LA RESPONSABILITÀ PROFESSIONALE DEL MEDICO
ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA
Le difficoltà connesse alla professione medica, nelle sue varie
branche, ed i relativi rischi, la cui assunzione è consentita per la tutela di beni di
grado potiore, quale il bene della salute, levoluzione della scienza e la costante
raffinazione delle tecniche, i pericoli cui espone luso indiscriminato di nuovi
ritrovati, fanno emergere sempre più evidente la necessità di individuare
lampiezza ed i limiti della responsabilità di chi opera, assumendosi quei rischi.
Non rientrano nellambito ditale problematica, ovviamente, quei reati connessi alla
violazione di obblighi specifici imposti al professionista, come, ad esempio, per il
medico, lobbligo di referto (art. 334 c.p.p., 365 e 384 c.p.), o che tendono a
sanzionare labusivo esercizio della professione, sia da parte di chi operi senza
aver superato gli esami prescritti e senza iscrizione negli appositi albi, sia da parte di
chi eserciti una attività diversa da quella per la quale sia abilitato esorbitando
coscientemente dai limiti della propria professione come, ad esempio, lodontoiatra,
munito della laurea specifica istituita dalla legge 24 luglio 1985, n. 409, che intervenga
al di là dei limiti previsti dallart. 2 di tale legge.
In questi ultimi casi impropriamente si farebbe riferimento ai principi della
responsabilità professionale, laddove gli interventi dannosi che ne derivano (la morte
come le lesioni di un determinato soggetto) vanno giudicati secondo i comuni principi
della responsabilità. Ci si riferisce, piuttosto, a quei comportamenti colposi cui si
incorra nel concreto esercizio della professione ed ai quali si ricolleghi un determinato
evento dannoso.
E ugualmente opportuno premettere e lo hanno ribadito le sentenze della III sez.
Civile della Corte Suprema 25/11/1994 n. 10014, e 5/01/1997 n. 3641, chiarendo come si
vedrà, i rapporti con la ritenuta necessità del consenso del paziente che
lattività medica trova fondamento e giustificazione non tanto nel consenso
dellavente diritto (art. 51 c.p.), che incontrerebbe spesso lostacolo di cui
allart. 5 c.p., bensì nellessere essa stessa legittimata ai fini della tutela
di un bene, costituzionalmente garantito, quale il bene della salute, cui è il medico
abilitato dallo Stato.
Lautolegittimazione dellattività medica, anche al di là dei limiti dellart. 5 c.c., non comporta, tuttavia, che il medico possa, di norma, intervenire senza il consenso o malgrado il dissenso del paziente. La necessità del consenso immune da vizi e, ove importi atti di disposizione del proprio corpo, non contrario allordine pubblico ed al buon costume, si evince, in generale, dallart. 13 della Costituzione, il quale, come è noto, afferma linviolabilità della libertà personale nel cui ambito si ritiene compresa la libertà di salvaguardare la propria salute e la propria integrità fisica, escludendone ogni restrizione (anche sotto il profilo del divieto di ispezioni personali), se non per atto motivato dallautorità giudiziaria e nei soli casi e con le modalità previste dalla legge. Per lart. 32 c.20, soprattutto, "nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge", la quale "non può, in ogni caso, violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana". Tali norme hanno trovato attuazione nella legge del 13 maggio 1978, n. 180, sulla riforma dei manicomi, per la quale "gli accertamenti e trattamenti sanitari non volontari", salvi i casi espressivamente previsti (art. 1), e nella legge del 23 dicembre 1978, n. 833, che, istituendo il servizio sanitario nazionale, ha ritenuto opportuno ribadire il principio, stabilendo che "gli accertamenti ed i trattamenti sanitari sono di norma volontari" (art. 33). E opportuno avvertire, inoltre, che non tutti i trattamenti obbligatori per legge possono essere attuati coattivamente, bensì solo quelli per i quali lintervento coattivo sia espressamente previsto (come per determinate malattie mentali o veneree; in caso di epidemie, ecc.). Il trattamento obbligatorio deve, inoltre, con chiaro riferimento allart. 32 della Costituzione, rispettare la dignità della persona ed i suoi diritti civili e politici, "compreso, per quanto possibile, il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura".
Si ammettono altri due casi, talvolta tra loro coincidenti, in cui il
medico è legittimato od -addirittura- tenuto ad intervenire, prescindendo dal consenso
dellinteressato:
a) allorchè il paziente non sia in grado, per le sue condizioni, di prestare un qualsiasi
consenso o dissenso: in tale ipotesi, il dovere di intervenire deriva dagli artt. 593 c.
20 e 328c.p.;
Un intervento medico non consentito dallinteressato, al di fuori delle ipotesi
delineate, sarebbe arbitrario.
Al problema del consenso si riconnette quello della informazione. Sul dovere di
informazione, anche al di fuori dei casi in cui è espressamente previsto (ad es. art. 14
della legge del 22 maggio 1978, n. 194, in materia di interruzione volontaria della
gravidanza), la Corte Suprema (sezioni civili) si era espressa già con numerose sentenze,
oltre alle citate Cass. 3906/1968, Cass. n. 1132/1976 e 1773/1981.
b) ove sussistano le condizioni di cui allart. 54 c.p.
Ci limitiamo qui a richiamare la più recente Cass. 15 gennaio 1997, n. 364, la cui
massimazione non dà conto, in generale, delle ampie problematiche affrontate. Con tale
sentenza la Corte ha precisato che "la formazione del consenso presuppone una
specifica informazione su quanto ne forma oggetto (si parla in proposito, di consenso
informato), che non può che provenire dallo stesso sanitario cui è richiesta la
prestazione professionale. Lobbligo di informazione da parte del sanitario assume
rilievo nella fase precontrattuale, in cui si forma il consenso del paziente al
trattamento od allintervento, e trova fondamento nel dovere di comportarsi secondo
buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto (art. 1337
c.c.)", (si verteva in tema di responsabilità contrattuale).
Ed ancora: "nellambito degli interventi chirurgici, in particolare, il dovere
di informazione concerne la portata dellintervento, le inevitabili difficoltà, gli
effetti conseguibili e gli eventuali rischi, sì da porre il paziente in condizione di
decidere sullopportunità di procedervi o di ometterlo, attraverso il bilanciamento
di vantaggi e rischi. Lobbligo si estende ai rischi prevedibili e non anche agli
esiti anomali, al limite del fortuito, che non assumono rilievo secondo lid quod
plerumque accidit, non potendosi disconoscere che loperatore sanitario deve
contemperare lesigenza di informazione con la necessità di evitare che il paziente,
per una qualsiasi remotissima eventualità, eviti di sottoporsi anche ad un banale
intervento.
Assume rilevanza, in proposito, limportanza degli interessi e dei beni in gioco, non
potendosi consentire tuttavia, in forza di un mero calcolo statistico, che il paziente non
venga edotto di rischi, anche ridotti, che incidano gravemente sulle sue condizioni
fisiche o, addirittura, sul bene supremo della vita. Lobbligo di formazione si
estende, inoltre, ai rischi specifici rispetto a determinate scelte alternative, in modo
che il paziente, con lausilio tecnico - scientifico del sanitario, possa
determinarsi verso luna o laltra delle scelte possibili, attraverso una
cosciente valutazione dei rischi relativi e dei corrispondenti vantaggi".
Ma il novum, non sempre colto dagli esagenti, sta in questaltra affermazione:
"E noto che interventi particolarmente complessi, specie nel lavoro in Equipe, ormai
normale negli interventi chirurgici, presentino, nelle varie fasi, rischi specifici e
distinti. Allorchè tali fasi assumano una propria autonomia gestionale e diano luogo,
esse stesse, a scelte operative diversificate, ognuna delle quali presenti rischi diversi,
lobbligo di formazione si estende anche alle singole fasi ed ai rispettivi rischi.
Secondo la stessa Corte in materia di chirurgia estetica lobbligo di informazione ha "consistenza diversa a seconda che lintervento miri al miglioramento estetico del paziente ovvero alla ricostituzione delle normali caratteristiche fisiche, negativamente alterate: "mentre nel primo caso, a parte i possibili rischi del trattamento per la vita o lincolumità personale, il professionista deve prospettare realisticamente le possibilità di ottenimento del risultato perseguito, nel secondo caso (in cui trattasi propriamente di chirurgia plastica cosiddetta ricostruttiva), ferma la necessaria informazione sui rischi anzidetti, egli assolve ai propri obblighi ove renda edotto il paziente di quegli eventuali esiti che potrebbero rendere vana loperazione, non comportando in sostanza un effettivo miglioramento rispetto alla situazione preesistente.
Sotto altro profilo, il consenso abilita il medico ad intervenire secondo la funzione tipica dellarte medica, che è quella di curare il paziente al fine di vincere la malattia, ovvero di ridurne gli effetti pregiudizievoli o, quanto meno, di lenire le sofferenze che produce salvaguardando e tutelando la vita.
Si entra qui in uno dei problemi più complessi e delicati, sia dal
punto di vista medico che giuridico, relativo al trattamento di malati alla stadio
terminale, alla cui soluzione concorrono, innegabilmente, convinzioni sociali ed etiche
oltre che scientifiche. Escluso che il medico possa, anche su richiesta o sollecitazione
di un paziente, interrompere la vita o, comunque, accelerarne la morte, operando
leutanasia "attiva", che integrerebbe il reato di cui lart. 579 c.p.
(omicidio del consenziente), il problema si pone sotto due particolari profili:
a) se sia consentito somministrare farmaci idonei a lenire le sofferenze ma che sì sa
abbrevieranno la vita;
b) del momento in cui è consentito interrompere il trattamento terapeutico e della cd. a
eutanasia "passiva".
Il primo problema non risulta essere stato specificatamente affrontato dalla giurisprudenza ed ha avuto in dottrina come è noto soluzioni contrastanti, ammettendosi la liceità ditali trattamenti, quale "unico modo di estrinsecazione dellufficio professionale, ed in estremo scriminati dallo "stato di necessità", ed escludendosi il nesso causale diretto con la morte, ovvero distinguendosi secondo che il rischio superi o meno, in n bilanciamento di interessi, la soglia della tollerabilità.
Sebbene tali sforzi appaiano apprezzabili, non può non sottolinearsi come sia costante in giurisprudenza la tesi che "per il principio consacrato nellart. 41. primo comma c.p., accelerare il momento della morte di una persona destinata a soccombere equivale a cagionarla", sicchè deve ritenersi auspicabile, come propugnato da diversi autori, uno specifico intervento del legislatore.
Non minori contrasti sussistono in ordine al momento in cui è
consentito interrompere il trattamento terapeutico, problema per la cui soluzione non è
possibile far riferimento alla volontà del paziente, che inciderebbe comunque su un bene
che rima ne pur sempre indisponibile. E stato osservato, inoltre che è difficile
riscontrare, in malati gravi e terminali, una volontà pienamente cosciente e libera, e
che non ci si può affidare ad un criterio di mera utilità della cura, col pericolo di
scadere in una inaccettabile graduazione del valore della stessa vita umana. E
sempre arduo, del resto, esprimere un giudizio di irreversibilità dello stato morboso:
notizie giornalistiche o televisive ci hanno fatto conoscere che un ennesimo soggetto, in
coma da quindici giorni, si era "risvegliato" sentendo linno dei tifosi
dellAquila o la voce di un noto uomo politico nazionale! Ai sensi dellart. 40
e 20 c.p., comunque, "non impedire un intervento che sia lobbligo giuridico di
impedire, equivale a cagionarlo", sicchè non può ritenersi consentito al medico di
abbandonare il paziente o di interrompere le tecniche rianimatorie solo perchè ritenga
inevitabile lesito finale, fin tanto che non si verifichi la morte (salva,
ovviamente, la verifica del rapporto di causalità tra lomissione e levento
morte).
Sotto tale profilo si è già rilevato come la Corte Suprema abbia affermato che
accelerare la morte equivale a causarla. Anche al di fuori della volontarietà, inoltre,
è stato ritenuto colpevole (per negligenza, oltre che, in taluni casi, per imperizia) il
comportamento di disinteresse e di rassegnazione rispetto allexitus, con la
conseguente omissione dei trattamenti terapeutici idonei a superare situazioni di crisi,
pur in presenza di una malattia incurabile.
Limiti derivanti dallart. 2236 c.c. e loro estensibilità alla responsabilità penale. Onere della prova
Sullestensione e sui limiti della responsabilità professionale la giurisprudenza ha posto alcuni punti fermi, chiarendo:
a) linapplicabilità dellart. 2050 c.c., relativo allesercizio di attività pericolose, e del conseguente onere a carico di attività pericolose, e del conseguente onere a carico del professionista di "aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno.
b) linapplicabilità, ove si tratti di sanitario dipendente di una struttura pubblica, della normativa prevista dagli artt. 22 e 23 d.p.r. 10 gennaio 1957, n. 3, responsabilità degli impiegati civili dello stato, per gli atti compiuti in violazione di diritti dei cittadini (rimangono salvi i problemi eventuali di rivalsa dellente nei confronti del sanitario).
Nella specifica materia vige infatti, viceversa, il principio posto dallart. 2236 c.c., che limita la responsabilità al dolo od alla colpa grave, allorchè "la presentazione implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà", fattispecie che si verifica "quante volte il caso affidato sia di particolare complessità, o perché non ancora sperimentato e studiato a sufficienza, o perchè ancora non dibattuto con riferimento ai metodi terapeutici da seguire od, infine, perchè il morbo si manifesti con una sintomatologia del tutto anomala. Quella limitazione non sussiste quindi a contrario allorchè la prestazione comporti soltanto lapplicazione di cognizioni e tecniche assolutamente comuni, che costituiscono il bagaglio di ogni operatore del settore, in cui questi risponde, pertanto, anche per colpa lieve. Nellambito civilistico è stato precisato, infatti che "il medico chirurgo è tenuto ad una diligenza che non è solo quella generica come richiesto dallart. 1176 c.c., ma è quella specifica del debitore qualificato, come indicato dal comma 2° dellart. 1176, la quale comporta il rispetto di tutte le regole e degli accorgimenti che nel loro insieme costituiscono la conoscenza della professione medica. E pacifico, inoltre, che la limitazione di cui allart. 2236 c.c. concerna esclusivamente la perizia, e non si estenda alla negligenza, allimprudenza od alla violazione dileggi e regolamenti, precisandoci, comunque, che quella del professionista è lobbligazione "di mezzi e non di risultato.
Se su tutto questo si conviene, uno dei problemi più contrastati è quello relativo allapplicabilità della limitazione di responsabilità fissata dallart. 2236 c.c. anche nellambito penale.
Sulla questione, tanto la dottrina quanto la giurisprudenza si erano espressi ripetutamente in senso positivo, rilevando che lunitarietà dellordinamento giuridico non consentirebbe una valutazione diversa dalla medesima fattispecie: uno stesso fatto non potrebbe avere un trattamento diverso nellambito civile ed in quello penale, specie ove si tenga conto delle contraddittorie conseguenze che ne deriverebbero in ordine al risarcimento del danno extracontrattuale, secondo che vi sia stato o meno un giudizio penale. Per lungo tempo quindi, iniziando dalla sentenza 27 luglio 1968, n. 124, la Corte Suprema, pur con qualche oscillazione e, talvolta, ladozione di criteri più generici, ha ritenuto che in "tema di valutazione della responsabilità per delitto colposo a seguito di esercizio della professione medica, lerrore penalmente rilevante non può configurarsi se non nel quadro della colpa grave, richiamata dallart. 2236 c.c.
Era sorto quindi il problema della legittimità costituzionale degli artt. 589 e 42 c.p., nella parte in cui consentivano, nella valutazione della colpa professionale, il ricorso al criterio restrittivo dellart. 2236 c.c., questione sollevata con ordinanza del Tribunale di Varese del 12luglio 1971, in riferimento allart. 3 della Costituzione. Come è noto, con la sentenza del 28 novembre 1973 n. 166, la Corte costituzionale ha ritenuto non fondata la questione rilevando che "lo speciale trattamento giuridico riservato al professionista non è collegato puramente e semplicemente a condizioni personali e sociali, ma ha in sè una sua adeguata ragione di essere", ed "è il riflesso di una normativa dettata di fronte a due opposte esigenze: quella di non modificare liniziativa del professionista col timore di ingiuste rappresaglie da parte del cliente in caso di insuccesso e quella inversa di non indulgere verso non ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista stesso".
Eliminate le preoccupazioni di costituzionalità, si è obiettato che nellambito della responsabilità penale la colpa non soggiace a graduazioni se non allesclusivo fine della determinazione della pena, secondo la previsione dellart. 133, c. 1°, n. 3 c.p., sicchè la sussistenza dellelemento psicologico del reato devessere liberamente valutata dal giudice; non sarebbe consentito, del resto, aggiungere una ulteriore scriminante a quelle legislativamente previste. Lapplicabilità dellart. 2236 c.c. è stata anche contestata rilevandosi che si tratta di una limitazione operante esclusivamente nellambito della irresponsabilità contrattuale, nonché sotto il profilo dellammissibilità dellinterpretazione analogica, cui si opporrebbe il suo carattere essenziale, e dellinterpretazione estensiva, cui osterebbe la completezza ed omogeneità della disciplina del dolo e della colpa.
Di recente si è giustamente contestato che la limitazione contenuta nellart. 2236 c.c. concerna esclusivamente la responsabilità contrattuale, osservandosi inoltre che lantigiuridicità ha carattere unitario, sicchè non potrebbe essere considerata antigiuridica in sede penale una condotta che un altro ramo dellordinamento considera lecita. La questione sembra tuttora aperta, dacché, ancor di recente, lapplicabilità nellambito della colpa penale per imperizia, dellart. 2236 c.c. è stata alternativamente affermata e negata. Alcune decisioni tuttavia, al tempo stesso in cui escludono lapplicabilità di quei limiti, affermano che "la colpa professionale del sanitario deve essere valutata con larghezza e comprensione per la peculiarità dellesercizio dellarte medica e per la difficoltà dei casi particolari", sia pur sempre nellambito dei criteri dettati per lindividuazione della colpa medesima dellart. 43 c.p.". In tal modo si sostituisce ad un criterio di (pur relativa) certezza, quale quello della colpa grave (la cui valutazione in concreto rimane comunque demandata al giudice di merito), una valutazione soggettiva e metagiuridica.
La lettura di talune delle decisioni che espungono dallambito
penale lart. 2236 c.c. rende agevole rilevare, inoltre, che il giudice penale ha
spesso ritenuto sanzionabile penalmente, in concreto, sussistendone i presupposti, solo la
colpa grave. Alcune recenti pronunce giurisprudenziali rese in sede civilistica hanno
individuato i limiti dellonere probatorio che incombe, nelle singole fattispecie,
sulle parti, stabilendo i seguenti principi:
a) "quando lintervento operatorio non sia di difficile esecuzione ed il
risultato sia peggiorativo delle condizioni iniziali del paziente, questo adempie
lonere a suo carico provando solo che loperazione (o la terapia
post-operatoria) era di difficile esecuzione e che ne è derivato un risultato
peggiorativo, mentre spetta al professionista fornire la prova contraria, e cioè che la
prestazione era stata eseguita idoneamente e lesito peggiorativo era stato causato
dal sopravvenire di un evento imprevisto ed imprevedibile, oppure dalla preesistenza di
una particolare condizione fisica del malato, non accertabile con il criterio
dellordinaria diligenza professionale";
b) negli interventi per i quali sussista la limitazione di irresponsabilità di cui al
citato art. 2236, viceversa, incombe sul paziente parte lesa lonere di provare la
colpa o il dolo.
La colpa. Negligenza, imprudenza, violazione di norme
Il codice civile italiano non offre, a differenza di altri, una
definizione della colpa, nè nellart. 2043, che pur vi fa specifico riferimento, nè
nellart. 2236.
La nozione viene ritenuta comune, peraltro, al diritto penale, dal quale viene mutata in
particolare dallart. 43, c. 1°, c.p., che ancora il delitto colposo da un canto
alla mancanza di internazionalità e dallaltro, alla presenza di una condotta
negligente, imprudente od imperita ovvero connessa a violazione dileggi, regolamenti,
ordini o discipline, cui sia ricollegabile, con rapporto di casualità, levento.
Le regole di diligenza e di prudenza non traggono origine da una fonte giuridica, bensì
dalla esperienza, che elabora norme atte ad evitare eventi pregiudizievoli, imponendo
comportamenti positivi (diligenti) e vietandone altri (imprudenti). Tali regole di
esperienza non sono mai avulse dalla concreta attività svolta, ma sono ad essa collegate,
attraverso i parametri adottati da un agente-modello ejusdem condicioiis et professionis,
nelle specifiche condizioni che si presentino al momento delloperare, avvertendosi
che i modelli di comportamento non possono inoltre prescindere dalla pericolosità
dellattività svolta e dalle condizioni in cui la stessa si svolge, in relazione
alle quali sia eventualmente esigibile un livello di attenzione e di prudenza (oltre che
di cognizioni) più alto di quello medico, o lobbligo (sotto laspetto della
diligenza) di attingere informazioni per la migliore conoscenza di determinati fenomeni ed
eventualmente di astenersi (sotto il profilo della prudenza), ove non si sia necessitati,
da azioni che si sa di non poter dominare in pieno. Il riferimento alla diligenza ed alla
prudenza propri dellHomo ejusdem condicionis et professionis evita una
considerazione del tutto astratta dei doveri di diligenza e di prudenza (minima, media, o
massima) ed altresì di adagiare il comportamento esigibile alle specifiche
caratteristiche psicologiche del soggetto agente.
Limprudenza e la negligenza, sebbene valutabili alla stregua della specifica
attività esercitata, non assumono particolari connotazioni nellambito della colpa
professionale, per la quale valgono, una volta individuata la norma di comportamento
violata, i principi generali, i criteri di comune applicazione, secondo cui si risponde
tanto civilisticamente che penalmente anche per colpa lieve: di questo non si è in alcun
modo dubitato, anche nellambito delle discussioni cui ha dato luogo il problema
relativo allapplicabilità, nellambito penale, del principio posto
dallart. 2236 c.c., problema che, come si è avuto modo di rilevare, attiene
esclusivamente alla perizia.
Non sempre, nelle singole fattispecie, i vari aspetti della colpa risultano nettamente
distinti, potendosi verificare ipotesi in cui siano presenti diversi profili di essa, od
in cui, ad esempio, un errore (diagnostico od operativo), normalmente ascrivibile ad
imperizia, derivi, viceversa, da un difetto di attenzione, e si sarebbe evitato con una
maggiore diligenza.
Nellampia casistica che ci offre la giurisprudenza (soprattutto penale), ipotesi di
negligenza sono state riscontrate:
- nellabbandono di corpi estranei quali tamponi di garza, ferri chirurgici,
frammenti di un ago per sutura e persino un cucchiaio da cucina nel corpo del paziente,
chiaramente addebitabili a colpevole, quanto evitabile disattenzione;
- nel ritardo dellindispensabile ricovero ospedaliero, eventualmente al fine di
occultare un proprio errore, o nel ritardo da parte di un ginecologo della terapia
trasfusionale da lui stesso ritenuta necessaria, per la presenza di uno shock emorragico;
- nel comportamento del medico che, dopo aver praticato una anestesia locale, iniettando
una dose di anestetico che abbia provocato reazioni tossiche, non abbia provveduto al
necessario intervento rianimativo atto a ripristinare la ventilazione polmonare e
ladeguato livello della funzione arteriosa, ed abbia richiesto tardivamente
lintervento dello specialista;
- nella mancata verificazione, da parte del primario anestesista, del corretto
funzionamento dellimpianto di erogazione di gas medicinali e di anestesia afferenti
ad una scala operatoria, sui quali erano stati eseguiti nei giorni precedenti dei lavori;
- nellomissione di approfondite indagini sulla eziologia morbosa, in relazione ad
una sintomatologia equivoca nellavere omesso di evidenziare al medico subentrante
sul turno di lavoro la necessità di unattenta osservazione e di controllo costante
dellevoluzione della malattia di un determinato paziente soggetto a rischio di
complicanze.
Come si è rilevato, colpevole (per ogni negligenza, oltre che, in alcuni casi, per imperizia) è stato ritenuto, più generale, anche in presenza di una malattia incurabile, il comportamento di disinteresse e di rassegnazione rispetto allexitus, con la conseguente omissione dei trattamenti terapeutici idonei a superare situazioni di crisi.
Al dovere di diligenza va collegato anche lobbligo di informare il paziente circa luso di medicine pericolose, o sulla gravità della malattia, ove ne dipenda la concreta possibilità di provvedere alla cura: la giustificazione della cosiddetta pietosa bugia non può estendersi fino a legittimare il silenzio sulla gravità della diagnosi, la cui ignoranza impedisca la possibilità di curarsi adeguatamente.
Limprudenza è "avventatezza, insufficiente
ponderazione".
Può connettersi anche uno stato sopravvenuto del soggetto agente, sia esso permanente o
transitorio: la continuazione della propria attività professionale malgrado la
diminuzione delle personali capacità per malattia, sentenza, alterazione da ingestione di
alcool o per assunzione di droghe.
Negligenza commista ad imprudenza si ha nellassunzione di ruoli non di propria
competenza, come nel medico generico o nel medico di guardia i quali, di fronte ad un caso
che presenti particolari difficoltà tecniche, od esuli dalla propria competenza,
trascurino di ricorrere ad uno specialista, o di avvertire il reparto competente, salvo
che il loro intervento sia imposto da una urgenza che non consenta alcuna remora. In tali
casi la irresponsabilità del sanitario ed il rapporto di casualità vanno valutati con
riferimento agli interventi che lo specialista avrebbe potuto attuare: si parla per
assunzione di ruoli (che non competono).
Tra la negligenza e limprudenza si colloca anche la fattispecie,
giudicata da Cass. pen. 9 maggio 1978, n. 532436, della somministrazione, per via
endovenosa, di una fiala di Talofen senza previa diluizione con soluzione fisiologica,
prescritta dalle istruzioni della casa farmaceutica.
Ha precisato la Corte Suprema che la discrezionalità riconosciuta, entro certi limiti, al
medico circa il dosaggio di determinati medicinali, non può estendersi alle modalità
della somministrazione indicate dalla casa produttrice sulla base delle conoscenze
chimico-farmaceutiche di cui egli è sfornito. Il problema della discrezionalità del
medico nelladottare una determinata terapia e, in particolare, nella prescrizione di
farmaci, assume maggiore rilevanza, ovviamente, nella valutazione della perizia.
E stata considerata imprudente, tuttavia:
- la fornitura ad un soggetto depresso di medicine idonee ad essere utilizzate per il
suicidio;
- la prescrizione di dosi eccessive, che determinano allergie di medicamenti o malattie
iatrogene;
- la somministrazione di medicinali potenzialmente tossici senza gli accertamenti del caso
o non accompagnata dalle cure collaterali prescritte;
- lomessa somministrazione ad un paziente ferito di siero antitetanico, consigliato
dalle caratteristiche e dal luogo in cui la ferita si era prodotta;
- il mancato ricorso alle necessarie analisi di laboratorio per ridurre al minimo i rischi
della terapia (nella specie con metadone).
Negligenza ed imprudenza sono stati riscontrati, più di recente, nellanestesia che, dopo lintervento, aveva omesso di sorvegliare adeguatamente la paziente in fase di risveglio, affidando il compito ad uninfermiera professionale non specializzata in anestesia, e, conseguentemente, non in grado di intervenire con efficacia ai primi sintomi di una turba anossica, poi divenuta irreversibile, seguita dalla morte per arresto cardiaco per anossia acuta da oblio respiratorio.
Gli stessi fini accademici o di ricerca, tendenti a conseguire tecniche diverse e migliori di intervento ovvero a dimostrare linefficacia e linutilità di tecniche nuove, incontrano un limite nella misura del rischio ad essi connesso.
Linosservanza di leggi, regolamenti, ordini e discipline appare di inutile definizione
Basterà osservare che fra gli ordini e le discipline sono comprese non
solo le prescrizioni che derivino da autorità pubbliche, ma anche quelle provenienti da
autorità private, quali regolamenti interni, etc.
Si è esattamente rilevato, inoltre, che, in tali fattispecie, non esplica funzione alcuna
il criterio della prevedibilità, cui è normalmente collegata la responsabilità per
colpa: lemanazione delle norme disciplinanti una determinata attività comporta già
un giudizio prognostico circa la situazione di pericolo derivante da un comportamento
diverso. Va osservato, comunque, che dalla ratio sottesa al principio deriva che la
responsabilità rimane circoscritta a quegli eventi alla cui prevenzione tendeva la norma
violata.
Nellampia casistica, possono richiamarsi:
- il caso del medico che abbia consentito allinfermiere di effettuare una
endovenosa, contro il divieto di cui allart. 14 lett. c) del r.d. 31 maggio 1928, n.
1334;
- la mancata denuncia allufficio di igiene di una malattia infettiva (in relazione
al contagio derivato ad altre persone);
- linosservanza delle prescrizioni imposte per gli esami radiologici, che abbia
cagionato una necrosi; lomissione, da parte del medico di fabbrica, della visita
trimestrale dei lavori esposti in ambiente cancerogeno, con conseguente sviluppo di
tumori, tardivamente diagnosticati.
Limperizia nel campo professionale
Limperizia, infine, è deficienza di preparazione scientifica e
di adeguate cognizioni nella specifica materia, nelluso dei mezzi di indagine,
manuali, strumentali o terapeutici e delle tecniche specifiche al settore. E qui,
soprattutto, che il parametro dellagente modello, alla stregua del quale operare la
valutazione assume una specifica rilevanza, e che va sottolineato come, nellambito
di una medesima professione, non esiste un unico metro, stante la pluralità di
agenti-modello, in relazione alla particolare qualificazione. La perizia esigibile, cioè,
va sostanzialmente valutata con riferimento al grado di qualificazione del soggetto: in
misura diversa, quindi, per il medico generico, per lo specialista o per il cattedratico.
Ci soffermeremo ora, anche qui, nellesame della casistica sottoposta al vaglio dei
giudici, avvertendosi che spetta al giudice di merito accertare nei singoli casi, quale
sia il criterio di valutazione adottato ed avvalendosi, se necessario (come di norma),
dellausilio di un consulente o di un perito, lesistenza dellimperizia,
attraverso un giudizio ex ante, che tenga conto delle concrete condizioni
delloperatore.
Se va riconosciuta al professionista la facoltà di scelta fra più terapie o tecniche e,
in generale, fra più soluzioni, appaiono di facile inquadramento delle ipotesi in cui si
accerti la mancanza di un livello minimo di cognizioni tecniche, di esperienza e capacità
professionale.
E stato inoltre ritenuto che, pur dovendosi riconoscersi al medico, come al
chirurgo, la facoltà di seguire gli insegnamenti di una o di altra scuola, le sue scelte
non possono scadere nellarbitrio, adottando soluzioni sue proprie e comunemente
rigettate o diverse da quelle usualmente praticate: gli insegnamenti dottrinari, legittimi
sul piano del dibattito accademico, debbono essere assunti con cautela quando sia in gioco
la vita umana.
Lerrore diagnostico non può ritenersi giustificato allorchè la malattia si
manifesti con carattere di assoluta normalità ed evidenza, rendendo palese la mancanza di
quel minimo di preparazione ed esperienza cui ogni professionista è tenuto ("anche
il medico di guardia deve essere in grado di eseguire le più comuni prestazioni di
urgenza").
Nel campo degli specialisti (in cui come si è visto non è possibile prescindere dalle
conoscenze specifiche al settore) è stato ritenuto penalmente responsabile il ginecologo
che, in presenza di una metrorragia, laveva attribuita ad atonia uterina, anziché
ad una rottura, omettendo (limperizia è quindi congiunta a negligenza)
lesplorazione del canale di parto e della cavità uterina, o che, dopo aver
provocato, nel trattamento post-parto, la rottura dellutero della paziente, non era
stato in grado di diagnosticare linsorgenza di una peritonite che imponeva un
intervento urgente, cagionandone la morte un terzo ginecologo, pur di rilevante esperienza
professionale di utero conseguente al parto, anziché procedere a laparotomia accertativa
dellentità e localizzazione della lesione, aveva effettuato direttamente uno
stipato tamponamento utero-vaginale che aveva reso irreversibile lemorragia,
potenziandola.
Nelluso degli strumenti tecnici è stata affermata la responsabilità del chirurgo che abbia dimostrato la mancanza di un minimo di abilità, o dellodontoiatra che, non manovrando con tecnica corretta un tiranervi, ne aveva provocato lingestione, da parte della paziente, cui aveva anche omesso di praticare lanestesia locale.
Nellutilizzazione dei farmaci, in cui si esplica maggiormente la discrezionalità del medico, è stata ritenuta sussistere colpa grave nella somministrazione in unica soluzione di siero antitetanico, laddove, ai fini della tollerabilità, è comunemente noto che debba essere frazionato in varie dosi, o nellerronea esecuzione di una normale iniezione endovenosa che aveva causato la paralisi del nervo sciatico.
In altri casi pur in presenza di un errore, di una rilevazione e/o valutazione della realtà diversa da quella obiettiva o delluso di mezzi tecnicamente errati od inadeguati limperizia è stata ritenuta, viceversa, non grave, a causa delle difficoltà diagnostiche o di trattamento: la malattia si può manifestare in forme del tutto anomale, o con sintomi equivoci, si da giustificare lerrore diagnostico, la scienza medica può suggerire più metodi di cura, anche se una scelta diversa avrebbe potuto avere esiti migliori; la perizia non può essere valutata, inoltre, in relazione al successivo evolversi della scienza medica o chirurgica.
Anche lobbligo di rivolgersi ad uno specialista per i casi più difficili o che esulino dalle proprie conoscenze, ed eventualmente di disporre il ricovero in ospedali più attrezzati, può rimanere superato qualora lurgenza del caso, ed eventualmente la mancanza di mezzi rapidi di trasferimento, imponga di intervenire con immediatezza, a costo di affrontare dei rischi: in tal caso la perizia va valutata alla stregua non già di colui che avrebbe potuto intervenire, ma di un agente modello adeguato al soggetto che, nelle scientifiche circostanze, è stato costretto ad operare.
Il rapporto di causalità
Laccertamento della colpa non è, ovviamente, da sola sufficiente
a far affermare la responsabilità, essendo necessario accertare ancora il nesso di
casualità tra la condotta, commissiva od omissiva, e levento. Il codice civile non
dà alcuna definizione della nozione di causa, stabilisce peraltro lobbligo del
risarcimento a carico dellautore di "qualunque fatto colposo o doloso che
cagiona ad altri un danno ingiusto" (art. 2043 c.c., con una accentuazione del
rapporto intercorrente tra fatto e danno); diversamente dallart. 40 del codice
penale, col quale, attraverso il riferimento allevento-conseguenza, il nostro
legislatore ha inteso adottare come comunemente si ritiene la teoria condizionalistica.
Anche sotto tale profilo, le regole penalistiche ivi comprese quelle desumibili
dallart. 41 c.p. sono state ritenute comuni anche allaltro ramo del diritto.
Non si tratta come è noto di un giudizio basato sullesistenza di una semplice
successione temporale, per cui post hoc ergo propter hoc, essendo necessario che
levento appaia come la concretizzazione del rischio assunto con quella condotta.
E ovvio che tale accertamento sarà compiuto, normalmente, da un consulente tecnico
o da un perito, cui dovrà esser posto lo specifico quesito.
Il giudizio circa il rapporto di casualità non si fonda necessariamente su leggi
scientifiche universali essendo sufficiente il ricorso alle leggi statistiche, in forza
delle quali sia possibile affermare che, al verificarsi di un dato evento consegue, in una
certa alta percentuale di casi, un altro determinato evento. Il problema assume
particolari risvolti in relazione ad un comportamento omissivo (che si traduce,
nellambito penale, in un reato omissivo), per il quale è stato affermato che il
rapporto di casualità può ritenersi sussistente ogni qualvolta sia accertato che una
diversa condotta avrebbe avuto se non la certezza, una "sufficiente probabilità di
successo", "serie ed apprezzabili possibilità di successo per salvare la vita
al paziente". Si è fatto quindi riferimento alle percentuali elaborate della
statistica sanitaria, lesistenza di quel nesso in presenza di "un buon ottanta
- settanta per cento" di esito positivo della terapia omessa, e, più di recente, in
un caso in cui le probabilità di successo "erano allordine del cinquanta per
cento".
Una sentenza che ha fatto discutere ha ritenuto che "sussiste sempre il rapporto di
casualità anche qualora lesatta e tempestiva opera del sanitario avrebbe potuto
evitare levento non già con certezza o elevate probabilità ma non solo con
probabilità apprezzabili nella misura del trenta per cento".
Tale tendenza rigoristica aveva avuto precedenti nella tesi secondo la quale precedenti
nella tesi secondo la quale "quando è in gioco la vita umana, anche solo poche
probabilità di successo di un immediato o sollecito intervento sono sufficienti, talchè
sussiste il nesso di casualità quando un siffatto intervento non sia stato possibile a
causa dellincuria colpevole del sanitario".
Si è affermato che la citata sentenza del 1991 abbia voluto "compensare il difetto
di rilevanza causale con lelevato grado di colpa", ritenendone insostenibile
lassunto.
Se non si può convenire con una tale insinuazione, può accogliersi, viceversa,
listanza dellautore della critica (I. Giacona, nella nota cit.), per la quale
"la stima probabilistica dovrebbe essere il risultato di un attento apprezzamento
logico di tutte le circostanze del fatto preso in esame.
E le rilevazioni statistiche potranno essere utilizzate ai fini della formazione della
decisione: purché, però, venga effettuato con estrema cautela, tenendo presenti le
particolarità del caso concreto e analizzando nei limiti del possibile tutte le
circostanze differenziali rispetto alla situazione astratta cui si riferisce il dato
statistico". Al problema sinora trattato si connette quello del concorso di cause, la
cui presenza come è noto non interrompe il nesso di casualità se non siano da sole
idonee a causare levento (art. 41, c. 1°, c.p.).
La questione concerne sia il concorso di cause della stessa natura (o di più errori
professionali), sia lincidenza dellerrore professionale dellinterruzione
del nesso causale rispetto ad altri fattori, o viceversa.
Il concorso causale fra più trattamenti medici è stato quindi
riconosciuto, ad esempio:
- per lostetrico che, nelleseguire lasportazione di un prodotto
abortivo, abbia sfondato lutero;
- per il chirurgo che, intervenuto successivamente per procedere allisterectomia,
non abbia eseguito una revisione completa, determinando una peritonite a causa della
permanente presenza di frammenti di embrione nel peritoneo.
In altri casi, è stato, viceversa escluso, chiarendosi che "la causa sopravvenuta,
da sola sufficiente a determinare levento, non è soltanto quella apparente ad una
serie causale completamente autonoma rispetto a quella posta in essere della condotta;
tale è anche quella che, pur dellimputato, agisce per esclusiva forza propria di
tal che la condotta dellimputato, pur costituendo un antecedente necessario per
lefficacia delle cause sopravvenute, assume rispetto allevento non un ruolo di
fattore causale ma di semplice occasione.
Lavoro in strutture organizzate ed in équipe
I problemi evidenziati non si pongono diversamente sia che il medico od
in genere, il professionista operi autonoma mente, sia che operi nellambito di
strutture organizzate, con le quali sussista, eventualmente, un rapporto subordinato,
comè per il medico dipendente di una U.S.L., di una clinica o di un ospedale.
Tale rapporto non fa venir meno, di norma, lautonomia decisionale del
professionista, ed in particolare del medico, salvi, eventualmente, gli aspetti della
responsabilità civile contrattuale ed extracontrattuale del datore di lavoro. In
proposito si è già evidenziata linapplicabilità al medico che operi alle
dipendenze di una struttura pubblica ed alla stessa struttura degli artt. 22 e 23 del
d.p.r. 10 gennaio 1957, n. 3, che regolano la responsabilità degli impiegati civili dello
Stato per gli atti compiuti in violazione dei diritti dei cittadini.
La medesima Cass. Civ. 11 aprile 1995, n. 4152, ha premesso che "la responsabilità
dellente ospedaliero, gestore del servizio pubblico sanitario, e del medico suo
dipendente per danni subiti da un privato ha natura contrattuale di tipo professionale,
dal che consegue che la responsabilità diretta dellente e quella del medico,
inserito organicamente nellorganizzazione del servizio, sono disciplinate in via
analogica dalle norme che regolano la responsabilità in tema di prestazione
professionale" (ciò non esclude la responsabilità extracontrattuale del medico e
della U.S.L. quale datrice di lavoro).
La responsabilità personale può assumere una configurazione particolare in relazione
allintensità del rapporto gerarchico nellambito della struttura, comè
negli ospedali e nelle cliniche, nonché nel cosiddetto lavoro di équipe, abbastanza
normale negli interventi chirurgici, in cui più soggetti collaborano, sia pure con
mansioni diverse e distinte, ad uno stesso risultato.
Nellambito ospedaliero, il r.d. 30/09/1938 n. 1631, regolarmenta espressamente, sia
pure con la necessaria elasticità ed in forma non del tutto esaustiva, le funzioni del
primario, degli aiuti e degli assistenti. La più recente legge sullordinamento del
servizio sanitario distingue tra varie "posizioni" (iniziale, intermedio, di
direzione) (art. 75 d.p.r. 20 dicembre 1979, n. 761).
Le disposizioni brevemente richiamate non esauriscono le norme di comportamento cui il
medico che operi nellambito di una determinata struttura deve attenersi, dovendosi
fare anche riferimento alle norme di deontologia proprie della professione ed alla natura
intellettuale della prestazione.
La giurisprudenza ha avuto modo di ribadire che:
- i poteri di controllo del primario non escludono lautonomia dellattività
medica;
- il rapporto di subordinazione tra primario ed aiuto od assistente non può considerarsi
tanto assoluto e vincolante da ritenere che il sottoposto, nelluniformarsi a
disposizione del superiore, non vi cooperi volontariamente, e da esonerarlo
conseguentemente da responsabilità per levento non voluto derivante dalla condotta
medesima";
- "tanto meno sarebbe lecito al superiore trarre, inversamente, largomento
dellaccertata inesistenza di un rapporto di subordinazione per sostenere che, lungi
dallimpartire disposizioni vincolanti, diede semplici pareri e consigli. Il peso
dellautorità, anzianità e maggiore esperienza di chi li esprime, attribuisce
inevitabilmente a quei pareri e a quei consigli natura ed effetto di partecipazione nella
determinazione dellazione od omissione del sanitario, indotto ad uniformarsi ad
essi;
- è stata riconosciuta, pertanto, la responsabilità del ginecologo che, una volta
assunto, nella qualità di primario, il controllo di un parto, abbia lasciato la sala
parto, affidando la paziente ad un assistente inesperto e determinando così, con la
negligenza, la morte del neonato;
- è stato inoltre deciso che "il medico, aiuto del primario e suo diretto
collaboratore, che abbia visitato più volte il paziente, e che sia stato posto in grado
di esprimere dubbi sulla esattezza della diagnosi, a seguito di altri accertamenti e per
lacquisizione di altri convergenti elementi di giudizio, ha il dovere di attivarsi
presso il primario per una più sicura diagnosi ai fini di una adeguata terapia; sicchè,
ove abbia "lasciato correre le cose", astenendosi dal disporre altre indagini e,
anzi, associandosi allerrato convincimento e al comportamento indolente del
primario, versa in colpa, per la morte del paziente, in termini ancora più gravi dello
stesso primario.
- è ovvio inoltre che, nel caso in cui il primario abbia esercitato il potere di
avocazione attribuitagli, è a lui che fa capo la responsabilità.
Nellattività in équipe, in cui più soggetti cooperino, con
mansioni coordinate ma distinte, ad un unico risultato, ed in particolare
nellattività chirurgica, ciascun membro deve concentrarsi al meglio nei propri
compiti, sicchè deve poter confidare nel corretto operato degli altri, tanto nel corso
dellintervento, quanto nella fase preparatoria e successiva (ma la delega di propri
compiti ad altri non esonera dalla responsabilità personale).
Qualora, tuttavia, venga percepita una situazione anomala, tale da far dubitare della
diligenza e della perizia degli altri componenti, o rispetto allesito
dellintervento, scatta negli altri, con speciale riferimento alla posizione
gerarchica che si abbia allinterno delléquipe, un obbligo di attivarsi ed
eventualmente di sostituzione.
E da escludere quindi, anzitutto, ogni cooperazione colposa quando si tratti di
errori verificatisi nelle indagini e negli accertamenti preparatori, determinati alla
esclusiva attività di altri soggetti (indagini radiologiche, analisi ematologiche, etc).
Ugualmente, ad esempio, è stato ritenuto che lanestesista, cui è attribuita una
propria sfera di competenza che esula da quella del chirurgo, risponda personalmente per
essersi allontanato dalla clinica subito dopo lintervento, trascurando la
sorveglianza del paziente e ladozione dei necessari rimedi che a lui competevano per
linsorgenza di complicanze dovute allanestesia.
Viceversa "il chirurgo capo - équipe, una volta concluso latto operatorio in
senso stretto, qualora si manifestino circostanze denuzianti possibili complicanze, tali
da escludere lassoluta normalità del decorso postoperatorio, non può
disinteressarsene, abbandonando il paziente alle sole cure dei suoi collaboratori, ma ha
lobbligo di non allontanarsi dal luogo di cura, onde prevenire complicanze e
tempestivamente avvertirle, attuare quelle cure e quegli interventi che una attenta
diagnosi consigliano e, altresì, vigilare sulloperato dei collaboratori."
E stata, inoltre, riconosciuta la responsabilità tanto del chirurgo, quanto
dellassistente e dellinfermiera delegati alla conta delle garze, una delle
quali era stata dimenticata nelladdome del paziente, così come, in un caso simile,
quella dellurologo e dellostetrico.
Un ulteriore seppur breve cenno merita, infine, la responsabilità che può derivare dal fatto degli ausiliari, al di là delle fattispecie già richiamate, per il principio secondo cui il medico risponde delle lesioni derivanti dallattività dellausiliario da lui consentita in violazione di determinati divieti: è il caso di colui che abbia fatto eseguire allinfermiere un iniezione endovenosa, o dellodontoiatra, che, contro il divieto dellart. 11 c. 2 r.d. 31 maggio 1928, n. 1334 (che vieta agli odontotecnici, in "ogni caso di esercitare, anche alla presenza ed in concorso del medico e dellabilitato allodontoiatria, alcuna manovra, cruenta o incruenta, nella bocca del paziente, sana o malata") consenta ad un odontotecnico lestrazione di un dente. Ugualmente, il medico potrà rispondere, in concorso con linfermiere, allesecuzione di quegli atti che questultimo può compiere solo sotto il suo controllo, quando abbia omesso i dovuti controlli o non sia intervenuto tempestivamente per rimediare una imprudenza o per evitare errori.
A diversa conclusione si deve giungere, viceversa, per quegli interventi attribuiti alla autonoma competenza dellinfermiere.
Conclusioni
Come è possibile rilevare da questo excursus i problemi della responsabilità professionale del medico sono molteplici e normalmente delicati.
Nè si può ignorare come, rispetto a principi sicuri della scienza medica - diagnostica e chirurgica, esistano zone d'ombra e, soprattutto, circo stanze ed elementi individuali, propri di ciascun paziente, per cui scelte che rientrano nellambito della discrezionalità, esercitata secondo scienza e coscienza, possono apparire, ex post, errate o controproducenti. Pur nella ampia garanzia che si è tenuti ad assicurare al bene supremo della vita ed alla integrità personale, non è possibile nè consentito abolire o limitare la discrezionalità propria delloperatore sanitario, dovendosi piuttosto esaminare, con giudizio ex ante e mai ex post, se il suo esercizio rispondeva. nelle specifiche circostanze, ai criteri di negligenza, prudenza e perizia esigibili nel caso di specie, cui abbiamo cercato di dare, con la giurisprudenza, uno specifico contenuto.
Dr. Gaetano Nicastro
Magistrato III Sez. Civ. Corte Cassazione, Roma