Assegno di separazione ed assegno di divorzio nella più recente giurisprudenza
Autore: Dott.ssa Gloria Servetti - Magistrato della Corte d'Appello di Milano
tratto dal sito: http://www.questionididirittodifamiglia.it
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1. Premessa
A poco più di due anni dall'entrata in vigore della legge 8 febbraio 2006, n. 54 che, attraverso la previsione del prioritario regime di affidamento condiviso dei figli minori, ha rappresentato un fattore "rivoluzionario" degli assetti della famiglia in crisi, dagli obiettivi di numerose recenti iniziative di studio e da una proliferante giurisprudenza di legittimità sembra di capire che l'attenzione degli operatori si è spostata nuovamente sui profili economico-patrimoniali delle vicende separative e di divorzio: questo è forse il segno che non aveva errato il legislatore quando, alle soglie dell'emanazione della legge 6 marzo 1987, n. 74, modificativa della disciplina del divorzio così come risultante dall'originaria legge del 1970, nella Relazione illustrativa al Senato (relazione Lipari) aveva a chiare lettere messo in evidenza come il contenzioso familiare si fosse sempre più incentrato sulle questioni economiche, con acute osservazioni che hanno poi, di fatto, trovato piena conferma nell'esperienza quotidiana vissuta nelle nostre aule di giustizia.
Rileggendo una relazione di una collega cagliaritana ho trovato una notazione che mi ha molto colpito e che voglio oggi rimettere alla vostra riflessione: ricordava, nel luglio 2006, l'amica relatrice come Jean Carbonnier, professore di diritto all'Università di Poitiers, avesse scritto che "gli sposi fanno del danaro e dell'amore un unico indivisibile pacchetto", di seguito traendo, alla luce della sua esperienza professionale, la considerazione che non è possibile dire se venga prima il problema dei cuori infranti o quello dei soldi che si volatilizzano o si dimezzano, ma che è tuttavia certo che questi altro non solo che due aspetti dello stesso unico problema.
E questa, che piaccia o meno, è proprio la realtà con la quale tutti coloro che ruotano, nei rispettivi loro specifici ruoli, intorno al nucleo della crisi familiare debbono necessariamente confrontarsi: con la separazione, e ancor più con il divorzio, non si può che prendere atto del già consumato fallimento delle relazioni personali e cercare di superare, attraverso un'elaborazione fondata sulle proprie risorse, un simile lacerante lutto mentre, in ogni caso, la vita continua e proprio quella quotidiana è caratterizzata dall'insuperabile bisogno "di far di conto", ovvero di trovare nel nuovo percorso di esistenza separata un assetto che in qualche misura consenta di andare avanti e, auspicabilmente, di farlo in condizioni non troppo dissimili da quelle alle quali ci si era ormai abituati.
Discorsi scontati, potrà pensare qualcuno, affermazioni teoriche e al tempo stesso semplicistiche, potrebbe lamentare qualche altro, ma personalmente rivendico l'esattezza di simili osservazioni preliminari e di carattere generale, non foss'altro che per il fatto che proprio questo sembra essere il pensiero che ha ispirato l'elaborazione giurisprudenziale degli ultimi anni: così, tenendo presente questo come dato di base dal quale prendere le mosse, sarà forse più facile seguire il filo conduttore dell'energia giurisprudenziale e della stessa percepire i movimenti, talvolta lievi, talvolta all'inizio sommessi e incerti ma via via destinati a confluire in un quadro di riferimento ben precisamente connotato.
Proviamo, allora, insieme a ripercorrere alcuni momenti salienti della nostra giurisprudenza, partendo da quelli che possono oggi dirsi punti fermi e ormai acquisiti per poi procedere ad esaminare i movimenti più recenti, così da verificarne la forza e l'idoneità o meno a raggiungere lo scopo che le norme di elettivo riferimento si prefiggono o, meglio, l'obiettivo che il nostro legislatore si è attraverso queste norme posto.
2. Le linee consolidate e la loro recente conferma
2.1. L'assegno di mantenimento del coniuge in regime di separazione
L'obbligo di assistenza materiale tra coniugi trova il suo essenziale riconoscimento nella disposizione di cui all'art. 143 c.c. e, durante il regime di separazione, nella norma enunciata all'art. 156 seguente, che si pongono fra loro in stretta correlazione.
Tale ultimo articolo al primo comma sancisce che il giudice "pronunciando la separazione, stabilisce a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la separazione il diritto di ricevere dall'altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri" e al comma secondo ulteriormente specifica che "l'entità di tale somministrazione è determinata in relazione alle circostanze e ai redditi dell'obbligato": già dal dettato legislativo emerge, dunque, con tutta evidenza il fatto che la Novella del 1975 ha inteso escludere un'interpretazione che imponga di conservare senz'altro al coniuge economicamente più debole un mantenimento così come iniziato nel matrimonio, e al tempo stesso affermare che anche dopo la separazione personale permangono quei principi di reciprocità e concorso alle esigenze della famiglia che trovano riconoscimento nell'art. 143 c.c.
L'art. 156 attribuisce, quindi, al coniuge che non abbia visto addebitare a sé la responsabilità del fallimento dell'unione matrimoniale e sempre che non sia dotato di redditi propri idonei a fargli mantenere un tenore di vita analogo a quello che aveva nel periodo della convivenza e sussista disparità di reddito rispetto all'altro coniuge, un assegno tendenzialmente idoneo ad assicurargli detto tenore di vita; tuttavia (cfr. Cass. n. 7630 del 14 agosto 1997) occorre tenere presente il fatto che "non sempre la separazione, aumentando le spese fisse dei coniugi, consente il raggiungimento di tale risultato" e sovviene al riguardo il disposto del secondo comma dell'articolo in esame il quale, facendo menzione delle circostanze oltre che dei redditi dell'obbligato, impone la considerazione anche delle "circostanze di ordine economico che possano influire sulla misura dell'assegno, quali l'assegnazione al coniuge beneficiario della casa coniugale e le maggiori spese alle quali possa andare incontro per tale ragione il coniuge onerato, nonché di ogni altro fatto economico, diverso dal reddito dell'onerato, suscettibile d'incidenza sulle condizioni economiche delle parti, come il possesso di beni improduttivi di reddito, ma patrimonialmente rilevanti".
Costituisce, allora, principio ormai consolidato della Corte di legittimità quello secondo il quale l'attribuzione dell'assegno di mantenimento è sottoposta alla duplice condizione che il coniuge istante non sia titolare di redditi propri nella misura in cui gli consentano la conservazione del pregresso consolidato tenore di vita e che, nel contempo, sia riscontrabile una disparità economica tra le parti ( cfr. Cass. n. 3490/98, Cass. n. 7630/97, Cass. n. 5762/97, Cass. n. 5916/96): entrambe le condizioni debbono necessariamente coesistere ai fini del positivo apprezzamento della domanda di assegno quanto all'an debeatur, mentre il successivo momento diretto alla sua concreta quantificazione dovrà vedere l'attenta considerazione tanto dei redditi del preteso onerato quanto delle altre circostanze, così come sopra individuate nella loro plurima natura.
Procedendo, ora, per tratti assolutamente sommari, mi limito qui a segnalare che il tenore di vita da individuare, e a cui fare riferimento ai fini della valutazione di adeguatezza dei redditi propri del coniuge istante, si identifica con quello che le parti abbiano concordemente stabilito come elemento caratterizzante del loro regime di vita in comune (v. Cass. n. 5582 del 4 maggio 2000, dove è stato affermato che, una volta provato il livello socioeconomico assai modesto avuto dalla coppia durante la convivenza, la prova delle condizioni per il riconoscimento dell'assegno non può stimarsi integrata dalla sola dimostrazione di iscrizione alle liste di collocamento ma deve comprendere anche l'inesistenza assoluta di possibilità di lavoro che, pur minime ed occasionali, siano comunque tali da garantire i limitati mezzi idonei a conservare il modestissimo tenore di vita goduto in precedenza).
Della prova di tale tenore è senza dubbio onerato il coniuge istante, ma è significativo rammentare che già Cass. n. 10465 del 26.11.1996 aveva segnalato che il tenore di vita, al quale rapportare il giudizio di adeguatezza dei mezzi a disposizione del soggetto richiedente "è quello offerto dalle potenzialità economiche dei coniugi, non già da quello tollerato o subito o anche concordato con l'adozione di particolari criteri di suddivisione delle spese familiari e di disposizione dei redditi personali residui", mentre la recente Cass. 24/04/2007 n. 9915, dopo avere ribadito che il tenore di vita da considerare "è quello di cui i coniugi avevano goduto durante la convivenza, quale situazione condizionante la qualità e la quantità delle esigenze del richiedente", ha precisato che "a tal fine il giudice non può limitarsi a considerare soltanto il reddito (sia pure molto elevato) emergente dalla documentazione fiscale prodotta, ma deve tenere conto anche degli altri elementi di ordine economico, o comunque apprezzabili in termini economici, diversi dal reddito dell'onerato, suscettibili di incidere sulle condizioni delle parti".
Deve, inoltre, ritenersi che laddove i coniugi abbiano durante la convivenza concordato, o quantomeno accettato, il fatto che uno dei due non prestasse attività lavorativa extra domestica, tale risalente opzione non potrà essere posta nel nulla al sopraggiungere della crisi coniugale e l'efficacia dell'accordo perdurerà anche nel regime di separazione, quest'ultimo essendo - per quanto già osservato - tendenzialmente deputato a garantire la conservazione del pregresso tenore di vita (così, Cass. n. 7437/94, Cass. n. 3291 del 7.03.2001 e più recentemente Cass. 25/08/2006 n. 18547, la quale ben delinea il principio che "non assume rilievo che, prima della separazione, il coniuge richiedente avesse eventualmente accettato, subito o comunque tollerato un tenore di vita più modesto" e quello relativo al fatto che "se prima della separazione i coniugi hanno concordato, o quantomeno accettato, che uno di essi non lavorasse, l'efficacia di tale accordo permane anche dopo la separazione").
Mi pare interessante a tale riguardo rammentare una non più recente pronunzia della Corte di legittimità (Cass. 19 luglio 1999, n. 7672) che ha precisato come, questa volta in tema di assegno divorzile, il criterio di determinazione della relativa entità in funzione del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio debba avere "riferimento al tenore di vita normalmente godibile in base ai redditi percepiti, sì che la preesistenza di detto tenore di vita deve ritenersi dimostrata, in via presuntiva, sulla base della semplice allegazione di tali redditi da parte del coniuge istante per l'assegnazione". Simili affermazioni confermano, da un lato, l'ormai indiscutibile necessità di procedere ad una verifica del tenore di vita goduto dalla coppia nel periodo della convivenza matrimoniale ed attestano, dall'altro, come l'essenziale parametro di riferimento ed il principale strumento di indagine siano da individuarsi nelle emergenze fiscali, attestanti la capacità reddituale dell'istante e del preteso obbligato; ne consegue, peraltro, che l'indagine potrà dirsi compiuta ed esauriente solo ove i dati emergenti dalle dichiarazioni fiscali siano congruenti con il tenore di vita, mentre laddove risulti una qualche saliente discrasia sarà necessario procedere, attraverso tutti gli strumenti processuali contemplati dall'ordinamento, ad una ulteriore ricostruzione in fatto delle caratteristiche proprie di quella pregressa vita familiare.
In via di estrema sintesi può, dunque, affermarsi che:
1 - già ai fini della decisione sull'an debeatur deve risultare accertato in causa il tenore di vita, nell'accezione sin qui illustrata;
2 - il correlato onere probatorio grava sul coniuge istante per il riconoscimento dell'assegno;
3 - il primo elemento probatorio da prendere in considerazione è quello rappresentato dalle dichiarazioni fiscali, il cui valore resta peraltro solo relativo e indicativo;
4 - dovrà il giudice essere posto in condizione di accertare il tenore di vita anche attraverso l'esame delle concorrenti componenti patrimoniali, dotate di valenza economica o comunque suscettibili di monetizzazione;
5 - nel caso di contestazioni, non potrà il giudice respingere la domanda richiamandosi a un mero difetto di prova ma dovrà dare ingresso ad accertamenti per il tramite della Polizia Tributaria (Cass. n. 10344 del 17.05.2005 e Cass. n. 9915/07 citata).
Appare pertanto evidente come l'onere probatorio si sia proprio di recente in parte affievolito, atteso che allorquando la parte non sia riuscita a fornire piena prova né del pregresso tenore di vita né, successivamente ed anche ai fini del quantum debeatur, della capacità complessivamente economica del preteso obbligato, in presenza di contestazioni dotate di una qualche attendibilità e verosimiglianza sarà il giudice "tenuto" a disporre le indagini tributarie in questione, così vedendo di fatto limitato il proprio potere discrezionale (e di ciò è esempio la cit. Cass. n. 9915/07 che ha cassato con rinvio la sentenza della corte capitolina che a tali indagini non aveva proceduto).
Inoltre, è principio ormai altrettanto acquisito quello che vuole la capacità lavorativa del soggetto che invochi l'assegno riscontrata in termini di concretezza ed attualità, non essendo sufficiente ad escludere il diritto rivendicato una capacità meramente astratta ed ipotetica: e valga al riguardo sottolineare che Cass. 29/11/2007 n. 24938, meglio precisando il contenuto di più risalenti pronunce, ha affermato (in una controversia relativa all'assegno divorzile, ma con enunciazioni di principio senza dubbio altrettanto applicabili in tema di assegno ex art. 156 c.c.) che "l'accertamento della capacità lavorativa del richiedente deve essere svolto non in astratto e sulla base di ipotesi, ma seguendo il criterio della effettività e concretezza e tenendo conto di tutti gli elementi soggettivi ed oggettivi in rapporto ad ogni fattore economico-sociale, individuale, ambientale e territoriale" (nella specie, la Corte ha cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva negato il diritto all'assegno desumendo astrattamente la capacità lavorativa del coniuge istante dalle esperienze pregresse, senza considerare l'intervenuto fallimento dell'impresa, l'aumentata età della richiedente e l'alto livello di disoccupazione in Italia).
Non altrettanto univoca è, invece, la posizione della Corte di legittimità su altro profilo che ci si trova spesso ad affrontare nel contenzioso in materia: sembrava, infatti, la Corte orientata (Cass. n. 1691/1987) a ritenere che elargizioni anche non solo saltuarie provenienti dalla famiglia di origine del coniuge più debole non rilevassero ai fini della spettanza dell'assegno di mantenimento, atteso che i principi di solidarietà e di reciproca contribuzione posti dal vincolo matrimoniale, persistenti nel rapporto tra coniugi separati, valgono a sottrarre ciascuno di essi ad ogni dipendenza economica dalla famiglia di origine e, d'altro canto, eventuali aiuti determinati dalla generosità dei parenti o di terzi non possono mai incidere, con valenza esimente, sull'obbligo gravante sul coniuge, ma in seguito (Cass. n. 5916 del 26.06.1996) ha invece affermato che nel valutare il tenore di vita matrimoniale "il giudice dovrà tenere conto di ogni reddito disponibile da parte del richiedente, ivi compresi quelli derivanti da elargizioni da parte di familiari che erano in corso durante il matrimonio e che si protraggano in regime di separazione con carattere di regolarità e continuità tali da influire in maniera stabile e certa sul tenore di vita dell'interessato", il che ci porta a dover concludere nel senso che ogni caso dovrà essere attentamente esaminato, senza linee predefinite e con specifico riguardo all'incidenza prodotta da simili elargizioni sul tenore di vita proprio sia della convivenza che del periodo successivo alla sua cessazione.
Le problematiche che si pongono all'interprete ed all'operatore in tema di assegno divorzile, in larga parte similari a quelle sin qui esaminate, sono per taluni aspetti più complesse.
Non intendo certo qui ripercorrere tutti i passi del faticoso cammino della giurisprudenza di merito e di legittimità relativamente ai problemi interpretativi collegati a tale tipologia di assegno periodico, dal momento che la comune esperienza ha senz'altro a tutti noi concesso di seguire - talvolta persino con qualche apprensione - le oscillazioni che tale cammino hanno caratterizzato; desidero, invece, richiamare la nostra attenzione sul fatto che nell'immediatezza dell'entrata in vigore della Novella del 1987 una prima fase applicativa della nuova disciplina aveva subito portato a ravvisare una netta differenziazione tra la natura delle prestazioni periodiche rispettivamente tipiche del procedimento di separazione e di quello di divorzio, nonché una altrettanto marcata diversità sostanziale tra l'assegno divorzile previsto dalla legge 1° dicembre 1970, n. 898 e quello delineato dalla successiva Novella 6 marzo 1987, n. 74, sul quale dovrà essenzialmente qui essere condotto l'esame. Tale differenziazione pareva giustificata tanto dalla formulazione del nuovo dato normativo quanto dal tenore della già richiamata Relazione Lipari al Senato, che aveva stigmatizzato soluzioni comportanti nell'ambito del divorzio il riconoscimento di rendite puramente parassitarie, ponendo, invece, l'accento sulla necessità di una completa rivisitazione delle posizioni delle parti nel momento del definitivo venir meno del loro vincolo coniugale.
Nei primi tempi di applicazione si è, quindi, assistito ad un proliferare di contrastanti soluzioni: taluni tribunali ritenevano che per il riconoscimento dell'assegno ex art. 5 fosse necessaria la sussistenza in capo al coniuge istante di un vero e proprio stato di bisogno (emendabile solo attraverso una corresponsione periodica da parte dell'altro coniuge ed in sostanza assimilabile a quella totale indigenza che costituisce il presupposto del diritto alimentare, ex artt. 433 e ss. cod. civ.), mentre altre pronunzie tendevano a ratificare più semplicisticamente le pattuizioni o le statuizioni conclusive del procedimento di separazione, quasi che l'onere probatorio, collegato ad una richiesta di modificazione degli anteriori assetti economici, gravasse sulla parte già in precedenza obbligata alla corresponsione a titolo di mantenimento, per ciò solo tenuta a dimostrare l'insorgenza di circostanze di fatto dotate di valenza innovativa e idonee ad escludere la persistenza dell'obbligazione periodica. Simile equivoco approccio alla nuova normativa aveva senz'altro ingenerato perplessità e timori tra coloro che si trovavano interessati ad un giudizio di divorzio o che si apprestavano ad instaurarlo, essendo evidente che l'opzione a favore dell'una o dell'altra impostazione era destinata ad esplicare decisivi effetti anche sul piano dell'istruzione del processo.
Ricordo che i giudici milanesi - sulla premessa di una loro adesione alla linea interpretativa che vedeva la natura affatto omogenea delle prestazioni periodiche in discussione ed altresì convinti del fatto che la nuova disciplina voluta dal legislatore comportasse di necessità una rivisitazione dei criteri attributivi (assistenziale, compensativo e risarcitorio) consolidatisi sotto il vigore dell'antecedente normativa - avevano subito negato, con riguardo dunque all'assegno di divorzio, il fondamento di un'interpretazione pesantemente restrittiva. Le cadenze argomentative principali muovevano dal rilievo che l'attenzione doveva essere rivolta non tanto (o non soltanto) alla titolarità in capo al coniuge istante di redditi personali idonei a soddisfarne le essenziali esigenze di vita secondo criteri generali, quanto alla sussistenza di una consistente sperequazione tra le rispettive posizioni delle parti: per tal modo anche un coniuge in ipotesi dotato di autonomia, in quanto percettore di emolumenti stabili ed assistiti da una presunzione di congruità (si veda il caso di un dipendente pubblico, di un insegnante, di un impiegato di medio livello e così via), ben avrebbe potuto essere riconosciuto titolare dell'assegno ex art. 5, nell'ipotesi in cui l'altro coniuge fosse risultato fornito di potenzialità reddituali e patrimoniali tanto maggiori da realizzare la "sproporzione" di cui si è detto (cfr. Tribunale Milano, 27 gennaio 1988, in Diritto di Famiglia e delle Persone, 1988, p. 1050, dove i giudici ponevano l'accento su tale ultimo concetto di "adeguatezza relativa", in contrapposizione a quello di "adeguatezza assoluta", allo scopo di temperare l'apparente rigore della norma con l'opportuna considerazione delle concrete e peculiari condizioni di vita di ogni singolo nucleo familiare, condizioni di norma garantite dal complesso dei contributi offerti dall'uno e dall'altro coniuge).
La lettura di quelle prime pronunce rende evidente e ben comprensibile la preoccupazione che aveva mosso il tribunale milanese verso la ricerca di un'interpretazione che non comportasse il disconoscimento degli intendimenti del legislatore della Riforma - volti ad escludere la legittimazione di rendite parassitarie e verosimilmente vitalizie - ma che, al tempo stesso, consentisse di procedere ad una disamina della reale situazione di ogni specifica coppia, con riferimento al tempo della convivenza coniugale e in stretta correlazione con quella attuale, ovvero con quella propria del momento della definitiva cessazione del vincolo matrimoniale.
Come spesso accade allorquando ci si appresta ad affrontare i nodi interpretativi di una disposizione normativa di nuovo conio, furono in allora prese in considerazione delle ipotetiche situazioni "limite", onde meglio poter valutare se il dettato legislativo consentisse di approntare efficace tutela anche in detti casi: mi riferisco, a titolo esemplificativo, all'ipotesi di una moglie insegnante che, pur senza dubbio dotata di redditi personali adeguati a garantirle un dignitoso sostentamento secondo parametri generali del contesto socioeconomico del Paese, avesse visto la propria vita matrimoniale contraddistinta da un tenore di vita particolarmente elevato grazie al patrimonio e/o alla capacità reddituale del coniuge, vuoi perché proprietario esclusivo di un cospicuo patrimonio immobiliare, vuoi in quanto titolare di attività imprenditoriali di consolidato successo, vuoi perché percettore di rilevanti redditi da attività libero professionali.
Risultava per tale via evidente che un'interpretazione restrittiva e rigorosa del dato normativo avrebbe di per sé escluso la possibilità per quella moglie - titolare, si ribadisce, di redditi personali adeguati in senso assoluto a soddisfare le sue essenziali esigenze di sostentamento - di ottenere il riconoscimento giudiziale di un assegno divorzile, con l'inevitabile conseguenza che la stessa non sarebbe più stata in grado di conservare un tenore di vita neppure lontanamente paragonabile a quello in precedenza goduto grazie all'essenziale, e senz'altro prevalente, concorso del coniuge; l'iniquità di simile soluzione interpretativa scaturiva anche dalla considerazione che le scelte lavorative e professionali della donna, ovvero del coniuge che le statistiche univocamente indicano come essere ancora alla data attuale nella maggioranza dei casi il coniuge economicamente più debole, sono non di rado condizionate dalla necessità di conciliare l'impegno in ambito extra domestico con le più svariate esigenze della famiglia, quali l'accudimento dei figli, la quotidiana gestione domestica, il compito di favorire e spesso promuovere, con sacrificio personale e talvolta con rinunzia alle personali ambizioni, l'attività dell'altro coniuge sul piano lavorativo e, non ultimo, le relazioni sociali ove a quel lavoro funzionali.
Venne, dunque, sin dai primi mesi di applicazione della nuova norma, favorita quella già accennata interpretazione più concreta ed aderente alla realtà dei singoli nuclei familiari che consentiva di superare il dato, solo apparentemente conclusivo e dirimente, dell'oggettiva adeguatezza dei redditi personali della parte istante per procedere, invece, ad una attenta comparazione tra le rispettive posizioni patrimoniali e reddituali dei due coniugi, allo scopo di verificare se ed in quale misura la cessazione del vincolo potesse incidere sulla conservazione da parte del coniuge istante di quel consolidato tenore di vita che aveva contraddistinto l'intera vita matrimoniale, non di rado protrattasi per lungo lasso di tempo.
La validità di tale orientamento ha trovato una prima conferma con la sentenza Cass. n. 1322 del 17 marzo 1989, secondo la quale, premessa la natura eminentemente assistenziale dell'assegno, doveva aversi riguardo al fatto che il coniuge richiedente non avesse redditi adeguati e cioè "tali da consentirgli di mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio" (con un chiaro parallelismo, dunque, con il criterio guida sancito nell'ambito della separazione personale).
Successivamente originatosi, tuttavia, contrasto anche all'interno della Corte di legittimità, la definitiva soluzione interpretativa è stata offerta dalle Sezioni Unite con la nota pronuncia n. 11492 del 29 novembre 1990, alla stregua della quale si è affermato che l'indagine ai fini della pretesa attribuzione deve essere condotta prima sotto il profilo dell'an e poi sotto quello del quantum debeatur, con la precisazione che il presupposto per la concessione viene ad essere costituito dalla verificata inadeguatezza dei mezzi dell'istante a fargli conservare un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di convivenza; per tale valutazione occorrerà tener conto non solo dei suoi redditi, ma anche dei cespiti patrimoniali e delle altre utilità di cui può disporre, mentre tutti gli altri criteri indicati dalla norma concorreranno solo al fine della quantificazione della prestazione.
La giurisprudenza di legittimità si è mossa negli anni seguenti sulle linee interpretative così individuate, tanto che anche in seguito (cfr. Cass. 6468 del 2.7.1998, Cass. n. 4319 del 29.04.1999, Cass. n. 6660 del 15.05.2001, che bene ha ribadito il principio secondo il quale i criteri costituiti dalle condizioni dei coniugi, dalle ragioni della decisione, dal contributo economico e personale di ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, sono destinati ad operare solo se l'accertamento dell'unico elemento attributivo dell'assegno, ovvero quello dell'inadeguatezza dei mezzi personali, si sia risolto positivamente) sono stati sottolineati tanto il carattere eminentemente assistenziale dell'assegno divorzile quanto la necessità, anche per stabilirne l'ammontare, di individuare il tenore di vita goduto nel corso del matrimonio: e proprio tale mancata individuazione è stata in talune occasioni motivo dell'annullamento della decisione dei giudici di merito, i quali, pur in difetto di detto accertamento preliminare, avevano proceduto al riconoscimento (o al diniego) dell'assegno.
Con la pronuncia n. 5582/2000 è stato, poi, con estrema precisione finalmente enunciato che "il coniuge che afferma il proprio diritto all'assegno divorzile non deve provare la propria inadeguatezza ad un tenore di vita autonomo e dignitoso, bensì la propria inadeguatezza, per cause oggettive, a mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio", così che ne è risultata confermata la linea interpretativa che vedeva una netta distinzione tra i concetti che abbiamo definito come adeguatezza assoluta ed adeguatezza relativa, con riconosciuta significatività solo di quest'ultima.
Nessun dubbio, ritengo, può oggi sussistere sul fatto che l'onere probatorio gravi - con riguardo ad entrambi gli accennati profili - sul coniuge istante, posto che l'inadeguatezza dei mezzi del richiedente integra "fatto costitutivo del diritto all'attribuzione dell'assegno" (cfr. Cass. n. 7269 del 6.08.1997); deve a tal proposito sottolinearsi come affatto condivisibile appaia l'orientamento espresso dalla Suprema Corte nella sentenza n. 2982 del 26 marzo 1994, secondo il quale "il coniuge che richiede l'assegno di cui al sesto comma dell'art. 5 legge 1° dicembre 1970, n. 898, mentre può limitarsi a dedurre di non avere mezzi adeguati, così trasferendo sulla controparte l'onere probatorio della contraria verità, allorché deduce invece l'impossibilità per ragioni obiettive di procurarsi quei mezzi ha l'onere di provare il fondamento di tale situazione", simile enunciazione di principio non risultando invero in seguito ribadita né meglio precisata.
E, del resto, una successiva sentenza (Cass. n. 13068 del 3 ottobre 2000) - nell'affermare che "in tema di assegno divorzile la mancata prova, da parte del ricorrente che ne chieda l'attribuzione, delle condizioni richieste dalla legge non comporta quale conseguenza automatica il rigetto della domanda, in quanto nel nostro ordinamento processuale vige il principio dell'acquisizione, secondo il quale le risultanze istruttorie, comunque ottenute e quale che sia la parte ad iniziativa o per istanza della quale sono formate, concorrono tutte, indistintamenteformazione del convincimento del giudice" - ha dato inizio al percorso di affievolimento dell'onere probatorio che possiamo oggi dire completato con la già ricordata affermazione del principio secondo il quale deve il giudicante dare ingresso ad indagini officiose per il tramite della polizia tributaria se ed in quanto la parte non sia riuscita a fornire piena prova del tenore di vita pregresso e della consistenza complessivamente economica del preteso obbligato, sempre che sui dati documentali acquisiti siano state mosse puntuali, e non solo generiche, contestazioni.
Occorre, a questo punto, precisare subito che l'accertamento della complessiva posizione economica delle parti non presuppone né si esaurisce nell'utilizzo di criteri matematicamente analitici, una volta che sia raggiunta la prova dell'inadeguatezza dei mezzi nell'attualità disponibili a garantire un tenore di vita analogo a quello precedentemente goduto; è fatto di immediata intuizione, peraltro, che, mentre nel corso del giudizio di separazione la prova circa detto tenore di vita risulta di norma agevole (specie attraverso deposizioni testimoniali o produzioni documentali consentite dalla solo recente cessazione della convivenza domestica), ben altre difficoltà incontrerà la parte istante a distanza di uno svariato numero di anni, quando i ricordi dei terzi si sono affievoliti e non è certo semplice allegare in giudizio circostanze specifiche, e verificabili, atte ad illustrare quelle che erano state le abitudini e le caratteristiche di un regime coniugale ormai risalente e da non breve tempo interrotto.
La prova sul punto ben potrà, pertanto, essere stimata sufficiente anche qualora non del tutto stringente e rigorosa (v. la recente Cass. 05/11/2007 n. 23051, che esclude proprio la necessità di una "rigorosa ricostruzione patrimoniale e reddituale") mentre ritengo che il giudice debba sempre far luogo ad un esame comparato delle dichiarazioni fiscali relative anche al tempo della separazione, sì da poter valutare la congruità di tali risultanze in rapporto al tenore di vita pure altrimenti in causa accertato e all'entità delle statuizioni o pattuizioni conclusive di quell'antecedente procedimento (e ciò anche in presenza di una decisione della Suprema Corte, la n. 25010 del 30/11/2007, della quale anche oltre si tratterà, che ha rafforzato l'autonomia dei criteri di attribuzione sottesi all'assegno di divorzio rispetto a quelli che avevano prodotto la regolamentazione economica in occasione della separazione).
Rilevante è, poi, il problema concernente la considerazione degli incrementi patrimoniali eventualmente conseguiti da una o da entrambe le parti nel periodo compreso tra la separazione e la successiva instaurazione del giudizio di divorzio, posto che l'apprezzabile deterioramento della situazione di un coniuge per effetto del venir meno del vincolo - deterioramento legittimante il riconoscimento dell'assegno periodico - deve essere valutato con riferimento al momento della relativa pronuncia: saranno, quindi, suscettibili di apprezzamento gli incrementi reddituali o patrimoniali del coniuge obbligato che costituiscano "naturale e prevedibile sviluppo dell'attività svolta durante il matrimonio" (cfr. in questo senso la già citata Cass. n. 4319/1999), ma non quelli che traggano origine o da eventi eccezionali o, come più frequentemente accade, dall'esercizio di del tutto nuove attività lavorative, affatto ricollegabili a quelle svolte nel periodo della convivenza (e si pensi, a titolo meramente esemplificativo, ad un impiegato che negli anni successivi alla separazione si sia improvvisato, e con notevole successo economico-finanziario, imprenditore in un settore affatto contiguo a quello in cui aveva in precedenza esercitato la sua attività subordinata o che, nelle more conseguito un superiore titolo di studio, abbia intrapreso una ben più remunerativa carriera libero professionale).
Ritengo pienamente condivisibile simile impostazione interpretativa, alla stregua della quale gli eventuali miglioramenti della situazione economica del coniuge nei cui confronti si chieda l'assegno, successivi alla cessazione della convivenza, rilevano unicamente ove costituiscano sviluppi naturali, logici e prevedibili dell'attività svolta durante il matrimonio, in tale ridotta accezione detti miglioramenti economici ricollegandosi a quelle aspettative dell'altro coniuge che paiono meritevoli di tutela.
Anche in seguito l'orientamento in parola ha trovato conferma (cfr. Cass. n. 958 del 28 gennaio 2000 e Cass. n. 1379 dell'8 febbraio 2000), avendo in un caso la Suprema Corte cassato la decisione della corte di merito la quale aveva escluso che si potesse prendere in considerazione, ai fini della chiesta liquidazione dell'assegno divorzile, l'incremento reddituale dell'ex coniuge funzionario di banca, la cui promozione non era dovuta ad automatismi di carriera ma alle sue personali capacità, senza fornire alcuna motivazione in ordine al ritenuto carattere eccezionale ed imprevedibile della progressione di cui si trattava (e, così, ulteriormente ribadendo l'esclusione ai fini in parola solo dei miglioramenti contraddistinti da carattere di eccezionalità, quanto a dire connessi a circostanze ed eventi del tutto occasionali ed imprevedibili).
Sulla stessa linea si è ancora recentemente posta Cass. 22/11/2007 n. 24315, dove la Corte ha qualificato come sviluppi prevedibili gli aumenti di retribuzione economica, conseguiti dall'ex coniuge dopo la cessazione della convivenza, in quanto ricollegabili a corsi di aggiornamento e di qualificazione professionale ai quali costui aveva partecipato prima della rottura del matrimonio, confermando quindi l'esclusione, ai fini qui in discussione, "dei soli miglioramenti connessi a circostanze ed eventi del tutto occasionali ed imprevedibili, non collegati alle aspettative maturate nel corso del matrimonio".
Ma, del resto, già nell'ambito della citata pronuncia n. 958/2000 la Corte non aveva mancato di sottolineare come debba, nella specifica ipotesi di un procedimento inteso alla modifica delle condizioni economiche, escludersi un automatismo tra i miglioramenti reddituali del preteso obbligato e la revisione dell'assegno divorzile: infatti, alla stregua del criterio legislativo della sopravvenienza di giustificati motivi, "in presenza di detti incrementi occorre valutare in quale misura il coniuge richiedente possa essere ritenuto titolare di un affidamento ad un tenore di vita ad esso correlato, alla luce degli elementi indicati in via generale dall'art. 5 della legge n. 898 del 1970, come modificato dall'art. 10 della legge n. 74 del 1987, per la quantificazione dell'assegno".
Diversa è, a mio avviso, l'ipotesi di un coniuge che veda migliorare la propria posizione patrimoniale per ragioni successorie: l'incremento così realizzatosi potrà essere congruamente valutato ai fini qui in esame, atteso che in linea di principio è del tutto casuale che il decesso del suo dante causa sia intervenuto in epoca successiva alla cessazione della convivenza. L'evento era, infatti, di per sé prevedibile (nell'an anche se, ovviamente, non nel quando) e le aspettative ereditarie del preteso obbligato costituivano un quid che sin da allora entrava a far parte, quale componente in fieri, della sua complessiva posizione.
Incontroverso sembra, poi, il principio secondo il quale dei cespiti ereditari pervenuti in costanza di matrimonio al coniuge obbligato debba tenersi conto ai fini del riconoscimento e della concreta liquidazione del richiesto assegno divorzile, e ciò in quanto gli stessi debbono intendersi "concorrenti a determinare il tenore di vita della coppia durante il regime matrimoniale" (cfr. Cass. n. 2662 del 9.3.2000)
E', ancora, da considerare che - come si è visto - simili problematiche vengono in discussione non soltanto nell'ambito del procedimento di divorzio, laddove la domanda di attribuzione dell'assegno ex art. 5 trova la sua elettiva primaria collocazione, ma anche in sede di revisione ex art. 9 delle originarie ed antecedenti condizioni accessorie: può, infatti, dirsi ormai incontroversa in giurisprudenza la tesi secondo la quale la norma citata, nel consentire la modifica di tali condizioni per la sopravvenienza di giustificati motivi, può essere applicata anche all'ipotesi in cui l'assegno divorzile sia stato anteriormente negato oppure non abbia costituito oggetto di richiesta al momento della pronuncia di divorzio, "senza che assuma rilievo la circostanza del decorso di un lungo periodo di tempo tra la sentenza di divorzio e la sopravvenuta richiesta, stante la imprescrittibilità e la irrinunciabilità del diritto all'assegno" (così, Cass. n. 8427 del 25 agosto1998).
In questa ipotesi è, peraltro, certo che per fatti sopravvenuti idonei a consentire la chiesta revisione dovranno intendersi quei mutamenti delle condizioni economiche di uno o di entrambi i coniugi che si rivelino potenzialmente incidenti sui termini della situazione in precedenza delibata ed in grado di alterare l'equilibrio economico accertato, e realizzato, al momento della pronuncia di divorzio.
E' appena il caso di rammentare il dibattito apertosi sul tema della deducibilità nelle forme dell'art. 9 di una pretesa all'assegno periodico sulla quale il giudice del divorzio non aveva avuto modo di statuire, la risposta negativa prendendo spunto ora dalla configurazione lessicale della norma (ovvero dal fatto che si parla di revisione, con la conseguenza che non sarebbe possibile "rivedere, per adeguarle, disposizioni inesistenti"), ora dall'osservazione che proprio il riferimento ai giustificati motivi sopravvenuti verrebbe a postulare l'esistenza di un pregresso giudicato da rimuovere e sarebbe, così, destinato a rimanere del tutto svuotato di contenuto per mancanza della pronuncia che dovrebbe costituire la fonte essenziale del raffronto; simili argomentazioni si sono, come risulta evidente, proposte di differenziare l'ipotesi di diniego dell'assegno divorzile da parte del giudice del divorzio rispetto a quella di omessa pronuncia sul punto per difetto di domanda (così che, nel primo caso, la revisione ex art. 9 sarebbe consentita mentre, nel secondo, non dovrebbe più essere conservata all'istante la possibilità di far valere il proprio diritto in epoca successiva, stante l'avvenuta consumazione della facoltà di proposizione della domanda per non avere la parte medesima osservato l'obbligo di un simultaneus processus), ma senza entrare più approfonditamente nel vivace e perspicuo dibattito originatosi ritengo solo di poter sul punto ribadire l'apprezzamento nei confronti della soluzione adottata dalla Suprema Corte, aderente al preminente criterio della imprescrittibilità del diritto all'assegno ed alla natura dei giudicati in materia, caratterizzati dall'essenziale principio della loro definitività solo rebus sic stantibus.
Mette conto di sottolineare altresì come già in precedenza (cfr. Cass. n. 1031 del 2 febbraio 1998, conforme a Cass. n. 8700 del 24 agosto 1990) fosse stato affermato che, in ragione del fatto che la richiesta di corresponsione dell'assegno periodico di divorzio si configura come domanda connessa ma autonoma rispetto a quella di scioglimento del matrimonio, la parte che nel corso del giudizio divorzile non l'abbia ritualmente avanzata ben può proporla successivamente, "senza che a ciò sia di ostacolo la (ormai intervenuta) pronuncia di scioglimento del vincolo di coniugio, operando il principio secondo cui il giudicato copre il dedotto ed il deducibile con esclusivo riferimento alla domanda fatta valere in concreto, ma non anche relativamente ad una richiesta diversa nel petitum e nella stessa causa petendi (come, appunto, quella di riconoscimento dell'assegno rispetto a quella di divorzio), che la parte ha facoltà di introdurre, o meno, nello stesso giudizio".
Vale la pena di rammentare che tali assunti avevano suggerito di riconoscere, in via generale, la possibilità di introdurre separatamente la domanda di assegno rispetto a quella di divorzio, sì da giungere ad ammettere la relativa proponibilità in ogni tempo e senza necessità di addurre circostanze sopravvenute di valenza modificativa nonché l'ammissibilità, sul piano processuale, di una domanda avanzata con rito ordinario: simili tesi non hanno, invero, registrato alcun successo e, al di là delle suggestioni tratte dalla sopra ricordata pronuncia di legittimità, l'assetto consolidato è quello a favore di un procedimento da instaurarsi a mente dell'art. 9 legge div., con tutte le correlate conseguenze sia sul versante sostanziale che su quello processuale.
Qualche considerazione si rende ora opportuna in merito al problema, invero assai frequente e fonte di accesa conflittualità, dell'incidenza che l'instaurazione di una convivenza more uxorio da parte del coniuge può esplicare ai fini del riconoscimento in suo favore di un assegno periodico ex art. 5 o della valutazione del suo diritto a conservarlo.
Come noto, il tema involge la considerazione di un opportuno contemperamento tra diritti sicuramente riconosciuti, e per ciò compiutamente tutelati, dall'ordinamento ed obbligazioni naturali che, in quanto per converso sfornite di tutela, non sono coercibili ma nondimeno sussistono in fatto e come tali non possono essere disconosciute nella loro effettiva valenza; ciò significa che la convivenza more uxorio non può essere trascurata in ragione delle sue complesse implicazioni anche economiche, se ed in quanto la stessa sia connotata da stabilità e dal comune intendimento dei suoi partecipanti di originare un consortium vitae fondato su vincoli di solidarietà affettiva e materiale (cfr., a recente conferma del consolidato rientamento, Cass. n. 17463 del 10 agosto 2007).
Le prestazioni di assistenza di tipo coniugale da parte di un convivente more uxorio assumono, dunque, rilievo allorquando siano idonee ad escludere, o a ridurre, lo stato di bisogno (da intendersi, peraltro, non nel senso tecnico del termine riconducibile alla previsione di cui agli artt. 433 ss. cod. civ. ma alla stregua dell'interpretazione sistematica e nell'accezione che si è qui in precedenza cercato di delineare) del coniuge separato o divorziato, spiegando i loro effetti in ordine alla esistenza del diritto all'assegno di mantenimento o divorzile ed alla sua concreta quantificazione (così, Cass. n. 3720 del 27 marzo 1993); è, del resto, condizione essenziale di detta valorizzazione il fatto che dal rapporto di convivenza con il terzo il coniuge o l'ex coniuge tragga un beneficio effettivo e non aleatorio sul piano del soddisfacimento delle personali esigenze di vita, così che la soluzione del problema pare potersi rinvenire di volta in volta solo attraverso l'attento esame dei fatti, delle caratteristiche di vita del nuovo nucleo, della sua verificata stabilità nel tempo, delle decisioni via via assunte dalla coppia di conviventi sotto il profilo di una comune progettualità di vita, delle complessive capacità economiche del nucleo medesimo.
Poiché è fuor d'ogni dubbio che la convivenza di fatto non origina alcun obbligo di mantenimento, diviene di conseguenza ed in via preliminare necessario accertare se ed in quale misura il coniuge - titolare di assegno periodico od aspirante ad esso - abbia effettivamente costituito con un terzo una stabile famiglia di fatto, ovvero una convivenza che, come si legge in Cass. n. 3503 dell'11 dicembre 1997 - 4 aprile 1998, preveda da parte del convivente la prestazione di un'assistenza di tipo coniugale e sia caratterizzata da inequivocità, serenità e stabilità, con l'ulteriore precisazione che "il quid pluris che conferisce carattere di affidabilità e stabilità alla famiglia di fatto è la sussistenza di un rapporto di coppia fondato non su investiture esterne bensì su un consenso che si rinnova continuamente e rappresenta il fondamento ed il limite del rapporto stesso".
Risulta, dunque, consequenziale l'osservazione che sarà sempre il giudice di merito a dover accertare se il rapporto interpersonale in discussione possa essere ascritto al paradigma delle convivenze more uxorio suscettibili di considerazione ed a verificare, quindi, se il nuovo sodalizio di coppia garantisca al coniuge o all'ex coniuge elargizioni continuative e non aleatorie, tali da incidere sulla sua complessiva posizione economica e da farlo ritenere fornito di mezzi adeguati comunque funzionali al suo sostentamento, ancorché in tutto o in parte provenienti da terzi.
Ciò premesso, mi pare anzitutto rilevante affermare che l'onere probatorio relativo grava sulla parte già obbligata alla corresponsione periodica o nei cui confronti la domanda venga svolta, vuoi perché al coniuge preteso convivente con altri non può essere chiesto di offrire una inammissibile prova negativa, vuoi in quanto l'esistenza della relazione more uxorio assume sul piano processuale fisionomia di eccezione, sebbene in senso non strettamente tecnico: sarà, quindi, l'obbligato, effettivo o potenziale, a dover fornire in giudizio la prova tanto della sussistenza di un rapporto more uxorio instaurato dal coniuge istante, quanto della somministrazione a favore di quest'ultimo, da parte del convivente, di erogazioni integranti una adeguata assistenza anche sul piano economico.
A tale ultima affermazione potrebbe obiettarsi che l'onere probatorio così delineato verrebbe di per sé a tradursi nella richiesta di provare ciò che in realtà è impossibile provare (quali strumenti istruttori potrebbe avere a disposizione l'obbligato per dimostrare con sufficiente univocità la sussistenza e, soprattutto, l'entità delle erogazioni liberali effettuate dal terzo al proprio coniuge?), ma sul punto può subito osservarsi che molteplici possono essere gli indizi, facilmente acquisibili grazie agli ordinari mezzi istruttori documentali e se del caso orali, a conforto di una piena autonomia del nuovo nucleo: si pensi, ad esempio, alla prova concernente il tenore di vita di quella famiglia di fatto, all'eventuale scelta dell'ex coniuge di non svolgere attività lavorativa per dedicarsi alle sole cure domestiche, alla presenza di prole naturale, all'entità di eventuali acquisti operati in comune, all'ammontare dei redditi ed alla consistenza del patrimonio del convivente, e così via (si veda sul punto Cass. 10/11/2006 n. 24056, nella parte in cui afferma che "la dimostrazione..delle condizioni economiche dell'avente diritto può essere data dall'onerato con ogni mezzo di prova, anche presuntiva, soprattutto con riferimento ai redditi e al tenore di vita della persona con la quale la parte conviva").
E' certo, peraltro, che l'esercizio del potere discrezionale da parte del giudicante deve in simili situazioni essere improntato a particolare attenzione e prudenza, specie perché deve essere evitato il rischio di avvalorare quelle posizioni di pura rendita e, per così dire, parassitarie che proprio il legislatore del 1987 ha inteso in linea di principio disconoscere e ritenere affatto meritevoli di tutela; non ci si può, poi, esimere dal considerare che talvolta proprio il timore di perdere benefici economici può indurre chi sia già titolare di un assegno divorzile a non regolarizzare (quando pure ne abbia la possibilità legale) la propria situazione con il nuovo partner, sicché deve a mio avviso il giudicante operare nella direzione di evitare il pericolo che considerazioni d'ordine patrimoniale finiscano con l'interferire con ben più consistenti ed apprezzabili progetti di vita personale: non si tratta, qui, di sostenere un forse anacronistico favor matrimonii, bensì di solo richiamare l'attenzione sulle implicazioni che, anche sul piano etico e sociale, possono conseguire ad una scelta interpretativa piuttosto che ad un'altra.
Ciò significa, in via di estrema sintesi, che laddove ci si trovi in presenza di una convivenza more uxorio dalle precise connotazioni in precedenza richiamate, la valutazione in ordine all'esistenza di elargizioni stabili e continuative può essere condotta anche attraverso elementi di prova non particolarmente rigorosi, autorizzandosi l'utilizzo di indizi già sufficientemente concludenti ed il ricorso a presunzioni semplici, secondo l'id quod plerumque accidit.
Per quanto, poi, attiene al parametro di raffronto rappresentato dal tenore di vita goduto dal coniuge in costanza di convivenza matrimoniale, mi pare corretto osservare che in presenza di un accertato rapporto di convivenza more uxorio - per sua natura fondato sul quotidiano rinnovarsi del consenso - l'eventuale scelta di un partner dotato di risorse reddituali e/o patrimoniali inferiori a quelle del coniuge (obbligato alla corresponsione periodica o preteso tale) non possa di per sé implicare l'attribuzione o la permanenza dell'assegno: con ciò si vuole sostenere che la libertà individuale non può soffrire limitazioni, di guisa che se il titolare dell'assegno di mantenimento o divorzile ha inteso dare origine ad un nuovo sodalizio di coppia, e questo è sotto ogni profilo assimilabile ad un rapporto di tipo coniugale, dovrà egli assumersi la responsabilità delle proprie determinazioni anche sul piano delle conseguenze economiche e, così, non potrà più fondatamente pretendere che sia l'altro coniuge o ex coniuge a garantirgli la conservazione di un tenore di vita che, pur equamente rapportato al regime caratterizzante l'ormai cessata convivenza matrimoniale, non risulti più consono ed aderente alle connotazioni proprie del nuovo nucleo.
La conferma di una simile opzione interpretativa è giunta anche dalla Suprema Corte che, con la sentenza n. 11975 dell'08/08/2003, ha affermato che, in presenza di una convivenza more uxorio che si caratterizzi per i connotati di stabilità, continuità e regolarità tanto da assurgere a una vera e propria famiglia di fatto, viene ad essere recisa "finchè duri tale convivenza (e ferma rimanendo in questo caso la perdurante rilevanza del solo eventuale stato di bisogno in sé ove non compensato all'interno della convivenza), ogni plausibile connessione con il tenore e con il modello di vita economici caratterizzanti la pregressa fase di convivenza coniugale ed escludendo - con ciò stesso - ogni presupposto per il riconoscimento, in concreto, dell'assegno divorzile fondato sulla conservazione degli stessi".
3. I più recenti movimenti giurisprudenziali di legittimità
Abbiamo già a grandi linee visto in precedenza attraverso quali pronunce la Suprema Corte abbia via via formato e consolidato il proprio orientamento e possiamo dire di dover trarre il finale convincimento che alla data attuale l'assegno di mantenimento e quello di natura divorzile non possono dirsi fra loro così difformi come a una prima lettura delle norme sarebbe stato possibile pensare e come, in realtà, molti commentatori hanno via via motivatamente sostenuto.
In entrambi i casi l'elettivo parametro di riferimento rimane, infatti, quello del tenore di vita goduto dalla coppia in costanza di convivenza, così come in relazione ad ambedue le tipologie di assegno deve aversi riguardo alla adeguatezza o meno dei redditi della parte istante a garantire la conservazione di tale pregresso abituale assetto di vita, così che anche sul piano dell'attività istruttoria funzionale alle relative decisioni non saranno riscontrabili salienti differenze né diversificate impostazioni metodologiche.
La stessa dottrina (v. Scia, in La nuova giurisprudenza civile commentata, 2007, 5, 1, p. 556 e ss., a commento di Cass. n. 18367 del 23 agosto 2006) ha, del resto, recentemente osservato che la giurisprudenza della Corte di legittimità, sempre più orientata verso la valorizzazione della natura eminentemente assistenziale dell'assegno di divorzio, ha compiuto una sostanziale omologazione dei due tipi di assegni, con una tendenza ad omogeneizzare le conseguenze patrimoniali del divorzio e della separazione che non tiene conto della linea di confine che il legislatore (anche, e soprattutto, quello della Novella del 1987) aveva mostrato di voler porre tra i due istituti, così che a ragione può oggi dirsi che alla solidarietà coniugale (senza dubbio sussistente nel regime di separazione, laddove l'obbligo di mantenimento rappresenta ancora espressione dell'obbligo di assistenza, siccome funzionale a consentire a ciascun coniuge di condividere, pur dopo la cessazione della convivenza, la medesima condizione sociale dell'altro) è venuta ad equipararsi la solidarietà post coniugale, la quale avrebbe dovuto essere invece connotata da un ambito più ridotto e fors'anche residuale.
E, infatti, non è mancato chi ha finanche rilevato che un'illimitata estensione di siffatta solidarietà finisce con il disincentivare il coniuge "debole" rispetto all'apprezzabile suo cammino verso l'acquisizione di una reale autonomia e la ricostituzione di un regime di vita dignitoso ma fondato sulle proprie personali risorse, il che sarebbe in ultima analisi produttivo di quel fenomeno di "rendite parassitarie" che il legislatore del 1987 aveva proprio stigmatizzato e a chiare lettere si era proposto di evitare.
Che si condividano o meno simili severi rilievi critici, è comunque un dato di base incontestato quello dell'ormai consolidato orientamento giurisprudenziale nel senso indicato; anzi, a maggior riprova, può rammentarsi come Cass. n. 10344 del 17 maggio 2005 non abbia avuto esitazione alcuna a sottolineare "l'identità di ratio, riconducibile alla funzione eminentemente assistenziale" dell'assegno di mantenimento rispetto a quello divorzile, ponendosi sulla stessa linea di Cass. n. 10465 del 26 novembre 1996 che già aveva richiamato "l'identità del riferimento all'adeguatezza dei mezzi, posto dagli artt. 156, primo comma, c.c. e 5, sesto comma, legge n. 898 del 1970", così restando confermato che per entrambi tali assegni "vige il principio secondo il quale il tenore di vita goduto durante il matrimonio.è quello al quale deve essere rapportato il giudizio di adeguatezza dei mezzi a disposizione del soggetto richiedente".
Si è, inoltre, per lungo tempo pensato che due degli elementi maggiormente caratterizzanti il giudizio di congruità dell'assegno divorzile fossero 1) la durata del matrimonio, 2) il contributo dato dal coniuge alla formazione del patrimonio comune o di quello dell'altro coniuge: entrambi questi aspetti sembrava non potessero, per converso, venire in considerazione nell'ambito del giudizio di separazione, sia per ragioni connesse alla formulazione delle rispettive norme di elettivo riferimento sia perché con la separazione il vincolo coniugale non viene meno e si riteneva - con certa ragionevolezza - che l'applicazione di simili criteri volti alla miglior quantificazione delle prestazioni periodiche dovesse essere riservata al momento della definitiva cessazione del vincolo (cui, del resto, fa seguito il non irrilevante aspetto della perdita dei diritti successori).
Tali impostazioni sembrano oggi vacillare e dover essere messe in seria discussione, dal momento che la recente Cass. 07/12/2007 n. 25618 (riprendendo un principio enunciato in Cass. n. 20838/04) ha affermato come, ai fini della quantificazione dell'assegno ex art. 156 c.c., debba anche tenersi conto "della durata del matrimonio e del contributo apportato dalla donna alla formazione del patrimonio del coniuge, elementi che integrano parametri utilizzabili in occasione della quantificazione dell'assegno di mantenimento in caso di separazione personale". Ed, allora, possiamo a ragione pensare che sia venuto meno un altro degli elementi che caratterizzavano e fra loro differenziavano le due tipologie di assegno, attraverso quello che può dirsi un "travaso" dei criteri di riferimento dall'uno all'altro con piena reciprocità e con il risultato ultimo, cui già si è fatto cenno, di una sostanziale omogeneizzazione dei due istituti.
Ciò nonostante, è ancora una volta una recente pronuncia (Cass. 30/11/2007 n. 25010) ad affermare che "la determinazione dell'assegno di divorzio..è indipendente dalle statuizioni patrimoniali operanti, per accordo tra le parti o in virtù di decisione giudiziale, in vigenza di separazione dei coniugi..data la diversità delle discipline sostanziali, della natura, struttura e finalità dei relativi trattamenti..con l'effetto che l'assetto economico relativo alla separazione può rappresentare mero indice di riferimento nella misura in cui appaia idoneo a fornire utili elementi di valutazione".
Non ci si può, allora, esimere dal rilevare come (tenuto anche conto del ben ristretto lasso di tempo intercorrente tra le due richiamate sentenze) la Suprema Corte possa apparire a dir poco ondivaga: da un lato rimarca, infatti, la strutturale differenza esistente tra l'assegno di mantenimento e quello divorzile, dall'altro estende alla prestazione di mantenimento criteri che il legislatore ha dettato solo per l'assegno di divorzio.
Se, però, vogliamo tentare una lettura ragionata e coordinata di queste due pronunce tesa a superarne l'apparente contraddittorietà, possiamo forse affermare che la Corte di legittimità ha respinto (come già fatto in Cass. n. 22500 del 19 ottobre 2006) un'impostazione metodologica sbrigativa che tendeva ad appiattire il giudizio relativo al riconoscimento dell'assegno di divorzio sulla regolamentazione propria del procedimento di separazione, imponendo quindi al giudice di merito di operare una disamina nuova ed autonoma della situazione delle parti alla luce dei criteri tutti dettati dall'art. 5 legge div., con la limitazione che l'assetto economico della separazione può solo integrare un sussidiario utile riferimento, nel merito tuttavia proseguendo - al di là di sterili precisazioni - nel suo percorso di omologazione tra loro dei due tipi di assegno quanto all'eminente funzione assistenziale che li accomuna.
Mi pare interessante segnalare una recentissima decisione (Cass. 14/01/2008 n. 593) che a tale riguardo ha enunciato due ben precisi principi: 1) dopo avere ribadito che l'accertamento del diritto all'assegno divorzile si articola in due fasi, la prima volta ad accertare l'an attraverso il riscontro dell'adeguatezza dei mezzi e il suo raffronto con il tenore di vita fruito in costanza di convivenza, la seconda deputata alla determinazione in concreto del quantum dell'assegno, ha affermato che -pur escludendosi la necessità che il giudice dia giustificazione della propria decisione alla luce di tutti i parametri di riferimento indicati dall'art. 5- non può questi sottrarsi alla valutazione di detti criteri in rapporto alla quantificazione dell'assegno ove siano puntualmente dedotti e richiamati dalle parti, 2) è stato quindi precisato che una simile omissione si registra anche quando il giudice abbia trascurato di considerare "il criterio basato sul contributo offerto alla conduzione familiare attraverso il lavoro casalingo e la cura diretta della prole", per tale via imponendo una significativa valorizzazione della componente contributiva rappresentata dal lavoro domestico.
Ma vediamo che cosa è ancora di recente accaduto.
Sono dell'opinione che nell'ultimo anno, grazie a plurimi e articolati interventi della Corte di legittimità, si sia anzitutto rafforzata la tutela del credito relativo agli assegni qui in discussione, dal momento che è stato precisato che:
1 - l'assegno di mantenimento in favore del coniuge separato integra un credito pecuniario e, quindi, a norma dell'art. 1282 c.c. produce interessi corrispettivi ope legis dal momento in cui sia liquido ed esigibile: ne consegue che, quando l'assegno medesimo venga fissato in importi differenziati per il periodo intercorrente dalla domanda alla decisione, su ciascuna rata, a partire dalla relativa scadenza, devono essere riconosciuti i suddetti interessi, anche quando la decisione medesima non ne contenga un'espressa attribuzione (Cass. 14/02/2007 n. 3336);
2 - nell'ipotesi in cui l'assegno, sia per il coniuge che per i figli, sia quantificato in sentenza in misura maggiore rispetto a quella fissata in via provvisoria dal presidente (o dal giudice istruttore) in ragione della svalutazione monetaria intervenuta nelle more, la decorrenza di tale maggiore misura non può farsi coincidere con la data della decisione senza alcun conguaglio per il periodo intermedio, dovendosi invece riconoscere l'adeguamento secondo scaglioni progressivi, rapportati ad un anno o al diverso periodo di tempo ritenuto opportuno, fino a raggiungere, a partire dalla decisione, la quantità aggiornata al valore della moneta all'epoca corrente (cfr. Cass. n. 3336/07 citata);
3 - in tema di separazione, l'art. 156, sesto comma, c.c. postula una valutazione di opportunità che prescinde da qualsiasi comparazione tra le ragioni poste a fondamento della richiesta avanzata e quelle addotte a giustificazione del ritardo nell'adempimento, implicando esclusivamente un apprezzamento in ordine all'idoneità del comportamento dell'obbligato a suscitare dubbi circa l'esattezza e la regolarità del futuro adempimento, e quindi a frustrare le finalità proprie dell'assegno di mantenimento (cfr.: Cass. 06/11/2006 n. 23668);
4 - il limite della impignorabilità della retribuzione oltre il quinto non opera con riferimento all'esecuzione promossa dal creditore per contributo al mantenimento (della prole), avendo questo funzione alimentare (cfr.: Cass. 10/07/2007 n. 15374).
Appare, in sintesi, evidente l'orientamento volto a sempre più garantire l'effettività del credito per prestazioni di mantenimento, sia sotto il profilo della produzione di interessi corrispettivi sia sotto quello della tutela di fronte all'inadempimento; e proprio a tale secondo riguardo sono oltremodo rilevanti la "caduta" del discusso limite del quinto per il pignoramento (che si ripercuote sull'operatività dell'ordine di corresponsione diretta ex art. 156 comma 6° c.c. per l'intero assegno di mantenimento, potendo questo giungere ad assorbire anche l'intera retribuzione, alla sola condizione che quest'ultima rappresenti solo "una parte" del reddito dell'obbligato) e la non necessità di un pregresso inadempimento (che di norma si richiedeva fosse provato o attraverso un'esplicita ammissione o per il tramite della notifica di un precetto per ratei scaduti e non corrisposti) ai fini dell'ordine al terzo, essendo oggi sufficiente una ragionevole previsione di mancata ottemperanza, anche sotto il profilo del mero ritardo, il che pare persino spostare la natura della misura da coercitiva a cautelare.
Brevissimi cenni si rendono, infine, opportuni con riguardo a una questione che costituisce ancora oggi spunto di dibattito e che si pone a margine degli argomenti sino a questo momento trattati, ovvero quella che attiene alla ripetibilità o meno degli assegni versati a titolo di mantenimento o ex art. 5 legge n. 898/1970 e successive modificazioni.
Mi riferisco, per l'esattezza, al problema che si pone allorquando in sede presidenziale o, comunque, nella fase istruttoria ed anteriormente alla decisione definitiva sia stato determinato un assegno periodico in misura superiore a quella infine statuita con la successiva pronuncia di merito, oppure sia stato in via urgente e interinale riconosciuto un assegno in seguito negato per ravvisata carenza dei necessari suoi presupposti.
L'orientamento della Suprema Corte pare al riguardo ormai consolidato nel ritenere l'irripetibilità delle somme in eccedenza versate per i titoli anzidetti, e ciò in quanto "l'assegno provvisorio...è ontologicamente destinato ad assicurare al beneficiario i mezzi adeguati al suo sostentamento, secondo le quotidiane esigenze di vita", con la conseguenza che "la riduzione giudiziale dell'assegno di mantenimento dovuto dal coniuge separato disposta per il peggioramento delle condizioni economiche dell'obbligato ha efficacia dal momento in cui diviene efficace la sentenza, e non da quello della domanda, dovendo ritenersi che gli assegni corrisposti nel corso del processo siano serviti alle esigenze di vita del creditore, che non era tenuto ad accantonarne una parte in previsione dell'eventuale riduzione" (così, Cass. n. 5384 del 5 giugno 1990, conforme alle precedenti Cass. n. 2411/80, Cass. n. 2791/76 e, persino, Cass. n. 1152/56).
Tale orientamento risulta ribadito dalla Corte nella pronuncia n. 8977 del 25 agosto 1993, dove - ancora una volta precisato che il beneficiario non può essere tenuto alla restituzione delle maggior somme percepite a titolo di assegno in quanto ciò lo costringerebbe ad accantonare una parte imprecisata dello stesso, per effetto della sola proposizione della domanda di riduzione - a sostegno di simile indirizzo vengono richiamate ben tre ragioni di diritto, ovvero a) la natura dell'assegno provvisorio, che tiene luogo del mantenimento, sicché deve ritenersi che la sua corresponsione sia servita alle esigenze di vita del beneficiario, b) la natura cautelare dell'assegno provvisorio, volto ad assicurare al beneficiario i necessari mezzi di sostentamento fino a quando non intervenga una nuova diversa determinazione dello stesso, c) il disposto di cui all'art. 189 disp. att. c.p.c., dal quale si evince implicitamente che l'assegno può essere modificato solo da un nuovo provvedimento di carattere sostanziale e definitivo.
Il medesimo principio risulta più recentemente affermato in Cass. 23 aprile 1998, n. 4198, Cass. 5 ottobre 1999, n. 11029, Cass. 9 settembre 2002, n. 13060, Cass. 25 giugno 2004, n. 11863, e non risulta che nell'ultimo periodo la Corte di legittimità abbia mutato orientamento al riguardo. Anzi, proprio la citata sentenza n. 11863/04 ha ancor meglio precisato che nell'ipotesi di riduzione o di revoca dell'assegno con sentenza passata in giudicato non sussiste il diritto dell'obbligato a ripetere le somme versate, con l'importante precisazione che non sarà però riconoscibile il diritto del titolare dell'assegno ad agire in executivis per il pagamento delle somme non versate allorchè i relativi provvedimenti erano efficaci: ciò in quanto l'esclusione o la diminuzione dell'assegno per effetto del giudicato determina sì l'irripetibilità delle somme già versate ma non comporta l'ultrattività del provvedimento temporaneo, sì da legittimare l'esecuzione coattiva per la parte di assegno non pagato posto che il titolo che assisteva il credito è divenuto insussistente.
E', allora, di immediata intuizione l'entità dei problemi che si pongono nella fase applicativa di tale principio, del quale in verità non possono essere contestati il rigore logico e la correttezza sul piano interpretativo delle disposizioni vigenti; si pensi, tuttavia, ai casi in cui ad un assegno particolarmente elevato fissato in sede presidenziale venga sostituito solo con la decisione di merito in primo grado un assegno di assai minor ammontare, e ciò non perché la rispettiva situazione dei coniugi abbia nelle more del giudizio registrato una qualche saliente modificazione (il che giustificherebbe la decorrenza dell'innovativo ridotto ammontare ex nunc) ma perché, ad esempio, solo le prove acquisite proprio grazie all'espletamento della fase istruttoria abbiano consentito di avere contezza di una già risalente posizione reddituale di entrambi, od anche di uno solo, che si pone in contrasto con l'originaria determinazione della prestazione periodica.
Potrebbe, poi, persino risultare che a favore della parte beneficiaria dell'assegno non siano mai esistite le condizioni per il riconoscimento di qualsivoglia corresponsione da porsi a carico dell'altra, di guisa che in sede di decisione finale il collegio dovrebbe necessariamente procedere al rigetto della domanda al riguardo svolta, dopo che per lungo tempo (non di rado anni) l'obbligato in via provvisoria, adempiente, ha sostenuto esborsi periodici rilevanti; facendo rigorosa applicazione del principio di irripetibilità dianzi richiamato non vi sarebbe spazio alcuno per consentire a colui che obbligato più non è - e persino non avrebbe mai dovuto essere - di chiedere ed ottenere la restituzione delle somme versate in esecuzione di un titolo poi venuto meno.
La situazione risulta ancora più allarmante allorquando solo nell'ambito del giudizio di appello si sia potuta accertare l'insussistenza dei requisiti per un assegno di mantenimento già, per converso, statuito in via provvisoria nel corso dell'udienza ex art. 708 c.p.c. ed anche riconosciuto in sentenza dal primo giudice, dal momento che l'inevitabile trascorrere del tempo ha in tale caso sicuramente portato l'eventuale credito a titolo di restituzione ad importi alquanto ingenti; a ciò ancora si aggiunga l'osservazione che talvolta gli assegni periodici non vengono in effetti corrisposti con regolarità, di guisa che insorgono complesse procedure esecutive ed, allora, non ci si può non chiedere quale debba essere l'esito di tali procedure nel momento in cui il titolo che sino a quel momento le ha sorrette venga meno per effetto di pronuncia successiva.
Ho sempre pensato che in questa ipotesi la caducazione del titolo travolgesse tutto il procedimento esecutivo rendendolo improcedibile (e questa sembra, infatti, la soluzione sino ad oggi prospettatadalla suprema Corte, come sopra osservato), ma non ci si può nascondere che una simile soluzione viene a creare in fatto una inaccettabile disparità di trattamento tra colui che, condannato in via provvisoria alla prestazione di mantenimento in favore dell'altro coniuge, si sia sottratto all'adempimento (così da potersi poi avvalere a pieno della pronuncia definitiva a suo favore) e colui che, nel senz'altro doveroso rispetto dei provvedimenti in vigore, abbia con regolarità provveduto al versamento dell'assegno periodico (con l'effetto di vedersi, pur vittorioso, opporre la non ripetibilità delle somme versate perché, in ogni caso, il percettore non era tenuto ad accantonarle in previsione di un sempre possibile esito negativo del giudizio).
Non sono in grado di suggerire in questa sede una qualche ragionevole soluzione del problema o di perorare una interpretazione del principio enunciato dalla Corte che, con un minimo di ragionevolezza e sistematicità, consenta di aderire allo stesso e, nel contempo, garantire una qualche tutela a favore di colui che sia stato, in buona sostanza, nel corso di un non breve giudizio ingiustamente tenuto a corrispondere importi anche rilevanti (e qui mi ritorna alla mente un caso in cui la controversa pretesa creditoria aveva finito con l'avere riguardo a diverse centinaia di milioni di vecchie lire, con parte delle somme versate e parte oggetto di una procedura espropriativa ancora in corso), ma mi preme solo sottolineare l'importanza della questione e richiamare l'attenzione sull'entità della responsabilità che a tale proposito finisce con il gravare sul giudicante, al quale viene richiesto di essere sempre in grado di esaminare compiutamente la situazione reddituale e patrimoniale delle parti, così da poter evitare il rischio di adottare statuizioni provvisorie destinate a porsi in grave contrasto con la decisione definitiva.
Nel persistente rigore di simile impostazione un timido spiraglio sembra, però, essersi aperto con una più recente pronuncia della Suprema Corte (cfr.: Cass. 12/04/2006 n. 8512) che, dopo avere ribadito che il provvedimento presidenziale ha carattere cautelare, in quanto tendente ad assicurare i mezzi adeguati di sostentamento al beneficiario sino all'eventuale esclusione del diritto, e così riaffermato il principio dell'irripetibilità delle (anche solo maggiori) somme a detto titolo versate, ha fatto salvi i casi in cui vengano dimostrati gli estremi dell'eventuale responsabilità processuale aggravata, ex art. 96 c.p.c., per avere il coniuge stesso "agito in giudizio con mala fede o colpa grave", ai sensi del primo comma, ovvero "eseguito il provvedimento cautelare..senza la normale prudenza", ai sensi del secondo comma.
Una simile nuova prospettazione apre il varco all'esercizio di un maggiore potere discrezionale da parte del giudicante, il quale potrà essere chiamato a valutare la mala fede o la colpa grave del coniuge titolare dell'assegno, sì che non mi sembra azzardato pensare che tale condizione ben potrebbe integrarsi laddove quest'ultimo abbia, ad esempio, taciuto il reperimento di attività lavorativa adeguatamente remunerata e tale da far venir meno, o alterare in misura significativa, la sperequazione reddituale con l'altro coniuge posta a fondamento dell'attribuzione, o della quantificazione, dell'assegno di mantenimento a suo favore.
4. Gli sforzi della giurisprudenza di merito
Una delle più frequenti doglianze espresse sia dagli utenti che dagli operatori del diritto è stata quella inerente alla mancanza di criteri precostituiti funzionali alla determinazione in concreto degli assegni periodici, sia di quelli di mantenimento o divorzili sia di quelli a favore della prole; molte sono sempre state le censure espresse nei confronti di un sistema che riconosce al giudice una tale ampiezza di discrezionalità che, ove non ben governata, finisce con lo sconfinare nell'inaccettabile arbitrio, e della sostanziale fondatezza di tali critiche si è avuto pieno riscontro ogniqualvolta sono state effettuate indagini a fini statistici nel tentativo di accertare se, di fronte a situazioni di fatto molto simili tra di loro se non persino sovrapponibili, la risposta dei giudicanti fosse più o meno omogenea.
Il risultato è stato significativo e certo non confortante, tanto che si è avuto un sempre più convinto richiamo agli ordinamenti stranieri (penso a quello tedesco e a quello elvetico) che hanno da tempo adottato un sistema per così dire tabellare, con la predeterminazione della quota di spettanza del coniuge, e/o dei figli, sulla base di una aritmetica suddivisione del reddito prodotto dal soggetto più forte economicamente o di quello risultante dalla sommatoria dei redditi propri di ciascuno dei coniugi.
Molto si è discusso anche in Italia sulla fattibilità di una scelta analoga, vuoi per porre rimedio all'eccessiva discrezionalità del singolo giudice o del singolo tribunale, e così creare una maggiore omogeneità sul territorio nazionale, vuoi per consentire a chi si accosti alla separazione di poter fare delle ragionevoli previsioni circa la propria futura situazione economica, sia questi il presunto obbligato alla corresponsione o sia il relativo percettore, atteso che per entrambe le posizioni soggettive è chiara l'incidenza che questo aspetto assume nell'ottica della vita futura e dell'equo reciproco soddisfacimento delle più essenziali esigenze.
Nell'ambito di plurimi corsi di formazione i giudici hanno tentato di individuare se non proprio delle tabelle almeno dei criteri di massima che potessero fungere da strumento di omogeneizzazione del loro operato: ricordo, a titolo di esempio, che da taluni è stato coniato, e varie volte applicato, un sistema che - nel caso emblematico di una famiglia monoreddito composta dai due genitori e da diversi figli - suggeriva la suddivisione del reddito mensile del capofamiglia per il numero dei componenti + 1, così da conservare al lavoratore una porzione doppia rispetto a quella degli altri componenti, mentre nel caso di due coniugi entrambi lavoratori e titolari di redditi uguali o similari, esclusa la sussistenza dei presupposti per l'assegno ex art. 156 c.c., si ipotizzava la quota da detrarre da ciascun reddito per essere destinata alle esigenze dei figli per poi diminuire percentualmente quella del genitore affidatario in considerazione dell'apporto dal medesimo offerto attraverso la cura diretta e l'assunzione delle incombenze domestiche.
Tutti i tentativi si sono, però, scontrati con le molteplici variabili che connotano ogni nucleo familiare e con l'irrisolto tema dell'evasione fiscale, dal momento che di fronte a redditi da lavoro subordinato è agevole tentare la strada di tabelle preconfezionate ma, purtroppo, in presenza di redditi non emergenti qualsiasi tentativo di concreta obiettività è irrimediabilmente destinato a fallire.
E' stato, allora e sempre in occasione di incontri di formazione, suggerito di percorrere la strada della maggiore conoscenza possibile del tenore di vita della famiglia durante il periodo della convivenza, attraverso l'imposizione alle parti di fornire dati oggettivi e quantitativi utili a consentire un accertamento "induttivo" della capacità economica familiare proprio attraverso l'entità delle spese effettuate: in questa ottica molte dovevano essere le notizie da fornire (ben oltre quelle relative al tipo di lavoro svolto, alle partecipazioni societarie, ai titoli e ai depositi bancari, alle operazioni bancarie, anche tramite carta di credito, effettuate in un determinato lasso di tempo antecedente alla presentazione del ricorso introduttivo di separazione), giungendo a comprendere i viaggi, le spese per i ristoranti, per gli svaghi e gli sports, le collaborazioni domestiche fruite, le spese condominiali e quelle per le utenze, i mutui, i finanziamenti e quant'altro comporti pagamenti rateali etc.
Acquisite tali notizie, lo sforzo andava diretto alla predisposizione di un "prospetto della disponibilità economica complessiva" nell'attualità, di un "prospetto della disponibilità economica complessiva per varie annualità" precedenti, di un "prospetto costi annuali" comprendente il maggior numero possibile di voci di spesa, di un "prospetto riassuntivo disponibilità e costi", sì da consentire di individuare la corrispondenza tra entrate ed uscite, valutare l'incidenza dell'inevitabile aumento dei costi per la costituzione di due nuclei separati e, in sintesi, determinare l'entità del contributo (eventualmente) dovuto da un coniuge all'altro, sia a titolo personale sia a titolo di concorso al mantenimento della prole a questi affidata o con questi convivente.
Come ovvio, questo metodo presenta profili di maggiore certezza ed obiettività rispetto a quello che integralmente rimette alla valutazione del giudicante sia l'an che il quantum debeatur ma non vale di per sé ad escludere la prevalente incidenza della discrezionalità; si potrebbe però dire che un simile sistema è funzionale a consentire un migliore e più accorto esercizio di tale discrezionalità, perché si focalizza sugli elementi oggettivi che ne stanno alla base, ma non ne è certo né la negazione né il superamento. Comunque, detto modo di procedere senza dubbio ha in sé il pregio di realizzare una maggiore trasparenza del percorso decisionale seguito dal giudice, dal momento che dovrà questi dare espresso e puntuale conto di come ha apprezzato tutti i dati di fatto rimessi al suo esame e non potrà trincerarsi solo dietro vuote formule di stile (troppo spesso utilizzate con il generico richiamo a quella adeguatezza, equità, congruità che risultano, in ultima analisi, concetti relativi e trasposizione del personale sentire del giudicante).
Il più recente, e importante, tentativo nella direzione del reperimento di un nuovo metodo di quantificazione degli assegni è senza dubbio quello coraggiosamente intrapreso dal Tribunale di Firenze (sent. della camera di consiglio 3.10.2007, pres. Aloisio, est. Governatori) che, con una sentenza volutamente "pilota", ha voluto in via del tutto innovativa individuare dei parametri tecnici obiettivi ed enfatizzare il metodo statistico nella sua potenziale applicabilità alle vicende familiari, pur riconoscendo che sempre "al giudice residuano gli spazi di discrezionalità in certa misura ineliminabili in ogni giudizio, per l'unicità e la novità presentata da ogni situazione di fatto della vita umana, che implica che il risultato finale della interpretazione giudiziaria e della decisione non sia mai inequivocabilmente e meccanicamente predeterminata, ma esclude ogni possibilità di arbitrio o di carenza motivazionale, richiedendosi una puntuale valutazione del caso concreto con riferimento ai singoli parametri normativi".
Così, il procedimento in questione è stato anzitutto caratterizzato da un'attività istruttoria affatto comune, articolatasi attraverso 1) indagini affidate al Nucleo di Polizia Tributaria, 2) una CTU estimativa sugli immobili, 3) una CTU contabile, effettuata con l'ausilio di un esperto statistico: il primo accertamento è stato, all'evidenza, propedeutico agli altri, in quanto se fosse risultata una forte evasione/elusione fiscale i dati reddituali di base avrebbero perso ogni significativa valenza e avrebbe dovuto il tribunale procedere sulla scorta di un accertamento induttivo operato dalla Guardia di Finanza, mentre il secondo (volto a determinare il valore del compendio immobiliare di ciascun coniuge) era a sua volta essenziale ai fini dello svolgimento dell'indagine tecnico contabile, atteso che, come meglio si vedrà, questa ha tenuto in prioritario conto il reddito immobiliare figurativo.
Dal contesto della sentenza si comprende come, in primo luogo, il reddito professionale del preteso obbligato (marito/padre) fosse nella specie attendibile (.."Il CTU ha riferito che la congruità con i dati stimati dagli studi di settore, previsti in ambito fiscale per gli anni esaminati, può costituire un'ulteriore conferma della sostanziale correttezza dei dati contabili e della loro idoneità a costituire la base per la stima della situazione reddituale di A. per quanto attiene allo svolgimento dell'attività professionale"), circostanza che non si realizza nella larga maggioranza dei casi e che ha qui invece rappresentato una sorta di punto fermo per le ulteriori osservazioni ed ha di gran lunga agevolato il faticoso percorso volto alla decisione finale.
Nulla di particolare deve osservarsi in ordine alla CTU estimativa degli immobili, se non che il quesito ha riguardato non solo il valore commerciale degli stessi ma anche il presunto valore locativo, del quale è stato poi tenuto particolare conto in funzione della disposta assegnazione della casa coniugale alla moglie, presso la quale è stato sancito il collocamento prevalente della prole minore.
Alquanto rilevante e significativo è, per contro, l'apporto probatorio offerto dalla CTU contabile che ha condotto, con riferimento alla posizione del marito, 1) all'accertamento del "reddito medio disponibile nel periodo 1999/2004", quanto a dire nel quinquennio precedente la separazione, incrementato "delle utilità non monetarie, ottenibili da beni e consumi ad uso promiscuo tra l'attività professionale e l'uso privato", 2) all'individuazione della "misura figurativa delle utilità generate dai fabbricati posseduti", previa deduzione della misura delle rendite catastali già incluse nel reddito complessivo dichiarato, 3) all'accertamento del reddito disponibile dopo la separazione, computato tenuto conto della detrazione relativa all'assegno mensile di mantenimento corrisposto, in via provvisoria, per la moglie e della corrispondente minor incidenza del peso fiscale per la consentita deducibilità, così come analogo computo è stato fatto relativamente alla posizione della moglie, proprietaria di minori cespiti immobiliari e non dotata di redditi lavorativi.
Sulle base di una simile impostazione metodologica il consulente statistico ha, quindi, operato un raffronto tra il tenore di vita precedente alla separazione e quello successivo alla stessa, non mancando di sottolineare che "per valutare l'effetto di una qualsiasi ripartizione delle risorse tra i due coniugi occorre valutare il tenore di vita della famiglia originaria e confrontarlo con quello che avrebbero le due famiglie risultanti dalla separazione in relazione alla ripartizione di risorse di volta in volta considerata" e così giungendo a suggerire l'utilizzo della scala nota con l'acronimo ISEE (Indicatore di Situazione Economica Equivalente), introdotta dalla legge 27 dicembre 1997, n. 449, e relativi provvedimenti attuativi, per la valutazione della situazione economica dei soggetti che richiedono prestazioni sociali agevolate, su tale strada trovando l'adesione del Collegio giudicante.
Rimandando a una lettura diretta della sentenza per quanto riguarda l'applicazione della scala indicata, è opportuno segnalare che lo sviluppo dell'indagine peritale ha quindi visto una verifica del reddito di ciascuno dei due nuclei separati per effetto del contenuto dispositivo dell'ordinanza presidenziale, laddove una voce particolarmente consistente è stata individuata nel reddito figurativo (valore locativo) dell'immobile adibito a casa coniugale ed assegnato in godimento esclusivo al nucleo composto dalla moglie e dalla figlia minore, pur con l'avvertenza che "in assenza di una locazione a terzi, e in presenza di un uso diretto, l'intero valore locativo viene considerato come un consumo della famiglia e, dopo la separazione, del nucleo assegnatario, così alterando la ripartizione delle varie categorie di consumi".
Debbo qui di necessità trascurare la gran parte dei rilievi espressi e delle tabelle predisposte dal consulente statistico e recepite dal tribunale ma mi sembra, invece, opportuno portare l'attenzione sul fatto - che io, leggendo, ho percepito essenziale ma che potrebbe essere invece frutto di una interpretazione fuorviata e ingannevole - che, essendo il valore locativo dell'appartamento coniugale, di proprietà esclusiva del marito, pari ad ? 51.000,00 annui e quello dell'unità immobiliare utilizzata dal marito, comproprietario con la moglie in pari quota, ammontante ad ? 30.000,00, è stata tratta la conclusione che "si era realizzata una forte penalizzazione della posizione del (marito) ricorrente..il quale vedrebbe fortemente contratto il proprio complessivo tenore di vita venendo a godere di un bene di valore grandemente inferiore a quello fruito da moglie e figlia, che verrebbero così a godere complessivamente di un tenore di vita palesemente non proporzionato a quello fruito dal marito".
Non ha, poi, mancato il tribunale di osservare, avuto riguardo all'ammontare delle molteplici voci di spesa destinate ad essere affrontate da ciascun componente del nucleo e della loro differente incidenza, che talune incongruenze riscontrate "richiedono un correttivo nel caso concreto" non essendo totalmente percorribile la strada sulla base della quale "è stata calcolata statisticamente l'equivalenza delle posizioni dei due nuclei"; in sintesi, ha il Collegio determinato in ? 1.400,00 mensili l'ammontare dell'assegno dovuto dal marito a personale favore della moglie e in ? 600,00 quello per la figlia, oltre all'80% delle spese sportive, mediche straordinarie e di istruzione per la stessa necessarie (valutando, a tale ultimo riguardo, che la figlia trascorreva con il padre il 47% del tempo e con la madre collocataria solo il restante 53%).
Poiché questo è il risultato finale del lungo, articolato e straordinariamente complesso percorso istruttorio, resta a noi valutare se alle medesime conclusioni avrebbe potuto giungersi solo facendo corretto utilizzo dei parametri di riferimento ormai consolidati e buon governo delle emergenze processuali attraverso l'esercizio del potere discrezionale che al giudice compete.
Tentando una massima semplificazione dei dati a disposizione, ci troviamo a confrontarci con una famiglia monoreddito, dove il marito (proprietario esclusivo dell'immobile di cat. A/1 di mq. 240 nel centro cittadino, libero professionista con dipendenti) nel 2004, registrando alle soglie della separazione una consistente flessione rispetto agli anni precedenti, aveva dichiarato un reddito di ? 65.000,00 circa, mentre la moglie era sempre e solo stata dedita ad attività casalinga; dal contesto della sentenza emergono dati significativi in ordine al tenore di vita della famiglia, quali l'utilizzo da parte del marito di un Porsche Cayenne, l'acquisto concordato dai coniugi e realizzato nel 2003 di un antico canterano per il corrispettivo di ? 11.000,00, vacanze in località marine e montane di indubbio prestigio, l'ausilio di una collaboratrice domestica fissa.
Orbene, è indubitabile l'osservazione preliminare che la separazione coniugale integra sempre e di per sé un danno anche sul piano economico, non foss'altro che per il dato insuperabile rappresentato dalla creazione di due nuclei distinti derivanti dalla disgregazione dell'unico originario, ma v'è da chiedersi se - avuto riguardo alle finalità sottese alla disposizione normativa di cui all'art. 156 c.c. ed alla dianzi ampiamente riferita elaborazione giurisprudenziale - con un assegno mensile di ? 1.400,00 sia consentito alla moglie di conservare un tenore di vita tendenzialmente analogo a quello proprio del periodo della convivenza coniugale, tenuto conto in particolare: a) dell'imposizione fiscale gravante sull'assegno, b) dell'onere relativo al pagamento integrale delle spese condominiali ordinarie inerenti all'abitazione coniugale, di indubbio prestigio e consistente ampiezza, c) del peso relativo alle utenze domestiche, d) del carico corrispondente al 20% delle spese mediche, scolastiche e sportive relative alla figlia.
Priva come sono di conoscenze statistiche, e strutturalmente aliena dalla capacità di confrontarmi troppo direttamente con dati aritmetici e difficili grafici, non posso però fare a meno di domandarmi se la decisione finale assunta dal Tribunale di Firenze (peraltro integrante un ridimensionamento della valenza economica dei provvedimenti presidenziali, che vedevano la moglie titolare di un assegno mensile di ? 2.000,00 a titolo personale e di un assegno di ? 1.000,00 per la figlia) si ponga realmente in sintonia con le disposizioni normative di elettivo riferimento e, soprattutto, con la finalità assistenziale che caratterizza la prestazione periodica di mantenimento per il coniuge: ammesso che non sia capace di "far di conto", sono però ragionevolmente certa che la signora in questione con l'assegno riconosciutole non potrà affatto conservare un tenore di vita neppure in parte similare a quello pregresso, dovendo con un netto mensile a dir tanto pari a ? 1.150/1.200,00 far fronte integralmente alle proprie esigenze di vita quotidiana (vitto, vestiario, cure mediche non mutuabili, eventuale autovettura, vacanze ecc.) e nel contempo occuparsi della manutenzione ordinaria del prestigioso immobile a lei assegnato, e ciò dando subito per scontato che non le sarà possibile avvalersi di un aiuto domestico, neppure per poche ore alla settimana.
Sono, allora, a domandarmi se l'evoluzione di una siffatta situazione non vada verso un necessario rilascio della casa coniugale, posto che con le sole risorse a disposizione l'assegnataria non potrà, a mio avviso, sostenerne il carico, anche dopo avere completamente ridimensionato il proprio pregresso tenore di vita ed essersi privata di tutte quelle utilità (colf, viaggi, soggiorni alberghieri, autovettura di marca) cui la convivenza coniugale l'aveva in precedenza abituata.
Se, allora, tentiamo una verifica di questa decisione nel suo raffronto con tutte le consolidate linee giurisprudenziali che abbiamo sin qui esaminato, salta agli occhi a mio avviso una sensibile discrasia, segno evidente che non sempre la discrezionalità, ove sapientemente esercitata, è elemento di pericolo e di incertezza ma, anzi, necessario correttivo di un metodo statistico che, per quanto oggettivo, finisce con il non rendere giustizia a nessuno: non aveva forse meglio fatto il presidente, sulla base dei soli scarni elementi portati in quel primo momento al suo esame, a individuare in ? 2.000,00 l'ammontare dell'assegno di mantenimento ? Non è forse una presunzione inaccettabile quella di trovare dei sistemi preconfezionati da applicare a tutti i casi per raggiungere quell'obiettivo di generalizzata equità cui tutti aspirano ?
La risposta non è né facile né immediata, coinvolgendo contrapposte esigenze che dovrebbero trovare un punto di convergenza di non agevole individuazione, ma è in ogni caso certo che la sentenza fiorentina ha voluto "testare" un nuovo metodo e l'ha fatto nel miglior modo possibile, con profusione di mezzi e di sforzi; proprio questo la rende, tuttavia, un prototipo affatto facilmente esportabile alla generalità dei casi, dal momento che l'ingente sforzo argomentativo e la dovizia di strumenti istruttori utilizzati (la GdF, due CTU, l'esperto di statistica) depongono per l'applicabilità del metodo alle sole situazioni che si connotino per la loro particolare importanza o complicatezza, mentre la nostra esperienza quotidiana si confronta duramente con la scarsità dei mezzi e del tempo di fronte a una crescente, quanto impellente, domanda di giustizia.
Resta, comunque, un apprezzabile sforzo condotto con rara competenza e attenta dedizione alla soluzione del vetusto problema, dal quale possiamo però trarre solo indicazioni metodologiche di massima e, non ultima, la conferma di quanto sia sempre difficile pervenire a statuizioni realmente aderenti alla realtà di vita di ciascuna delle famiglie che, nel momento della loro disgregazione, giungono alla valutazione del giudice confidando in una qualche acconcia sistemazione dei loro plurimi e inevitabilmente contrapposti interessi.
Al di là di qualsiasi metodo, al di là di qualsiasi strumento statistico mi sento, con crescente convinzione, portata a individuare nella competenza e nella sempre più affinata specializzazione del giudice, e per quanto possibile dei legali, il nucleo essenziale di una agognata soluzione: solo un giudice attento, preparato, appassionato, profondo conoscitore degli aspetti giuridici di ogni problema ma al tempo stesso dotato di una attitudine personale alla percezione della realtà sociale e delle dinamiche, non solo relazionali ma anche patrimoniali, che si muovono all'interno del conflitto familiare potrà rappresentare una garanzia per il cittadino, forse mai del tutto soddisfacente ma, comunque, la migliore garanzia che il nostro ordinamento è strutturalmente ancora oggi in grado di offrire.
18 luglio 2008
Autore: Dott.ssa Gloria Servetti - Magistrato della Corte d'Appello di Milano
tratto dal sito: http://www.questionididirittodifamiglia.it