Unioni civili, convivenze di fatto e “modello” matrimoniale: prime riflessioni
Autore: Luigi Balestra (pubblicato sulla rivista Giurisprudenza Italiana, luglio 2016, Ipsoa)
La L. 20 maggio 2016, n. 76, avente ad oggetto la regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e la disciplina delle convivenze di fatto, apre nuovi scenari nel contesto del diritto di famiglia, comportando ulteriori e significative evoluzioni per quel che concerne il tradizionale approccio all’istituto matrimoniale. Il commento, soffermandosi sulle disposizioni più significative, ne pone altresì in luce alcune incongruenze e lacune, fonti di notevoli incertezze per l’interprete chiamato a confrontarvisi.
Premessa
La recentissima approvazione della L. 20 maggio 2016, n. 76[1] recante la “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze” apre un nuovo scenario per quel che concerne le relazioni affettive e, più in generale, il diritto di famiglia e i plurimi modelli su cui ormai da tempo si discute[2]
Dopo le infruttuose iniziative legislative degli anni passati, la circostanza che, nel corso degli ultimi mesi, si sia concretizzata la possibilità di addivenire al varo di un provvedimento normativo, sfociata nell’emanazione della L. n. 76/2016[3], rappresenta certamente un elemento sintomatico dell’intervenuta maturazione di un significativo livello di condivisione in merito all’opportunità di una regolamentazione dei molteplici interessi scaturenti dalla convivenza more uxorio. A questo proposito è infatti opportuno dare adeguato risalto ad una notazione di carattere metodologico: il diritto non può perseguire, in un contesto come quello delle relazioni affettive, obiettivi di carattere promozionale, come invece può – e, a volte, deve – fare in campo economico, ove l’intervento legislativo è sovente funzionale rispetto all’innesco di comportamenti virtuosi. Ogniqualvolta si tratti di legiferare con riguardo a materie aventi forti ricadute nell’ambito di plurime sfere quali, tra le altre, quella etica e quella morale, si rende necessario procedere secondo interessi e scelte condivise: l’adesione a livello generale – pur nella consapevolezza della forte disarticolazione e complessità che caratterizzano la realtà sociale – è, dunque, fondamentale, in guisa che non sembra possibile fondare interventi legislativi, volti ad incidere su materie così rilevanti, sulla mera volontà di assecondare istanze di singoli “gruppi”, portatori di interessi che risultino essere espressione del tutto parziale di quanto percepito e condiviso a livello sociale[4].
Al riguardo ben può rilevarsi come gli anni più recenti, anche in virtù dell’influenza esercitata dalle esperienze straniere[5], abbiano visto il diffondersi di un progressivo atteggiamento di favore nei confronti delle unioni di fatto non fondate sul matrimonio, oggi sempre più frequenti[6] e ormai non più oggetto di giudizi di condanna, soprattutto morale, che in passato ne avevano accompagnato l’estrinsecazione sul piano sociale, determinandone quale naturale conseguenza anche una condanna sul piano giuridico. Alla progressiva maturazione di un tale orientamento di favore hanno contribuito una pluralità di fattori, che hanno decretato un mutamento complessivo dell’assetto delle relazioni familiari, così dando luogo all’archiviazione dell’impostazione tradizionale che ne aveva caratterizzato le linee fondanti nel corso dei secoli, a beneficio di un’opzione normativa e di un approccio ermeneutico tesi a valorizzare anche l’unione paraconiugale, nella quale oggi si ravvisa unanimemente una situazione giuridicamente rilevante. Un contributo di notevole rilievo e spessore all’indicata evoluzione è stato fornito dalla giurisprudenza, sia interna sia sovranazionale, la quale, negli anni più recenti, è giunta ad esprimersi apertamente nel senso dell’attribuzione di una piena dignità giuridica anche alle unioni affettive coinvolgenti persone dello stesso sesso, al tempo stesso invitando il legislatore ad intervenire al fine di salvaguardare i diritti anche di queste ultime[7].
Le unioni civili
La scelta operata nell’ambito della L. n. 76/2016 è stata nel senso di contemplare due modelli distinti: il primo, quello dell’unione civile, riservato alle coppie formate da persone dello stesso sesso; il secondo, quello della convivenza di fatto, aperto a tutte le coppie, eterosessuali e omosessuali.
La legge – la cui singolare strutturazione si deve ad un “maxiemendamento” approvato dal Senato – consta di un unico e lungo articolo suddiviso in 69 commi[8]; i primi 35 commi, volti a disciplinare le unioni civili tra persone dello stesso sesso, evidenziano non poche incongruenze e talune lacune.
L’unione civile – che la legge assume il precipuo compito di istituire – viene indicata, nell’ambito del 1° comma, quale “specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione”. L’espressa riconduzione dell’unione civile nel novero delle formazioni sociali, che pur appare significativa, è, al tempo stesso, fonte di perplessità, per una pluralità di ragioni. In primo luogo, in considerazione del fatto che detta riconduzione si scontra con l’idea secondo cui l’opera di qualificazione – ancor più al cospetto di una norma come l’art. 2 Cost., da non pochi lustri comunemente intesa come disposizione aperta e non semplicemente riassuntiva di altre[9] – pare rientrare, più propriamente, nell’ambito dell’ufficio demandato all’interprete. In secondo luogo, perché l’attribuzione alle unioni paraconiugali della natura di formazione sociale ex 2 Cost. si rinviene ormai da molto tempo nelle affermazioni della dottrina e della giurisprudenza[10]; tale attribuzione, negli anni più vicini, ha infine finito per riguardare espressamente anche le unioni affettive coinvolgenti persone dello stesso sesso[11]. L’ulteriore richiamo all’art. 3 Cost., che nella disposizione riportata, si combina con quello concernente l’art. 2, evoca poi, ma non risolve ed, anzi, addensa, problemi di uguaglianza, nella misura in cui, da un lato, sembrerebbe suggerire che fino ad oggi si sia consumata un’ingiustizia mediante la negazione dell’accesso al matrimonio alle coppie omossessuali; dall’altro, introdotto per queste ultime l’istituto dell’unione civile, potrebbe condurre a ravvisare una non piena attuazione dello stesso principio di uguaglianza in ragione dell’impossibilità per quelle medesime coppie di accedere al matrimonio[12]. Senza poi considerare i delicati problemi suscettibili di essere innescati dal mancato richiamo delle predette disposizioni costituzionali nel contesto delle convivenze di fatto[13].
Sotto il profilo della tecnica legislativa, è tuttavia evidente – lo si vedrà con chiarezza nel prosieguo analizzando più approfonditamente le disposizioni introdotte – come l’unione civile sia stata costruita proprio sulla falsa riga dell’atto matrimoniale e dei contenuti del relativo rapporto, attraverso la predisposizione di regole che, di fatto, riproducono, salva qualche variante, indiscutibilmente anche assai significativa, il contenuto di buona parte delle disposizioni codicistiche dedicate al matrimonio [14].
Alla stregua di quanto stabilito dal 2° comma, l’unione civile viene costituita da due persone maggiorenni dello stesso sesso, mediante una dichiarazione resa davanti all’ufficiale di stato civile, alla presenza di due testimoni. La norma appare tuttavia lacunosa laddove omette di chiarire quale sia l’ufficiale di stato civile competente (che, per la celebrazione del matrimonio, ai sensi degli artt. 94 e 106 c.c., è quello del comune dove uno degli sposi ha la residenza ed al quale è stata richiesta la pubblicazione, non prevista in relazione all’unione civile), mentre il successivo 3° comma richiede allo stesso ufficiale di stato civile di provvedere alla registrazione degli atti di unione civile tra persone dello stesso sesso nell’archivio dello stato civile[15].
In materia di unione civile trova spazio la disciplina degli impedimenti matrimoniali, mediante la riproduzione di norme che, per lo più, ricalcano quelle del codice civile.
Secondo quanto stabilito dal 5° comma, la sussistenza di una delle cause impeditive è causa di invalidità dell’unione civile, in applicazione delle norme dettate per il matrimonio (artt. 119, 120, 123, 125, 126, 127, 128, 129, 129 bis c.c.), formanti oggetto di espresso richiamo. Sono parimenti richiamate ed applicabili all’unione civile anche le disposizioni (artt. 65 e 68) che disciplinano il successivo matrimonio di chi abbia precedentemente sposato una persona poi dichiarata morta presunta. Il 6° comma, sulla falsa riga di quanto previsto per il matrimonio dall’art. 117, 3° comma, c.c., stabilisce che l’unione civile costituita da una parte durante l’assenza dell’altra non può essere impugnata finché dura l’assenza; in questo contesto sarebbe tuttavia stato opportuno prendere in considerazione, in aggiunta a quella indicata, anche l’ipotesi specularmente opposta di costituzione di un’unione civile durante l’assenza del coniuge, in relazione alla quale parimenti si sarebbe potuto stabilire il divieto di impugnazione per la durata dell’assenza di quest’ultimo. Il 7° comma, modellato, sia pur con alcune modifiche, sull’art. 122 c.c., è dedicato all’impugnazione dell’unione civile per violenza, timore di eccezionale gravità ed errore: in materia di errore, si segnala, all’interno della lett. a) – e diversamente da quanto previsto dall’art. 122, 3° comma, n. 1), c.c. – il mancato riferimento all’esistenza di un’anomalia o deviazione sessuale tale da impedire lo svolgimento della vita in comune[16].
Sotto il profilo della tecnica legislativa, mentre per quel che concerne i rapporti patrimoniali scaturenti dall’unione civile, vi è un sostanziale richiamo alla disciplina codicistica relativa al regime patrimoniale della famiglia (13° comma, che, nel suo incipit, ricalca la norma posta dall’art. 159 c.c., ma omette di riferirsi alla comunione dei beni quale regime patrimoniale “legale” dell’unione civile), i rapporti personali tra le parti dell’unione civile (cui sono dedicati i commi 11° e 12°) sono disciplinati – verosimilmente in ragione della delicatezza di detti profili, venendo in gioco, in ultima analisi, l’essenza stessa dell’unione civile – attraverso l’esplicita enunciazione dei contenuti; enunciazione che avviene sì sulla scorta di quanto contemplato a proposito dei rapporti personali tra i coniugi (cfr. artt. 143 e 144 c.c.)[17], e pur tuttavia con alcune vistose varianti. Emblematica, a tal proposito si è infatti rivelata la vicenda che, con un certo grado di opacità, ha condotto alla soppressione del dovere di fedeltà (oltre che, a ben guardare, a quello di collaborazione)[18]. Vicenda opaca, si diceva, se si pone mente al fatto che la dottrina e la giurisprudenza che negli ultimi anni si sono occupati della convivenza more uxorio, hanno fatto leva, nel processo di ricostruzione del fenomeno, su un’ampia gamma di doveri morali da identificarsi sulla scorta di quelli contemplati dall’art. 143 c.c. in relazione al rapporto di coniugio[19]. Il 15° comma – tra l’altro – accorda alla parte dell’unione civile la legittimazione a promuovere il procedimento d’interdizione o di inabilitazione con riguardo al partner, omettendo tuttavia di prevedere che il ricorso possa essere finalizzato alla nomina di un amministratore di sostegno. Tale legittimazione può nondimeno ricavarsi dal combinato disposto degli artt. 406 e 417 c.c., laddove è contemplata “la persona stabilmente convivente”.
Una lacuna emerge anche con riferimento al disposto di cui al 17° comma, che, per il caso di morte di una delle parti dell’unione civile, opportunamente estende alla parte superstite le indennità previste dagli artt. 2118 c.c. (per l’ipotesi di recesso dal contratto di lavoro a tempo indeterminato) e 2120 c.c. (con riguardo al trattamento di fine rapporto); indennità che l’art. 2122 c.c., in caso di morte del prestatore di lavoro, stabilisce vengano corrisposte anche al coniuge (oltre che ai figli e, ove vivano a carico del prestatore di lavoro, anche ai parenti entro il secondo grado e agli affini entro il secondo). Tuttavia il predetto 17° comma non richiama i criteri previsti dallo stesso art. 2122 c.c., volti a governare le modalità di distribuzione delle indicate indennità, criteri che sarebbe stato invece opportuno specificare attraverso un esplicito rinvio anche a quest’ultima disposizione.
Non pochi profili di perplessità suscita la previsione del 20° comma, ove, dopo aver stabilito, “al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso”, che le disposizioni (contenute in leggi, atti aventi forza di legge, regolamenti, atti amministrativi, contratti collettivi) riferite al matrimonio e quelle contenenti le parole “coniuge” o “coniugi”, o termini equivalenti, trovano applicazione anche a ciascuna delle parti dell’unione civile[20] , precisa che detta disposizione non si applica alle norme del codice civile non richiamate espressamente dalla legge nonché alle disposizioni di cui alla L. 4 maggio 1983, n. 184. E pur tuttavia immediatamente dopo si contempla una sorta di norma di salvaguardia (in quanto sembrerebbe voler far salvo quanto maturato nel frattempo nelle sedi giurisdizionali), dai contenuti non poco ambigui: “resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti”[21].
Il 21° comma, in relazione al trattamento successorio riservato alle parti dell’unione civile rinvia espressamente alle norme del codice dettate in tema di indegnità, collazione, successione dei legittimari, successione legittima e patto di famiglia: anche sotto questo profilo, quindi, dall’unione civile scaturiscono i medesimi effetti derivanti dal rapporto di coniugio. L’estensione della vicenda successoria al partner dell’unione civile, attraverso l’integrale riconoscimento dell’insieme delle tutele riservate al coniuge, dà vieppiù conto dell’opzione prescelta dal legislatore il quale, pur a fronte dei venti di riforma volti a ridimensionare, in ragione di un’eccessiva pervasività, la posizione dei prossimi congiunti, non ha avuto alcuna esitazione nell’assicurare un’integrale protezione e, dunque, la totale equiparazione al coniuge.
In forza di quanto stabilito dai commi 22°-26°, nell’unione civile trova spazio la disciplina dettata in tema di scioglimento del matrimonio[22] ; tra le relative cause, peraltro, non è richiamata quella più comune collegata alla pregressa separazione personale (23° comma, che neppure richiama la mancata consumazione)[23]; è invece prevista – il che costituisce una novità di assoluto rilievo – la possibilità di addivenire allo scioglimento dell’unione civile in conseguenza della volontà in tal senso manifestata, anche disgiuntamente, dalle parti dinanzi all’ufficiale di stato civile (con la specificazione che, in tal caso, la domanda di scioglimento potrà essere proposta solo decorsi tre mesi dalla data di manifestazione di tale volontà: 24° comma)[24]. Il legislatore, nel contesto dell’unioni civili, ha affiancato dunque al tradizionale procedimento contemplato per addivenire allo scioglimento del matrimonio – l’ormai anacronistico doppio binario (separazione, vista la scarsa incidenza pratica delle altre cause di scioglimento del matrimonio, e successivo divorzio) – un meccanismo risolutore che fa perno sulla volontà unilaterale. Si tratta di una presa d’atto di come, nella sostanza, al fine di pervenire allo scioglimento dell’unione sia sufficiente – e ciò indipendentemente dal contesto, matrimoniale o non – il disimpegno di uno soltanto dei partner.
Particolare attenzione, nel contesto della crisi dell’unione, è dedicata alla rettificazione di sesso. Alla stregua di quanto stabilito dal 26° comma, la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso determina lo scioglimento dell’unione civile, analogamente a quanto previsto dall’art. 3, n. 2, lett. g), L. n. 898/1970 con riguardo allo scioglimento del matrimonio (manca peraltro la specificazione, come sarebbe stato opportuno e come avviene nella disciplina sul divorzio, che occorre una sentenza “passata in giudicato”). Il 27° comma, con l’intento di raccogliere le sollecitazioni provenienti dalla Corte costituzionale e dalla Cassazione in relazione ad una particolarissima vicenda sui cui i giudici delle leggi e quelli di legittimità sono stati chiamati a pronunciarsi [25], stabilisce che alla rettificazione anagrafica di sesso, ove i coniugi abbiano manifestato la volontà di non sciogliere il matrimonio o di non cessarne gli effetti civili, consegue l’automatica instaurazione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso; la norma pare tuttavia lacunosa laddove nulla prevede con riferimento all’ipotesi, specularmente opposta, in cui i componenti dell’unione civile, a seguito di una sentenza di rettificazione di sesso, intendano comunque mantenere in vita l’unione stessa.
Le convivenze di fatto
Questo secondo modello, che la riforma ha collocato accanto all’unione civile, configura una relazione avente effetti giuridici decisamente più attenuati, secondo una logica marcatamente differenziante; un modello, quindi, “ad intensità minore”, ancorché alla convivenza si ricolleghino effetti di non poco momento, taluni dei quali, come si vedrà, sono stati peraltro tratteggiati in maniera poco perspicua sotto il profilo della tecnica legislativa.
Il 36° comma enuncia la nozione di conviventi di fatto: e tuttavia l’espressione utilizzata tradisce una certa incoerenza, nella misura in cui essa evoca in qualche modo una situazione attinente ad una sfera fattuale, laddove il legislatore si è mosso proprio nella prospettiva di attribuire un rilievo giuridico all’unione non fondata sul matrimonio; sotto questo aspetto l’utilizzo del complemento di specificazione sembra voler relegare la convivenza su un piano meramente fattuale, così per certi versi disconoscendo gli approdi cui, da oltre vent’anni, sono giunti gli interpreti, riconducendo la convivenza paraconiugale entro la categoria delle formazioni sociali di cui all’art. 2 Cost.[26].
Conviventi di fatto sono, secondo il citato 36° comma, “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale”, ma “non vincolate da rapporti di parentela, affinità, adozione, da matrimonio o da un’unione civile”[27]: dal che si desume con chiarezza l’intenzione del legislatore di escludere forme di convivenza diverse da quelle more uxorio, che, sia pur presenti nella realtà sociale, presentano un minor grado di diffusione[28]. Nella definizione offerta il riferimento all’impedimento dato da parentela, affinità e adozione avrebbe meritato un’attenta delimitazione: il fatto che manchi qualsiasi specificazione relativa al grado genera infatti, nel raffronto con il precedente 4° comma, lett. c) concernente l’unione civile e con l’art. 87 c.c. dettato con riguardo al matrimonio, una palese incongruenza[29] .
Il 37° comma aggiunge che, ferma restando la sussistenza dei presupposti di cui al 36° comma, ai fini dell’accertamento della stabile convivenza, occorre fare riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui all’art. 4 e alla lett. b) del 1° comma dell’art. 13, D.P.R. 30 maggio 1989, n. 223 (“Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente”) [30]. Si tratta di un previsione che genera incertezze in ordine alla natura di siffatta dichiarazione, non potendosi sostenere, ad avviso di chi scrive, che la sua mancanza sia ostativa all’accertamento ed alla configurabilità della fattispecie contemplata dal legislatore e, quindi, all’applicazione della relativa disciplina[31]; ancorché – e di ciò si è ben consapevoli – non pochi ostacoli potranno profilarsi, in caso di assenza dell’anzidetta dichiarazione, all’esercizio da parte dei conviventi delle prerogative che la legge riconosce loro. Nella direzione indicata si è posta anche una recente pronuncia di merito, la quale, attribuendo alla convivenza natura “fattuale”, in ragione della circostanza che essa si traduce “in una formazione sociale non esternata dai partners a mezzo di un vincolo civile formale”, ha qualificato la dichiarazione anagrafica come “strumento privilegiato di prova e non anche elemento costitutivo”, traendo conferma di ciò proprio dal comma 36°, introduttivo di una definizione normativa “scevra da ogni riferimento ad adempimenti formali”; tanto è vero che l’anzidetta dichiarazione è richiesta dalla L. n. 76/2016 “per l’accertamento della stabile convivenza”, e cioè “per la verifica di uno dei requisiti costitutivi ma non anche per appurarne l’effettiva esistenza fattuale”[32] .
Nell’ambito dei plurimi interessi tutelati dalla nuova legge, particolare attenzione merita quella cui si riferisce il 40° comma, ove si prevede che ciascun convivente di fatto possa designare l’altro quale suo rappresentante con poteri pieni o limitati, sia per il caso di malattia che comporti incapacità di intendere e di volere, in relazione alle decisioni concernenti la salute, sia in caso di morte, per quanto riguarda la donazione di organi, le modalità di trattamento del corpo e le celebrazioni funerarie[33]. L’introduzione del fiduciario rappresenta un “balzo” in avanti, con riferimento a interessi di natura personalissima, di cui non è dato apprezzare quale sia stato il grado di consapevolezza da parte del legislatore. Il che appare ancor più vero se si tiene contro, da un lato, dell’omissione di un’analoga disciplina con riguardo ai coniugi e ai componenti dell’unione civile e, dall’altro, che a venire in considerazione è, tra gli altri, il tema del testamento biologico e delle direttive anticipate; tema assai delicato, che evoca problemi complessi, da sempre forieri di ampie discussioni, ed oggetto di iniziative legislative arenatesi nel tempo. In guisa che, anche per tali ragioni, l’ingresso di soppiatto di una tale figura nello specifico contesto delle convivenze di fatto non può non addensare serie perplessità[34].
Non poco discutibile si rivela anche la previsione contenuta al 46° comma, che introduce all’interno del codice civile il nuovo art. 230 ter, contemplante i diritti del convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente: e tuttavia, tali diritti, a differenza di quelli indicati nell’ambito dell’art. 230 bis c.c., non riguardano in alcun modo la sfera amministrativo-gestoria, ma attengono esclusivamente al profilo patrimoniale, senza contare che, anche sotto tale profilo, la tutela appare decisamente deteriore rispetto a quella accordata al partecipante all’impresa familiare (vistosa, ad esempio, l’omissione del diritto al mantenimento e del diritto di prelazione)[35]. La posizione del convivente, al cospetto dell’attività d’impresa esercitata dal partner, viene così svilita solo in ossequio all’esigenza di differenziazione dei due modelli concepiti con l’intervento riformatore (il 13° comma richiama espressamente per le parti dell’unione civile anche la disciplina dell’impresa familiare). L’incongruità del trattamento riservato al convivente emerge poi ancor più chiaramente se si tiene conto che la disciplina dell’impresa familiare intende fornire una tutela a fronte delle prestazioni lavorative svolte nell’ambito di un’attività d’impresa in cui assume rilievo una forte componente affettiva, tanto che una tutela piena è assicurata dall’art. 230 bis c.c. anche ai parenti entro il terzo grado e agli affini entro il secondo. Sicché, se su ciò si riflette, appare ancor più inspiegabile il riconoscimento al convivente di fatto di prerogative differenti e di minore portata rispetto a quelle accordate a un parente (entro il terzo grado) o a un affine (entro il secondo).
I commi da 50 a 63 fissano la disciplina del contratto di convivenza, mediante cui i conviventi di fatto “possono disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune” (50° comma). Si tratta, come noto, di una figura ampiamente studiata[36] e che, ormai da non poco tempo ha ottenuto un positivo riconoscimento ad opera della nostra giurisprudenza[37]; e peraltro, le disposizioni che il legislatore ha inteso dedicare a questa figura non appaiono immuni da censure.
A tal proposito un primo profilo di perplessità si rinviene nel 53° comma, che, nell’elencare i possibili contenuti del contratto, menziona per prima l’indicazione della residenza [lett. a)], che è materia estranea alle pattuizioni aventi natura contrattuale, chiaramente attenendo al profilo personale e non già patrimoniale[38]. E peraltro, avuto riguardo agli altri profili, sia pur patrimoniali, ivi menzionati, non può non sottolinearsi l’ingiustificata restrizione per quel che concerne l’oggetto del contratto. Il riferimento è infatti solo: alla possibilità di fissare le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, ma unicamente sulla scorta del criterio di proporzionalità operante per i coniugi ex art. 143, 3° comma, c.c. [lett. b)], pretermettendo quindi la possibilità di riconoscere maggiori spazi all’autonomia privata; nonché [lett. c)] alla possibilità di optare per il regime patrimoniale della comunione dei beni, così omettendo di contemplare la comunione convenzionale, il fondo patrimoniale, ovvero eventuali regimi patrimoniali atipici, la cui configurabilità è da tempo riconosciuta[39]. La previsione di un oggetto così limitato entro cui l’autonomia delle parti può dispiegarsi, oltre ad essere assai poco giustificabile, rivela la mancata considerazione, da parte del legislatore, del carattere variegato degli interessi patrimoniali che sovente il concreto atteggiarsi della contrattazione tra conviventi ha posto in luce [40].
Il testo del 60° comma evidenzia un’imprecisione terminologica, laddove prevede che la risoluzione del contratto di convivenza per accordo delle parti o per recesso unilaterale “deve essere redatta” nelle forme previste per la sua stipulazione dal 51° comma (atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizioni autenticate da un notaio o da un avvocato, a pena di nullità). A ben vedere, però, la risoluzione del contratto – vale a dire lo scioglimento – costituisce un effetto del recesso e, pertanto, la prescrizione relativa alla forma avrebbe dovuto essere riferita all’atto del recesso e non alla risoluzione che costituisce l’effetto di tale atto.
Con riguardo al delicato profilo della solidarietà tra ex conviventi, il 65° comma, per il caso di cessazione della convivenza di fatto, riconosce “il diritto del convivente di ricevere dall’altro convivente e gli alimenti qualora versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento”. La norma, che rivela un refuso (evidenziato in corsivo), si discosta da quanto previsto in una precedente stesura, ove, accanto al diritto agli alimenti, era in primis contemplato, per l’ipotesi di sussistenza dei presupposti di cui all’art. 156 c.c., il diritto al mantenimento per un periodo determinato proporzionato alla durata della convivenza (lo stesso limite temporale è fissato per il diritto agli alimenti). Su un ulteriore profilo deve essere soffermata l’attenzione, vale a dire la collocazione del convivente nell’ordine degli obbligati di cui all’art. 433 c.c., ove è previsto che l’obbligo alimentare venga adempiuto soltanto con precedenza sui fratelli e le sorelle, e quindi in posizione addirittura successiva a quella del suocero o della suocera; pare a chi scrive una scelta (di politica legislativa) che implica una collocazione della figura del convivente nel contesto delle relazioni familiari alla stregua di un ordine che non tiene adeguatamente conto del concreto dipanarsi della realtà degli affetti.
Osservazioni conclusive
In conclusione – nella consapevolezza dei plurimi profili di disciplina che meriterebbero maggiore profondità di attenzione – non può non sottolinearsi come la L. n. 76/2016 s’inquadri in un più ampio contesto di riforme che stanno incidendo profondamente sulla valenza giuridica dell’istituto matrimoniale.
La concezione tradizionale ha infatti di recente già subito un profondo mutamento a seguito della riforma della filiazione, che ha sancito la condizione unica del figlio, eliminando qualsivoglia differenziazione fondata sulla tipologia di unione che lega i genitori; in conseguenza di tale riforma il matrimonio ha cessato di costituire il fondamento della parentela (cfr. l’attuale testo dell’art. 74 così come modificato dalla L. n. 219/2012) ed ha perduto la tradizionale funzione meccanismo idoneo a decretare in capo ai figli l’acquisizione di un peculiare status, mantenendo un suo significato in relazione al solo rapporto orizzontale tra i coniugi. Con riguardo a quest’ultimo e più limitato contesto va ora ad incidere la L. n. 76/2016, la quale, nell’introdurre l’istituto dell’unione civile attraverso una tecnica legislativa che – sia pur con talune variazioni – si sostanzia nel recepimento di norme che costituiscono l’ossatura del matrimonio, finisce per alterare ulteriormente il tradizionale significato del matrimonio stesso, inteso come istituto destinato a soddisfare determinati interessi e bisogni di partner necessariamente eterosessuali[41]; in guisa che, l’eterosessualità non pare più elemento imprescindibile al fine di realizzare le finalità e gli interessi tradizionalmente posti a fondamento dell’unione matrimoniale.
Si tratta dunque di un intervento legislativo fortemente impattante sul tema delle relazioni affettive, che, in ultima istanza, contribuisce a restituire un’immagine del diritto di famiglia in rapida, incessante e irrequieta evoluzione.
Note:
[1] Pubblicata in G.U. n. 118 del 21 maggio 2016 e in vigore dal 5 giugno 2016.
[2] Cfr. F.D. Busnelli, La famiglia e l’arcipelago familiare, in Riv. Dir. Civ., 2002, I, 529, il quale, all’inizio del nuovo millennio, richiamando la celebre immagine di Jemolo della famiglia quale isola che il mare del diritto può solo lambire, evocava la figura dell’arcipelago, caratterizzata da una grande isola e da piccole isole rappresentate dai rapporti parafamiliari; L. Balestra, L’evoluzione del diritto di famiglia e le molteplici realtà affettive, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2011, 1105 e segg., spec. 1115-1116, ove, alla luce del costante e sempre più incisivo richiamo in ambito familiare alla negozialità e al sistema della responsabilità civile, si rileva come l’arcipelago sia ormai prossimo a ricongiungersi alla terraferma, con conseguente rinnovata e intensificata giuridicizzazione delle relazioni familiari. Lo stesso Busnelli, a distanza di una decina di anni (Busnelli-M.C. Vitucci, Frantumi europei di famiglia, in Riv. Dir. Civ., 2013, 768 e segg.) è giunto a proporre l’immagine, sulla base dell’osservazione del quadro legislativo europeo nel frattempo venutosi a creare, di una di una famiglia in frantumi.
[3] Per un primo commento al disegno di legge (c.d. “ddl Cirinnà”) da cui ha preso le mosse l’iter che ha condotto all’approvazione della L. n. 76/2016, si v. F. Romeo-C. Venuti, Relazioni affettive non matrimoniali: riflessioni a margine del d.d.l. in materia di regolamentazione delle unioni civili e disciplina delle convivenze, in Nuove Leggi Civ. Comm., 2015, 971 e segg.; G. Iorio, Il disegno di legge sulle “unioni civili” e sulle “convivenze di fatto”: appunti e proposte sui lavori in corso, ivi, 2015, 1014 e segg.; M. Trimarchi, Il disegno di legge sulle unioni civili e sulle convivenze, in www.juscivile.it, 2016, I, 1 e segg. Cfr. anche E. Giusti-F. Vettori, Famiglia di fatto ed unioni civili: verso un nuovo modello di famiglia?, articolo pubblicato in data 22 gennaio 2016, in www.giustiziacivile.it.
[4] L. Balestra, Laicità e diritto civile, in Riv. Dir. Civ., 2008, I, 27.
[5] Per un’ampia panoramica in materia si vedano, M. Blasi-G. Sarnari, I matrimoni e le convivenze “internazionali”, Torino, 2013, 79 e segg.; C. Saracino, Le unioni civili in Europa: modelli a confronto, in Dir. Fam. Pers., 2011, 1471 e segg.; M.C. De Cicco, Convivenza e situazioni di fatto. La tutela delle convivenze: cenni alle esperienze straniere, in Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, I, 1, II ed., Milano, 2011, 1088 e segg.; C.S. Pastore, Le unioni registrate e i Pacs in Europa, in Rass. Dir. Civ., 2010, 202 e segg.; R. Pescara, Le convivenze non matrimoniali nelle legislazioni dei principali paesi europei, in Il nuovo diritto di famiglia, diretto da G. Ferrando, II, Bologna, 2008, 986 e segg.; G. Cosco, Convivenza fuori del matrimonio: profili di disciplina nel diritto europeo, in Dir. Fam. Pers., 2006, 349 e segg.; M. Bonini Baraldi, Le nuove convivenze tra discipline straniere e diritto interno, Milano, 2005, 47 e segg.; E. Calò, Le convivenze registrate in Europa, Milano, 2000, 19 e segg.; nonché i saggi contenuti nel volume collettaneo Matrimonio, matrimonii, a cura di F. Brunetta d’Usseaux e A. D’Angelo, Milano, 2000.
[6] Al riguardo si v. da ultimo lo studio Matrimoni, separazioni e divorzi presentato dall’Istat il 12 novembre 2015 e riferito all’anno 2014, ove si pone in luce come, a fronte di una diminuzione dei primi matrimoni, le unioni di fatto sono invece più che raddoppiate dal 2008, superando il milione nel 2013-2014. Più in particolare, le convivenze more uxorio tra partner celibi e nubili sono arrivate a 641.000 nel 2013-2014 e sono la componente che fa registrare gli incrementi più sostenuti, essendo cresciute di quasi dieci volte rispetto al 1993-1994. Il fatto che le libere unioni siano una modalità sempre più diffusa di formazione della famiglia trova conferma anche nei dati sulla natalità, dai quali emerge che oltre un nato su quattro nel 2014 ha genitori non coniugati.
[7] Sul punto si v. Corte cost., 15 aprile 2010, n. 138, in Foro It., 2010, I, 1361, con note di R. Romboli e F. Dal Canto, la quale, chiamata ad intervenire a fronte della prospettata questione di legittimità costituzionale di una serie di disposizioni del codice civile nella parte in cui non consentono il matrimonio tra persone dello stesso sesso (nel caso di specie una coppia omosessuale aveva adito il giudice a quo a fronte del rifiuto opposto dall’ufficiale di stato civile a procedere alle pubblicazioni matrimoniali richieste dai due partner), ha espressamente affermato, sia pur in via di obiter dictum, che per formazione sociale ai sensi dell’art. 2 Cost. deve intendersi “ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto della valorizzazione del modello pluralistico”; nell’ambito della nozione di formazione sociale così delineata, il Giudice delle leggi ha annoverato anche “l’unione omosessuale”, da intendersi come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri; la Corte ha peraltro espressamente escluso che “l’aspirazione a tale riconoscimento – che necessariamente postula una disciplina di carattere generale, finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia – possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio”, attribuendo al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, l’individuazione, nell’ambito applicativo dell’art. 2 Cost., delle forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni tra persone dello stesso sesso, riservandosi invece “la possibilità d’intervenire a tutela di specifiche situazioni”, per l’eventualità in cui, “in relazione ad ipotesi particolari, sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale, trattamento che questa Corte può garantire con il controllo di ragionevolezza”. Richiamandosi alle statuizioni del Giudice delle leggi e puntualmente rifacendosi anche a quanto affermato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo [nella sentenza del 24 giugno 2010, (Schalk and Kopf c. Austria), in Nuova Giur. Civ. Comm., 2010, I, 1137, con nota di M.M. Winkler, la quale ha ricondotto la tutela delle unioni non coniugali anche omosessuali nell’ambito del diritto al rispetto della vita familiare tutelato dall’art. 8 della Convenzione], Cass., 15 marzo 2012, n. 4184, in Fam. e Dir., 2012, 665, con nota di M. Gattuso, nell’affrontare la nota questione dell’impossibilità di procedere alla trascrizione nei registri dello stato civile del matrimonio tra persone dello stesso sesso celebrato all’estero, ha avuto modo di affermare che i componenti della coppia omosessuale conviventi in stabile relazione di fatto, pur non potendo – secondo la legislazione italiana – far valere né il diritto a contrarre matrimonio né il diritto alla trascrizione del matrimonio contratto all’estero, tuttavia, a prescindere dall’intervento del legislatore in materia, “quali titolari del diritto alla “vita familiare” e nell’esercizio del diritto inviolabile di vivere liberamente una condizione di coppia e del diritto alla tutela giurisdizionale di specifiche situazioni, segnatamente alla tutela di altri diritti fondamentali, possono adire i giudici comuni per far valere, in presenza (…) di “specifiche situazioni”, il diritto ad un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata, e, in tale sede, eventualmente sollevare le conferenti eccezioni di illegittimità costituzionale delle disposizioni delle leggi vigenti, applicabili nelle singole fattispecie, in quanto ovvero nella parte in cui non assicurino detto trattamento, per assunta violazione delle pertinenti norme costituzionali e/o del principio di ragionevolezza”. Cfr. anche Corte cost., 11 giugno 2014, n. 170, in Fam. e Dir., 2014, 861, con nota di V. Barba, che, sempre richiamandosi alla sopra citata pronuncia n. 138/2010, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 2 Cost., sia dell’art. 4, L. 14 aprile 1982, n. 164 (applicabile ratione temporis), sia del successivo art. 31, 6° comma, D.Lgs. n. 150/2011, nella parte in cui non prevedono che la sentenza di rettificazione di sesso di uno dei coniugi, che comporta lo scioglimento del matrimonio, consenta, ove entrambi lo richiedano, di “mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima”, la cui disciplina resta demandata alla discrezionalità di scelta del legislatore, sollecitato dalla Corte medesima a provvedere tempestivamente, introducendo una forma alternativa (e diversa dal matrimonio) tesa a consentire ai due coniugi di evitare il passaggio da uno stato di massima protezione giuridica ad una condizione, su tal piano, di assoluta indeterminatezza; la Suprema Corte, giudice rimettente davanti al quale il giudizio è stato successivamente riassunto, qualificando la predetta pronuncia della Corte costituzionale come “autoapplicativa e non meramente dichiarativa”, ha ritenuto necessario, al fine di dare attuazione alla stessa, accogliere il ricorso e conservare alle parti ricorrenti il riconoscimento dei diritti e doveri conseguenti al vincolo matrimoniale legittimamente contratto fino all’avvento dell’auspicato intervento del legislatore volto a consentire alle medesime di mantenere in vita il rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata che ne tutelasse adeguatamente diritti e obblighi; con conservazione, dunque, dello statuto dei diritti e dei doveri propri del modello matrimoniale sottoposta alla condizione risolutiva temporale costituita da quella futura regolamentazione (Cass., 21 aprile 2015, n. 8097, in Corriere Giur., 2015, 1048, con nota di S. Patti). In argomento si v. anche Cass., 9 febbraio 2015, n. 2400, in Corriere Giur., 2015, 909, con nota di G. Ferrando, ove si legge che “il processo di costituzionalizzazione delle unioni tra persone dello stesso sesso non si fonda (…) sulla violazione del canone antidiscriminatorio dettata dall’inaccessibilità al modello matrimoniale, ma sul riconoscimento di un nucleo comune di diritti e doveri di assistenza e solidarietà propri delle relazioni affettive di coppia e sulla riconducibilità di tali relazioni nell’alveo delle formazioni sociali dirette allo sviluppo, in forma primaria, della personalità umana”. Nella giurisprudenza europea si v. inoltre l’importante sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo 29 luglio 2015 (Oliari ed altri c. Italia), in Fam. e Dir., 2015, 1069, con nota di P. Bruno, che ha ravvisato una violazione dell’art. 8 della Convenzione, ponendo in luce le specifiche omissioni del Governo italiano, cui ha imputato di aver ecceduto il suo margine di discrezionalità e di non aver ottemperato all’obbligo positivo di assicurare alle coppie omoaffettive la disponibilità di uno specifico quadro legale che prevedesse il riconoscimento e la tutela delle loro unioni omosessuali, ignorando le indicazioni provenienti dalla nostra giurisprudenza, la quale aveva fatto riferimento alla necessità di un intervento legislativo. Per un’ampia e puntuale analisi delle pronunce richiamate, si v. Fortino, Piccoli passi e cautele interpretative delle Corti sui diritti delle unioni omosessuali, in Nuova Giur. Civ. Comm., 2016, 216 e segg.
[8] Molto critico al riguardo E. Quadri, Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze: osservazioni (solo) a futura memoria?, editoriale pubblicato in data 1 aprile 2016 in giustiziacivile.com, 3, il quale parla di “deplorevole (…) confuso accatastamento di commi in un unico articolo”.
[9] Si v. per tutti A. Barbera, Principi fondamentali, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, sub art. 2, Bologna-Roma, 1975, 80 e segg.
[10] Cfr. M. Bessone, Rapporti etico-sociali, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, sub art. 29, Bologna-Roma, 1976, 26 e segg.; P. Barile, La famiglia di fatto. Osservazioni di un costituzionalista, in La famiglia di fatto, Atti del Convegno nazionale di Pontremoli, 27-30 maggio 1976, Montereggio-Parma, 1977, 45; A. Corasaniti, Famiglia di fatto e formazioni sociali, ivi, 143-144; G. Furgiuele, Libertà e famiglia, Milano, 1979, 282 e segg.; F. Prosperi, La famiglia non fondata sul matrimonio, Napoli, 1980, 84 e segg.; P. Perlingieri, La famiglia senza matrimonio tra l’irrilevanza giuridica e l’equiparazione alla famiglia legittima, in Una legislazione per la famiglia di fatto?, Atti del Convegno svoltosi a Roma il 3 dicembre 1987, Napoli, 1988, 136-137; A. Falzea, Problemi attuali della famiglia di fatto, ivi, 51 segg.; E. Roppo, La famiglia senza matrimonio – Diritto e non diritto nella fenomenologia delle unioni libere, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1980, 738; M. Dogliotti, voce “Famiglia di fatto”, in Dig. Disc. Priv. Sez. Civ., VIII, Torino, 1992, 192; F.D. Busnelli-M. Santilli, La famiglia di fatto, in Commentario al diritto italiano della famiglia, diretto da G. Cian-G. Oppo-A. Trabucchi, VI, 1, Padova, 1993, 759, nonché 779; G. Ferrando, Convivere senza matrimonio: rapporti personali e patrimoniali nella famiglia di fatto, in Fam. e Dir., 1998, 185; A. Spadafora, Rapporto di convivenza more uxorio e autonomia privata, Milano, 2001, 20; L. Balestra, La famiglia di fatto, Padova, 2004, 1 segg.; R. Tommasini, La famiglia di fatto, in Trattato di diritto privato, diretto da M. Bessone, IV, I, Torino, 2010, 406-407; C.G. Terranova, Convivenza e situazioni di fatto. Convivenza e rilevanza delle cc. dd. convivenze di fatto, in Trattato di diritto di famiglia, diretto da P. Zatti, I, 1, II ed., Milano, 2011, 1086-1087; C.M. Bianca, Diritto civile, 2.1, La famiglia, Milano, 2014, 21. Per un primo riconoscimento nella giurisprudenza di legittimità, Cass., 8 febbraio 1977, n. 533, in questa Rivista, 1980, I, 1, 346, con nota di M. Dogliotti; nella giurisprudenza costituzionale, Corte cost., 18 novembre 1986, n. 237, in Foro It., 1987, I, 2353.
[11] Corte cost., 15 aprile 2010, n. 138, cit.
[12] Secondo G. Casaburi, Il nome della rosa (la disciplina italiana delle unioni civili), articolo pubblicato sul sito web http://articolo29.it, il riferimento all’art. 3 Cost., opera in questa sede come “canone di razionalità” ovvero quale limite alla discrezionalità del legislatore; con la conseguenza che le disparità di trattamento tra matrimonio ed unione civile potranno ritenersi costituzionalmente legittime solo in quanto corrispondano ad un equilibrato bilanciamento degli interessi in gioco.
[13] Cfr. R. Pacia, Unioni civili e convivenze, in www.juscivile.it, 2016, 6, 1-2, la quale rileva come non si spieghi “la riconduzione (…) della sola unione civile, e non anche delle convivenze, alle formazioni sociali ex artt. 2 e 3 Cost.”.
[14] Cfr. F. Dell’Anna Misurale, Unioni civili tra diritto e pregiudizio. Prima lettura del nuovo testo di legge, articolo pubblicato in data 27 giugno 2016, in giustiziacivile.com, 10, la quale sottolinea come il legislatore, nel regolare il rapporto tra persone dello stesso sesso mediante il ricorso al modello dell’unione civile, scartando l’opzione matrimonio, abbia tuttavia attinto “a piene mani” dalla disciplina di quest’ultimo istituto; R. Pacia, Unioni civili e convivenze, cit., 213, parla della disciplina delle unioni civili come “brutta copia del matrimonio”.
[15] Si segnala al riguardo che il 28° comma attribuisce al Governo una delega contemplante l’adozione, entro sei mesi dalla data in vigore della L. n. 76/2016 (5 giugno 2016), di uno o più decreti legislativi in materia di unione civile tra persone dello stesso sesso, aventi, tra l’altro, ad oggetto l’adeguamento alle previsioni della nuova legge delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni; il successivo 34° comma prevede che con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell’interno, entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della legge, vengano stabilite le disposizioni transitorie necessarie per la tenuta dei registri dello stato civile nelle more dell’entrata in vigore dei decreti legislativi di cui sopra.
[16] Sul significato da attribuirsi di tale omissione, cfr. R. Campione, L’unione civile tra la disciplina dell’atto e regolamentazione dei rapporti di carattere personale, in corso di pubblicazione; F. Dell’Anna Misurale, Unioni civili tra diritto e pregiudizio. Prima lettura del nuovo testo di legge, cit., 12.
[17] Il 10° comma prevede invece che, mediante dichiarazione all’ufficiale di stato civile, le parti possono stabilire di assumere, per la durata dell’unione civile, un cognome comune, scegliendolo tra i loro cognomi; la stessa disposizione specifica che la parte può anteporre o postporre al cognome comune il proprio cognome, se diverso, facendone dichiarazione all’ufficiale dello stato civile. La modernità di questa regola, che si pone nel solco dei numerosi progetti di riforma dell’art. 143 bis c.c., è sottolineata da R. Campione, L’unione civile tra la disciplina dell’atto e regolamentazione dei rapporti di carattere personale, cit. Secondo R. Pacia, Unioni civili e convivenze, cit., 198-199, tale disciplina, senz’altro maggiormente conforme ai principi costituzionali e destinata a sostituire la soluzione prefigurata dall’art. 143 bis c.c., è tuttavia, allo stato, suscettibile di porre problemi di legittimità costituzionale.
[18] In argomento si v. L. Olivero, Unioni civili e presunta licenza di infedeltà, in corso di pubblicazione in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2016, il quale pone in luce come la fedeltà, ancorché cancellata dai doveri tra i partner omosessuali, tenda a riaffiorare da altre disposizioni della L. n. 76/2016, e ciò a causa del confezionamento delle regole dell’unione civile sulla falsa riga delle norme dettate per l’unione coniugale; l’A. intende riferirsi: alla disciplina in materia di nullità ed in particolare alle norme, espressamente richiamate dal 7° comma, che individuano quale causa ostativa alla relativa azione l’avvenuta coabitazione come coniugi (cfr. artt. 119, 120 e 123 c.c.) e, dunque, l’aver tenuto un comportamento rispettoso di tutta la deontologia matrimoniale, comprendente anche “quell’intima confidenza esclusiva che si chiama fedeltà”; nonché alla disciplina dettata in tema di scioglimento dell’unione, che, come meglio si vedrà nel prosieguo, richiama quella dettata dalla L. n. 878/1970 anche con riguardo all’assegno divorzile ed alla sua quantificazione, in relazione alla quale – come noto – possono venire in considerazione anche le ragioni della decisione: il che potrebbe condurre ad una valorizzazione delle specifiche dinamiche comportamentali che hanno determinato la rottura del rapporto; senza contare – osserva ancora l’A. citato – che l’infedeltà potrebbe anche ricondursi alla violazione del dovere di assistenza morale, a pieno operante anche per i partner che abbiano dato vita all’unione civile. Sul punto si v. anche G. Casaburi, Il nome della rosa (la disciplina italiana delle unioni civili), cit.; nonché R. Campione, L’unione civile tra la disciplina dell’atto e regolamentazione dei rapporti di carattere personale, cit., ove si afferma l’incongruenza di ogni tentativo volto ad espellere dell’unione civile il dovere in questione, nella misura in cui esso “si atteggia quale ulteriore tassello del sostegno reciproco, affettivo, psicologico e spirituale sotteso ad ogni legame affettivo”, in tal modo disvelando la propria tensione verso l’obbligo di assistenza morale e materiale; R. Pacia, Unioni civili e convivenze, cit., 198; F. Dell’Anna Misurale, Unioni civili tra diritto e pregiudizio. Prima lettura del nuovo testo di legge, cit., 12, la quale giudica inopportuna la scelta operata dal legislatore, osservando come la disparità di trattamento tra persone eterosessuali e omosessuali sul tema della fedeltà appaia – o meglio, sia, sulla base di quanto emerso dal dibattito parlamentare – frutto di un pregiudizio sulla qualità del vincolo che unisce le coppie dello stesso sesso. Secondo E. Quadri, Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze, cit., 5-6, l’espunzione dell’obbligo di fedeltà è invece privo di qualsiasi portata concreta, in ragione del fatto che, come si vedrà in seguito, per l’unione civile non opera l’istituto della separazione personale, non venendo quindi in considerazione la possibilità di pronunciare l’addebito, quale tipica sanzione della violazione dell’obbligo in discorso); ciò comunque potrebbe comportare la possibilità di sanzionare eventuali offese alla dignità e al decoro che una parte abbia arrecato all’altra invocando la responsabilità di quest’ultima per illecito endofamiliare: cfr. Cass., 20 giugno 2013, n. 15481, in Nuova Giur. Civ. Comm., 2013, I, 994, con nota di L. Lenti.
[19] Basti al riguardo pensare che in conformità ad un’opinione consolidata ormai da lungo tempo, con riguardo agli apporti economici forniti dall’uno all’altro partner, si postula l’applicazione della disciplina dettata in tema di obbligazioni naturali (art. 2034 c.c.) al fine di consentire all’accipiens di sottrarsi alla ripetizione di quanto ricevuto in esecuzione di un dovere non certo giuridico ma senz’altro morale e sociale: sul punto si v., tra le altre, Cass., 3 febbraio 1975, n. 389, in Foro It., 1975, I, 2301, con nota di L. Florino; Cass., 8 febbraio 1977, n. 556, in questa Rivista, 1980, I, 1, 346, con nota di M. Dogliotti; Cass., 20 gennaio 1989, n. 285, in Arch. Civ., 1989, 489. Affinché possa venire in considerazione la fattispecie di cui all’art. 2034 c.c., la giurisprudenza richiede in ogni caso il rispetto del requisito della proporzionalità dell’adempimento: cfr. Cass., 13 marzo 2003, n. 3713, in questa Rivista, 2004, 530, con nota di P. Digregorio e commentata da L. Balestra, Note in tema di proporzionalità nell’adempimento delle obbligazioni naturali e sulla nozione di terzo ex art. 936 c.c. (in margine ad un caso di prestazioni rese nell’ambito della convivenza more uxorio), in Familia, 2004, I, 780 e segg.; Cass., 22 gennaio 2014, n. 1277, in Fam. e Dir., 2014, 888, con nota di T. Bortolu.
[20] Sul punto, si v. A. Schillaci, Un buco nel cuore. L’adozione coparentale dopo il voto del Senato, articolo pubblicato sul sito web http://articolo29.it, il quale osserva come questa disposizione abbia un intento antidiscriminatorio e contenga una regola di interpretazione ed applicazione – rivolta al giudice e alla pubblica amministrazione – tesa a mettere al riparo i partner omosessuali da possibili ulteriori ipotesi di trattamento differenziato rispetto ai soggetti uniti in matrimonio non espressamente contemplate dalla L. n. 76/2016; grazie alla previsione in discorso risultano, tra le altre, immediatamente applicabili alle parti dell’unione civile le discipline in materia assistenziale, previdenziale, pensionistica, sanitaria: G. Ferrando, Le unioni civili. La situazione in Italia alla vigilia della riforma, in www.juscivile.it., 2016, 3, 47-48.
[21] Al riguardo pare opportuno rammentare che, nell’ambito delle disposizioni dedicate all’unione civile tra persone dello stesso sesso contenute nel testo originario del disegno di legge, ve ne era anche una che si proponeva di modificare l’art. 44, 1° comma, lett. b), L. n. 184/1983, rendendo possibile l’adozione non legittimante del figlio di una delle parti dell’unione civile ad opera dell’altra parte (c.d. stepchild adoption). Tale disposizione, a fronte degli aspri contrasti da essa suscitati, è stata al fine espunta, senza che, tuttavia, il legislatore abbia inteso del tutto rinunciare ad introdurre un qualche riferimento all’adozione. Osserva a questo proposito E. Quadri, Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze, cit., 6, che la richiamata formula impiegata dal 20° comma, si presenta quale “vero e proprio ambiguo trionfo delle riserve mentali delle forze politiche coinvolte nella stesura finale del testo da approvare”, rappresentando al tempo stesso “l’abdicazione alla giurisprudenza, da parte del legislatore, di quella funzione, che pure (…) dovrebbe istituzionalmente competergli, di interprete e protagonista dell’adeguamento dell’ordinamento alla coscienza sociale”; parimenti critico R. Campione, L’unione civile tra la disciplina dell’atto e regolamentazione dei rapporti di carattere personale, cit., il quale sottolinea come il legislatore, pur avendo dichiarato inapplicabile la normativa in tema di adozione, abbia tuttavia fatto uso, del tutto incoerentemente, di una clausola volta a mantenere fermo quel diritto vivente che non ha potuto o non ha voluto trasfondere in diritto vigente; di “vero e proprio endorsement alla magistratura” parla F. Dell’Anna Misurale, Unioni civili tra diritto e pregiudizio. Prima lettura del nuovo testo di legge, cit., 15. È noto infatti, data l’ampia risonanza mediatica suscitata da queste vicende, che la giurisprudenza di merito è già più volte giunta a pronunciare l’adozione non legittimante di un minore a favore del partner omosessuale del genitore ai sensi dell’art. 44, 1° comma, lett. d), L. n. 184/1983, sulla base di un’interpretazione estensiva della norma in discorso, volta a leggere la constatata impossibilità di affidamento preadottivo cui essa si riferisce sia in senso fattuale sia in senso giuridico, e così ammettendo la pronuncia dell’adozione, ai sensi della norma citata, anche con riguardo a minori che, non trovandosi in situazione di abbandono, non sono stati dichiarati in stato di adottabilità: al riguardo si v. Trib. min. Roma, 30 luglio 2014, in Foro It., 2014, I, 2743, che ha disposto l’adozione di una minore a favore della compagna stabilmente convivente con la madre; nel caso di specie, la minore era stata concepita in Spagna a seguito di un intervento di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo nell’ambito di un progetto maturato e portato avanti insieme dalla coppia, che in quel paese aveva contratto matrimonio ed era iscritta nel registro delle unioni civili del Comune italiano di residenza (tale sentenza è stata successivamente confermata da App. Roma, Sez. min., 23 dicembre 2015, in Foro It., 2016, I, 699); una decisione dello stesso tenore in relazione ad un caso analogo è stata successivamente assunta dallo stesso Trib. min. Roma, con la sentenza 22 ottobre 2015, il cui testo si può leggere nel sito web http://www.articolo29.it; sempre il Trib. min. Roma con sentenza 23 dicembre 2015, il cui testo si può parimenti leggere nel sito web http://www.articolo29.it, ha pronunciato l’adozione ex art. 44, 1° comma, lett. d) a favore del compagno del padre di una bambina concepita con la pratica della maternità surrogata: quest’ultima sentenza è passata in giudicato non essendo stata impugnata dal P.M. nei termini previsti; Trib. min. Roma, 30 dicembre 2015, in Fam. e dir., 2016, 584, con nota di A. Scalera, ha pronunciato, a favore di ciascuna delle componenti la coppia omogenitoriale, l’adozione ex art. 44, 1° comma, lett. d) della figlia minore della rispettiva partner (c.d. stepchild adoption “incrociata”); App. Torino, Sez. min., 27 maggio 2016, sempre consultabile nel sito web http://www.articolo29.it; in senso contrario all’adozione ex art. 44, lett. d), Trib. min. Piemonte e Valle d’Aosta, 11 settembre 2015, n. 258, in Nuova Giur. Civ. Comm., 2016, I, 205; Id., 11 settembre 2015, n. 259, ivi, 206, con nota di A. Nocco. Sul punto, a seguito del ricorso presentato dal P.M. avverso App. Roma, Sez. min., 23 dicembre 2015, cit., una prima fondamentale indicazione è venuta dalla giurisprudenza di legittimità con la recentissima Cass., 22 giugno 2016, n. 12962, il cui testo si può leggere all’indirizzo web https://www.personaedanno.it, con nota di V. Mazzotta, la quale, anche sulla scorta di un’analisi dell’evoluzione normativa ed applicativa dell’art. 44 L. n. 183/1984 alla luce della giurisprudenza della Corte Costituzionale e della stessa Corte di Cassazione, nonché dei principi affermati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, si è espressa in senso favorevole all’interpretazione già fatta propria dalla maggior parte dei giudici di merito, ponendo in luce come tutte le ipotesi di adozione dalla medesima norma, così come come specificato dal suo primo comma, non presuppongono una situazione di abbandono. In argomento si v. anche App. Torino, Sez. min., 29 ottobre 2014, in Fam. e Dir., 2015, 822, con nota di M. Farina, che ha autorizzato la trascrizione dell’atto di nascita del minore nato in Spagna, da coppia omosessuale coniugata, a seguito di procreazione medicalmente assistita eterologa con l’impianto di gameti da una donna all’altra (l’una aveva donato gli ovuli e l’altra aveva portato avanti la gravidanza e il parto); App. Milano, 1 dicembre 2015, in Fam. e Dir., 2016, 271, con nota di F. Tommaseo, che ha dichiarato l’efficacia del provvedimento con cui il giudice spagnolo aveva pronunciato l’adozione di una minore concepita in Spagna a seguito di procreazione assistita eterologa a favore del coniuge donna della madre, con la quale quest’ultima già conviveva al momento della nascita della bambina, concepita nell’ambito di un progetto genitoriale condiviso; analogamente App. Napoli, 30 marzo 2016, il cui testo si può leggere nel sito web http://www.articolo29.it (la stessa pronuncia è pubblicata con la diversa data 5 aprile 2016, in Foro It., 2016, I, 1910, con nota di G. Casaburi), che ha dichiarato l’efficacia dei provvedimenti con cui i giudici francesi avevano pronunciato l’adozione legittimante di due minori concepiti in Francia da due donne coniugate a seguito di procreazione assistita di tipo eterologo: ciascuna era madre biologica di uno dei minori, poi divenuti figli adottivi dell’altra in forza dei provvedimenti francesi, la cui efficacia nel nostro paese (la coppia si era poi trasferita in Italia con i figli) è stata affermata dai giudici partenopei. A quest’ultimo riguardo si v. inoltre Trib. min. Bologna, ord. 10 ottobre 2014, in Nuova Giur. Civ. Comm., 2015, I, 387, con nota di D. Ferrari, che ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 35 e 36 della L. n. 184/1983, nella parte in cui non consentono al giudice di valutare, nel caso concreto, se risponda all’interesse del minore il riconoscimento in Italia della sentenza straniera che abbia pronunciato la sua adozione in favore del coniuge dello stesso sesso del genitore, indipendentemente dal rilievo che quel matrimonio, contratto all’estero, non abbia prodotto effetti nel nostro paese, in riferimento agli art. 2, 3, 30 e 117 Cost.; la questione è stata dichiarata inammissibile da Corte cost., ord. 7 aprile 2016, n. 76, in Foro It., 2016, I, 1910, con nota di G. Casaburi, osservando come il giudice a quo avesse erroneamente trattato la decisione straniera come un’ipotesi di adozione da parte di cittadini italiani di un minore straniero (adozione internazionale), quando invece si trattava del riconoscimento di una sentenza straniera pronunciata tra stranieri (le donne componenti la coppia erano entrambe cittadine statunitensi).
[22] Il 25° comma prevede l’applicabilità, in quanto compatibili, degli artt. 4, 5, 1° comma e dal 5° all’11° comma, 8, 9, 9 bis, 10, 12 bis, 12 ter, 12 quater, 12 quinquies, 12 sexies della L. n. 878/1970, delle disposizioni di cui al Titolo II del libro IV del c.p.c. e degli artt. 6 e 12 del D.L. n. 132/2014, convertito in L. n. 162/2014.
[23] Diverso sotto questo profilo l’originario testo del ddl Cirinnà, ove figurava invece un generico rinvio alle norme in materia di separazione personale e di divorzio.
[24] Con riferimento a questa particolare ipotesi G. Ferrando, Le unioni civili. La situazione in Italia alla vigilia della riforma, cit., 48 parla di “divorzio immediato” o “diretto”. E. Quadri, Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze, cit., 7, pone in luce come il prefigurato meccanismo si ponga in un rapporto poco chiaro con le modalità di scioglimento introdotte dagli artt. 6 e 12 D.L. n. 132/2014, convertito in L. n. 132/2014, richiamati dal successivo 25° comma. Cfr. anche R. Pacia, Unioni civili e convivenze, cit., 200 e segg., la quale, a quest’ultimo proposito, rilevando come le due procedure stragiudiziali prefigurate dai citati artt. 6 e 12 vengano in considerazione solo nei casi previsti dall’art. 3, 1° comma, n. 2, lett. b), L. n. 878/1970, e cioè quelli fondati sulla pregressa separazione, oltre che nei casi di modifica delle condizioni di divorzio, giunge alla conclusione secondo cui, con riguardo all’unione civile, che come detto non conosce la separazione, tali procedure potranno venire in considerazione solo per le ipotesi di revisione.
[25] Corte cost., 11 giugno 2014, n. 170, cit.; Cass., 21 aprile 2015, n. 8097, cit. In argomento, nella giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, si v. la sentenza 16 luglio 2014, (Hämäläinen c. Finlandia), in Nuova Giur. Civ. Comm., 2014, I, 1139, con nota di A. Lorenzetti e A. Schuster.
[26] Cfr. anche Quadri, Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze, cit., 8, ove si osserva che, in relazione alla fattispecie considerata dal legislatore, non pare attagliarsi la qualificazione “di fatto”, trattandosi, in effetti, della surrettizia introduzione di un ulteriore modello di famiglia “legale”.
[27] Secondo L. Lenti, La nuova disciplina delle convivenze di fatto: osservazioni a prima lettura, in www.iuscivile.it, 2016, 4, 97-98, il richiamato impedimento matrimoniale preclude il riconoscimento dei nuovi diritti attribuiti dalla L. n. 76/2016 a quelle convivenze nelle quali almeno una delle parti non sia in stato libero, ancorché sia già intervenuta la separazione personale; e ciò anche se, a parere dell’A. citato, la conferma da parte del legislatore della tradizionale assimilazione dei coniugi legalmente separati ai coniugi conviventi, anziché a quelli divorziati, sia priva di riscontro effettivo secondo l’attuale sentire sociale, oltre che logicamente contrastante con diverse disposizioni normative e con alcuni importanti principi giurisprudenziali: di qui l’affermata necessità di coordinare le nuove norme con le disposizioni legislative già esistenti nel nostro ordinamento riferite alla convivenza o ai conviventi senza ulteriori specificazioni, nonché con i principi elaborati dalla giurisprudenza con riguardo alla famiglia di fatto, taluni dei quali riferiti anche a stabili convivenze instaurate da soggetti separati, al fine di continuare ad attribuire a tutte le coppie di conviventi, a prescindere dallo stato libero dei partner, ogni altra prerogativa riconosciuta fino ad oggi. Si pone nella stessa prospettiva, ugualmente senza condividere operata la scelta del legislatore, M. Rizzuti, Prospettiva di una disciplina delle convivenze: tra fatto e diritto, articolo pubblicato in data 12 maggio 2016 in giustiziacivile.com, 10 ss., il quale solleva il problema del rapporto della convivenza di fatto con il matrimonio omosessuale celebrato all’estero attualmente non trascrivibile (sul punto si v. da ultimo Cons. Stato, 26 ottobre 2015, n. 4899, in Fam. e Dir., 2016, 64, con nota di Iorio); in termini anche Pacia, Unioni civili e convivenze, cit., 205, che pure si pone criticamente nei confronti della previsione in discorso.
[28] Al riguardo occorre porre in luce che i contenuti inerenti ai rapporti instaurati da coloro che convivono sono estremamente vari, così come molteplici sono le motivazioni che possono porsi alla base della scelta di dar vita a una convivenza, potendo le ragioni del vivere insieme spiegarsi anche alla luce di un vincolo più o meno stretto di parentela, di amicizia, o essere dettato dalla condivisione di esigenze o di interessi comuni, ovvero da un intento di solidarietà o di mutuo aiuto: sul punto cfr., tra gli altri, F.D. Busnelli Sui criteri di determinazione della disciplina normativa della famiglia di fatto, in AA.VV., Famiglia di fatto (Atti del Convegno nazionale di Pontremoli, 27-30 maggio 1976), Montereggio-Parma, 1977, 133, il quale menziona le convivenze tra familiari più o meno stretti ovvero riferibili a comunità non familiari (convivenza della collaboratrice domestica con la famiglia del datore di lavoro, convivenza tra appartenenti ad una comunità religiosa o di altro tipo); A.M. Benedetti, Le proposte di legge italiane in materia di convivenza, in Matrimonio, matrimonii, a cura di F. Brunetta d’Usseaux e A. D’Angelo, cit., 212; G. Ferrando, Convivenze e modelli di disciplina, ivi, 301, la quale richiama, tra le altre, le convivenze tra giovani per ragioni di studio; G. Autorino Stanzione-P. Stanzione, Unioni di fatto e patti civili di solidarietà. Prospettive de iure condendo, in Il diritto di famiglia nella dottrina e nella giurisprudenza, Trattato teorico-pratico diretto da G. Autorino Stanzione, I, Torino, 2011, 226; F. Morozzo della Rocca, La convivenza di diritto civile come alternativa alla prestazione sociale di residenzialità, in Doveri di solidarietà e prestazioni di pubblica assistenza, a cura di F. Morozzo della Rocca, Napoli, 2013, 235 e segg. Sulle convivenze parentali e di mutuo aiuto, cfr. L. D’Adamo, Le convivenze senza matrimonio: diversi di modelli e presupposti di tutela, in Vita Notar., 2001, 1653 e segg.; E. Del Prato, Patti di convivenza, in Familia, 2002, I, 974-975. Interessante osservare, in prospettiva comparatistica, che l’ordinamento catalano dedica alle convivenze di mutuo aiuto una disciplina ad hoc, contenuta nella Lley 19/1998, de 28 de desembre, sobre situacions convivencials de ajuda mútua, un’analisi della quale è condotta da V. Zambrano, Parejas no casadas: l’esperienza spagnola e la Llei catalana del 10/1998, in Matrimonio, matrimonii, cit., 430 e segg.; nell’ordinamento belga la cohabitation légale, introdotta nel codice civile agli artt. 1475-1479 con la L. n. 35/1998 entrata in vigore il 1° gennaio 2000, è definita come situazione di vita comune di due persone che abbiano posto in essere un’apposita dichiarazione in tal senso (l’art. 1475 stabilisce che «Par “cohabitation légale”, il y a lieu d'entendre la situation de vie commune de deux personnes ayant fait une déclaration au sens de l'article 1476»), la quale, per espressa previsione, può essere effettuata da due soggetti che non siano uniti in matrimonio o vincolati da altra cohabitation légale, mancando tuttavia riferimenti a vincoli di altro tipo.
[29] Cfr. M. Rizzuti, Prospettiva di una disciplina delle convivenze: tra fatto e diritto, cit., 22-23, nt. 49; R. Pacia, Unioni civili e convivenze, cit., 203, a parere della quale sarebbe stato sufficiente un richiamo all’art. 87 c.c., anche al fine di evitare una possibile questione di legittimità costituzionale. Secondo L. Lenti, La nuova disciplina delle convivenze di fatto: osservazioni a prima lettura, cit., 97, la norma, frutto della disattenzione del legislatore, dev’essere interpretata in maniera ragionevole, estendendo ai conviventi di fatto gli stessi limiti di grado previsti per gli impedimenti matrimoniali.
[30] A seguito della pubblicazione della L. n. 76/2016 nella Gazzetta Ufficiale, il Ministero dell’Interno, tenuto conto di quanto previsto dai commi 36° e 37°, nonché delle ulteriori previsioni contenute nella nuova legge in materia di contratto di convivenza, che pure fanno riferimento a determinate iscrizioni anagrafiche, ha emanato, in data 1 giugno 2016, la circolare n. 7, finalizzata ad offrire le prime indicazioni sugli adempimenti anagrafici in materia di convivenze di fatto. L’indicata circolare, richiamate le disposizioni rilevanti, statuisce che, alla luce delle stesse, l’attività degli uffici anagrafici riguarderà l’iscrizione delle convivenze di fatto, la registrazione dell’eventuale contratto di convivenza e il rilascio delle relative certificazioni; con specifico riguardo all’iscrizione delle convivenze di fatto, prescrive che essa dovrà essere eseguita secondo le procedure già previste e disciplinate dall’ordinamento anagrafico ed, in particolare, dagli artt. 4 e 13, D.P.R. n. 223/1989, come espressamente richiamati dall’art. 1, comma 37°, L. n. 76/2016.
[31] In senso adesivo R. Pacia, Unioni civili e convivenze, cit., 204, ad avviso della quale la mancanza della dichiarazione “non sembra ostativa alla configurabilità della fattispecie (e ad altre modalità di accertamento della convivenza)”. Diversamente L. Lenti, La nuova disciplina delle convivenze di fatto: osservazioni a prima lettura, cit., 96, a parere del quale la stabilità consiste nell’avvenuta dichiarazione di costituire la famiglia anagrafica di cui al citato art. 4, D.P.R. n. 223/1989; nel senso della necessità della dichiarazione anagrafica si esprime anche M. Rizzuti, Prospettive di una disciplina delle convivenze: tra fatto e diritto, cit., 9. Si v. anche E. Quadri, Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso esso e disciplina delle convivenze, cit., 8, il quale, nell’elencare i presupposti cui la legge ricollega la sussistenza di una convivenza di fatto, osserva che, tra di essi, “pare configurato come essenziale pure il criterio anagrafico”.
[32] Così Trib. Milano, 31 maggio 2016, in www.quotidianogiuridico.it, pronunciandosi nell’ambito di un procedimento cautelare ex art. 700 c.p.c., promosso dalla madre di un nascituro, concepito fuori dal matrimonio, al fine di accedere al materiale biologico del preteso padre per utilizzarlo nell’instaurando giudizio avente ad oggetto l’accertamento della paternità ex art. 269 c.c. Nella fattispecie il Tribunale ha ritenuto provata l’esistenza di una convivenza di fatto tra la ricorrente e il preteso padre del nascituro, deceduto qualche mese prima, in virtù del fatto che la coppia avesse già avuto due figli, circostanza ritenuta di per se stessa sintomatica “di un habitat familiare formatosi al di fuori di un vincolo matrimoniale”. Nella pronuncia si legge anche che: “La prova si ricava, comunque, anche dal certificato anagrafico in atti che attesta lo stato di famiglia, nel periodo in cui si è realizzata la morte del (…)”.
[33] In argomento si v. Trib. Treviso, 15 gennaio 2015, in Nuova Giur. Civ. Comm., 2015, I, 905, con nota di M. Cinque, che ha riconosciuto al convivente, legato al defunto da una stabile relazione omosessuale (venticinquennale), la legittimazione a richiedere l’affidamento dell’urna contenente le ceneri del partner, sulla base di un’interpretazione estensiva del termine di “familiare” contenuto nell’art. 3, 1° comma, lett. e), L. n. 130/2001 (“Disposizioni in materia di cremazione e disposizione delle ceneri”).
[34] Di surrettizia introduzione della figura del fiduciario parla L. Lenti, La nuova disciplina delle convivenze di fatto: osservazioni a prima lettura, cit., 101.
[35] La lacunosità della disposizione in commento viene posta in luce anche da E. Quadri, Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze, cit., 10, ove si fa notare anche l’assenza di ogni riferimento, oltre che al lavoro prestato all’interno dell’impresa del convivente, al lavoro prestato nell’ambito della vita comune della convivenza, quando invece l’art. 230-bis c.c. si riferisce al lavoro prestato nella famiglia o nell’impresa familiare; rilievi analoghi vengono formulati da R. Pacia, Unioni civili e convivenze, cit., 207, la quale fa riferimento a possibili dubbi di legittimità costituzionale; cfr. anche F. Macario, Nuove norme sui contratti di convivenza: una disciplina parziale e deludente, editoriale pubblicato in data 23 giugno 2016, in giustiziacivile.com, 8. Diversamente L. Lenti, La nuova disciplina delle convivenze di fatto: osservazioni a prima lettura, cit., 107, al quale la mancata riproduzione dei commi 2°, 4° e 5° dell’art. 230 bis c.c. pare irrilevante, trattandosi di norme connotanti l’istituto dell’impresa familiare in modo essenziale; di guisa che ove non le si applicasse, la disciplina della partecipazione del convivente all’impresa sarebbe gravemente lacunosa e dovrebbe in ogni caso essere integrata in via interpretativa.
[36] In argomento si v. specialmente F. Gazzoni, Dal concubinato alla famiglia di fatto, Milano, 1983, 151 e segg.; F. D’Angeli, La famiglia di fatto, Milano, 1989, 421 e segg.; G. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, Milano, 1991, 155 e segg.; Id., Convivenza (contratti di), in Contratto e Impresa, 1991, 369 e segg.; Id., I diritti dei conviventi, Padova, 2012, 81 e segg.; M. Franzoni, I contratti tra conviventi more uxorio, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1994, 737 e segg.; Id., Le convenzioni patrimoniali tra conviventi more uxorio, in Il diritto di famiglia, Trattato diretto da G. Bonilini e G. Cattaneo, II ed., Torino, 2007, 527 e segg.; F. Angeloni, Autonomia privata e poteri di disposizione nei rapporti familiari, Padova, 1997, 495 e segg.; E. Del Prato, Patti di convivenza, cit., 959 e segg.; AA.VV., I contratti di convivenza, a cura di E. Moscati e A. Zoppini, Torino, 2002; L. Balestra, I contratti di convivenza, in Fam. Pers. Succ., 2006, 43 e segg.; Id., La famiglia di fatto tra autonomia ed eteroregolamentazione, in Nuova Giur. Civ. Comm., 2007, II, 194 e segg.; Id., Convivenza more uxorio e autonomia contrattuale, in Giust. Civ., 2014, 133 e segg.; D. Muritano-A. Pischetola, Accordi patrimoniali tra conviventi e attività notarile, Milano, 2009; F. de Scrilli, Convivenza e situazioni di fatto. I patti di convivenza, in Trattato di diritto di famiglia, diretto da P. Zatti, I, 1, II ed., Milano, 2011, 1148 e segg,; L. Gremigni Francini, Autonomia privata e famiglia di fatto, in La famiglia e il diritto fra diversità nazionali ed iniziative dell’Unione Europea, a cura di D. Amram e A. D’Angelo, Padova, 2011, 333 e segg.; G.A.M. Trimarchi, Gli accordi tra conviventi e riflessi sull’attività notarile, in Studi e Materiali, 2011, 11 e segg.; R. Bassetti, Contratti di convivenza e di unione civile, Torino, 2014; R. Senigaglia, Convivenza more uxorio e contratto, in Nuova Giur. Civ. Comm., 2015, II, 671 e segg; S. Delle Monache, Convivenza more uxorio e autonomia contrattuale. (alle soglie della regolamentazione normativa delle unioni di fatto), in Riv. Dir. Civ., 2015, 944 e segg.
[37] Il leading case è rappresentato da Cass., 8 giugno 1993, n. 6381, in Corriere Giur., 1993, 947, con nota di V. Carbone.
[38] Sull’impossibilità per i conviventi di stipulare accordi aventi ad oggetto profili personali, cfr. L. Balestra, Convivenza more uxorio ed autonomia contrattuale, cit., 148 e segg.
[39] Secondo quanto prescritto dal 52° comma, l’opponibilità ai terzi del contratto viene assicurata attraverso l’iscrizione all’anagrafe di una copia dello stesso – da trasmettersi entro dieci giorni al comune di residenza dei conviventi a cura del professionista che ha ricevuto l’atto in forma pubblica o che ne ha autenticato la sottoscrizione secondo quanto previsto dal 51° comma – ai sensi degli artt. 5 e 7 del D.P.R. n. 223/1989: l’incongruità di un simile strumento – a voler tacere dell’erroneità del riferimento all’art. 5 (riguardante non già la famiglia anagrafica che è menzionata dal precedente art. 4, bensì le convivenze anagrafiche, ovvero quelle costituite per motivi religiosi, di cura, di pena e simili) – è posta in luce da E. Quadri, Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze, cit., 12, il quale rileva come ai meccanismi di raccolta delle informazioni concernenti la popolazione residente risulti del tutto estranea qualsiasi effettiva funzionalità ai fini che qui interessano; il tutto aggravato dalla possibilità, concessa dal 54° comma, di modificare in ogni momento nel corso della convivenza il regime patrimoniale prescelto nel contratto; analogamente R. Pacia, Unioni civili e convivenze, cit., 210. La già ricordata circolare n. 7/2016 del Ministero dell’Interno, che parimenti richiama gli artt. 5 e 7 sulla scorta della previsione di cui al 52° comma, trattando della “registrazione del contratto di convivenza”, prevede che, una volta ricevuta la copia del contratto, l’ufficiale di anagrafe del comune di residenza dei conviventi proceda tempestivamente: 1) a registrare, nella scheda di famiglia dei conviventi oltre che nelle schede individuali, la data e il luogo di stipula, la data e gli estremi della comunicazione da parte del professionista; 2) ad assicurare la conservazione agli atti dell’ufficio della copia del contratto.
[40] A parere di E. Quadri, Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze, cit., 10, l’esiguità dei contenuti richiamati dal 53° comma fa sì che questi possano difficilmente essere considerati tassativi; R. Pacia, Unioni civili e convivenze, cit., 210, parla di portata “decisamente scarna e quindi sicuramente non tassativa” di tali contenuti. Sul punto si v. F. Macario, Nuove norme sui contratti di convivenza: una disciplina parziale e deludente, cit., 9 e segg., il quale, ponendosi il problema dell’individuazione dell’ambito di esercizio delle facoltà negoziali riconosciute dal legislatore – a suo parere assai sciatto e frettoloso al riguardo – e specialmente domandandosi se ed in quale misura i conviventi possano disciplinare i loro rapporti economici in vista di un’eventuale crisi di coppia, si esprime a favore della validità di pattuizioni che prevedano la corresponsione di una somma per l’ipotesi di cessazione della relazione riconducibile alla volontà ovvero alla condotta del soggetto obbligato (eventualmente anche in conseguenza della condotta tenuta dall’altro convivente); lo stesso A. riconosce inoltre ai conviventi la possibilità di pattuire validamente attribuzioni patrimoniali a vantaggio (e rispettivamente a carico) dell’uno o dell’altro, destinate ad avere effetto alla cessazione della convivenza per morte, fermo restando il controllo – che evidentemente potrà avvenire solo post mortem – sull’eventuale lesione dei diritti dei legittimari.
[41] Sul punto, si v. la particolare posizione di M. Segni, Unioni civili: non tiriamo in ballo la Costituzione, in Nuova Giur. Civ. Comm., 2015, II, 707 e segg., spec. 714-715, il quale, sulla base dell’assunto secondo cui l’art. 29 Cost. conserverebbe la funzione di precludere l’introduzione di regole tese a depotenziare il matrimonio, quale fondamento di quel modello familiare che nel nostro ordinamento assume a tutt’oggi un ruolo centrale, afferma che, mentre l’introduzione di regole uguali per l’unione coniugale e per la convivenza eterosessuale si porrebbe in contrasto con la Costituzione, in quanto svilirebbe profondamente il matrimonio, l’ontologica diversità tra famiglia fondata sul matrimonio ed unione omosessuale è invece idonea a legittimare pienamente l’introduzione di una disciplina che preveda per quest’ultima un trattamento giuridico simile o addirittura identico a quello accordato alla prima; e ciò nella misura in cui una disciplina del genere non potrebbe in ogni caso sortire l’effetto di ingenerare confusione tra i due fenomeni, che, essendo nei fatti del tutto distinti, conserverebbero comunque le loro peculiari caratteristiche.
Autore: Luigi Balestra (pubblicato sulla rivista Giurisprudenza Italiana, luglio 2016, Ipsoa)