Fonti del diritto, clausola generale di buona fede, diritto giurisprudenziale

 

1. Premessa

La letteratura sulla clausola generale di buona fede è sterminata, sia nell’esperienza italiana, sia nelle esperienze degli altri ordinamenti continentali. In ciascun ordinamento si esprimono le medesime preoccupazioni, relative alla discrezionalità dell’interprete nella applicazione della clausola attesa la sua genericità e indeterminatezza; al contempo, questa clausola ha finito per assolvere un ruolo tanto importante da considerarsi essenziale, sia per adattare l’intero ordinamento alle nuove esigenze, economico-sociali, di cui il legislatore non può, tempestivamente, tener conto, sia per adattare la regola del caso alla fattispecie concreta. Si discute, tuttavia, sulle modalità di applicazione di questa clausola: vi è chi ritiene che essa faccia rinvio a standards di comportamento, vi è chi ritiene che faccia rinvio ai valori sui quali l’ordinamento si fonda (e, appunto per questo, gli rimangono estranei), vi è chi ritiene che la clausola debba essere riempita tenendo conto dei valori esplicitati da altre regole dell’ordinamento positivo (v. La bonne foi, Travaux Ass. H. Capitant, XLIII, Parigi, 1992).

Tra le tante voci si segnala quella di Franz Wieacher, un grande storico del diritto contemporaneo (in particolare del diritto tedesco, nel quale egli si è formato ed ha condotto prevalentemente le sue ricerche). La proposta interpretativa di Wieacker è duplice: da un lato egli si pone il problema del modo con cui si costruisce il significato dell’espressione; dall’altro si chiede quali siano le funzioni della clausola generale. Poiché si tratta di problemi che registriamo anche nella nostra esperienza, possiamo seguire il suo itinerario argomentativo. Wieacker (Zur rechtstheoretische Praezisierung des par 242 BGB, Tubinga, 1957), muove dal testo del 242 del c.c. tedesco, che contiene una clausola assai simile alle diverse clausole contenenti la formula “buona fede” e osserva che la tendenza espressa dalla giurisprudenza tedesca ( in ciò assai simile alla tendenza italiana), fa riferimento alle disposizioni di diritto positivo per dare significato interpretativo e applicativo alla clausola di buona fede, ma si tratta di tendenza del tutto illusoria.

In altri termini, una interpretazione positivista della clausola è fallace. Ciò perché la tecnica positivista della «sussunzione», che si rivolge nel sillogismo secondo il quale, individuata la regola applicabile al caso, individuati gli estremi della fattispecie, si assume la fattispecie nella regola, non può funzionare nell’ipotesi in cui la regola di cui si enunciano gli estremi: ciò perché la regola che contiene la clausola di buona fede non precisa ad alcun estremo: è per sua natura una regola a contenuto indeterminato. La regola contenente a clausola generale è una norma in bianco e perciò stesso fa riferimento a fatti metagiuridici, cioè a obiettivi sociali o a interessi individuali.

Tuttavia, non si può dare ingresso ad un diritto naturale esterno all’ordinamento. Piuttosto, all’applicazione delle clausole generali si avvicina alla costruzione del diritto nel suo farsi, attraverso la creazione della regola del caso. La clausola generale è dunque una massima di applicazione giusta che invita l’interprete a seguire una linea di tendenza.

Come si può rendere concreto e fruibile questo discorso? Secondo Wieacker la clausola generale assolve tre funzioni la tesi è ripresa da Boehmer, (Grundlagen der buergerlichen Rechtsordnung, 1951): (i) funzione applicativa del diritto, nel senso di coadiuvare il giudice nell’esplicazione del suo ufficio; (ii) funzione suppletiva del diritto, nel senso di consentire al giudice una interpretazione praeter legem, al fine di controllare se il comportamento delle parti sia conforme a giustizia; (iii) funzione correttiva del diritto, nel senso di individuare una soluzione che corregga lo strictum jus. Esempio della prima funzione sono, in Germania, le teorizzazione dei c.d. doveri di protezione, che si affiancano alle obbligazioni dedotte in contratto (come accade per l’affermazione della responsabilità del venditore per i danni personali risentiti dal cliente a causa di vizi della cosa, o di vizi dei locali di vendita); esempio della seconda funzione è il principio pacta sunt servanda, che consente di ripartire il rischio tra le parti in modo da dare ingresso alla presupposizione ovvero a circostanze prevedibili ma non previste dalle parti e tali da sconvolgere l’economia del contratto; e ancora, l’exceptio doli; gli esempi della terza funzione sono più difficili da individuare, perché non si deve correre il rischio di ammettere un diritto libero, che il giudice applica a propria discrezione (si pensi, tuttavia ai casi in cui le condizioni personali del debitore, di solito irrilevanti, suggeriscono di tenere conto delle circostanze di specie).

La tesi di Wieacker, pur apprezzabile, è stata criticata da Mengoni (Spunti per una teoria, cit., p. 8) dove essa, allineandosi agli orientamenti invalsi nella giurisprudenza tedesca, sovrappone l’equità alla buona fede, e assegna all’applicazione della buona fede una funzione correttiva dei precetti dell’autonomia privata che spetta solo all’equità, nelle ipotesi di eccezione in cui il giudice è autorizzato dalla legge o dalle parti ad applicarla.

La buona fede – osserva Mengoni – non può neppure essere invocata per accertare l’esistenza di un rapporto obbligatorio.

In altri termini, il giudizio di buona fede consente una valutazione del comportamento riconosciuto come norma sociali; l’equità invece consente al giudice di fare ricorso ad un potere più ampio, adattando il regolamento negoziale al fine di farvi penetrare esigenze di giustizia, tenendo conto delle circostanze peculiari del caso. La buona fede consente alla parte improvvida di riappropriarsi delle occasioni perdute (Burton, L’esecuzione del contratto secondo buona fede, in Riv. crit. dir. pen., 1984, p. 34) mentre l’equità consente un rimodellamento dell’operazione. Ma si è osservato che il confine tra buona fede ed equità è Asia labile, in quanto applicando l’una o l’altra il giudice compie operazioni simili (Sacco, Il contratto, Torino, 1975, p. 798).

Tuttavia, un conto è ciò che le disposizioni prescrivono, anche con regole incomplete come quelle che contengono clausole generali, altro conto è ciò che i giudici fanno. Anche su questo terreno si misura la distanza tra il diritto scritto e il diritto applicato, tra law in books e la law in action.

Ma il giudice, nell’applicare la buona fede, deve riferirsi a modelli corrispondenti alle vedute correnti, cioè deve conservare le aspettative private su modelli di condotta già consolidati dall’esperienza o può innovarli? Può ricorrere a vedute più avanzate? Il contrasto dottrinale al riguardo non è sopito: nell’Ottocento e ancor oggi molti ritengono (facendo professione di giurispositivismo) che il giudice non possa che rimettersi alle vedute accolte dalla maggioranza e che debba fare cioè un semplice restatement, una fotografia dei comportamenti osservati; ma questa soluzione non è accolta da quanti (a cui mi unisco anch’io) ritengono per contro che il diritto abbia una funzione direttiva del mutamento sociale e che questa funzione possa essere assolta dalla giurisprudenza (e quindi dal giudice) e dalla dottrina (e quindi dagli interpreti) e non solo dal legislatore.

A queste applicazioni della buona fede Mengoni ne aggiunge altri: a mero titolo esemplificativo, si pensi alla risoluzione dei conflitti tra autonomia privata e principi costituzionali di eguaglianza e solidarietà, oppure alla correzione della difformità di singole clausole rispetto al tipo legale a cui il contratto è riconducibile.

Di qui la necessità di adempiere a due operazioni, nell’applicazione della buona fede (e di ogni altra clausola generale): i) la precisazione dei dati, riferita al comportamento generalmente praticato; ii) la fondazione della decisione, con riguardo all’identificazione dei valori.

Ecco allora che si giustificano operazioni compiute in nome della buona fede, che consentono di dare ingresso nell’ordinamento agli obblighi di protezione, alla inesigibilità della prestazione, alla presupposizione, e così via.

Dottrina e giurisprudenza italiane hanno sottostimato la clausola di buona fede per lungo tempo: per quasi un quarto di secolo dall’entrata in vigore del c.c. la clausola è stata pressoché ignorata; e gli interpreti non si sono avveduti del rilievo e delle potenzialità operative della buona fede oggettiva. Questo atteggiamento è facilmente decifrabile, in quanto dovuto: i) alla scarsa dimestichezza dei giudici del tempo con la applicazione di disposizioni di contenuto indeterminato, essendo all’epoca prevalente l’indirizzo interpretativo formalistico che privilegiava l’applicazione letterale degli articoli di codice; ii) alla diffidenza della dottrina che tende a considerare i giudici «commessi di Stato» e a considerare l’applicazione delle clausole ai rapporti privati come segno di interventismo statualista negli affari; i privati – secondo questa impostazione – debbono essere lasciati liberi di agire e, autodeterminarsi (Domenico Rubino, a proposito della formulazione dell’art. 1366 c.c. parlò di «Stato ficcanaso»); iii) al timore di affidare ai giudici un potere discrezionale eccessivo.

Trascorso un quarto di secolo, la situazione viene a mutare.

A decorrere dagli anni Settanta, grazie ai nuovi indirizzi della dottrina, la giurisprudenza, dapprima di merito, e poi di legittimità, comincia ad applicare in modo più frequente la clausola generale di buona fede.

L’applicazione oggi è frequente ma non sistematica; in altri termini, o la citazione della buona fede è meramente esornativa, o additiva; raramente è determinante per la soluzione del caso concreto. In più, il suo impiego non obbedisce a criteri razionali. Non mancano altresì rigurgiti della tendenza miope e restrittiva: talvolta si riscontrano massime rivolte a rendere marginale e quindi non utilizzabile la clausola di buona fede. Così, ad esempio, si è ritenuto che «in tema di interpretazione dei contratti, sia il criterio della interpretazione secondo buona fede (art. 1366 c.c.) sia quello dell’equo contemperamento degli interessi (art. 1371 c.c.) costituiscono regole ermeneutiche sussidiarie, alle quali è consentito ricorrere solo quando non sia possibile individuare il senso che le clausole e la volontà effettiva delle parti alla stregua delle regole interpretative dettata dagli articoli precedenti» (Cass. sez. lav., 16 gennaio 1988, n. 303).

Ovviamente, l’interpretazione secondo buona fede non è criterio sussidiario ma deve sempre presiedere alla interpretazione del contratto e alla valutazione dei comportamenti delle parti, sia anteriori, sia simultanei, sia posteriori alla conclusione del contratto.

 

2. Applicazione del diritto italiano

(i) Trattative precontrattuali

Il venditore di un immobile tace al compratore l’esistenza della pratica di mutuo ipotecario in corso, dandogli però la garanzia che tale immobile è libero da pesi e vincoli di sorta. La Suprema Corte ravvisa nella fattispecie gli estremi della truffa e, nell’affermare il principio di buona fede, precisa che la fonte del dovere d’informazione può risiedere anche in una norma «extra penale» cioè l’art. 1377 c.c. che impone alle parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, l’obbligo del comportamento secondo buona fede (Cass. pen., sez. II, 19 aprile 1991, Salvalaio e altro, in Riv. pen., 1992, p. 473).

La banca intermediaria, che si occupa del collocamento di prodotti finanziari (c.d. valori mobiliari) per conto della società emittente, esprime positivi giudizi circa i dati di bilancio della società emittente, senza avere preventivamente richiesto quelle ulteriori informazioni che le avrebbero consentito di prevederne il dissesto. Gli investitori ne risentono un grave danno e non potendo recuperare alcunché dell’emittente, chiedono il risarcimento alla banca. I giudici accertano la responsabilità della banca per avere diffuso un prospetto non veritiero e stabiliscono che il lucro cessante è risarcibile nella misura del reddito che sarebbe derivato da forme alternative di investimento, alle quali gli investitori avrebbero fatto ragionevolmente ricorso (App. Milano, 2 febbraio 1990, in Giur. comm., 1990, 11, p. 755).

Un privato acquista un bene del demanio marittimo dello Stato: la vendita è, nulla perché il bene è incommerciabile; egli pretende dal venditore il risarcimento del danno conseguente alla nullità della compravendita; tuttavia l’incommerciabilità della res, quale causa d’invalidità negoziale, era obiettivamente ed agevolmente riconoscibile. La ratio decidendi della Corte è che le norme degli artt. 1337 e 1338 c.c. mirano a tutelare nella fase precontrattuale il contraente di buona fede ingannato o favorito da una situazione apparente non conforme a quella vera, e, comunque, dall’ignoranza della causa d’invalidità del contratto che gli è stata sottaciuta, ma se vi è colpa da parte sua, se cioè egli avrebbe potuto, con l’ordinaria diligenza, venire a conoscenza della reale situazione, quindi, della causa di invalidità negoziale, che gli era obiettivamente ed agevolmente riconoscibile, non è più possibile applicare la clausola di buona fede (Cass. 14 marzo 1985, n. 1987).

 

(ii) Condizione contrattuale

A (locatore) e B (conduttore) concludono un contratto di locazione novennale di un terreno per l’esercizio di una stazione di autonoleggio da costruire a cura del conduttore: il contratto è subordinato al rilascio delle autorizzazioni necessarie per la costruzione dei manufatti; le autorizzazioni non sopraggiungono a causa del rifiuto del locatore di sottoscrivere i documenti della pratica amministrativa. Anche in questo caso opera la buona fede dettata dall’art. 1358 c.c. La Corte, nell’accertare le buone ragioni del conduttore precisa che «colui che si è obbligato o ha alienato un bene sotto la condizione sospensiva del rilascio di determinate autorizzazioni amministrative necessarie per la realizzazione delle finalità economiche che l’altra parte gli propone ha il dovere di compiere, per conservare integre le ragioni, comportandosi secondo buona fede (art. 1358 c.c.), tutte le attività che da lui dipendono per l’avveramento di siffatta condizione, in modo da non impedire che la P.A. provveda sul rilascio delle autorizzazioni». Ne deriva che il venditore risponde delle conseguenze dell’inadempimento di questa sua obbligazione contrattuale nei confronti dell’altra parte, alla quale è consentito chiedere la risoluzione del contratto ed il risarcimento dei danni conseguenti, da accertare secondo il criterio della regolarità causale, che consente di riconoscere il danno nel caso in cui, avuto riguardo alla situazione di fatto esistente al momento in cui si è verificato l’inadempimento, debba ritenersi che la condizione avrebbe potuto avverarsi, essendo possibile il legittimo rilascio delle autorizzazioni amministrative con riguardo alla normativa applicabile (Cass. 2 giugno 1992, n. 6676).

Il creditore concede credito al debitore sapendo che versa in difficoltà economiche e avrà difficoltà a restituire la somma presa a mutuo; ciò perché il debito è garantito da fideiussione e il creditore può contare sulla capienza del fideiussore. Si tratta di un comportamento contrario a buona fede che danneggia il fideiussore. A questo riguardo la Corte di Cassazione ha formulato il seguente principio: «in tema di fideiussione per obbligazioni future, l’art. 1956 c.c., facendo applicazione specifica dei principi di correttezza e di buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. prende in considerazione l’ipotesi nella quale, successivamente alla prestazione della garanzia, sopravvenga un notevole aumento delle difficoltà di adempimento, per mutamento della condizione patrimoniale del debitore e sanziona, con la liberazione del fideiussore, il comportamento del creditore che conceda il finanziamento nonostante la conoscenza di tale situazione ed in difetto di autorizzazione del fideiussore medesimo (autorizzazione speciale, cioè espressamente indirizzata all’assunzione del nuovo credito); il verificarsi di detta liberazione, indipendentemente dall’eventuale autorizzazione del fideiussore, è invece indiscutibile nel caso di sopravvenuto stato di insolvenza (e non di mera difficoltà all’adempimento). La possibilità di una deroga convenzionale della norma che avviene, ad esempio, quando il fideiussore si impegna a tenersi direttamente al corrente delle condizioni del debitore, dispensando il creditore da ogni onere al riguardo è ammissibile, con la conseguenza che l’efficacia di tale patto in deroga va subordinata alla sua riferibilità alle operazioni correlate ad una determinata attività esercitata dal sovvenuto, nonché all’esistenza di un interesse del fideiussore all’erogazione, giustificativo dell’accollo dei rischi inerenti al controllo di queste condizioni del debitore (ad esempio, trattandosi di amministratore o socio sovrano di società); l’ammissibilità va però esclusa quando il creditore conceda il finanziamento con la consapevolezza dell’impossibilità del debitore ad adempiere, agendo così coscientemente a danno del fideiussore, atteggiamento che deve valutarsi come contrario a buona fede alla luce delle circostanze del caso concreto e della qualità de creditore; nella specie creditore era una banca» (Cass. 20 luglio 1989, in Foro it., 1989, 1 c. 1301).

 

(iii) Interpretazione del contratto

Il cliente sottoscrive una polizza assicurativa per garantirsi contro i danni alla propria abitazione derivanti da «trombe, tempeste ed uragani». I danni gli provengono invece da una improvvisa e pesante nevicata. Sorta controversia con la società di assicurazioni sul significato della clausola, il giudice ritiene che essa sia operante e il cliente abbia diritto all’indennizzo; la decisione si fonda sugli artt. 1366 e 1370 c.c. (Pret. Novara, 8 febbraio 1989, Assic., 1990, 11, p. 90).

Sempre in materia di assicurazioni, la clausola di buona fede è stata applicata in una fattispecie in cui il cliente non aveva dato alla società assicuratrice avviso del sinistro secondo le modalità specificate in polizza; la buona fede richiede di valutare se diverse modalità di avviso possano o meno considerarsi equipollenti a quelle fissate dal contratto (Pret. Taranto, 13 novembre 1987, in Arch. giur. circol. e sinistri, 1988, p. 233).

Quanto alla eccezione d’inadempimento, il rapporto di corrispettività tra le prestazioni dell’una e dell’altra parte va inteso in senso logico ed economico-funzionale e riguardato alla luce del principio di buona fede che deve informare l’interpretazione del negozio anche nelle singole fasi del suo svolgimento; conseguentemente alla tolleranza manifestata dal contraente adempiente nel non esigere il rigoroso sincronismo della contro prestazione dovuta, non comporta – in assenza di diversa pattuizione – la definitiva abdicazione di far valere la promessa contemporaneità di quest’ultima (Cass. 18 luglio 1983, n. 4968).

 

(iv) Esecuzione del contratto

La cooperazione del creditore all’adempimento è considerata dalla giurisprudenza espressione del principio di solidarietà.

Così, in un caso in cui il promittente venditore non aveva cooperato con il promittente acquirente per fargli conseguire un mutuo agevolato, riservato agli agricoltori per il pagamento del prezzo, si è ritenuto che il promittente venditore avesse tenuto un comportamento contrario a buona fede, in quanto in tema di esecuzione del contratto (o del rapporto obbligatorio) la buona fede si atteggia come un obbligo di solidarietà, che impone a ciascuna parte di tenere quei comportamenti che, a prescindere da specifici obblighi contrattuali e dal dovere extracontrattuale del «neminem laedere», senza rappresentare un apprezzabile sacrificio a suo carico, siano idonei a preservare gli interessi dell’altra parte (Cass. 9 marzo 1991, n. 2503, in Foro it., 1991, 1, c. 2077).

Un impiegato di banca rimane ferito nel corso di una rapina verificatasi dopo altri due fatti simili, in una sede la cui porta di accesso al pubblico era munita di un congegno automatico di apertura difettoso. Egli si rivolge dunque all’istituto di credito, suo datore di lavoro, per ottenere il risarcimento del danno, invocando l’applicazione dell’art. 2087 c.c. La banca si difende sostenendo che tale disposizione, unitamente alla applicazione del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 in materia di infortuni sul lavoro, non prevede la fattispecie in esame. La Corte di Cassazione decide in modo opposto, applicando il seguente principio: «ai sensi dell’art. 2087 c.c., che è norma di chiusura del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione, l’obbligo dell’imprenditore di tutelare l’integrità fisio-psichica dei dipendenti impone l’adozione – ed il mantenimento – non solo di misure atte, secondo le comuni tecniche di sicurezza, a preservare i lavoratori dalla violazione di tale obbligo nell’ambiente od in circostanze di lavoro in relazione ad attività non collegate direttamente a tale obbligo, come le aggressioni conseguenti all’attività criminosa di terzi; ciò in relazione alla frequenza assunta da tale fenomeno rispetto a determinate imprese (in particolare, le banche) ed alla probabilità di verificarsi del relativo rischio, pur non essendo questi eventi coperti dalla tutela antinfortunistica di cui al D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 e giustificandosi l’interpretazione estensiva della predetta norma alla stregua sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute (art. 32 Cost.) sia dei principi di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.) cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro».

Si consideri anche un’altra fattispecie frequente: il lavoratore che svolge prestazioni a favore di terzi durante il periodo di malattia. Pur non essendogli ciò in linea generale vietato, il suo comportamento concreta un inadempimento degli obblighi impostigli, in particolare del dovere di fedeltà, inteso in senso ampio e comprensivo non soltanto delle specifiche previsioni di cui all’art. 2105 c.c., ma anche degli obblighi non codificati conseguenti dal generale dovere di esecuzione del contratto secondo buona fede (art. 1375). Nel caso di specie tra l’altro si era evidenziata la simulazione dell’infermità e si era rilevata una violazione del divieto di concorrenza; inoltre il lavoro extra aveva compromesso la guarigione del lavoratore; si è ritenuto che il suo comportamento fosse contrario a buona fede, oltre che per le ragioni dette, anche perché egli non aveva posto in atto le cautele necessarie ad un rapido recupero delle proprie energie fisiche (Cass. sez. lav. 19 febbraio 1991, n. 1747, in Lav. e prev., p. 1859).

A conclude con B un contratto di rendita vitalizia in cui B, vitaliziante, si obbliga a sostenere il vitaliziando economicamente per prestazioni mediche. A cade gravemente ammalato, e necessita di cure costose; B rifiuta il sostegno economico adducendone l’eccessiva onerosità; A eccepisce che il contratto di rendita è aleatorio e l’eccessiva onerosità non opera, per cui B deve provvedere. La Corte gli dà ragione, applicando il seguente principio: «il contratto con cui il vitaliziante si obbliga, in corrispettivo dell’alienazione di un bene, a prestare il vitaliziato, in aggiunta alla rendita vitalizia, anche l’assistenza medico-sanitaria nonché l’alloggio ed il vestiario si configura – al pari del vitalizio cosiddetto alimentare o contratto di mantenimento – come una sottospecie del vitalizio oneroso caratterizzato da una accentuazione dell’elemento aleatorio, giacché all’incertezza derivante dalla durata della vita del vitalizio si aggiunge quella connessa alla variabilità delle ulteriori prestazioni a carico del vitaliziante, le quali, tuttavia, sono agevolmente determinabili con riferimento a tutti quei servizi che, secondo un’interpretazione di buona fede, rientrano nell’assistenza di cui può aver bisogno una persona e sono concretamente valutabili in denaro ai fini di una loro comparazione con il valore del bene trasferito dal vitaliziato» (Cass. 16 giugno 1981, n. 3902).

La clausola di buona fede consente altresì di considerare rilevante l’inadempimento anche non grave di una obbligazione contrattuale; in tale caso secondo lo stretto diritto non sarebbe ammissibile la risoluzione del rapporto; ma quanto l’inadempimento anche non grave di una obbligazione contrattuale sia tale da non consentire la prosecuzione del rapporto e ciò dipenda dalla violazione dell’obbligo di buona fede e di lealtà nella esecuzione del contratto e sussistano altresì fatti che, concretandosi nella mancanza dei prodotti e degli utili, rendano antieconomica la prosecuzione del rapporto, privandolo del suo scopo, la risoluzione può essere pronunciata (Cass. 8/10/92, n. 11000).

Si noti che non sempre la clausola di buona fede porta all’accoglimento delle pretese della parte che la invoca.

Ad esempio, il conduttore che procede ad eseguire riparazioni straordinarie alla cosa locata, che siano contrattualmente a suo carico, non può pretendere che esse siano poste a carico del locatore, anche se questi se ne avvantaggi. Tuttavia il conduttore ha diritto ad una riduzione del canone in proporzione alla durata delle riparazioni che gli hanno impedito di fruire dell’alloggio ed all’entità del mancato godimento (Cass. 2 novembre 1992, n. 11856).

È importante sottolineare che la clausola di buona fede non può comportare una interpretazione del contratto che espanda gli obblighi a carico di una parte e a vantaggio dell’altra.

Si consideri questo caso. Fra il produttore e l’attore di un’opera cinematografica era stato previsto il divieto per il primo di usare il nome del secondo nella pubblicità dell’opera, ed i giudici del merito avevano interpretato tale patto nel senso che esso non includesse anche il divieto di utilizzazione dell’immagine dell’attore e del nome del suo personaggio del film. La Suprema Corte ha escluso che questa interpretazione potesse essere usata sotto il profilo della mancata considerazione che l’interesse dell’attore, con la stipulazione del patto, era quello di evitare ogni impegno pubblicitario tanto del proprio nome quanto della propria immagine (Cass. 9 aprile 1987, n. 3480).

 

3. Questioni attuali

Ruolo e significato della buona fede sono stati indagati con ampiezza di prospettive e novità di risultati nelle relazioni presentate alle giornate luisiane della Association H. Capitant (La bonne foi, Travaux, t. XLIII, 1992, Paris, 1994). nella relazione di sintesi Y. Loussouarn ha sottolineato come, nelle diverse esperienze, non si riscontri, se non in casi di eccezione, una definizione legislativa di buona fede: le eccezioni sono date dal codice olandese, in cui l’espressione “esigenze della ragione dell’equità”; dal codice del Quebec, che si riferisce alla “regole della vita sociale”; tuttavia, l’impossibilità di dare una definizione unitaria di buona fede non impedisce di farne largo impiego. La buona fede infatti allude a definizioni diversificate: innanzitutto, i) implica una nozione psicologico-intellettiva, e cioè l’ignoranza di un fatto o di una circostanza la credenza erronea che il soggetto si è formato; ii) in secondo luogo, si tratta di una nozione puramente morale, una regola di condotta secondo lealtà e onestà. Se ne è messo in luce il ruolo di regola di comportamento della formazione del contratto, il ruolo correttivo nell’esecuzione del contratto, e il ruolo complementare nella identificazione delle obbligazioni contrattuali assunte dalle parti (ad es., per quanto riguarda l’obbligazione dell’informazione).

Sempre con riguardo all’esperienza francese si debbono richiamare le relazioni di Jourdain, sull’impiego della clausola generale nella fase precontrattuale e nella conclusione del contratto (op. cit., p. 121 ss.) e di Bénabent per la fase di esecuzione (op. cit., p. 291 ss.), nonché il saggio di Talion, (Le concept de bonne foi en droit français du contrat, Saggi-conferenze-seminari, a cura di Bonell, Roma, 1994). In questi lavori si dà ampia diffusione degli orientamenti della giurisprudenza in materia, e della progressiva estensione dell’applicazione del principio della fase di esecuzione alle altre fasi che incidono sulla vicenda contrattuale.

 

I casi più frequentemente citati riguardano:

i) nell’esecuzione, il contratto di locazione; ad es., la Suprema Corte si è occupata dell’applicazione della buona fede in caso di pagamento di un canone superiore a quello contrattualmente previsto oppure della richiesta di riparazione di spese, profittando della impossibilità di difendersi dovuta ad assenza e quindi a ignoranza delle pretese (Cass. civ. 29 giugno 1976; 15 dicembre 1976, in Bull. civ., 1976, III, n. 465); ancora nel caso di ricorso alla clausola risolutiva espressa per inosservanza del regolamento condominiale, invocato al fine di liberare l’immobile adibito ad esercizio commerciale (Cass. civ., 21 gennaio 1983, in Bull. civ., 1983, III, n. 21); e ancora la regola è stata invocata per contrastare l’esercizio del diritto di risoluzione da parte del proprietario, il quale lamentava l’inadempimento del conduttore di concludere un contratto di assicurazione dell’immobile tolto in locazione, posto che si era accertato che il conduttore si era effettivamente assicurato, ma non aveva inviato il certificato al proprietario (Cass. civ. 13 aprile 1988, in D., 1989, p. 335 con nota critica di Aubert);

ii) sempre nell’esecuzione, il contratto di compravendita; ad esse, in un caso in cui il prezzo era stato ripartito in numerano e con il versamento di una rendita vitalizia, si è ritenuto che il mancato pagamento di alcune mensilità della rendita non poteva ritenersi sufficiente all’esercizio del diritto di risoluzione, dal momento che il pagamento era stato effettuato, anche se non al domicilio del creditore, bensì presso il consulente degli acquirenti (Cass. civ. 22 giugno 1986, ivi, I, n. 223);

iii) sempre nell’esecuzione, il rapporto tra inadempimento e tolleranza, ovvero l’importanza dell’inadempimento, e ancora, l’obbligo di collaborazione del creditore (Cass. comm. 1° ottobre 1991); e gli obblighi di cooperazione consistenti nella consulenza del venditore di un software, in ordine alla sua utilizzazione da parte dell’acquirente (App. Paris, 18 giugno 1984); ancora, l’obbligo della banca in ordine alla informazione del cliente sui rischi successivamente insorti in ordine ad una operazione di investimento (Cass. comm. 9 maggio 1978, in D., 1978, p. 419); l’obbligo di osservare il segreto bancario anche relativamente alle informazioni sulla situazione economica del cliente (Trib. Paris, 6 febbraio 1975, ivi, 1975, p. 318).

iv) nella formazione del contratto, l’inottemperanza all’obbligo di una delle parti a concorrere nella scelta del terzo arbitratore che doveva fissare il prezzo di coesione di un pacchetto azionario (Trib. Parigi, 20 settembre 1991)
(continua)

10/06/03

(* )Queste pagine sono parte della più ampia trattazione che l’autore (Prof. Guido Alpa, Ordinario di Istituzioni di diritto privato presso l’Università La Sapienza di Roma) ha destinato ad un volume antologico (AA.VV., Diritto giurisprudenziale, a cura di M. Bessone, Casa editrice Giappichelli).

tratto dal sito: www.altalex.it