AZIONE REVOCATORIA E NUOVE DISCIPLINE DEL RITO APPLICABILE ALLE AZIONI DERIVANTI DAL FALLIMENTO

 

 

 

L'azione revocatoria ordinaria prevista dall'art. 66 L.F., qualora sia promossa in via esclusiva dal curatore fallimentare, presenta aspetti peculiari tali da farla ritenere causa derivante dal fallimento ex art. 24 L.F.

(Trib. Treviso Ord., 2 luglio 2007)

Ai sensi dell'art. 24 L.F., così come modificato dal D.Lgs. n. 5/2006, il rito ordinario è destinato ad essere utilizzato solo per le cause che non derivino dal fallimento, mentre per queste ultime (tra cui è ricompresa l'azione revocatoria fallimentare) risulta applicabile il rito camerale ordinario - laddove non diversamente disciplinato (come nell'ipotesi di verifica dello stato passivo e di impugnazione ex art. 98 legge fallimentare) -. Tale norma processuale trova ora applicazione anche ai giudizi promossi dopo il 17 luglio 2006 - ancorché l'azione revocatoria sia promossa da un fallimento dichiarato prima di tale data -; invero, da un lato, trattasi di norma processuale per la quale trova applicazione il principio tempus regit actum e, d'altro lato, il giudizio per revocatoria costituisce procedimento del tutto autonomo rispetto a quello fallimentare in senso stretto.

(Trib. Treviso, sent., 12 dicembre 2006)

Premessa

Il d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 di riforma della legge fallimentare, tra le varie novità, ha modificato il testo originario dell'art. 24 l . fall. introducendo, per le controversie di competenza del tribunale fallimentare, le forme camerali di cui agli artt. 737 ss. c.p.c. Tale rito ha trovato attuazione con riguardo alle azioni "derivanti" dal fallimento, tra cui l'azione revocatoria fallimentare e quella ordinaria ex art. 66 l . fall., non solo promosse da fallimenti dichiarati successivamente al 16 luglio 2006, ma anche a quelle derivanti da fallimenti dichiarati prima di tale data (1).

 

La scelta di utilizzare il procedimento in camera di consiglio per le controversie dell'art. 24 l. fall. non ha, tuttavia, convinto il legislatore fallimentare il quale, dopo poco più di un anno dall'entrata in vigore della summenzionata riforma, ha ritenuto di adottare un nuovo decreto correttivo che viene ad incidere, nuovamente, sul contenuto dell'art. 24 l. fall. abrogandone in toto la previsione in punto di rito (2). In questo modo, si è voluto ristabilire il modello contenzioso ordinario che, a partire dal 1° gennaio 2008, torna perciò ad essere il rito deputato a regolare tutte le controversie di competenza del tribunale fallimentare.

 

In questo mutato quadro normativo, una riflessione sulle problematiche che discendono dall'applicazione del rito camerale alle azioni revocatorie esperite in sede fallimentare, specie quella ordinaria, sembra comunque presentare una perdurante utilità con riguardo ai giudizi pendenti alla data di entrata in vigore delle nuove norme correttive i quali - come si vedrà meglio oltre - parrebbero dover essere proseguiti, secondo quanto stabilito dalla disciplina transitoria, con le forme sommarie di cui agli artt. 737 ss. c.p.c.

 

L'azione revocatoria ordinaria come azione "derivante" dal fallimento

 

I provvedimenti qui annotati, sebbene pronunciati in relazione al testo dell'art. 24 l. fall. così come modificato dalla riforma del gennaio 2006, offrono l'occasione per svolgere alcune considerazioni sul rapporto tra le azioni revocatorie (specialmente quella ordinaria) e la norma in questione, nonché sulla possibilità di configurare, anche per quest'ultima, "il nesso di derivazione" che la legge richiede per l'operatività dell'art. 24 l. fall.

 

A tale riguardo, è opportuno ricordare come l'assenza di un'indicazione normativa che chiarisca a quali tipologie di azioni il legislatore abbia inteso riferirsi nel prevedere tale collegamento con la procedura fallimentare abbia spinto dottrina e giurisprudenza a ricostruire, con diverse interpretazioni, il significato dell'espressione "derivare". A concezioni più restrittive, secondo cui l'art. 24 l. fall. sarebbe riferibile alle sole azioni che trovano nel fallimento l'origine e il fondamento, ne sono state alternate altre che hanno ricondotto al concetto di "derivazione" sia le azioni che, pur non scaturendo direttamente dal fallimento, sono destinate in ogni caso ad incidere sulla procedura, sia quelle che "per effetto del fallimento ricevono un particolare atteggiamento o modo d'essere tale da determinarne una deviazione dal loro schema legale tipico" (3).

 

Con riferimento specifico alle azioni revocatorie si deve osservare come, a differenza della revocatoria fallimentare di cui può dirsi pacifica la riconducibilità all'art. 24 l. fall., per quella ordinaria ex art. 66 l. fall. la stessa conclusione sia, per certi aspetti, più problematica (4).

 

L'art. 66 l. fall., come è noto, riconosce al curatore la possibilità di esperire, in costanza di fallimento, l'azione revocatoria ordinaria di cui agli artt. 2901 ss. c.c. al fine di ottenere la dichiarazione di inefficacia degli atti compiuti dal debitore in pregiudizio ai creditori.

 

Il tribunale di Treviso, nella sua pronuncia, giustifica l'applicabilità della disciplina dell'art. 24 l . fall. alla revocatoria ordinaria sulla base degli "aspetti peculiari" che tale azione assume in sede fallimentare. Tali caratteri vengono individuati, in particolare, nella legittimazione esclusiva del curatore, nella competenza del tribunale fallimentare ed, infine, nella possibile (ancorché discussa) applicabilità delle esenzioni da revocatoria previste nel nuovo comma 3 dell'art. 67 l . fall.

 

Benché non sia possibile, data l'ampiezza dell'argomento, affrontare in questa sede la dibattuta tematica relativa alla natura dell'azione pauliana esercitata nel fallimento e i sui rapporti con la revocatoria dell'art. 67 l. fall., ciò che in ogni caso appare innegabile è che tale azione, innestandosi in una procedura esecutiva in atto, subisce per effetto del fallimento modifiche e adattamenti sotto il profilo sia sostanziale che processuale. Sebbene, infatti, l'art. 66 l. fall. richiami espressamente le norme codicistiche, quando il debitore fallisce l'azione diretta a far dichiarare l'inefficacia degli atti pregiudizievoli ai creditori "resta inevitabilmente influenzata dai principi del diritto fallimentare, per cui risulta modificata rispetto al suo atteggiamento normale di cui agli artt. 2901 ss. c.c." (5).

 

Sotto il profilo dell'ampiezza delle modifiche che la disciplina dell'azione revocatoria ordinaria subisce in sede fallimentare, si ritrovano posizioni discordanti. L'opinione prevalente ritiene che l'azione revocatoria ordinaria si trasformi per effetto del fallimento in modo radicale rispetto alla pauliana avvicinandosi, quanto agli effetti e ai presupposti per il suo esercizio, all'azione revocatoria fallimentare (6). Secondo altra dottrina, invece, le modifiche subite dalla revocatoria ordinaria si limiterebbero alle sole deviazioni previste espressamente dall'art. 66 l . fall. relative alla legittimazione esclusiva del curatore e alla competenza del tribunale fallimentare poiché, per il resto, l'esercizio dell'azione revocatoria ordinaria richiederebbe le stesse condizioni stabilite dall'art. 2901 c.c. L'azione ex art. 66 l . fall. sarebbe, dunque, la stessa azione che fuori dal fallimento compete ai singoli creditori che, per effetto della dichiarazione di fallimento del debitore, si trasforma in strumento di difesa collettiva nell'interesse di tutti i creditori (7).

 

In definitiva, dunque, sia che si accolga la prima soluzione, sia che si reputi più corretto limitare le modifiche al solo profilo della legittimazione e della competenza, rimane il fatto che l'intervenuta dichiarazione di fallimento determina, in ogni caso, una deviazione dell'azione revocatoria ordinaria dal suo schema tipico. Di conseguenza, sebbene l'azione ex art. 66 l. fall. non possa considerarsi, al pari della revocatoria fallimentare, un'azione che origina dal fallimento in quanto può senza dubbio preesistere ad esso ed essere in atto nel momento in cui viene dichiarato, essa subisce una modificazione dal suo schema tipico sufficiente per poterla ritenere un'azione "derivante" dal fallimento ai sensi dell'art. 24 l. fall. (8).

 

Il tribunale di Treviso, nel qualificare l'azione revocatoria ordinaria all'art. 24 l . fall. si sofferma, poi, a considerare la possibilità di applicare alla stessa delle esenzioni previste dal nuovo comma 3 dell'art. 67 l . fall., per l'azione revocatoria fallimentare. A tale riguardo si deve dare atto della presenza di opinioni contrastanti.

 

Un primo orientamento considera le esenzioni in esame riferibili alla sola revocatoria fallimentare non solo per la collocazione sistematica della previsione ma anche perché il carattere eccezionale delle esenzioni, rispetto al regime normale di revocabilità, impedisce di estenderne l'applicabilità oltre i limiti posti dalle norme che li prevedono (9). Secondo un'altra opinione, le esenzioni dell'art. 67 l. fall., al contrario, operano anche per l'azione revocatoria ordinaria, sia perché il legislatore, nell'incipit della norma, parla di "azione revocatoria" riferendosi a tutte le forme di essa senza distinzioni, sia perché, data l'omogeneità funzionale delle due azioni, escludere dalla revocatoria fallimentare determinate categorie di atti per poi assoggettarli a quella ordinaria, darebbe luogo a una contraddizione difficilmente spiegabile (10).

 

Quest'ultima soluzione, accolta anche dal tribunale di Treviso nella pronuncia in commento, pare preferibile: l'azione revocatoria ordinaria, infatti, secondo l'opinione dominante, ha lo stesso fondamento di quella fallimentare differenziandosi quest'ultima soltanto per le maggiori agevolazioni sotto il profilo probatorio. Poiché il curatore può esercitare quella ordinaria ex art. 66 l . fall. quando non sussistano, ad esempio, i presupposti per quella fallimentare, non ci sarebbe motivo per non applicare anche ad essa le esenzioni dell'art. 67, comma 3, l . fall.

 

Giudizi revocatori pendenti e rito applicabile

 

L'azione revocatoria ordinaria ex art. 66 l . fall., così come quella fallimentare - in quanto riconducibili alla categoria delle azioni "derivanti" dal fallimento - risultano entrambe interessate dalle modifiche che il legislatore fallimentare ha introdotto, in punto di rito, prima con la previsione delle forme camerali e ora, nuovamente, di quelle ordinarie.

 

Va detto, peraltro, che la scelta del legislatore di ripristinare il rito contenzioso ordinario si rivela, senza dubbio, opportuna.

 

L'utilizzo delle forme speciali e notoriamente sommarie che contraddistinguono il rito camerale per la soluzione di controversie che coinvolgono diritti soggettivi, infatti, sebbene possa essere dettata dall'esigenza di assicurare celerità e speditezza alle procedure concorsuali, si dimostra del tutto inadeguata sotto il profilo del rispetto dei principi costituzionali del contraddittorio e del diritto alla prova. Inadeguatezza posta in risalto dallo stesso tribunale di Treviso che, nella sua pronuncia, ha sottolineato la necessità di un intervento di etero-integrazione interpretativa da parte del giudice al fine di adeguare la scarna disciplina degli artt. 737 ss. c.p.c alle garanzie imprescindibili che devono connotare ogni processo (11).

 

Tale inidoneità è stata recepita dal decreto correttivo 12 settembre 2007, n. 169 il quale - come si legge nella relazione di accompagnamento - elimina il rito camerale per esigenze di tutela dei diritti soggettivi dei terzi estranei al fallimento che, coinvolti nelle cause derivanti dal fallimento, verrebbero altrimenti "privati delle garanzie dei due gradi di cognizione piena, di cui possono di regola usufruire tutti i soggetti dell'ordinamento" (12).

 

L'entrata in vigore, il 1° gennaio 2008, delle modifiche relative al rito da applicare alle azioni dell'art. 24 l. fall., rende necessaria una valutazione in ordine a quei giudizi che, instaurati anteriormente a tale data nelle forme camerali, risultino ancora pendenti con l'inizio del nuovo anno. Si deve verificare, infatti, se tali cause debbano proseguire con rito camerale oppure siano destinate a trasmigrare sui binari del rito ordinario con la conseguenza che il giudice sarà tenuto a disporre il mutamento del rito.

 

Per un apprezzamento in tal senso, è necessario considerare la disciplina transitoria dettata all'art. 22 del d. lgs. 12 settembre 2006, n. 169. Tale previsione stabilisce che le nuove disposizioni correttive "si applicano ai procedimenti per dichiarazione di fallimento pendenti alla data della sua entrata in vigore, nonché alle procedure concorsuali e di concordato fallimentare aperte successivamente alla sua entrata in vigore".

 

Dal tenore della norma pare implicita l'esclusione, dall'ambito di operatività del decreto, delle procedure fallimentari "pendenti" le quali evidentemente continuano ad essere regolate dalla normativa previgente.

 

Tale conclusione troverebbe conferma nel terzo comma dell'art. 22 secondo cui solo talune norme del decreto, espressamente richiamate, si applicano "anche alle procedure concorsuali pendenti". Da ciò se ne deduce, infatti, le norme non menzionate, tra cui l'art. 3 che abroga il rito camerale, a contrario, devono ritenersi non operanti nelle procedure pendenti ma solo in quelle che saranno aperte a far data dal 1° gennaio 2008.

 

Dall'esame della disciplina transitoria sembra, dunque, che il legislatore abbia voluto distinguere, ai fini dell'operatività del decreto, la c.d. fase prefallimentare (pendente dal deposito dell'istanza per la dichiarazione di fallimento fino all'emissione di un provvedimento che decida sulla medesima) dalla vera e propria fase concorsuale (pendente dal deposito della sentenza dichiarativa di fallimento), limitando l'applicazione delle nuove norme ai soli casi in cui sia il procedimento per la dichiarazione di fallimento ad essere pendente e non anche la vera e propria procedura fallimentare.

 

Tale differenziazione è dettata probabilmente dall'esigenza di evitare, quanto a disciplina, ulteriori modifiche, oltre a quelle già introdotte a breve distanza dal d.lgs. 09/01/06 n. 5, per le procedure che alla data di entrata in vigore del decreto si trovino già in fase avanzata di definizione (13).

 

Alla luce di queste considerazioni di carattere generale e con riferimento a ciò che in tale sede interessa, ossia il rito applicabile alle cause revocatorie eventualmente pendenti, la conclusione che pare più corretta, valutata la previsione dell'art. 22, sembra quella per cui tali controversie debbono restare regolate con le forme camerali previste dal d. lgs. 9 gennaio 2006, n. 5.

 

Tali azioni, infatti, non solo originano nel fallimento o comunque subiscono, per effetto di questo, una deviazione dal loro schema tipico, ma instaurano con la procedura fallimentare uno stretto legame in quanto risultano finalizzate, mediante la ricostruzione del patrimonio del fallito, a dare effettività alla procedura stessa. Proprio per l'esistenza di questo nesso funzionale, l'esperibilità di tali azioni presuppone necessariamente l'avvenuta dichiarazione di fallimento e la conseguente pendenza della procedura fallimentare.

 

Per tale ragione, come peraltro ha sostenuto lo stesso tribunale di Treviso in un'altra recente pronuncia, tali azioni debbono intendersi disciplinate "dalla legge della procedura fallimentare" intendendo, con questa espressione, la procedura che si apre con la dichiarazione di fallimento e che non va confusa con la c.d. fase prefallimentare che si chiude con il provvedimento che decide sulla medesima (14).

 

In questa prospettiva, dunque, le cause revocatorie eventualmente pendenti il 1° gennaio 2008, in quanto si innestano in procedure concorsuali aperte nella vigenza del d. lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 dovranno ritenersi anch'esse escluse, a norma dell'art. 22, dall'ambito di operatività del decreto correttivo e proseguiranno, quindi, con le forme camerali.

 

Rito camerale, revocatoria ordinaria "autonoma" e "incidentale"

 

Per quanto concerne in modo specifico i giudizi di revocatoria ordinaria, l'applicazione del rito camerale solleva ulteriori questioni che rendono opportuna qualche altra riflessione.

 

Gli aspetti di problematicità a cui si fa riferimento emergono, in modo particolare, nei casi in cui l'azione revocatoria ordinaria, anziché essere esercitata in via esclusiva dal curatore fallimentare, sia già stata instaurata ante fallimento dal singolo creditore nei confronti del debitore in seguito fallito.

 

A questo proposito si deve osservare come il tribunale di Treviso, nel qualificare tale azione come "derivante" dal fallimento e nell'ammettere l'operatività del rito camerale, sembra aver considerato la sola ipotesi in cui l'azione sia esercitata ex novo dall'ufficio del curatore fallimentare senza che i singoli creditori del fallito abbiano già esperito individualmente l'azione ex art. 2901 c.c.: così, infatti, pare doversi intendere il riferimento all'esclusività nell'esercizio dell'azione da parte del curatore (15).

 

In questa eventualità, l'applicazione delle forme camerali non pone particolari questioni in quanto, in tali ipotesi, l'azione è esercitata autonomamente dal curatore nell'interesse della massa dei creditori e il relativo giudizio, di competenza del tribunale fallimentare, è instaurato, sin dal suo inizio, a norma degli artt. 737 c.p.c.

 

Più complesso, invece, si presenta il caso in cui l'azione revocatoria sia già stata intrapresa dal singolo creditore nei confronti del debitore in seguito fallito.

 

Secondo l'opinione dominante, la sopravvenuta dichiarazione di fallimento del debitore determinerebbe la perdita della legittimazione da parte del singolo creditore agente e la conseguente possibilità per il curatore di subentrare a costui nel giudizio revocatorio già iniziato, nello stato in cui il processo si trova (16).

 

In questa prospettiva, il quesito che si pone è se il subingresso del curatore nel giudizio già iniziato dal creditore determini necessariamente il mutamento del rito a favore delle forme camerali ovvero se il giudizio possa, al contrario, proseguire con le stesse forme con cui è iniziato, ossia quelle ordinarie. Quest'ultima soluzione pare essere preferibile poiché, in un'ipotesi di questo tipo, il curatore non esperisce l'azione ex novo ma semplicemente subentra al creditore nel giudizio revocatorio da questi già promosso prima del fallimento nello stesso stato in cui il processo si trova.

 

La questione si presenta problematica anche accogliendo la diversa soluzione sostenuta da quella parte della dottrina che ritiene che la dichiarazione di fallimento del debitore non determini alcuna perdita di legittimazione da parte del creditore agente in revocatoria e non consenta nemmeno il subingresso da parte del curatore, per cui il singolo creditore potrebbe dunque utilmente proseguire la propria azione fino a giungere anche ad una sentenza di merito (17).

 

In questa seconda prospettiva, la questione della forma processuale da adottare investe il momento del raccordo tra l'azione revocatoria del singolo creditore e quella che il curatore eventualmente decida di esperire ex art. 66 l . fall. dopo la dichiarazione di fallimento. Se il curatore dovesse reputare fondata l'azione revocatoria determinandosi ad esercitarla a favore della massa dei creditori egli potrà esperirla, a vantaggio di tutti i creditori, nello stesso giudizio pendente iniziato dal creditore (c.d. revocatoria incidentale) ovvero, nel caso in cui lo stato della causa non lo consenta, esercitare l'azione in un nuovo processo (18).

 

Mentre in quest'ultima ipotesi il nuovo processo dovrà essere instaurato davanti al tribunale fallimentare con le forme camerali, stante l'operatività dell'art. 24 l . fall., ove l'azione, al contrario, fosse esercitata incidentalmente nel medesimo giudizio già avviato dal creditore con rito ordinario, la soluzione più corretta sembra essere nel senso di ritenere applicabili anche all'azione della curatela le forme ordinarie. Sebbene l'art. 66 l . fall. attribuisca al tribunale fallimentare che ha dichiarato il fallimento la competenza per la domanda promossa dal curatore, nell'ipotesi in esame, il giudice competente a conoscere anche dell'azione revocatoria della curatela dovrebbe essere quello preventivamente adito dal creditore (19). Tale giudice, tuttavia, non sempre coincide con quello che ha dichiarato il fallimento con la conseguenza che, ove la competenza non sia del giudice fallimentare, non dovrebbe esserci spazio per l'art. 24 l . fall. che applica il rito camerale alle cause derivanti dal fallimento di competenza del tribunale fallimentare.

 

Le considerazioni sino a qui svolte evidenziano, in definitiva, come l'applicazione del rito camerale all'azione revocatoria ordinaria, non offra soluzioni lineari e ciò, specialmente, quando si tratta di coordinare l'azione della curatela con quella eventualmente già intrapresa dal singolo creditore ante fallimento. Anche sotto questo profilo, pertanto, la scelta del legislatore di reintrodurre il rito ordinario non può che essere accolta positivamente.

 

Autore: Caterina Cherubini - Fonte: Corriere Giur., 2008, 6, 849

 

Note:

 

(1) Il d. lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 adottato in attuazione della legge delega 14 maggio 2005, n. 80, in vigore dal 16 luglio 2006, come si legge nella Relazione illustrativa di accompagnamento, ha realizzato la prima riforma sistematica della legge fallimentare del 1942 destinataria, fino a questo momento, solo di interventi interpretativi da parte della Corte Costituzionale e della giurisprudenza. Il d. lgs. n. 5 ha inciso sul contenuto dell'art. 24 l. fall. riaffermando, nella prima parte, con alcune modifiche rispetto alla formulazione previgente, la vis attractiva del foro fallimentare per le controversie che derivano dal fallimento e inserendo, per tali controversie, la previsione delle forme camerali con l'intento, proprio dell'intera riforma, di assicurare maggior speditezza e concentrazione alle procedure concorsuali. Sui principi e i criteri direttivi che hanno ispirato la riforma della legge fallimentare, v. Lo Cascio, La nuova legge fallimentare: dal progetto di legge delega alla miniriforma per decreto legge, in Il fallimento, 2005, 361 ss.; Id., I principi della legge delega della riforma fallimentare, in Il fallimento, 2005, 985 ss.; Plenteda, La legge delega per la riforma delle procedure concorsuali: principi e criteri direttivi, in Il fallimento, 2005, 966 ss.; Costantino, Profili processuali, in Il fallimento, 2005, 995 ss. Per un commento sui profili processuali innovati dalla nuova legge fallimentare, cfr. Carratta, Profili processuali della riforma della legge fallimentare, in Dir. fall., 2007, 1 ss.; Tiscini, sub art. 24 in La riforma della legge fallimentare, a cura di A. Nigro e M. Sandulli, Torino 2006, I, 129 ss.; Id, sub art. 24, La nuova legge fallimentare annotata, a cura di G. Terranova, Napoli 2006, 48 ss.; Fabiani, Competenza e rito nelle azioni che derivano dal nuovo fallimento, reperibile sul sito www. judicium. it.; Nicolosi, Riflessioni a prima lettura sul nuovo art. 24 l. f., in www. judicium. it.; Grossi, sub art. 24, in La riforma della legge fallimentare, Milano 2006, 28 ss.

 

(2) Si tratta del d. lgs. 12 settembre 2007, n. 169 recante "Disposizioni integrative e correttive al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonché al decreto 9 gennaio 2006, n. 5, in materia di disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa, ai sensi dell'articolo 1, commi 5, 5-bis e 6, della legge 14 maggio 1005, n. 80", pubblicato in G.U. 17 ottobre, n. 241. L'art. 3, primo comma, del suddetto decreto abroga il secondo comma dell'art. 24 l. fall., mentre viene mantenuta inalterata la prima parte della norma così come modificata dal decreto 9 gennaio 2006, n. 5. Per un primo commento a riguardo, si veda Castagnola, Fallimenti: con i ritocchi del correttivo un argine al crollo delle dichiarazioni, in Guida al Diritto, 2007, f. 41, 10 ss.

 

(3) Così Ferrara jr., voce Azione revocatoria fallimentare, in Enc. dir., IV, Milano 1959, 609 ss. Per una ricostruzione delle diverse interpretazioni del nesso di derivazione v. per tutti Caselli, Degli organi del fallimento, in Commentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1977, 35 ss.; In giurisprudenza, cfr. Cass. 27 giugno 1990, n. 6560, in Giust. civ. mass. 1990, f. 6 e in Giur. it. 1991, I, 1, 60 ss.; Cass. 19 agosto 1992, n. 9659, in Giust. civ. mass., 1992, f. 8-9 e in Il fallimento, 1993, 60 ss.

 

(4) Cfr. Fabiani, Competenza e rito, cit., 3 ss.; Caselli, Degli organi del fallimento, cit., 47 ss.; Andrioli, voce Fallimento (dir. priv.), in Enc. dir., XVI, Milano 1967, 373 ss.; Guglielmucci, Lezioni di diritto fallimentare, Torino 2004, 95 ss. V., inoltre, Cass. 22 maggio 2002, n. 7510 cit.; Cass. 15 febbraio 1996, n. 1145, cit.; Cass. 19 agosto 1992, n. 9659 cit.; Cass. 8 settembre 2005, n. 17943, in Guida al diritto, 2005, 39 ss. con nota di Micali.

 

(5) Così Ferrara jr., voce Azione revocatoria fallimentare, cit., 901. Circa i rapporti tra l'azione ex art. 66 l. fall. e la revocatoria fallimentare, l'orientamento giurisprudenziale dominante ritiene che le due azioni abbiano lo stesso fondamento giuridico, differenziandosi quella fallimentare solo per le notevoli agevolazioni, sul piano processuale, in ordine alla prova dei presupposti: così Cass. 25 giugno 1980, n. 3983, in Foro it., 1980, I, 2780 ss.; Cass. 3 settembre 1999, n. 9271, in Il fallimento, 2000, 1126 ss.; Cass. 5 marzo 2001, n. 3134, in Il fallimento, 2002, n. 679. In dottrina, cfr. Bonsignori, voce Revocatoria fallimentare, in Dig. disc. priv., XII, Torino 1996, 474 ss. per il quale l'unica peculiarità dell'azione revocatoria ordinaria nel fallimento è data dal fatto che la stessa sarebbe esperita nel corso di un procedimento nel quale si assoggetta all'esproprio l'intero patrimonio del debitore; Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, II, Milano 1974, 1145 ss., che afferma l'identità delle due azioni e riconosce come, al contrario, sussista diversità assoluta tra l'azione di cui è titolare l'ufficio fallimentare nei due tipi, ordinaria e fallimentare (entrambe caratterizzate dalle stesse modifiche quanto a legittimazione e finalità) e l'azione di cui sono titolari i creditori fuori dal fallimento (c.d. pauliana). Diversamente, Maffei Alberti, Il danno nella revocatoria, Padova, 1970, passim e Satta, Diritto fallimentare, Padova 1996, 255 ss., secondo cui l'azione revocatoria ordinaria e quella fallimentare non sono la stessa azione data la diversità del relativo presupposto rappresentato dallo stato di insolvenza del debitore, nella revocatoria fallimentare dal consapevole pregiudizio dei creditori, in quella ordinaria; identico, tuttavia, resterebbe il fine dell'una e dell'altra azione cosicché il curatore potrebbe esercitare le due azioni alternativamente.

 

(6) Cfr. Provinciali, Manuale di diritto fallimentare, Milano 1962, I, 878 ss.; Satta, Diritto fallimentare, cit., 255 ss.; Ferrara, Il fallimento, Milano, 1995, 399 ss.

 

(7) Così Consolo, La revocatoria ordinaria nel fallimento tra ragioni creditorie individuali e ragioni di massa, in Studi in onore di Pietro Rescigno, IV, Milano 1998, 91 ss.; Maffei Alberti, Il danno, cit., 251 ss.

 

(8) Così Ferrara jr, voce Azione revocatoria fallimentare, cit., 906; Maffei Alberti, voce Fallimento (effetti sugli atti pregiudizievoli ai creditori), in Enc. Giur., XII, Roma 1989, 5, per cui sia l'azione revocatoria fallimentare e sia quella ordinaria esercitata in sede fallimentare "rientrano tra le azioni che derivano dal fallimento" e sono riservate dall'art. 24 l. fall. alla competenza esclusiva e funzionale del tribunale fallimentare. Sulla pacifica riconducibilità anche dell'azione revocatoria ordinaria a tale categoria di azioni, v. anche Caselli, Degli organi del fallimento, cit., 47.

 

(9) V. Lo Iacono, Le modifiche alla disciplina della revocatoria nella legge fallimentare, in Studium iuris, Padova 2006, f. 12, 1384 ss.; Nigro, sub art. 66, in La riforma, cit., 369; Sandulli, La nuova disciplina dell'azione revocatoria, in Il fallimento, 2006, f. 5, 611 ss.

 

(10) Così Federico, La nuova revocatoria, in Federico-Vivaldi, La riforma del concordato e della revocatoria fallimentare, Milano 2005, 42 ss.; Guglielmucci, La riforma in via d'urgenza della legge fallimentare, Torino 2005, 39 ss.

 

(11) È opportuno osservare come, la scelta iniziale del legislatore della riforma di introdurre, anche per le azioni di cui all'art. 24 l. fall., il rito camerale, si sia inserita in una linea di tendenza, particolarmente accentuata in questi ultimi anni, che vede l'estensione delle forme sommarie di cui agli artt. 737 ss. c.p.c - in origine destinate alla sola giurisdizione volontaria - anche alla tutela cognitiva dei diritti soggettivi e status. Allo stato attuale, infatti, numerose sono le materie contenziose regolate mediante il rito camerale: è il caso, ad esempio, della materia del diritto di famiglia e della tutela dei minori; della l. 24 marzo 2001, n. 89 (c.d. "legge Pinto") sull'equa riparazione per i danni subiti dall'irragionevole durata del processo; della tutela di molti diritti emergenti, come quelli previsti dalla legge sulla immigrazione (d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286), dalla normativa che ha ratificato alcune convenzioni internazionali sulla sottrazione dei minori, (l. 15 gennaio 1994, n. 64) nonché dalla legge sulla c.d. violenza in famiglia (l. 4 aprile 2001, n. 154). Tale fenomeno, noto con il nome di "cameralizzazione del giudizio sui diritti", è fortemente criticato da chi ritiene che l'uso delle forme sommarie camerali per i giudizi sui diritti comporti un inevitabile e ingiustificato sacrificio, sul piano costituzionale, di quelle garanzie minime che solo il processo a cognizione piena è in grado di assicurare. In dottrina v. Cerino Canova, Per la chiarezza delle idee in tema di idee in tema di procedimento camerale e giurisdizione volontaria, in Riv. dir. civ., 1987, 431 ss.; Lanfranchi, La cameralizzazione del giudizio sui diritti, in Giur. it., 1989, 50 ss.; Maltese, Giurisdizione volontaria, procedimento camerale tipico ed impiego legislativo di tale strumento di tutela dei diritti soggettivi, in Giur. it., 1986, 127 ss.; Denti, La giurisdizione volontaria rivisitata, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1987, 325 ss.; Proto Pisani, Usi e abusi della procedura camerale ex art. 737 ss. c.p.c., in Riv. dir. civ., 1990, 393 ss.; Montesano, "Dovuto processo" su diritti incisi da giudizi camerali e sommari, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1989, 925 ss.; Costantino, "Giusto processo e procedure concorsuali", in Foro it. 2001, 3451 ss.

 

(12) Cfr. l'art. 3 della Relazione al d. lgs. 12 settembre 2007, n. 169

 

(13) Non si deve dimenticare, infatti, che con la normativa introdotta dal decreto 12 settembre 2007, n. 169 si è in presenza, allo stato attuale, di ben quattro diversi tipi di procedure fallimentari: le procedure concorsuali disciplinate dalla legge fallimentare del 1942; le procedure regolate dalla legge fallimentare come regolata dalla mini riforma del 2005; le procedure disciplinate dalla legge fallimentare come modificata dalla riforma organica del 2006 ed, infine, le procedure interessate dalle ultime modifiche del decreto correttivo.

 

(14) Cfr. Trib. Treviso, 2-3 maggio 2007, reperibile sul sito www.ilcaso.it

 

(15) Considerato che l'espressione dell'art. 66 l. fall. ("il curatore può domandare") vuole solo essere indicazione della facoltà di scelta per l'ufficio della curatela sull'opportunità di esperire l'azione ed essendo del tutto pacifico che, a scelta avvenuta, la legittimazione all'azione spetti esclusivamente al curatore (così Ferrara, voce Azione revocatoria fallimentare, cit., 905), è evidente che l'inciso "qualora promossa in via esclusiva dal Curatore" utilizzato dalla pronuncia in esame - per non essere del tutto superfluo - non può che essere riferito all'ipotesi in cui il curatore eserciti l'azione ex art. 66 l. fall. in assenza di un'azione revocatoria già intrapresa dal singolo creditore ante fallimento. Il curatore potrebbe decidere di esercitare l'azione ex art. 66 l. fall. dopo aver riscontrato, ad esempio, la mancanza dei presupposti (più favorevoli) che la legge richiede per l'utilizzo della revocatoria fallimentare ovvero nel caso in cui l'atto revocando sia stato posto in essere prima del "periodo sospetto" dell'art. 67 l. fall., v. Satta, Diritto fallimentare, cit., 256, secondo il quale l'azione revocatoria fallimentare e quella civile, stante la diversità dei relativi presupposti, hanno identico fine cosicché il curatore può esercitarle entrambe, alternativamente e così raggiungere ugualmente lo scopo della reintegrazione del patrimonio del debitore

 

(16) La perdita della legittimazione da parte del singolo creditore il quale potrebbe riassumere l'azione dopo solo una volta chiusa la procedura fallimentare è stata giustificata talvolta mediante il richiamo alla regola dell'art. 51 l. fall. che prevede dopo il fallimento non possano essere proseguite le azioni esecutive individuali, talvolta sulla base dell'esigenza, immanente nel sistema concorsuale di realizzare la par condicio creditorum: v., ex multis., Satta, Diritto fallimentare, cit., 256 ss.; Provinciali, Manuale di diritto fallimentare, ed. 1974, cit., 1148; Azzolina, Il fallimento e le altre procedure concorsuali, Torino 1961, II, 1374 ss. il quale esclude, tuttavia, la possibilità del subingresso del curatore rilevando la differente fisionomia che assume la revocatoria ordinaria quando viene esercitata nel fallimento. Contrario, invece, a riconoscere uno spostamento della competenza a favore del tribunale fallimentare, è Ferrara jr., voce Azione revocatoria fallimentare, cit., 905 ss. secondo cui competente resterebbe il giudice ordinario adito dal creditore in quanto l'inciso "l'azione si propone al tribunale fallimentare" dell'art. 66, comma 2, l. fall. si riferirebbe alla sola ipotesi in cui l'azione revocatoria ordinaria debba essere ancora iniziata. In giurisprudenza cfr. Cass. 4 agosto 1977, n. 3485;Cass. 21 luglio 1998, n. 7119, in Il fallimento 1999, 287 e in Dir. fall., 1999, II, 282; Trib. Milano 31 gennaio 2000, in Giur. comm., 2001, II, 311, con nota di Consolo; in Il fallimento 2001, 86, con nota di Maienza e, ivi, 323, con nota di Montanari; Cass. 25 luglio 2002, n. 10912, in Il fallimento, 2003, 281, con nota di Lamanna

 

(17) È questa la soluzione proposta da Consolo, La revocatoria ordinaria, cit. 108 ss., il quale considera che l'azione revocatoria esercitata dal curatore e quella promossa dal singolo creditore ante fallimento, eventualmente pendente al momento della dichiarazione, siano azioni tra loro diverse non solo sotto il profilo dei soggetti, ma anche al punto di vista del petitum: le due azioni sono tra loro in rapporto di continenza tale per cui "il petitum dell'azione della è curatela, più ampio, "contiene" quello minore dell'azione del singolo creditore. Per tale motivo, sempre secondo l'A., l'azione revocatoria ordinaria promossa individualmente dal creditore potrebbe utilmente proseguire senza che il curatore possa sostituirsi a costui nell'esercizio dell'azione.

 

(18) Qualora, invece, il curatore reputando infondata l'azione revocatoria, in quanto priva dei presupposti tipici, decidesse di non esercitarla a favore della massa dei creditori egli potrebbe, tuttavia, ugualmente partecipare al giudizio promosso dal singolo creditore ma in qualità di successore del debitore fallito subentrando a costui nell'identica posizione processuale. L'ufficio fallimentare in questa ipotesi non esercita l'azione ex art. 66 l. fall. e, pertanto, il giudizio ragionevolmente proseguirà nelle forme ordinarie.

 

(19) Così Consolo, La revocatoria ordinaria, cit., 121 (in nota), il quale ritiene sussista la competenza del giudice preventivamente adito dal creditore anche per l'azione revocatoria esercitata dal curatore a favore della massa, in quanto tra le due cause esiste un rapporto di connessione (diverso dalla accessorietà) tale per cui trovano applicazione le normali regole in tema di connessione previste all'art. 40, comma 1, c.p.c.