Cassazione ' Sez. I° civile
sentenza 7/04-22/07/04 n. 13643

Presidente Losavio ' Relatore Genovese
Pm Martone ' conforme - ricorrente Comune di Cremona ' controricorrente Costruzioni Dondi Spa

 


Svolgimento del processo


1. Il Comune di Cremona, con delibera n. 1094 del 1988, decideva di realizzare alcune opere per il collettamento e la depurazione delle acque reflue, civili e industriali, della città. La gara, espletata nel corso del 1990, vedeva aggiudicataria l'Associazione Temporanea di Imprese (d'ora in avanti, semplicemente Ati) con mandataria la Costruzioni Dondi spa. Il contratto, sottoscritto tra le parti il 14 giugno 1990, prevedeva che le opere venissero ultimate entro 460 giorni naturali e consecutivi, decorrenti dal verbale di consegna.
La consegna dei lavori avveniva il 25 giugno 1990 e, di conseguenza, i medesimi avrebbero dovuto avere termine entro il giorno 27 settembre 1991.
Dopo uno scambio di note tra la Direzione dei lavori e la società mandataria, in ordine al rispetto dei tempi ed alle relative responsabilità, il 25 giugno 1991, il Comune sottoponeva alla firma dell'appaltatore un atto di sottomissione (e un verbale dei nuovi prezzi), relativi ad una seconda perizia suppletiva e di variante tecnica, redatta in corso d'opera dal committente, in considerazione della necessità di apportare alcune modifiche al progetto originario, con interventi aggiuntivi, per un maggior importo definito nel contratto.
Il 25 settembre 1991 i lavori venivano sospesi, per la formalizzazione della perizia suppletiva e la proroga (per l'ultimazione) dei lavori.
Il fermo, però, si protraeva fino all'11 maggio 1994, quando - dopo una serie di contestazioni, diffide e messe in mora, richieste di revisione prezzi e pagamento di interessi maturati - si arrivava ad una brevissima ripresa dei lavori (fino al giorno 13 successivo), e poi, a seguire, ad ulteriori sospensioni, a una ulteriore ripresa a partire dal 1° settembre 1994 e, dopo altri e ulteriori fermi, alla definitiva ultimazione delle opere il 29 settembre 1995.

2. Il Comune proponeva un accordo bonario, ai sensi dell'articolo 31 bis legge 109/94, e quantificava una proposta di definizione della controversia, con il pagamento della somma di lire 261.511.517 (comprensivo di Iva e interessi), contro le riserve iscritte in contabilità per un equivalente di lire 2.389.617.546. Ma la controversia, rimasta irrisolta, veniva rimessa alla decisione di un collegio arbitrale, ai sensi degli articoli 31 bis e 32 legge 109/94.
Nell'istanza e nell'atto integrativo l'Impresa Dondi spa, mandataria dell'Ati, chiedeva l'accertamento dell'obbligo del Comune al pagamento di: lire 2.306.268.604, quale risarcimento dei danni per l'indebita sospensione dei lavori (dal 25 settembre 1991 al 11 maggio 1994); lire 41.062.584, a titolo di interessi per il ritardato pagamento; lire 58.964.000 a titolo di rimborso delle somme pagate per la composizione transattiva della vertenza insorta con il subfornitore Oem snc, oltre agli interessi, alla rivalutazione, alle spese di funzionamento del collegio arbitrale, e agli onorari degli arbitri, nonché alle spese e alle competenze del giudizio.
3. Il collegio arbitrale accoglieva alcune delle istanze dell'Ati e "condannava" il Comune di Cremona al pagamento di lire 1.046.900.535, comprensiva di interessi e rivalutazione, per la sospensione dei lavori e di lire 26.423.857, a titolo di interessi. Poneva a carico del Comune le spese del funzionamento del collegio arbitrale e quelle di difesa, nella misura di 4/5 (e, il restante quinto, a carico dell'Ati).

4. Il lodo veniva impugnato dal Comune di Cremona davanti alla Corte d'appello di Milano che, con sentenza depositata il 18 agosto 2000, lo respingeva, con la condanna dell'attore al pagamento delle spese processuali.

5. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l'ente locale, articolato in tre mezzi ed illustrato con memoria. Resiste l'Ati Dondi spa, con controricorso, illustrato anch'esso da memoria.


Motivi dalla decisione


1.1. Con il primo motivo di ricorso (con il quale si lamenta una violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360, primo comma, n. 3, e l'omessa od insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia, ex ar. 360, primo comma, n. 5, Cpc, in relazione alla "sospensione dei lavori" il ricorrente deduce che la sentenza della Corte di appello sarebbe viziata sotto più profili. Innanzitutto, per avere arbitrariamente (e con violazione degli artt. 1362 c.c. e ss., per non avere compreso la reale volontà delle parti al momento dell'accordo sulla sospensione dei lavori) individuato un termine finale al fermo del cantiere, concordato fra le parti, senza che emergessero elementi interpretativi in tale senso; in secondo luogo, perché gli effetti di tale sospensione delle attività non risulterebbero automaticamente, trattandosi di una facoltà dipendente dall'iniziativa della parte (violazione dell'articolo 30 Dpr 1063/62). In ordine al primo aspetto la Corte, inoltre, avrebbe ignorato gli argomenti svolti dal Comune (e cioè il valore confessorio del verbale di ripresa dei lavori dell'11 maggio 1994) e si sarebbe anche contraddetta poiché, pur affermando la non riconducibilità della fattispecie alle previsioni dell'articolo 30 Dpr 1063/62, l'avrebbe poi applicata in via analogica.

1.2. Con il secondo motivo di ricorso (con il quale si lamenta una violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360, primo comma, n. 3, e l'omessa od insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia, ex articolo 360, primo comma, n. 5, Cpc, in relazione al "risarcimento dei danni" il Comune si duole della determinazione del risarcimento, che gli arbitri avrebbero liquidato, distinguendo le spese generali in variabili e fisse ed attribuendo alle prime il 75% e alle seconde il 25%. Esso non avrebbe tenuto conto del fatto che la sospensione non sarebbe stata repentina e l'impresa avrebbe svolto una certa attività, anche dopo il fermo e per la durata di otto mesi. La specificità del caso sottoposto non avrebbe consentito il suo esame alla stregua di una situazione tipica e avrebbe dato luogo alla violazione dell'art. 2729 c.c.

1.3. Con il terzo motivo di ricorso (con il quale si lamenta una violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360, primo comma, n. 3, e l'omessa od insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia, ex art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., in relazione agli "interessi ex articoli 35 e 36 Dpr 1063/62" il Comune osserva che la sentenza della Corte di appello sarebbe viziata, per avere eliso (per contrasto con l'articolo 4 della legge 741/81) la previsione pattizia che subordinava la decorrenza degli interessi moratori alla corresponsione delle rate di finanziamento da parte delle competenti tesorerie. Infatti, da un lato vi sarebbe stata una errata interpretazione dell'articolo 4 cit. e, dall'altro, si sarebbe violato l'art. 1362 c.c., per la cattiva ricostruzione della volontà contrattuale (che concordemente subordinava la decorrenza degli interessi moratori all'avvenuta erogazione del finanziamento).

2. Il ricorso è infondato e dev'essere rigettato.

2.1. il primo motivo, nella parte in cui prospetta la violazione degli artt. 1362 c.c. e ss., presuppone l'esistenza di un accordo, una sorta di negozio integrativo intervenuto fra le parti, in ordine alla sospensione dei lavori (ed. accordo sulla sospensione), che si assume mal recepito dagli arbitri e dalla Corte territoriale. Ma tale negozio, che è stato, invece, escluso sia dai primi che dalla seconda, avrebbe anche richiesto la sua formulazione per iscritto, ai sensi delle disposizioni vigenti in materia di contabilità delle opere pubbliche, a cominciare dall'articolo 16 del Rd 2440/23, secondo il quale «i contratti sono stipulati da un pubblico ufficiale delegato a rappresentare l'amministrazione e ricevuti da un funzionario designato quale ufficiale rogante, con le norme stabilite dal regolamento. I processi verbali di aggiudicazione nelle aste e nelle licitazioni private sono parimenti formati da quest'ultimo funzionario».
La censura, che presuppone l'incardinamento di una quaestio facti è, pertanto, in questa sede, inammissibile.

2.1.1. L'altra parte della doglianza, quella che investe la cattiva applicazione dell'articolo 30 del Dpr 1063/62, a dire del ricorrente nei fatti poi applicati, per affermare l'esistenza di un termine finale alla sospensione legittima dell'esecuzione dell'appalto è, invece, infondata.
La Corte d'appello, rilevato che a tale disposizione non poteva farsi ricorso nel caso esaminato, ha convalidato il ragionamento contenuto nel lodo, nella parte in cui esso ha escluso una rilevanza dell'acquiescenza, da parte dell'appaltatore Ati, oltre un termine che ha ricavato, sostanzialmente in via equitativa, da parametri fattuali (periodo di effettiva esecuzione di alcuni lavori, nonostante la formale sospensione) e legislativi (l'articolo 30 cit.). Insomma, il termine finale alla temporanea acquiescenza sarebbe stato ricavato, da un lato, considerando il lasso di tempo in cui l'Ati aveva comunque lavorato (d'intesa con il committente) e, dall'altro, riferendosi al criterio contenuto nell'articolo 30, secondo comma, cit. (che pure era stata escluso, direttamente, in ordine alla fattispecie, per la carenza di quelle "ragioni di pubblico interesse o necessità" che la presuppongono). Sotto quest'ultimo profilo, il ragionamento compiuto dalla Corte territoriale, è pienamente conforme alla giurisprudenza di questa Corte, la quale, nella sentenza 5135/02, ha affermato, in tema di appalto di opere pubbliche, che «le ragioni di pubblico interesse o necessità» (le quali, ai sensi dell'articolo 30, comma secondo, Dpr 1063/62, legittimano l'ordine di sospensione dei lavori) vanno identificate in esigenze pubbliche oggettive e sopravvenute non previste (né prevedibili) dall'Amministrazione con l'uso dell'ordinaria diligenza, così che esse non possono essere invocate al fine di porre rimedio a negligenza o imprevidenza dell'Amministrazione medesima. Ne consegue che, con riferimento all'ipotesi di sopravvenuta necessità di approvare una cosiddetta «perizia di variante», è d'uopo che tale emergenza non sia ricollegabile ad alcuna forma di negligenza o imperizia nella predisposizione e nella verifica del progetto da parte dell'ente appaltante, tenuto, prima dell'indizione della gara, a controllarne la validità in tutti i suoi aspetti tecnici, e ad impiegare la dovuta diligenza nell'eliminare il rischio di impedimenti alla realizzazione dell'opera sì come progettata.
A tale principio la Corte si è rigorosamente attenuta, ritenendo corretto il ragionamento arbitrale, che ne aveva già fatto applicazione.
Ma v'è di più.
La riduzione del periodo di sospensione illegittima dell'esecuzione dell'appalto, operata dagli arbitri, con una ragionamento in parte radicato su ragioni fattuali e in parte tenendo conto del parametro giuridico costituito dal riferimento ai termini massimi di sospensione legittima (di cui all'articolo 30, secondo comma cit.), e così reso sostanzialmente operando una liquidazione equitativa del danno, ex art. 1226 c.c. (con sua riduzione, riferita al periodo in cui esso è stato calcolato, una volta affermata la complessiva illegittimità del fermo del cantiere), mostra una evidente carenza d'interesse del Comune alla impugnazione in parte qua, che almeno ha delimitato l'area temporale del danno risarcibile.

2.2. Gli altri due motivi sono del tutto inammissibili, riguardando valutazioni di merito che non possono formare oggetto di riesame in questa sede.
Infatti, da un lato, con il secondo motivo, si censura la ripartizione percentuale delle spese generali (fisse e variabili) in ragione della specificità del caso sottoposto all'esame degli arbitri, e, da un altro, con considerato corretta. Tale ratio decidendi, come sì è detto inattaccabile perché riguardante l'interpretazione di una clausola contrattuale, riservata al dominio del collegio arbitrale ed al controllo di motivazione del giudice statale, non può formare oggetto di riesame in questa sede.
È vero che il ricorrente lamenta la lesione dell'art. 1362 cod. civ., ma è anche vero che questa previsione, secondo l'interpretazione consolidata di questa Corte (da ultima, Cassazione 3772/04), non può che essere formulata osservando il principio vigente in tema di ermeneutica contrattuale e secondo il quale, l'accertamento della volontà delle parti, in relazione al contenuto del negozio, si traduce in una indagine di fatto affidata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità nella sola ipotesi di motivazione inadeguata, ovvero di violazione di canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli articoli 1362 e seguenti Cc. Ma, nella ipotesi in cui il ricorrente lamenti espressamente tale violazione, egli ha l'onere di indicare, in modo specifico, i criteri in concreto non osservati dal giudice di merito e, soprattutto, il modo in cui questi si sia da essi discostato, non essendo, all'uopo, sufficiente una semplice critica della decisione sfavorevole, formulata attraverso la mera prospettazione di una diversa (e più favorevole) interpretazione rispetto a quella adottata dal giudicante.

Tale onere non è stato assolto dal ricorrente, il che è causa di inammissibilità della censura. Né essa può essere, in qualche modo, "recuperata" attraverso la problematica riguardante l'applicazione dell'articolo 4 della legge 741/81, in quanto la Corte territoriale ha confermato le statuizioni arbitrali non già sulla base di tale interpretazione, svolta solo ad abundantiam e senza decisivo valore causale nell'economia del ragionamento svolto, e quindi non costituente vera e propria ratio decidendi, ma sulla base del l'interpreta z ione dell'articolo 5 del capitolato speciale di appalto che, contrariamente a quanto sostiene il ricorrente, secondo la "lettura degli arbitri", condivisa dalla Corte milanese, farebbe -esso solo, direttamente - salvo il diritto al pagamento degli interessi moratori con l'applicazione dei criteri indicati negli articoli 35 e 36 del Capitolato generale di cui al Dpr 1062/63.

3. Le spese di questa fase seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in euro 10.200 00, di cui euro 10.000,00 per onorari e euro 200,00 per spese, oltre quelle generali ed accessori, come per legge.