciano la risoluzione del contratto, ai sensi dell'articolo 1467 c.c. Talora, le imprese lamentano -pure- l'indebito arricchimento da parte degli enti appaltanti.  

Da ultimo, è intervenuta la legge 30 dicembre 2004, n. 311 (legge finanziaria 2005) che all'art. 1, comma 550, ha  reintrodotto  un meccanismo revisionale del prezzo nel settore degli appalti delle opere pubbliche. Questa misura è accolta dal settore delle costruzioni con perplessità in quanto  la nuova normativa presenta forti problematiche applicative, non contiene i parametri di riferimento, risulta priva di indicazioni operative su come applicare la revisione prezzi, ed inoltre il metodo prescelto non garantisce un'applicazione omogenea del trattamento economico degli appalti in quanto questo si basa sui singoli prezziari (talvolta inesistenti) dei diversi enti.

Premettiamo che la materia è certamente delicata, la stessa Corte costituzionale, con la sentenza n. 308/1993 afferma che rientra tra i principi fondamentali della legislazione statale "il regime giuridico del prezzo d'aggiudicazione nei pubblici appalti in relazione anche alle evenienze sopravvenute alla conclusione del contratto e ai riflessi economici di esse, attenendo a scelte legislative di carattere necessariamente generali, implicanti valutazioni politiche e riflessi finanziari, che non tollerano discipline differenziate nel territorio".

Tutto ciò premesso, vediamo, ora, quale può essere, ed è questo l'oggetto principale della presente riflessione, l'eventuale fondatezza delle pretese, prima evidenziate, avanzate dalle imprese in corso d'opera.

Occorre innanzitutto richiamare l'articolo 1664, primo comma, del codice civile che costituisce la norma di riferimento in materia: "Qualora per effetto di circostanze imprevedibili si siano verificati aumenti o diminuzioni nel costo dei materiali o della mano d'opera, tali da determinare un aumento o una diminuzione superiori al decimo del prezzo complessivo convenuto, l'appaltatore o il committente possono chiedere una revisione del prezzo medesimo. La revisione può essere accordata solo per quella differenza che eccede il decimo".

L'istituto della revisione dei prezzi di cui all'articolo 1664 del codice civile non torna applicabile nel regime degli appalti di opere pubbliche, per esplicita scelta del legislatore statale. Infatti l'art. 26, comma 3, della legge 11 febbraio 1994 n. 109 (legge quadro sui lavori pubblici) dispone che "per i lavori pubblici affidati dalle amministrazioni aggiudicatrici e dagli altri enti aggiudicatori o realizzatori non è ammesso procedere alla revisione dei prezzi e non si applica il primo comma dell'art. 1664 c.c."

Pertanto, appare dubbia l'inapplicabilità dell'istituto codicistico della revisione dei prezzi in materia di opere pubbliche, per le quali vige, invece, adesso una speciale normativa introdotta dall'articolo 1, comma 550, legge n. 311 del 2004: "... qualora il prezzo di singoli materiali da costruzione, per effetto di circostanze eccezionali, subisca variazioni in aumento o in diminuzione, superiori al 10 per cento rispetto al prezzo rilevato dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti nell'anno di presentazione dell'offerta con il decreto di cui al comma 4-quater, si fa luogo a compensazioni, in aumento o in diminuzione, per la percentuale eccedente il 10 per cento ...".

Ciò considerato, si potrebbe obiettare che il citato art. 26, comma 3, della legge n. 109/1994 statuisca l'inapplicabilità del solo primo comma dell'art. 1664, in materia di revisione dei prezzi; in ragione di ciò, potrebbe risultare applicabile, invece, l'istituto dell'equo compenso previsto al secondo comma del citato art. 1664 che recita:  "Se nel corso dell'opera si manifestano difficoltà di esecuzione derivanti da cause geologiche, idriche e simili, non previste dalle parti, che rendano notevolmente più onerosa la prestazione dell'appaltatore, questi ha diritto a un equo compenso".

L'aggettivo "simili" potrebbe, in verità, secondo alcune tesi dottrinarie, essere idoneo a ricomprendere qualsivoglia evento oggettivo non imputabile all'appaltatore.

Ma a ben vedere, le cause sopravvenute che legittimano la richiesta dell'equo compenso sono sempre di origine naturalistica. Infatti la giurisprudenza appare concorde nel ritenere che "l'art. 1664 comma secondo,  il quale prevede il diritto dell'appaltatore ad un equo indennizzo quando cause geologiche, idriche o simili rendano più onerosa la prestazione, non può trovare applicazione nelle diverse ipotesi in cui analoghe conseguenze si verifichino per fatto del terzo o per factum principis, salva restando la rilevanza di tali fatti ai fini della disciplina generale dell'articolo 1467 c.c. in tema di onerosità sopravvenuta"(Cass. Civ. 16.01.1986 n. 227).

"Gli istituti disciplinati dall'art. 1664 c.c. che correggono i rigori dell'alea contrattuale nell'appalto, riversando (anche) sul committente le conseguenze di determinate sopravvenienze, rivestono carattere eccezionale rispetto alla disciplina generale della risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta, di cui all'art. 1467 c.c., e sono perciò insuscettibili di applicazione analogica ad eventi sopravvenuti diversi da quelli considerati dalla norma. E', peraltro, ammissibile l'interpretazione estensiva della norma che, nel comma 2, prevede il diritto dell'appaltatore ad un equo compenso per le difficoltà di esecuzione sopravvenute, derivanti da cause geologiche, idriche e "simili", che rendano più onerosa la sua prestazione, nel senso che debbono ritenersi comprese nella previsione normativa tutte le difficoltà di esecuzione dipendenti da cause naturali, e cioè tutte quelle che presentino le stesse qualità e caratteristiche intrinseche delle precedenti, esplicitamente menzionate, ma non quelle provocate da sopravvenienze oggettive di tipo diverso che provochino effetti identici ed analoghi, come il fatto del terzo e il "factum principis", le quali possono rientrare nella disciplina generale dell'art. 1467 c.c. (Cass. Civ. 19.03.1980 n. 1818; anche Cass. Civ. 05.03.1979 n. 1364; Cass. Civ. 05.02.1987; Cass. Civ. 26.01.1985 n. 387).

Pertanto, per quanto sopra riferito, in caso di alterazione dell'equilibrio contrattuale conseguente ad un imprevedibile e sopravvenuto aumento dei prezzi di mercato, l'impresa non può avvalersi degli istituti della revisione dei prezzi e dell'equo compenso di cui all'art. 1664 cod. civ.

Conseguentemente, il diniego manifestato dall'amministrazione avverso le richieste presentate da parte dell'impresa esecutrice al fine di ottenere un riequilibrio del prezzo contrattuale, tramite i richiamati istituti civilistici, appare atto dovuto e non può  configurarsi quale indebito arricchimento ai sensi dell'articolo 2041 del codice civile, come, invece, prospettato talvolta dalle imprese esecutrici dei lavori.

In conclusione, lo strumento procedimentale che resta teoricamente a disposizione dell'impresa che si ritenga lesa da imprevedibili aumenti dei prezzi idonei a rendere la prestazione eccessivamente onerosa, è la domanda di risoluzione del contratto ai sensi dell'articolo 1467 c.c. che così recita: "Nei contratti a esecuzione continuata o periodica ovvero a esecuzione differita, se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto, con gli effetti stabiliti dall'articolo 1458. La risoluzione non può essere domandata se la sopravvenuta onerosità rientra nell'alea normale del contratto. La parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto".

In disparte la considerazione che la domanda di risoluzione per spiegare gli effetti di cui all'art. 1467 c.c., non può essere esplicitata in sede di riserva (ma in una sede formale e processuale ovvero avanti al giudice), l'impresa dovrà, comunque, dimostrare concretamente l'eccessiva onerosità, tenendo presente, da un lato che la risoluzione non può essere domandata se la sopravvenuta onerosità rientra nell'alea normale del contratto, e dall'altro che il legislatore statale, in sede di legge finanziaria 2005, ha introdotto un meccanismo, di fatto revisionale, in relazione agli aumenti dei prezzi delle materie prime, secondo le modalità indicate all'articolo 26, comma 4 bis della legge n. 109/1994. L'ente convenuto in giudizio, comunque, avrà la facoltà, in sede processuale, ma non l'obbligo di offrire una offerta di reductio ad equitatem (cfr. Petullà, in "Lavori, stop al prezzo chiuso. Sì ad una timida revisione", Edilizia e Territorio, n. 1/2005, pag. 20 e ss).  

Relativamente alla misura revisionale adottata in sede di "finanziaria 2005"(legge 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 550) possiamo dire che questa non appare di facile applicazione. La citata misura si esplicita, sul piano formale, mediante l'aggiunta di nuovi sei commi (dal 4-bis al 4-septies) nel testo dell'art. 26 della legge Merloni. 

La misura compensativa (trattasi di rimborso)  si applica relativamente ai soli lavori eseguiti e contabilizzati a partire dal 1/1/2004 (art. 26 ,comma 4-quinquies) a condizione che il prezzo dei materiali da costruzione abbia subito, per eventi eccezionali, un aumento o diminuzione superiore al 10% rispetto al prezzo corrente relativo all'anno di presentazione dell'offerta (art. 26 ,comma 4-ter).

L'attuazione del provvedimento implica una serie di adempimenti a carico delle stazioni appaltanti, del Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, e in taluni casi eventuali, delle Regioni.

In particolare, le stazioni appaltanti dovranno aggiornare i propri prezziari ogni anno. In caso di inadempienza, i prezziari possono essere aggiornati dalle articolazioni territoriali del Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, di concerto con le Regioni (art. 26 , comma  4-sexies).
Il Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti ha il compito di accertare l'eventuale aumento o riduzione di oltre il 10%, previo confronto tra la rilevazione effettuata  nel mese di giugno 2005 (e negli anni successivi, a cadenza annuale) e quella effettuata nell'anno precedente. Le rilevazioni ministeriali terranno conto anche dei dati delI'Istat e delle Camere di Commercio.

A seguito dell'accertamento, il  Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti  procede alla definizione della compensazione in aumento o in diminuzione (art. 26 ,comma 4-bis) solo per la percentuale eccedente il 10 per cento. La copertura finanziaria della misura è garantita tramite i fondi degli enti appaltanti secondo le modalità prescritte dall' art.26, comma,  4-sexies.

I timori che la nuova misura possa innescare i rialzi impropri dei costi degli appalti pubblIci sono infondati, dice l''ideatore della riforma Ugo Martinat, in quanto non si tratta di un meccanismo revisionale, se si considera che i costi della manodopera non sono oggetto di rilevazione e che il rimborso riguarda le sole percentuali eccedenti la soglia del 10% (cfr. Valerio Uva in Edilizia e Territorio, 20-25 dicembre 2004).       

Autore: Dott. Bruno E. G. Fuoco - tratto dal sito www.diritto.it