Il contratto di Agenzia:
3. la risoluzione per inadempimento
Tra le ipotesi di risoluzione, quella per inadempimento riveste senza dubbio la maggiore importanza data la frequenza nella prassi di questa causa di cessazione dei rapporti obbligatori.
La disciplina generale della risoluzione per inadempimento è contenuta nell'art. 1453 c.c. che stabilisce come nei contratti a prestazioni corrispettive (contratti bilaterali - o plurilaterali con comunanza di scopo ex art. 1459 c.c.- laddove quindi si riscontri una correlazione diretta tra le prestazioni oggetto delle obbligazioni reciprocamente assunte dalle parti con il vincolo contrattuale) in caso di inadempimento di una delle parti alle proprie obbligazioni contrattuali, l'altra può a sua scelta richiedere l'adempimento o la risoluzione del contratto, sempre salvo il risarcimento del danno subito.
Si è tuttavia osservato in dottrina (Sacco), ferma la necessaria esistenza di un rapporto contrattuale tra le parti, che non necessariamente il riferimento a prestazioni corrispettive implichi che gli effetti del contratto debbano essere di natura obbligatoria (si pensi ad esempio all'alienazione di un immobile contro la promessa del pagamento del prezzo).
E' evidente tuttavia che il rimedio risolutorio sarà esperibile solo nei confronti di colui che, avendo assunto determinate obbligazioni, risulti inadempiente.
La domanda giudiziale di risoluzione per inadempimento, la cui proposizione preclude l'adempimento tardivo, ha quale caratteristica specifica quella di impedire altresì il mutamento di domanda in richiesta di adempimento (Cass. 04/12/99 n. 13563).
D'altra parte, qualora sia invece richiesto giudizialmente l'adempimento dell'obbligazione, è fatta salva la possibilità per il creditore della prestazione di determinarsi successivamente alla proposizione di una domanda di risoluzione.
Trattasi in sostanza di un potere di reazione attribuito alla parte che subisce l'inadempimento, alla quale è consentito di porre termine al contratto a condizione tuttavia che l'evento scatenante (ovvero l'inadempimento dell'altra parte) risulti particolarmente qualificato ed abbia determinate caratteristiche.
Deve trattarsi anzitutto di inadempimento imputabile all'altra parte (escludendo quindi la fortuita impossibilità della prestazione, fatto salvo il necessario distinguo in relazione all'impossibilità parziale e temporanea, da dirimersi anche sulla base dell'interesse del creditore), e secondariamente di inadempimento rilevante.
Precisa infatti l'art. 1455 c.c. che affinché l'inadempimento sulla cui base si agisce per ottenere la risoluzione dell'intero contratto sia sufficiente a determinarla è necessario che si tratti di un inadempimento di non scarsa importanza, avuto riguardo all'interesse della parte che lo subisce (Cass. 06/11/02 n. 15553).
E' quindi necessario effettuare una valutazione sulla gravità dell'inadempimento, non dissimile da quella compiuta in altri ambiti, al fine per esempio di legittimare il recesso per giusta causa nel contratto di agenzia applicando analogicamente l'art. 2119 c.c., con gli opportuni aggiustamenti rispetto alla ordinaria disciplina applicabile al rapporto di lavoro subordinato (basata anche su differenti presupposti).
Valutazione di gravità (o importanza dell'inadempimento) che viene rimessa al giudizio discrezionale del giudice, che dovrà esaminare elementi di carattere oggettivo (costituiti dall'oggetto in sé dell'inadempimento ma nell'ambito complessivo del contratto) ed elementi soggettivi, indagando dunque sulle intenzioni delle parti, anche al fine di ricostruire quell'interesse del creditore della prestazione cui espressamente si riferisce l'art. 1455 c.c.
Rinviando alla raccolta di giurisprudenza il diverso atteggiarsi dei vari orientamenti giurisprudenziali sul punto, può dirsi in linea generale che, di norma, viene ritenuto sufficiente per la risoluzione l'inadempimento sulla base del quale possa ritenersi che chi lo subisce non avrebbe concluso il contratto qualora lo avesse previsto.
E' inoltre il caso di sottolineare che in taluni tipi contrattuali il potere discrezionale del giudice risulta limitato da disposizioni espresse contenute nella disciplina codicistica, che stabiliscono criteri precisi per la valutazione dell'inadempimento. Mi riferisco in particolare alla disciplina della vendita (art. 1497 c.c.) dove la mancanza delle qualità promesse della cosa venduta, o di quelle essenziali all'uso al quale è destinata, è sufficiente a legittimare la risoluzione del contratto solo qualora il difetto ecceda i limiti di tolleranza stabiliti dagli usi.
Lo stesso è a dirsi nell'ambito del contratto di appalto per difformità e vizi dell'opera ex art. 1668 c.c., dove il committente ha la facoltà di chiedere la risoluzione del contratto solo nel caso in cui difformità e vizi siano tali da renderla completamente inadatta alla sua destinazione.
Ancora, nella disciplina dell'indennità di fine rapporto prevista per il contratto di agenzia, l'art. 1751 c.c. precisa che l'indennità non è dovuta qualora il preponente risolva il contratto per un'inadempienza imputabile all'agente che, per la sua gravità, non consenta la prosecuzione anche provvisoria del rapporto. Anche nella vendita a rate con riserva della proprietà (art. 1525 c.c.), e nonostante l'eventuale esistenza di un patto contrario (quale potrebbe essere una clausola risolutiva espressa), è esclusa la possibilità di risoluzione del contratto laddove il mancato pagamento di una rata non superi l'ottava parte del prezzo.
Ritardo
In tema di inadempimento è d'obbligo un riferimento anche al ritardo, certamente suscettibile di essere preso in considerazione anche ai fini della risoluzione, fermo restando il rispetto dei requisiti di cui all'art. 1455 c.c.
Si pone a questo punto il problema di quando il ritardo possa dirsi tale da legittimare la risoluzione e correlativamente sino a che punto sia ammissibile l'adempimento tardivo (Cass. 19/11/02 n. 16291). La disciplina della risoluzione non si occupa direttamente di queste problematiche, anche se precisa, in parte risolvendo il problema dei limiti dell'adempimento tardivo, che la domanda di risoluzione preclude il successivo adempimento.
Pertanto, una volta presentata la domanda di risoluzione l'adempimento tardivo non sarà più consentito.
In tema di ritardo molto si è discusso in dottrina sulla necessità della costituzione in mora ai fini della qualificazione del ritardo quale base per ottenere una pronuncia di risoluzione, anche se appare valutabile anche il ritardo puro e semplice ancorché caratterizzato dalla eccedenza dei normali limiti di tollerabilità. In ordine alla costituzione in mora la dottrina (Sacco) ha tuttavia effettuato una serie di utili distinzioni, precisando che, laddove non sia previsto, neppure implicitamente, un termine per l'adempimento, la costituzione in mora (costituita da una intimazione o richiesta esplicita di adempimento effettuata per iscritto, ex art. 1219 c.c.) risulta necessaria affinché possa configurarsi una ipotesi di inadempimento. Costituzione in mora che, una volta effettuata, ha come effetto da un lato l'aumento della gravità dell'inadempimento e dall'altro l'eliminazione di ogni equivoco in ordine all'eventuale tolleranza del creditore della prestazione.
Quanto sopra esposto in ordine al problema fondamentale della rilevanza dell'inadempimento non significa tuttavia che, anche qualora lo stesso non sia sufficiente a giustificare la risoluzione del contratto, il contraente che lo subisce resti privo di tutela.
In tutte queste ipotesi infatti (si pensi ad esempio all'inadempimento parziale oppure all'inadempimento di una intera obbligazione nell'ambito però di un contratto che ne preveda molteplici, con la conseguente non essenzialità di quella inadempiuta) il contraente che subisce l'inadempimento avrà pur sempre la possibilità di esperire un'azione al fine di ottenere l'esatto adempimento e, quale che ne sia l'esito, un'ulteriore azione tesa ad ottenere il risarcimento del danno subito.
Effetti della risoluzione
Per quanto attiene agli effetti della risoluzione, la disciplina generale (art. 1458 c.c.), come già rilevato nelle premesse in tema di recesso, distingue tra contratti a esecuzione istantanea e ad esecuzione continuata o periodica.
Nella prima ipotesi la risoluzione ha efficacia retroattiva ponendo fine ab origine al vincolo contrattuale, che non è dunque suscettibile di produrre alcun effetto tra le parti, né sul piano obbligatorio né dal punto di vista degli effetti reali.
In ordine agli effetti obbligatori, la risoluzione comporta la liberazione delle parti dagli obblighi connessi all'esecuzione delle rispettive prestazioni (qualora non siano state ancora eseguite) e correlativamente un obbligo restitutorio in favore di chi già abbia prestato in adempimento del contratto.
Per quanto attiene agli effetti reali, anche questi vengono eliminati ab origine tra le parti, con effetto dunque retroattivo, ma solo ex nunc in relazione ai terzi, non pregiudicando quindi i diritti dagli stessi eventualmente acquisiti prima dalla risoluzione. L'art. 1458 c.c. precisa tuttavia che sono fatti salvi gli effetti della trascrizione della domanda di risoluzione, destinata dunque a prevalere qualora anteriore alla trascrizione del terzo che abbia acquistato (beni immobili o mobili registrati) da una delle parti.
Per i contratti ad esecuzione periodica o continuata, ovvero quei contratti in relazione ai quali sorgono obbligazioni di durata per entrambe le parti, l'art. 1458 c.c. detta una disciplina differente, che esclude la retroattività della risoluzione del contratto per tutte le prestazioni già eseguite. Affinché con l'applicazione di questa norma non si realizzi uno squilibrio tra le posizioni delle parti è tuttavia necessario che si tratti di prestazioni di durata bilaterali, cioè di prestazioni che vengano poste in essere dalle parti con corrispettiva ripetitività.
Eccezione di inadempimento
Ancora in tema di inadempimento è appena il caso di soffermarsi su di un rimedio differente e certamente meno incisivo sul rapporto contrattuale, costituito dall'eccezione di inadempimento, che può definirsi come una eccezione dilatoria, che non travolge dunque l'intero regolamento negoziale, ma consente di posticipare l'adempimento qualora ricorrano determinate circostanze.
Precisa infatti l'art. 1460 c.c. che, nei contratti a prestazioni corrispettive, e laddove non siano previsti (sia contrattualmente che sulla base della natura del contratto) termini sfalsati per l'adempimento delle parti alle rispettive obbligazioni, ciascuna di esse può rifiutarsi di adempiere qualora l'altra parte non adempia o ometta di offrire l'adempimento contemporaneamente.
Tuttavia, come stabilito dal secondo comma della norma, l'esecuzione della prestazione non può essere negata qualora il rifiuto, avuto riguardo alle circostanze, risulti contrario a buona fede.
Trattasi di un rimedio dilatorio concesso alla parte che deve adempiere alla propria prestazione contemporaneamente o successivamente rispetto all'altro contraente. Presupposto fondamentale dell'eccezione di inadempimento è costituito dal perfezionamento dell'inadempimento dell'altra parte (sia qualora ciò risulti in modo esplicito, sia nel caso in cui lo si deduca dal comportamento dell'altra parte) nel momento in cui deve adempiere il contraente che si avvale dell'eccezione.
In ordine poi al secondo comma dell'art. 1460 c.c., si ritiene in dottrina (Sacco) che debba considerarsi contrario a buona fede il rifiuto di adempiere basato su di un inadempimento non grave (Cass. 07/01/04 n. 58). Motivo di questa qualificazione è l'evidente fine ritorsivo connesso a tale utilizzo dell'eccezione.
Va segnalato altresì l'orientamento secondo il quale, in applicazione del principio di buona fede, il vizio nell'adempimento dell'altra parte non può più essere opposto per evitare l'adempimento (con l'utilizzo dell'eccezione di inadempimento), qualora possa considerarsi irrilevante anche alla luce del comportamento della parte che deve successivamente adempiere (che non abbia in ipotesi effettuato alcuna contestazione).
Le condizioni patrimoniali delle parti
Da ultimo, ulteriore rimedio dilatorio e con effetti certamente meno drastici della risoluzione è costituito dalla facoltà di sospensione nell'esecuzione della prestazione, qualora le condizioni patrimoniali dell'altro contraente siano tali da porre in evidente pericolo il futuro conseguimento della controprestazione.
Trattasi evidentemente di un'ipotesi riferibile esclusivamente alla parte che, nell'economia del contratto, debba adempiere per prima, in quanto altrimenti potrebbe utilizzarsi l'eccezione di inadempimento di cui si è detto poc'anzi.
Osserva in proposito la dottrina che la variazione delle condizioni patrimoniali di una delle parti deve essere valutata in maniera obbiettiva, a nulla rilevando profili di carattere soggettivo quali la colpa.
L'art. 1461 c.c., che si occupa della fattispecie, precisa peraltro che l'effetto sospensivo è precluso qualora sia fornita, da colui il quale versi in condizioni patrimoniali preoccupanti, idonea garanzia a tutela del creditore della controprestazione. Trattasi di un onere che impedisce l'eventuale sospensione, ma che è del tutto indipendente rispetto ai requisiti necessari per la pronuncia di risoluzione del contratto.
La diffida ad adempiere ed il termine essenziale
All'interno della categoria generale della risoluzione per inadempimento è possibile riscontrare due ipotesi nelle quali il soggetto che subisce l'inadempimento può prescindere dal ricorso all'autorità giudiziaria per ottenere una pronuncia che stabilisca la risoluzione del rapporto, ricorrendo ad una risoluzione di diritto attraverso la diffida ad adempiere o con l'utilizzo del "termine essenziale".
Altra ipotesi assimilabile, oggetto del successivo paragrafo, è quella della clausola risolutiva espressa.
In tutti questi casi è possibile per colui che subisce l'inadempimento arrivare alla risoluzione del contratto senza dover ricorrere al giudice.
Con la diffida ad adempiere (art. 1454 c.c.) la parte intima al contraente inadempiente di adempiere entro un termine, di norma non inferiore a 15 giorni, decorso il quale il contratto dovrà considerarsi risolto di diritto (Cass. 28/06/01 n. 8844).
Qualora il termine assegnato per l'adempimento risulti troppo breve il giudice avrà tuttavia la possibilità di sostituirlo con un altro ritenuto congruo.
In questo modo il contraente inadempiente viene sostanzialmente rimesso in termini dalla diffida ed avrà quindi la possibilità di uniformarsi alle proprie obbligazioni nonostante l'intervenuto inadempimento. Si consente in sostanza a quest'ultimo di effettuare un adempimento tardivo delle proprie obbligazioni. Non è cioè possibile, come avverrebbe con la presentazione della domanda giudiziale di risoluzione, impedire il successivo adempimento, quanto meno sino a che il termine concesso non risulti scaduto.
Perché tale rimedio risulti efficace è peraltro necessario che sussistano gli altri elementi menzionati nel paragrafo 2 per giustificare la risoluzione per inadempimento e più precisamente la gravità dello stesso, l'imputabilità alla controparte del difetto di esecuzione e l'assenza di censure imputabili a colui che intima l'adempimento.
La diffida è considerata come un atto unilaterale recettizio, che esplica dunque i suoi effetti dal momento in cui perviene a conoscenza del destinatario.
Altra e differente ipotesi è invece quella relativa alla scadenza del termine stabilito contrattualmente, o altrimenti desumibile dalle circostanze, per l'adempimento della controparte.
In questi casi, a meno che il ritardo nell'adempimento risulti non imputabile all'altra parte, l'infruttuosa scadenza del termine, il verificarsi dell'inadempimento e la previsione specifica di un termine definito espressamente come essenziale configurano l'ipotesi di risoluzione di diritto del contratto (Cass. 17/04/02 n. 5509).
Affinché la fattispecie possa dirsi perfezionata è tuttavia necessario che il soggetto in favore del quale il termine è stato fissato dichiari di voler risolvere il contratto. Qualora ciò non avvenga è ritenuta ammissibile la richiesta della prestazione, da parte del creditore della stessa, nonostante l'intervenuta scadenza del termine.
La clausola risolutiva espressa
La clausola risolutiva espressa, come detto, si inserisce nel più ampio quadro della cessazione dei rapporti contrattuali, ed in particolare nella regolamentazione della risoluzione per inadempimento, costituendo una deroga di carattere negoziale ai suoi principi generali.
Di norma infatti, come detto nel precedente paragrafo 2., affinché in un contratto a prestazioni corrispettive una delle parti possa legittimamente porre termine al rapporto in funzione dell'inadempimento dell'altra, è necessario che l'inadempimento stesso sia particolarmente qualificato, che rivesta cioè il carattere della gravità e sia dunque di non scarsa rilevanza avuto riguardo all'interesse della parte non inadempiente (art. 1455 c.c.). Tali caratteristiche dovranno essere accertate dal giudice la cui pronuncia, in caso di accertamento positivo, avrà carattere costitutivo della risoluzione del rapporto contrattuale.
Questo schema di carattere generale può però essere oggetto di deroga ad opera delle parti, con l'utilizzo dello strumento della clausola risolutiva espressa.
La clausola risolutiva espressa, prevista dall'articolo 1456 c. c., consiste infatti in una pattuizione contrattuale nella quale vengono indicate una o più obbligazioni alle quali le parti conferiscono (singolarmente considerate) una particolare rilevanza, con la conseguenza che qualora anche una soltanto delle predette obbligazioni non venga adempiuta secondo le modalità stabilite, la parte non inadempiente avrà la facoltà di porre termine al rapporto con effetto immediato, manifestando la propria volontà di volersi avvalere della clausola.
Esistenza e validità della clausola risolutiva espressa, così come esistenza dell'inadempimento (cui si accompagna l'imputabilità dell'inadempimento stesso alla parte, quanto meno a titolo di colpa) di almeno una delle obbligazioni ivi contenute, sono dunque le condizioni necessarie, ma non sufficienti per il verificarsi della risoluzione di diritto del contratto: a questo fine è infatti indispensabile che l'altra parte manifesti la propria volontà di avvalersi della clausola (Cass. 26/03/97 n. 2674), così ponendo fine al rapporto.
L'articolo 1456 cod. civ. consente dunque alle parti di inserire nel contratto un meccanismo di risoluzione convenzionale di diritto dello stesso; meccanismo nel quale la valutazione della gravità dell'inadempimento viene effettuata preventivamente dalle parti, senza che residui alcuno spazio per un qualsivoglia sindacato da parte del giudice. Quest'ultimo infatti, in caso di vertenza, dovrà limitarsi ad accertare l'esistenza e validità della pattuizione, l'inadempimento (o il non corretto e totale adempimento) di una delle obbligazioni previste dalle parti, l'imputabilità dell'inadempimento quanto meno a titolo di colpa a carico della parte e l'intenzione dell'altra di avvalersi della clausola.
Sottolineo in proposito che la colpa, in applicazione dell'art. 1218 c.c., si presume sino a prova contraria, invertendo in sostanza l'onere probatorio, che viene a gravare sulla parte inadempiente (per la necessaria esistenza del requisito della colpevolezza dell'inadempimento: Cass. 14/07/00 n. 9356).
Viene meno dunque la regola generale in tema di risoluzione per inadempimento, che comporta la necessità di un accertamento costitutivo in ordine alla gravità dell'inadempimento al fine di legittimare la risoluzione.
La gravità dell'inadempimento è quindi oggetto di una presunzione assoluta, non suscettibile di prova contraria, per il solo fatto dell'indicazione dell'obbligazione nella clausola contrattuale.
A questo proposito Cass. 17/03/00 n. 3102 ha precisato che, in presenza di una clausola risolutiva espressa, qualunque indagine tesa a stabilire se l'inadempimento sia sufficientemente grave da giustificare l'effetto risolutorio deve considerarsi irrilevante.
L'intervento del giudice avrà quindi, al contrario di quanto avviene in applicazione del meccanismo ordinario di risoluzione per inadempimento, mero fine di accertamento di una risoluzione già avvenuta di diritto (Cass. 10/11/98 n. 11282), a seguito dell'inadempimento di una delle parti e della manifestazione di volontà dell'altra, che subendolo è divenuta titolare, in forza della clausola risolutiva espressa, di una sorta di diritto potestativo di recesso unilaterale per inadempimento (Cass. 03/07/00 n. 8881).
E' pacifico in giurisprudenza (Cass. 21/06/00 n. 8429) che la clausola risolutiva espressa non può considerarsi come una clausola vessatoria ai fini della doppia sottoscrizione di cui all'articolo 1341 c.c., qualora inserita in condizioni generali di contratto od in un contratto per adesione. Ciò in quanto non costituirebbe una clausola particolarmente onerosa, non potendo essere ricondotta tra quelle che sanciscono limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni, aggravando la condizione di uno dei contraenti, poiché la possibilità di richiedere la risoluzione del contratto sarebbe insita nel contratto stesso a norma dell'articolo 1453 cod. civ., e detta clausola non farebbe altro che rafforzare tale facoltà.
Infine è bene tenere presente che per la corretta operatività della clausola, l'inadempimento deve riferirsi ad una obbligazione determinata, con la conseguenza che nella sua redazione andranno indicate con precisione e chiarezza le obbligazioni contrattuali ritenute rilevanti dalle parti. Per contro, l'eventuale generico riferimento a tutte le obbligazioni nascenti dal contratto potrebbe comportare la nullità della clausola, considerata come una clausola di stile e come tale non suscettibile di determinare una risoluzione di diritto qualora ci si trovi in presenza di uno degli inadempimenti genericamente e complessivamente considerati. In tale ultima ipotesi risulteranno comunque applicabili le regole generali in tema di risoluzione del contratto, con la possibilità dunque di effettuare un'indagine sulla gravità dell'inadempimento.