Lavoro subordinato o collaborazione non subordinata?
Contributo ad una più chiara e compiuta identificazione
degli elementi caratterizzanti il lavoro dipendente
1. Premessa
La distinzione tra lavoro subordinato e tipologie contrattuali di collaborazione non subordinata, nonostante sui criteri differenziali sia stato espresso un magistero giurisprudenziale, che può considerarsi (sia pur nell’ambito di varie sfaccettature) costante ed univoco, continua ad essere fonte di contenzioso giudiziario, segno manifesto, questo, che, a fronte del variegato atteggiarsi delle fattispecie sottese dalle menzionate tipologie, insorgono spesso incertezze in sede di interpretazione ed applicazione ai casi concreti dei criteri stessi.
A fronte dell’attualità e dell’interesse che continuamente riveste, sul piano operativo, la tematica de qua, in questo nostro intervento ci proponiamo di rivisitare il pensiero espresso dalla magistratura giuslavoristica, al fine di contribuire, attraverso una sua più compiuta rilettura, ad una più chiara identificazione degli elementi caratterizzanti il lavoro subordinato.
2. Il lavoro subordinato nel pensiero espresso dal magistero giurisprudenziale
Volendo condensare in una succinta schematizzazione l’orientamento espresso dalla giurisprudenza di merito e di legittimità in ordine agli elementi caratterizzanti il lavoro subordinato (frutto, comunque, delle risultanze cui si perviene, fondamentalmente, attraverso l’analisi dell’art. 2094 del codice civile, intitolato al “prestatore di lavoro subordinato”, applicata alle numerose, variegate e sempre diverse fattispecie), possiamo così riassumerne il pensiero (richiamiamo, fra le più recenti sentenze della Suprema Corte: Cass.Civ.Lav. 29 ottobre 2014 n.23021; Cass.24 ottobre 2014 n.22690; Cass. Civ. Lav. 21 ottobre 2014 n.22289; Cass.Civ. Lav. 25 settembre 2014 n.20231; Cass.Civ.Lav.22 settembre 2014 n.19925; Cass. Civ. Lav. 06 marzo 2014 n.5297; Cass. Civ. Lav. 28 febbraio 2014 n.4856; Cass.Civ. Lav. 10 febbraio 2014 n.2285; Cas.Civ.Lav. 30 gennaio 2014 n. 2056; Cass.Civ.Lav. 30 gennaio 2014 n.2055; Cass. Civ. Lav. 22 gennaio 2014 n.1318; Cass. Civ.Lav. 25 giugno 2013 n.15922; Cass. Civ. Lav. 19 aprile 2010 n.9251; Cass. Civ. Lav. 15 giugno 2009 n.13858; Cass. Civ. Lav. 29 novembre 2002 n.16697):
2.0)
poiché l’iniziale contratto dà vita ad un rapporto che si protrae nel tempo, la volontà che da esso emerge ed il nomen juris attribuito dalle parti al contratto stesso non possono porsi come elementi determinanti ai fini della qualificazione giuridica del rapporto, dovendosi avere riguardo al comportamento tenuto in fatto dalle parti successivamente alla stipulazione del contratto, sia per verificare la natura giuridica del rapporto quale scaturente dall’atteggiarsi della prestazione di fatto resa, sia per accertare la presenza di una nuova volontà delle parti eventualmente intervenuta nel corso dell’esecuzione del rapporto e modificativa della iniziale volontà che ha presieduto alla scelta del nomen juris;
2.1)
l’elemento che fondamentalmente caratterizza il lavoratore subordinato è costituito dall’assoggettamento personale del prestatore di lavoro all’esercizio dei poteri organizzativo e direttivo (che si estrinsecano nell’adozione di direttive e disposizioni tecnico-organizzative preordinate ad ottimizzare la produttività dell’impresa, oltreché nell’esercizio di una assidua attività di vigilanza e controllo sull’esecuzione delle prestazioni), assoggettamento che vincola il lavoratore, sul piano delle modalità di esecuzione delle sue funzioni e della disciplina all’interno dell’azienda, al rispetto delle regole di organizzazione, che sono espressione dei poteri stessi;
2.2)
poiché, in relazione alle particolarità delle singole fattispecie (come, ad es., nel caso di attività di contenuto intellettuale particolarmente elevato e creativo, per sua necessità intrinseca svolta in regime di piena autonomia senza dover sistematicamente riferire, in ordine alle sue modalità di esecuzione, ad una posizione superiore) può risultare difficile o incerto, in base al criterio di cui al punto 2.1), stabilire in modo certo ed inequivocabile se, nella fattispecie considerata, si versi nell’ipotesi del lavoro subordinato od in quella di un’attività non subordinata, è necessario ricorrere all’utilizzo di criteri distintivi sussidiari (così denominati perché vengono, appunto, in aiuto, in sussidio, in caso di incertezza interpretativa) o complementari, secondari, accessori, strumentali. Trattasi di criteri che, nel pensiero della giurisprudenza, costituiscono dei meri indizi, dei sintomi della presenza di subordinazione o non subordinazione, idonei a contribuire ad orientare l’interprete, ancora incerto dopo l’analisi della fattispecie alla luce del criterio fondamentale; criteri che, osserva la Corte di legittimità, sono da valutarsi complessivamente e comparativamente (e non in maniera atomistica), e che possono così riassumersi e schematizzarsi:
2.2.1)
il lavoratore subordinato è tenuto all’osservanza di un orario di lavoro, mentre ciò non avviene, ad es., in capo ad un lavoratore autonomo ;
2.2.2)
il lavoratore subordinato deve svolgere la sua prestazione nel luogo convenuto nel contratto od in quello legittimamente disposto dal datore di lavoro;
2.2.3)
il lavoratore subordinato, ricoprendo una posizione all’interno dell’organizzazione, svolge mansioni ripetitive ed identiche nell’ambito di una continuatività di apporto, mentre, ad es., il lavoratore autonomo, proprio perché tenuto ad un’obbligazione di risultato, svolge un’attività che non dovrebbe essere continuativa ed identica, in quanto strettamente correlata al tipo di incarico conferitogli ed al conseguimento del risultato;
2.2.4)
il lavoratore subordinato normalmente utilizza attrezzature e strumenti di lavoro che gli sono messi a disposizione da parte del datore di lavoro, mentre normalmente il lavoratore autonomo, proprio perché autonomo, è dotato egli stesso di un minimo di autonomia organizzativa (potere di autoorganizzazione), accostabile a quella imprenditoriale;
2.2.5)
il lavoratore subordinato percepisce, in ogni periodo di paga, un compenso (che nel lavoro subordinato assume la denominazione tecnico-giuridica di retribuzione), che quantitativamente non varia (salvi gli automatismi retributivi), quale che sia la quantità e qualità del lavoro prestato in ogni periodo di paga, mentre il lavoratore autonomo percepisce un corrispettivo, che, per sua natura, è suscettibile di variare continuamente da incarico ad incarico, essendo strettamente correlato alla quantità e qualità dell’attività necessaria per raggiungere il risultato, nonché al risultato stesso;
2.2.6)
nel lavoro subordinato il rischio d’impresa è interamente accollato al datore di lavoro, mentre, nel rapporto di lavoro autonomo, unico titolare del rischio d’impresa è il prestatore stesso.
3) Riflessioni in merito al suesposto pensiero giurisprudenziale
3.1)
Tipologia dei criteri primari.
3.1.1)
Il primo criterio primario: l’assoggettamento ai poteri organizzativo, direttivo e disciplinare che il datore esercita nel proprio interesse ed a profitto proprio.
In ordine a quello che il pensiero giurisprudenziale più recente qualifica come l’elemento caratterizzante la subordinazione (richiamato nel precedente paragrafo 2.1), rileviamo che la nostra pluridecennale esperienza nella gestione del contenzioso giudiziario imperniato sulla distinzione, che ora ci occupa, ci ha condotti a constatare che la definizione contenuta nell’art. 2094 del codice civile incorpora, oltre al criterio di cui al punto 2.1, in merito al quale vorremmo porre in risalto un aspetto che va senz’altro esplicitato, altri due criteri che possono essere considerati come primari, essenziali e sui quali, purtroppo, non viene sempre posta, a nostro avviso, enfasi adeguata.
Per quanto concerne il criterio, di cui al paragrafo 2.1), ci sembra che esso debba essere enunziato in quella che è la sua formulazione più compiuta e pregnante e, precisamente, nel senso che lavoratore subordinato è colui che è titolare di una situazione di subordinazione, da intendersi, innanzitutto, come assoggettamento del prestatore ai tre poteri del datore di lavoro, il quale, però, deve esercitarli nel proprio interesse ed a profitto proprio.
E’ questa, in sostanza, la definizione di “lavoratore subordinato”, che si ricava, per così dire, dal combinato disposto dell’art.2094 del codice civile e degli artt. 27, comma 1, 29, comma 1, e 30, comma 4-bis, del Decreto Legislativo 10 settembre 2003 n.276 (c.d. Decretazione Biagi), definizione che è esattamente speculare a quella di “datore di lavoro subordinato”, ricavabile dal combinato disposto delle norme stesse, in base al quale datore di lavoro di una persona fisica deve considerarsi il soggetto che di fatto utilizza, nel proprio interesse ed a profitto proprio, detta persona fisica, organizzandone e dirigendone il lavoro.
Dalle richiamate norme del D.Lgs.n.276/2003 si evince, infatti, che nei casi di sdoppiamento tra la figura del soggetto che di fatto utilizza nel proprio interesse ed a profitto proprio una persona fisica e quella del soggetto che ha assunto formalmente il ruolo di datore di lavoro della persona stessa, la regola juris è quella secondo cui dev’essere considerato unico reale datore di lavoro il soggetto che di fatto utilizza il prestatore nel proprio interesse ed a profitto proprio, organizzandone e dirigendone il lavoro, ad eccezione che nell’ipotesi della somministrazione regolare (in cui il ruolo di datore di lavoro è assolto dal somministratore), caso di deroga unico in tutto l’ordinamento giuslavoristico italiano (introdotto dalla citata Decretazione n.276/2003), che conferma pienamente la regola juris stessa (cfr., in merito, anche il nostro articolo “Somministrazione irregolare e distacco illecito….” pubblicato su www.studiocataldi.it il 02 dicembre 2014).
Così, se, per effetto della stipulazione di un contratto di appalto, l’impresa appaltatrice fosse chiamata a realizzare l’opera od il servizio (oggetto di detto contratto) all’interno dell’organizzazione dell’impresa appaltante, e ad esercitare il potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto non fosse l’appaltatore con assunzione del rischio d’impresa a proprio carico, bensì l’appaltante, che, nel proprio interesse ed a profitto proprio, utilizza di fatto i lavoratori, organizzandone e dirigendone la prestazione, verseremmo, ai sensi del summenzionato art.29, comma 1, del D.Lgs. n.276/2003, non nell’ipotesi del contratto di appalto genuino, lecito, bensì nell’ipotesi della c.d. somministrazione di lavoro irregolare, con la conseguenza, a carico dell’appaltante-committente, ove esso risultasse soccombente in un contenzioso giudiziario promosso da detti lavoratori, di dover considerare i lavoratori stessi come propri dipendenti ad ogni effetto.
Rinveniamo un’interessante applicazione del suespresso concetto proprio in una recente sentenza della Corte di cassazione (Cass. Civ. Lav. 25 settembre 2014 n.20231), la quale, pronunziandosi nel caso di un praticante geometra che aveva frequentato continuativamente uno studio di architettura per conseguire l’abilitazione alla professione di geometra, ha affermato che l’attività compiuta dall’allievo nello Studio, anche se eterodiretta, è strumentalmente funzionale all’acquisizione delle nozioni pratiche per l’esercizio della professione, per cui, ove sia mancata, nello svolgimento del rapporto di praticantato, l’erogazione dell’addestramento e della formazione professionale da parte del dominus dello Studio, il fatto che il praticante abbia reso una prestazione continuativa organizzata e diretta dal titolare dello Studio non nell’interesse ed a profitto del praticante stesso conduce a ritenere che il rapporto di praticantato sottenda un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato, posto che il rapporto di praticantato, se veramente è tale, dev’essere gestito a profitto e nell’interesse esclusivo del praticante, dal momento che il rapporto stesso è preordinato a perseguire unicamente la finalità di far acquisire al praticante un addestramento ed una formazione professionale.
3.1.2)
Il secondo criterio primario: l’obbligo del prestatore di stare a disposizione del datore di lavoro durante un determinato arco temporale ed in un determinato luogo, indipendentemente dal fatto che durante tale arco temporale vi sia o non vi sia attività da svolgere.
L’art.2094 del codice civile, a nostro parere, incorpora, oltre al criterio di cui al paragrafo 2.1), due altri criteri che caratterizzano il lavoro subordinato, sul primo dei quali vorremmo brevemente soffermarci nel presente paragrafo.
Il lavoratore subordinato, si afferma con una espressione consegnataci dalla tradizione giuridica, è un prestatore di energie lavorative (il vecchio codice di commercio aveva recepito la concezione della c.d. locatio operarum, mutuata dal diritto romano). Egli è, pertanto, un soggetto che deve porsi a disposizione del datore di lavoro, durante un determinato arco temporale, con la propria persona fisica, con le proprie energie mentali e fisiche e con le proprie capacità, per ottemperare alle disposizioni impartite dal datore stesso, ovverosia per rendere la prestazione oggetto del contratto di lavoro secondo le modalità di esecuzione, di tempo e di luogo fissate dai superiori o, se per caso non vi fosse prestazione da rendere, per restare a disposizione del datore per l’eventualità che vi sia attività da svolgere. Diversamente, pertanto, da quanto accade nel lavoro autonomo ex art.2222 del codice civile, che mutua dal diritto romano l’istituto della c.d. locatio operis (nel quale la figura del collaboratore rileva unicamente come soggetto chiamato a realizzare un’opera o un servizio, ovverosia a raggiungere un obiettivo, a consegnare al committente un risultato finale, da realizzare mediante un’attività da quest’ultimo non organizzata e non diretta, dovendo il lavoratore autonomo operare in regime di piena autonomia relativamente alle modalità di esecuzione necessarie per realizzare l’opera o il servizio, tant’è vero che si afferma che il lavoratore autonomo è un soggetto tenuto unicamente ad un’obbligazione di risultato), nel lavoro subordinato viene in risalto non un soggetto tenuto a realizzare un’opera o un servizio, a consegnare al suo datore un risultato finale (in quanto il risultato finale lo realizza il datore di lavoro soltanto se tutta l’organizzazione funziona secondo le regole stabilite dal datore stesso), bensì un soggetto chiamato a svolgere nel suo quotidiano un complesso di mansioni organizzate e dirette dal datore, che effettua un costante controllo sul “mentre” il prestatore lavora per verificare se la prestazione viene resa in conformità ai canoni prescritti. E questo perché il lavoratore subordinato, diversamente da quanto avviene per il collaboratore autonomo, è, per definizione, un soggetto inserito all’interno dell’organizzazione del suo datore di lavoro (ci dice, infatti, l’art.2094 del codice civile, che il lavoratore subordinato è colui che “si obbliga a collaborare nell’impresa”, cioè dentro l’impresa), per cui è una ruota dell’ingranaggio organizzativo, che deve muoversi in modo armonico e complementare con tutte le altre ruote dell’ingranaggio stesso, e, solo se tutte le ruote si muovono in conformità alle regole di organizzazione, il datore sa che tutta l’azienda funziona e che potrà raggiungere il risultato che, come imprenditore, si è prefissato. Ciò significa che il lavoratore subordinato è un soggetto chiamato, attraverso lo svolgimento delle mansioni inerenti alla posizione che ricopre all’interno dell’organizzazione aziendale, ad apportare il suo quotidiano, costante, sistematico, continuativo contributo al funzionamento dell’organizzazione stessa.
E per il datore di lavoro, ad es., è molto più importante sapere che ogni giorno dispone di un contabile che effettui le quotidiane rilevazioni amministrative, di un archivista che gestisca l’archivio aziendale, di un ricercatore che effettui le analisi di laboratorio e via dicendo, piuttosto che sapere di disporre di un contabile o di un archivista o di un ricercatore che siano dotati di una specializzazione di elevatissimo livello (ciò sarebbe, invece, importante nell’ambito di un lavoro autonomo) ma scarsamente diligenti nel loro impegno di lavoro e nell’adempimento dei loro obblighi o suscettibili di assentarsi spesso per malattia, perché ciò che conta, per il datore, ciò che è per lui imprescindibile è sapere che ogni giorno egli dispone, durante un determinato arco temporale, di ruote dell’ingranaggio organizzativo pienamente funzionanti (anche se non dotate di capacità professionale eccelsa o di particolarmente solerte diligenza), perché solo così può essere sicuro che tutta l’organizzazione si muove efficientemente secondo le regole e raggiungere gli obiettivi che come imprenditore si è prefissato. Da tutto questo discorso emerge chiaramente come, in relazione a ciò che si attende il datore, debba considerarsi, quale secondo criterio primario di identificazione del lavoro subordinato, il criterio che potremmo esprimere nei seguenti termini: il lavoratore è un soggetto tenuto ad assicurare la propria disponibilità al suo datore di lavoro durante un determinato arco temporale ed in un determinato luogo, indipendentemente dal fatto che durante tale arco temporale vi sia o non vi sia attività da svolgere, in quanto lo status di lavoratore subordinato vincola la persona fisica del prestatore a mettere a disposizione del datore le sue energie fisiche e mentali e le sue capacità, per svolgere le mansioni oggetto della posizione assegnatagli o pronto per svolgere le mansioni stesse, ove non vi sia, al momento, attività da svolgere. In una parola, ciò che inchioda il nucleo sostanziale del lavoro subordinato è “l’obbligo, a carico del lavoratore subordinato, di stare a disposizione del datore di lavoro durante un determinato arco temporale e in un determinato luogo, indipendentemente dall’esigenza di avere effettivamente attività da svolgere. Tale obbligo non sussiste, ad es., in capo al collaboratore autonomo, proprio perchè egli, per definizione, non fa parte dell’organizzazione del committente, è estraneo a tale organizzazione, non è una ruota dell’ingranaggio organizzativo ed il vincolo che lo lega al committente è unicamente quello di dover raggiungere un risultato finale mediante un’attività non organizzata, diretta, controllata dal committente (attività che, proprio per questo, dovrebbe essere elettivamente svolta al di fuori dell’organizzazione del committente), per cui non deve poter presentare alcuna rilevanza ch’egli rimanga a disposizione del committente durante un determinato arco temporale o sia soggetto a poteri direttivi di quest’ultimo. Per il lavoratore autonomo, rivestendo importanza solo il risultato finale da consegnare al committente (risultato da raggiungere mediante un’attività svolta operando al di fuori della sfera di direzione e controllo del committente), può ammettersi un obbligo di essere presente all’interno dell’organizzazione del committente unicamente in relazione all’esigenza di rapportarsi, di coordinarsi con quest’ultimo in funzione del miglior conseguimento del risultato e, quindi, soltanto se necessario a tali fini (ad es., per acquisire dal committente ulteriori elementi necessari per il miglior conseguimento dell’obiettivo o per informare il committente sullo stato di avanzamento dell’opera o del servizio). Se si imponesse ad un collaboratore, qualificato sul piano formale come autonomo, l’obbligo di assicurare la sua presenza all’interno dell’organizzazione del committente o di rapportarsi con quest’ultimo senza che ciò fosse indispensabile in relazione alla realizzazione del risultato, il committente stesso avrebbe introdotto nel rapporto un dovere, che avrebbe il sapore di obbligo di stare a disposizione, ovverosia di un “vincolo all’organizzazione”, tipico dello status di lavoratore subordinato.
3.1.3)
Il terzo criterio primario: il lavoratore subordinato, in quanto stabilmente inserito nell’impresa, ricoprendo una posizione professionale all’interno dell’organizzazione del suo datore di lavoro, apporta il suo costante continuativo contributo, unitamente agli altri titolari di posizione, al funzionamento dell’organizzazione stessa.
Il discorso sviluppato nel precedente paragrafo 3.1.2) ci ha indotti a ritenere che l’art.2094 del codice civile incorpori un terzo criterio primario di identificazione del lavoro subordinato, meritevole di assurgere a terzo criterio primario autonomo.
Abbiamo affermato che il lavoratore subordinato è colui che, in quanto stabilmente inserito in una organizzazione di cui deve rispettare le regole, ricoprendo una posizione all’interno dell’organizzazione stessa, è chiamato ad apportare il suo costante continuativo contributo al funzionamento dell’organizzazione stessa, essendo una ruota del complesso ingranaggio organizzativo, che deve muoversi in modo complementare ed armonico con tutte le altre.
Tale criterio, a nostro parere, se applicato unitamente agli altri due criteri primari, consente sempre di stabilire con sufficiente certezza se una determinata fattispecie sia riconducibile nell’ambito della categoria del lavoro subordinato od in quella di altra tipologia contrattuale non subordinata, persino nei casi in cui il collaboratore svolga attività di contenuto intellettuale particolarmente elevato e creativo ed in regime di piena autonomia o, comunque, senza alcuna particolare ingerenza (esercizio di potere organizzativo e direttivo), da parte del committente, sulle modalità di esecuzione dell’attività stessa, senza controllo dell’impresa committente sul “mentre” il collaboratore svolge la sua attività.
A dimostrazione della fondatezza dell’assunto, da noi qui sostenuto, vorremmo addurre una fattispecie, che ci ha coinvolti professionalmente in sede di contenzioso giudiziario, poi definito, comunque, sul piano conciliativo.
Il caso riguarda una società srl di dimensioni medio-grandi, alla cui guida è posto un amministratore unico, proprietario del pacchetto di maggioranza relativa delle quote al 45%, ma ormai sempre più spesso assente, perché affetto da grave malattia e bisognoso di cure che lo costringono ad una sistematica lontananza dall’azienda e gli impediscono di condurre con la necessaria capacità organizzativa e decisionale la gestione aziendale, ormai affidata ai responsabili di area, nei cui confronti l’amministratore unico esercita le sue prerogative di guida in modo ormai alquanto discontinuo. Detto amministratore unico, considerato il suo assai precario stato di salute e versando ormai l’impresa in una situazione di crisi, stipula un contratto di collaborazione a progetto (di durata biennale e già in corso, per proroga, da più di tre anni) con un ex manager aziendale di comprovata competenza ed esperienza professionale (oltreché già conosciuto ed apprezzato sul mercato nazionale come “salvatore di aziende in crisi”). Con detto contratto l’impresa, in considerazione dello stato di malattia che affligge l’amministratore unico, conferisce all’ex manager l’incarico di realizzare un progetto preordinato al conseguimento dell’obiettivo del superamento della crisi e del ritorno dell’azienda ad una gestione profittevole, consistente nel mettere a punto le strategie necessarie per il rilancio dei settori “produzione”, “approvvigionamento”, “commerciale” ed “amministrativo-finanziario”, nonché nell’assistere costantemente i responsabili di tali aree, onde orientarli nel valutare e compiere le scelte di gestione e dare loro l’impulso necessario per l’adozione di decisioni idonee ad attuare nel quotidiano le strategie da lui delineate.
Accade che, in brevissimo tempo (dopo il primo mese), l’ex manager in questione, per le capacità e l’autorevolezza espresse, si pone come la figura, a cui tutta l’organizzazione operativamente riferisce e finisce per assumere un ruolo non più consulenziale, bensì di vero e proprio “general manager”, in quanto, per prassi gradualmente instauratasi, egli, operando in regime di piena e completa autonomia decisionale, prende ad esercitare direttamente nei confronti degli stessi responsabili di area, in forma sempre meno consulenziale e sempre più manageriale, il potere organizzativo e direttivo, limitandosi a fornire all’amministratore unico (che, come si suol dire, gli ha dato “carta bianca” anche per quanto concerne l’attuazione delle nuove strategie) una periodica sommaria informativa in merito alle azioni intraprese per risanare l’azienda.
Dopo circa tre anni e mezzo di attività il collaboratore a progetto in questione chiede all’amministratore unico che gli sia riconosciuta una posizione di “direttore generale” e l’inquadramento in categoria dirigenziale.
L’amministratore unico, pur essendo personalmente del tutto favorevole ad accogliere le istanze del collaboratore a progetto, gli partecipa di dover respingere la sua richiesta in considerazione del parere negativo espresso da tutti gli altri soci per ragioni di contenimento dei costi di gestione, anche se l’Azienda era ormai tornata ad una gestione decisamente profittevole.
A fronte di ciò, il collaboratore propone ricorso al giudice del lavoro, sostenendo di non aver mai, in realtà, rivestito un ruolo consulenziale e di supporto ai vertici aziendali, bensì di aver sin dall’inizio di fatto ricoperto una posizione di general manager dell’impresa, essendosi trovato di fatto preposto, sul piano di un costante quotidiano continuativo impegno all’interno dell’azienda, alla conduzione e gestione operativa della stessa.
La società convenuta contesta la tesi del ricorrente, assumendo che quest’ultimo ha svolto un ruolo squisitamente consulenziale, essendosi sostanziato il suo apporto, da un lato, nel collaborare con i vertici operativi aziendali alla formulazione delle strategie necessarie al rilancio dell’impresa e, dall’altro, nel proporre loro le decisioni da lui ritenute più coerenti con gli obiettivi da conseguire.
Avanti al giudice la causa, dopo l’interrogatorio delle parti e l’assunzione delle prove testimoniali, per effetto dei buoni uffici dallo stesso interposti (a dire il vero determinanti per convincere parte aziendale), è definita mediante conciliazione giudiziale, in base alla quale la convenuta si impegna a riconoscere al collaboratore il ruolo di “responsabile operativo generale” dell’azienda e l’inquadramento in categoria dirigenziale, con decorrenza dall’inizio del mese successivo a quello della intervenuta conciliazione giudiziale
Dopo la sottoscrizione dell’atto di conciliazione il magistrato, intrattenendosi in amabile conversazione con le parti e con i rispettivi difensori (tra cui chi scrive), e chiarendo di non voler affatto esprimere valutazioni che avrebbe posto, all’occorrenza, a base della sua sentenza, si rivolge, però, a parte aziendale per esprimere apprezzamento per la disponibilità dimostrata con la sottoscrizione della conciliazione, argomentando che, a quanto sembrava potersi desumere dalle risultanze dibattimentali, emergeva certo abbastanza chiaramente che il collaboratore, anche se non poteva considerarsi assoggettato ad un potere organizzativo e direttivo esercitato dall’amministratore unico (poiché operava in regime di piena autonomia e senza dover riferire costantemente ad una posizione superiore), esercitava, però, un indubbio potere decisionale sui responsabili di area, che dovevano, pertanto, considerarsi a lui gerarchicamente sottoposti, fatto, questo, che avrebbe potuto suscitare seri dubbi sulla fondatezza della tesi di parte aziendale.
Potevano, pertanto, ritenersi sussistenti ampi spazi, ha chiosato e proseguito ancora il giudice nel sereno commento alla intervenuta conciliazione, per sostenere che il collaboratore, per il fatto di esercitare un potere organizzativo e direttivo sui responsabili di area e sui loro collaboratori, più che un terzo estraneo all’organizzazione aziendale, doveva considerarsi un soggetto pienamente inserito nel contesto organizzativo dell’impresa, un soggetto che, sia pur nella posizione di dipendente in posizione apicale, apportava il suo costante quotidiano continuativo contributo al funzionamento dell’organizzazione e, quindi, si poneva un po’ come la ruota-motrice dell’ingranaggio organizzativo.
Siamo lieti di aver qui riportato il pensiero espresso dal giudice de quo, anche se in modo del tutto familiare e conviviale ed al di fuori della sede ufficiale dell’udienza (ove, d’altra parte, non avrebbe potuto esternare il suo benché minimo orientamento), in quanto ci fornisce una ennesima conferma del fatto che l’art.2094 c.c. incorpora un terzo criterio primario di identificazione del lavoro subordinato: il lavoratore subordinato è colui che, in quanto stabilmente inserito nell’organizzazione del suo datore di lavoro, in quanto ruota dell’ingranaggio organizzativo (che deve muoversi in modo complementare ed armonico alle altre) e titolare di una posizione all’interno di tale organizzazione (sia essa apicale o quella funzionalmente più bassa), è chiamato ad apportare il suo costante quotidiano continuativo contributo al funzionamento dell’organizzazione stessa, e la riprova dell’appartenenza all’organizzazione datoriale è dimostrata dal fatto dell’esercizio di poteri organizzativi e direttivi nei confronti di dipendenti.
3.2)
Analisi e valutazione dei “criteri sussidiari” richiamati nel paragrafo 2.2).
Ci sia, ora, consentito esprimere qualche riflessione e valutazione in merito ai criteri, che dottrina e giurisprudenza qualificano come “sussidiari” o “secondari” o “strumentali”.
3.2.1)
Affermare, secondo quanto esposto, rispettivamente, nel paragrafo 2.2.1) e 2.2.2), come criteri sussidiari, che il lavoratore subordinato è colui che deve osservare un orario di lavoro e che deve svolgere la sua prestazione in un determinato luogo, mentre il lavoratore autonomo non ha da rispettare alcun orario di lavoro o vincolo di luogo, significa enunziare un concetto che, così come espresso, non presenta alcuna valenza identificatoria, in quanto inerisce a situazioni spesso comuni ad ambedue le tipologie contrattuali. Tali criteri, invece, se formulati nella loro espressione più compiuta, assumono una valenza identificatoria tale da conferire loro addirittura carattere di primarietà.
La verità è che, quando si parla di orario di lavoro o di luogo di lavoro nel lavoro subordinato, dev’essere chiaro che ci si intende riferire a quell’orario e a quel luogo di lavoro che sono “vincoli all’organizzazione”. In tal senso le espressioni “orario di lavoro” e “luogo di lavoro” riflettono direttamente il criterio primario dello “stare a disposizione”: il lavoratore subordinato deve, infatti, assicurare la propria disponibilità al datore di lavoro durante un determinato arco temporale e in un determinato luogo, anche se non avesse momentaneamente attività da svolgere.
Orbene, l’elemento “orario di lavoro” e “luogo della prestazione”, se così considerati, non possono più essere valutati alla stregua di criteri secondari, perché vengono ambedue contestualmente sussunti nel criterio primario dello “stare a disposizione”, di cui costituiscono diretta espressione.
Quando, poi, si parla di orario di lavoro e di luogo della prestazione nel lavoro autonomo e si afferma che il lavoratore autonomo non ha da osservare un orario di lavoro o un obbligo di presenza in un determinato luogo, si enunzia un altro concetto che, così come espresso, non centra la caratteristica sostanziale della collaborazione autonoma.
La verità è che anche il lavoratore autonomo può essere chiamato a dover rispettare un tempo di lavoro (preferiamo, per il lavoro autonomo, usare questa espressione, perché più consona alla natura di tale tipo di rapporto) o di presenza in un determinato luogo. Solo che, nel lavoro autonomo, il tempo ed il luogo della prestazione non sono senz’altro “vincoli all’organizzazione” (perché ciò basterebbe per ricondurre la prestazione nell’ambito della subordinazione), bensì vincoli che il collaboratore autonomo deve rispettare in quanto unicamente correlati all’opera o al servizio ch’egli è chiamato a realizzare, al risultato ch’egli deve consegnare al committente. Un caso concretamente vissuto da chi scrive per chiarire subito il significato del concetto espresso.
Se una società di consulenza e formazione, mediante un contratto di lavoro autonomo, mi incarica di svolgere, a favore di imprenditori, professionisti, dirigenti e quadri, attività di docenza, presso la sua sede, in un seminario di specializzazione e perfezionamento, che impegna due giornate alla settimana per un mese, dalle ore 09,30 alle ore 13 e dalle ore 14,30 alle ore18, è chiaro che, pur potendo io operare in regime di piena autonomia nella realizzazione del processo formativo dei corsisti e nel tenere la mia lezione, debbo rendere la mia prestazione nell’orario convenuto e presso la sede della società, per il semplice fatto che posso realizzare il servizio affidatomi e raggiungere gli obiettivi formativi soltanto nel rispetto di dette modalità di tempo e di luogo (se tenessi la mia lezione in orari diversi e non presso la sede della società, parlerei ai muri…).
E’ chiaro, pertanto, che, in tal caso, l’osservanza di un tempo e di un luogo della prestazione non costituiscono un “vincolo all’organizzazione”, bensi un vincolo strettamente correlato al risultato (“vincolo di risultato”), vincolo che entra, quindi, a far parte del risultato stesso (e ciò è pienamente coerente con il paradigma normativo dell’art.2222 del codice civile: sul lavoratore autonomo possono gravare soltanto vincoli strettamente necessari alla realizzazione dell’opera o del servizio). E, come vincoli strettamente correlati al risultato da conseguire, modalità di tempo e di luogo della prestazione devono essere osservati dal collaboratore autonomo soltanto in funzione dell’effettivo svolgimento dell’attività cui le modalità stesse si riferiscono e non ai fini di uno “stare a disposizione”, che nel lavoro autonomo non avrebbe alcuna ragione di esistere.
Atteso quanto sopra, potremmo concludere sul punto in questione affermando che, se gli elementi “orario di lavoro” e “luogo di lavoro” sono vincoli all’organizzazione e, come tali, intrinsecamente caratteristici del lavoro subordinato, essi non possono essere neppure qualificati quali elementi di identificazione sussidiari, in quanto immediatamente riconducibili nell’ambito del criterio primario dello “stare a disposizione”.
3.2.2)
Anche l’affermazione di cui al punto 2.2.3), secondo cui il lavoratore subordinato collabora con il suo datore di lavoro svolgendo un’attività continuativa (nel lavoro subordinato la collaborazione assume la connotazione di partecipazione continuativa del prestatore all’attività del superiore mediante la messa a disposizione delle proprie energie e capacità lavorative), mentre il collaboratore autonomo, essendo chiamato a realizzare un’opera o un servizio, svolge un’attività destinata a cessare con il raggiungimento dell’obiettivo, necessita di una rilettura, al fine di chiarirne la portata.
Se l’espressione “attività continuativa” intende esprimere il concetto secondo cui il dipendente, come ruota dell’ingranaggio organizzativo, deve stare continuativamente a disposizione del datore durante un determinato arco temporale, non si può che condividere l’affermazione stessa.
Se, invece, con l’espressione “attività continuativa” ci si intende riferire al fatto che il dipendente rende una prestazione, il cui svolgimento si snoda senza interruzione durante un tempo di lavoro, deve rilevarsi che tale caratteristica la rinveniamo anche nel lavoro autonomo, nel quale pure si può assistere ad una prestazione di attività resa continuativamente all’interno dell’organizzazione della committente, anche se, però, tale attività e tale continuità possono mutare in relazione all’incarico di volta in volta conferito e, cioè, al tipo di obiettivo da conseguire.
La verità è che non è l’elemento “continuatività” dell’attività, in sè e per sè, a concorrere a tracciare la linea di demarcazione tra subordinazione ed autonomia o, più in generale, tra subordinazione e non subordinazione, bensì il fatto che nel lavoro autonomo la continuatività della prestazione all’interno dell’organizzazione del committente non deve inerire ad un’attività organizzata e diretta dal medesimo e può essere giustificata solo se necessaria in rapporto agli obiettivi da raggiungere, mentre nel lavoro subordinato la continuatività inerisce sempre e soltanto al contributo reso dal dipendente, quale ruota dell’ingranaggio interno aziendale, al funzionamento dell’organizzazione datoriale attraverso il dover stare continuativamente a disposizione del datore.
Per tornare all’esemplificazione addotta nel paragrafo 3.2.1), se io svolgo presso la sede di una società di formazione attività di docenza in un seminario specialistico dalle ore 09,30 alle ore 13 e dalle ore 14,30 alle ore 18, è chiaro che, relativamente al seminario oggetto della mia attività, rendo una prestazione di carattere continuativo, ma ciò che conta è che tale prestazione non sia organizzata e diretta, nel suo svolgimento, dalla società committente e che la mia presenza all’interno dell’organizzazione della società di formazione sia strettamente funzionale alla formazione da erogare ai corsisti.
Ciò conduce a ritenere che l’elemento della continuatività dell’attività, come tipico del lavoro subordinato, ben potendo essere tale continuatività presente in ambedue le tipologie contrattuali, rileva solo come elemento che evidenzia una prestazione che si protrae nel tempo con identico contenuto di funzioni, in quanto connessa con la titolarità di una posizione nell’organizzazione e con una stare a disposizione.
Anche qui, pertanto, potremmo concludere che, così compiutamente formulati, pure gli elementi della collaborazione e della continuatività finiscono per postulare una indagine sui tre criteri primari, ciò che fa venir meno la loro valenza di tipo sussidiario.
3.2.3)
Al criterio sussidiario, di cui al paragrafo 2.2.4), è stato annesso un ruolo sempre più marginale dalla stessa evoluzione del pensiero giurisprudenziale.
Opina, infatti, in buona sostanza, la magistratura del lavoro che il fatto che il committente di lavoro autonomo conceda in dotazione al collaboratore strumenti di lavoro che gli consentano di rendere una prestazione più efficiente in relazione agli obiettivi da raggiungere (ad es., messa a disposizione di un computer portatile, di un tablet, di un telefono cellulare, di un’autovettura, ecc.) non è idoneo ad incidere sulla natura giuridica del rapporto di lavoro, a meno che, dall’analisi della prestazione di fatto resa, non emergano atteggiamenti di ingerenza e controllo del committente sulle modalità di esecuzione della prestazione, che, valutati unitariamente con l’elemento della dotazione organizzativa, inducano a prospettare la prestazione come oggetto di un lavoro organizzato ed etero-diretto dal committente.
In proposito, ci sentiamo di ribadire che, se, in base ai tre criteri primari, il rapporto instaurato non si presenta riconducibile nell’ambito del lavoro subordinato, siamo senz’altro in presenza di una collaborazione non subordinata, quale che possa essere la dotazione tecnico-organizzativa apprestata al collaboratore da parte della committenza.
Vorremmo aggiungere che, persino nel caso in cui il committente metta a disposizione del collaboratore autonomo un proprio ufficio, dotato di tutta la necessaria strumentazione informatica e di telecomunicazione (caso in cui, se l’attività del collaboratore è caratterizzata da una continuatività di prestazione all’interno della committente in un regime di fianco a fianco con i dipendenti, l’orientamento giurisprudenziale è incline ad intravvedere la subordinazione), se, in base ai tre criteri primari, non emergesse alcun connotato proprio della subordinazione, dovremmo correttamente concludere di essere in presenza di un prestatore, che utilizza l’ufficio del committente per svolgere, con assoluta autonomia e libertà, entrando ed uscendo come e quando vuole, senza sottostare a disposizioni e senza a sua volta impartirne, l’attività in cui si sostanzia il servizio affidatogli. Altra riprova, questa, di come ai tre criteri primari spetti l’ultima parola, perché, come abbiamo visto, essi esercitano un ruolo identificatorio assolutamente determinante ed esclusivo.
Concordiamo, invece, con il pensiero giurisprudenziale nel ritenere che, a proposito dell’esemplificazione addotta, se il committente, oltre a concedere una propria dotazione organizzativa ed un proprio ufficio al collaboratore all’interno della propria organizzazione, gli pone anche a disposizione una segretaria od un collaboratore da poter utilizzare secondo i propri criteri organizzativi e direttivi, non vi è dubbio che la fattispecie diventi immediatamente riconducibile nell’ambito del lavoro subordinato. Ciò in considerazione del fatto che, come già abbiamo osservato, colui che esercita potere organizzativo e direttivo nei confronti di un dipendente, essendo superiore gerarchico di detto dipendente, è, per ciò stesso, dipendente dell’impresa, in quanto inserito nell’organizzazione datoriale.
3.2.4)
Il criterio sussidiario, di cui al punto 2.2.5), riflette direttamente la diversa funzione del compenso nel lavoro subordinato e nel lavoro autonomo. Nel lavoro subordinato, infatti, la retribuzione è il corrispettivo del dover “stare a disposizione” del datore, della posizione che il lavoratore ricopre all’interno dell’organizzazione datoriale (per cui, salvi gli automatismi retributivi, il suo ammontare è, per lo più, della stessa entità in ogni periodo di paga). Ribadiamo che, nel lavoro subordinato, la retribuzione costituisce il corrispettivo dell’obbligo del prestatore di dover stare a disposizione del suo datore di lavoro, anche se l’entità dei minimi della contrattazione collettiva è rapportata al contenuto della posizione professionale assegnata, espresso dalla qualifica, ed al livello gerarchico di inquadramento della posizione, che riflette il livello di responsabilità attribuito alla posizione stessa nel sistema della classificazione contrattuale dei collaboratori datoriali. Al contrario, il compenso del lavoratore autonomo è strettamente correlato alla quantità e qualità dell’attività necessaria per conseguire il risultato, nonché al risultato stesso da consegnare al committente, per cui il corrispettivo del lavoro autonomo è suscettibile di variare continuamente, in relazione al tipo di incarico di volta in volta conferito.
Il criterio in questione può senz’altro concorrere, in via sussidiaria, a stabilire se la prestazione oggetto di indagine sia tipica di una situazione di subordinazione o meno. Non dimentichiamo, però, che anche la corresponsione di un compenso non suscettibile di variare nel tempo, indubbio sintomo che deve indurre a sospetti, potrebbe benissimo, però, costituire il corrispettivo di un’attività di fatto assolutamente non organizzata, diretta o controllata dal committente e svolta senza alcuna osservanza di vincoli all’organizzazione.
Anche in relazione, pertanto, a tale criterio sussidiario ci permettiamo di ribadire che, se valutiamo la fattispecie concreta alla luce dei tre criteri primari, siamo senz’altro in grado di stabilire con sufficiente certezza se versiamo nell’ipotesi del lavoro subordinato o della prestazione non subordinata, senza che vi sia bisogno di ricorrere all’applicazione di criteri sussidiari.
3.2.5)
Anche in ordine, infine, al criterio sussidiario, di cui al paragrafo 2.2.6), rileviamo che non è da escludere il caso di un collaboratore autonomo, dotato di un’autonomia organizzativa tale da poter essere accostata a quella di tipo imprenditoriale, che, nonostante agisca con rischio d’impresa a proprio carico, nello svolgimento della sua attività finisca per assoggettarsi all’esercizio di potere organizzativo e direttivo da parte del committente ed a vincoli all’organizzazione da quest’ultimo impostigli.
Anche con riferimento a tale criterio non possiamo, pertanto, che ribadire la sostanziale inutilità di far capo a criteri sussidiari, atteso che, in base ai tre criteri primari, è sempre possibile operare, attraverso l’analisi della concreta fattispecie, una chiara ed inequivocabile valutazione in merito alla natura giuridica del rapporto sotteso dalla tipologia contrattuale utilizzata sul piano formale dalle parti.
4) In conclusione…
Non è certo nostra intenzione qui stravolgere o mettere in discussione la costruzione frutto della copiosa elaborazione giurisprudenziale in tema di distinzione tra lavoro subordinato e tipologie di attività non subordinata (lungi da noi tale pretesa!), ma desideriamo soltanto proporre una diversa rilettura dei concetti da essa espressi, nella ferma convinzione che essa possa contribuire a meglio orientare l’interprete nell’attribuire la “giusta” natura giuridica alle singole fattispecie sottoposte a sua disamina.
Riteniamo, però, che il discorso che siamo andati sviluppando nei precedenti paragrafi dia sufficiente contezza e dimostrazione al lettore del fatto che, in base ai tre criteri da noi definiti come “primari”, sia sempre possibile, persino nelle fattispecie in cui la linea di demarcazione tra lavoro subordinato e tipologie contrattuali di attività non subordinata sembri presentare caratteri di assoluta incertezza, stabilire con sufficiente chiarezza se si versi nell’ambito del lavoro dipendente o di una collaborazione non dipendente, senza che vi sia bisogno di “scomodare”, per le ragioni addotte, la sintomatologia offerta dai criteri sussidiari.
Ci preme soltanto evidenziare che, se si assume quale elemento primario caratterizzante il lavoro subordinato unicamente quello dell’assoggettamento ai poteri organizzativo, direttivo e disciplinare, essendo esso, da sè solo, insufficiente, si avverte, per forza di cose, la necessità di far capo alla serie di sintomi, di indizi cui si riferiscono i criteri sussidiari, per comprendere se essi siano in grado di dirimere l’incertezza manifestatasi in base all’applicazione del primo criterio fondamentale.
Non possiamo, però, circa i criteri sussidiari, non rappresentare la necessità di tener conto di quanto abbiamo più sopra esposto in ordine ai medesimi.
In primo luogo, infatti, alcuni dei criteri sussidiari necessitano, come si è visto, di una diversa rilettura, per effetto della quale finiscono per confluire nei criteri primari o per acquisire, comunque, rilevanza primaria, per cui non possono più essere considerati alla stregua di meri criteri sussidiari. In secondo luogo, quando, in base al criterio primario, di cui al paragrafo 2.1), la linea di demarcazione tra subordinazione e non subordinazione rimanga ancora assolutamente sfumata, i criteri sussidiari, anche se valutati complessivamente e comparativamente (come richiede la giurisprudenza di legittimità), non sono sempre idonei ad orientare in modo certo l’interprete, e questa è la ragione per cui il contenzioso giudiziario imperniato sulla distinzione tra le due categorie di tipologie contrattuali, conduce, talora, a sentenze, che recano motivazioni non del tutto convincenti, in quanto non sempre fondate su validi criteri ermeneutici.
Non possiamo, pertanto, che sollecitare il lettore ad utilizzare, in subiecta materia, i tre criteri primari di identificazione del lavoro subordinato, che qui di seguito ci piace, per chiarezza, ricapitolare, nella convinzione che, attraverso la loro corretta applicazione ai casi concreti, sia sempre possibile stabilire, con sufficiente margine di certezza, se una determinata fattispecie sia riconducibile nell’ambito del lavoro subordinato o nell’ambito di una tipologia contrattuale di attività non subordinata:
4.1)
Primo criterio primario: assoggettamento del lavoratore subordinato ai poteri organizzativo, direttivo e disciplinare, che il datore esercita nel proprio interesse ed a profitto proprio (vedi paragrafo 3.1.1).
4.2)
Secondo criterio primario: obbligo del prestatore di lavoro subordinato di assicurare la propria disponibilità al datore di lavoro durante un determinato arco temporale ed in un determinato luogo, indipendentemente dal fatto che durante tale arco temporale vi sia o non vi sia attività da svolgere (vedi paragrafo 3.1.2).
4.3)
Terzo criterio primario: il lavoratore subordinato, essendo stabilmente inserito nell’impresa e ricoprendo una posizione professionale all’interno dell’organizzazione del suo datore di lavoro, è chiamato ad apportare il suo costante quotidiano continuativo contributo, unitamente agli altri titolari di posizione, al funzionamento dell’organizzazione stessa (vedi paragrafo 3.1.3).
Autore: Avv. Prof. Stefano Lenghi
Tratto dal sito www.studiocataldi.it
Gennaio 2015