Cassazione Civile - Sez. Lavoro 09/02/99 n. 1106


Pres. Lanni S. - Rel. Vigolo L. - P.M. Cinque A (Diff.) - Parti: Dal Zovo ed altre c. Inps

 

COMUNITA' EUROPEA - DIRETTIVE - IN GENERE - Insolvenza del datore di lavoro - Avvenuta individuazione da parte del legislatore nazionale del soggetto tenuto alla garanzia dei crediti dei lavoratori subordinati - Conseguente formazione di un complesso normativo unitario costituito dalla disciplina nazionale e da quella comunitaria - Effetti con riferimento all'individuazione del contenuto normativo dell'art. 2, comma primo, del D.LGS. n.80 del 1992 - Fattispecie.

LAVORO - LAVORO SUBORDINATO - INDENNITA' - IN GENERE - Insolvenza del datore di lavoro - Direttiva comunitaria sulla tutela dei lavoratori subordinati - Sentenze della Corte di giustizia sull'interpretazione delle relative disposizioni - Rilevanza ai fini della determinazione del contenuto normativo della disciplina nazionale attuativa - Art. 2, comma primo, del D.LGS. n.80 del 1992 - Definizione del relativo contenuto normativo alla luce della sentenza della Corte di giustizia 10 luglio 1997 (causa C 272/95) - Conseguenze - Fattispecie.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza in data 19 aprile 1995 il Pretore di Verona respingeva la domanda proposta dalle sig.re Erica Dal Zovo, Maria Pia Dal Zovo e Lydia Duruwaa Dapaah nei confronti dell'I.N.P.S. per ottenerne la condanna al pagamento (ai sensi del d.lgs. 27 gennaio 1992, n. 80) di crediti retributivi maturati nei confronti della loro datrice di lavoro - ditta Tomaificio Niki, dichiarata fallita con sentenza in data 6 ottobre 1993 - negli ultimi tre mesi di lavoro e nei dodici mesi antecedenti la sentenza di fallimento.

L'appello dei lavoratori veniva rigettato dal Tribunale - Sezione del lavoro della stessa sede con sentenza in data 21 febbraio/25 giugno 1997 con la quale le appellanti erano condannate nelle spese del grado.

Il giudice del gravame (per quanto interessa in questo giudizio) ha rilevato che il rapporto di lavoro era cessato il 31 agosto 1992, oltre l'anno dalla sentenza di fallimento calcolato a ritroso; ha, inoltre, ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 1° d.lgs. 27 gennaio 1992, n. 80 (concernente l'attuazione della direttiva 80/987/Cee del Consiglio in materia di tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro) con riferimento all'art. 76 della Costituzione, per avere fissato la tutela agli ultimi tre mesi del rapporto di lavoro, nell'arco dei dodici mesi antecedenti alla dichiarazione di fallimento, anziché dei diciotto mesi stabiliti dall'art. 4 della direttiva CEE cit.. La questione infatti era stata già dichiarata infondata con sentenza 27 giugno/9 luglio 1996, n. 240 della Corte costituzionale la quale aveva rilevato che l'art. 2, comma primo, lett. c) del d.lgs. n. 80 del 1992 è conforme al criterio specifico stabilito dall'art. 48, comma primo della legge delega [legge 29 dicembre l990, n. 428] il quale prevede che il periodo di riferimento di dodici mesi sia computato o dal provvedimento che determina l'apertura di una delle procedure previste in caso di insolvenza del datore di lavoro oppure dalla data del provvedimento di messa in liquidazione dell'impresa o di cessazione dell'esercizio provvisorio, per i lavoratori che abbiano continuato a prestare attività lavorativa.

Neppure era ravvisabile disparità di trattamento tra i lavoratori lesiva dell'art. 3 della Costituzione in ragione del computo di riferimento della garanzia dalla data della sentenza di fallimento, in relazione alla maggiore o minore durata della fase preliminare all'apertura della procedura concorsuale, trattandosi di disparità dipendente da circostanze meramente di fatto, irrilevanti ai fini del principio di eguaglianza.

Infine, non poteva accogliersi l'istanza di rimessione alla Corte di giustizia delle Comunità europee di questione che la stessa Corte costituzionale, con ordinanza n. 536 del 1995, aveva ritenuto inerente la legittimità costituzionale e quindi non definibile (da un organo nell'esercizio di una finzione) di giurisdizione nazionale e perciò non deferibile a tale organo.

Per la cassazione della sentenza di appello ricorrono i lavoratori con due motivi.

Resiste l'I.N.P.S. con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di annullamento le ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione dell'art. 5 Tratt. CEE nonché del combinato disposto della Direttiva del Consiglio 80/987/Cee, sub artt. 3 n. 2 e 4 n. 2 e della sentenza n. C - 373/97 del 10/7/1997 della Corte di Giustizia.

Sostengono che l'art. 2 d.lgs. n. 80 del 1992, con l'indicare nella data del provvedimento di apertura della procedura concorsuale il dies a quo per la determinazione del periodo nel quale debbono essere ricompresi gli ultimi tre mesi non retribuiti oggetto della tutela, contrasta con la citata direttiva comunitaria (artt. 3 e 4 Dir. 80/987/Cee), come risultava dalla sentenza C-373/95 in data 10 luglio 1997 della Corte di Giustizia delle Comunità europee.

Stante il contrasto tra la norma nazionale e quella comunitaria, la seconda avrebbe dovuto essere applicata in luogo della prima, ai sensi dell'art. 5 del Trattato istitutivo delle Comunità.

Il motivo è fondato.

Con sentenza in data 10 luglio 1997 (causa C-272/95 - Maso ed altri, Gazzetta ed altri contro I.N.P.S. e Repubblica italiana) la Corte di giustizia delle Comunità europee, investita ai sensi dell'art. l77 del Trattato, dall'autorità giudiziaria italiana di questione pregiudiziale sull'interpretazione (tra l'altro) degli artt. 3 n. 2 e 4, n. 2 della direttiva del Consiglio 20 ottobre 1980, n. 80/987/CEE, ha affermato che "l'insorgere dell'insolvenza del datore di lavoro" di cui agli artt. 3, n. 2 e 4 n. 2 della direttiva corrisponde alla data della domanda diretta all'apertura del procedimento di soddisfacimento collettivo dei creditori, fermo restando che la garanzia non può essere concessa prima della decisione di apertura di tale procedimento o dell'accertamento della chiusura definitiva dell'impresa, in caso di insufficienza dell'attivo.

Poiché le ricorrenti deducono che l'istanza di fallimento venne presentata il 4 giugno 1993, mentre la cessazione del rapporto di lavoro risale, secondo l'accertamento del giudice di merito, al 31 agosto 1992, la prima data, non considerata dal Tribunale - che si è attenuto alla lettura testuale dell'art. 2, comma primo, del d.lgs 27 gennaio 1992, n. 80 attuativo della direttiva sopra citata -, diviene, invece decisiva, ai fini del possibile accoglimento della domanda, alla luce del principio come sopra enunciato dalla Corte di Giustizia.

In ordine alla incidenza della sentenza di tale organo sulla controversia in esame (controversia diversa da quella nella quale era stata sollevata la pregiudiziale comunitaria) occorre ricordare che, secondo l'interpretazione datane dalla Corte di giustizia delle Comunità europee, l'obbligo previsto dall'art. 177 del Trattato istitutivo della CEE (reso esecutivo in Italia con legge 14 ottobre 1957, n. 1203) per le giurisdizioni nazionali di ultima istanza può essere considerato senza contenuto quando la questione in ipotesi da deferire all'interpretazione della Corte predetta sia identica ad altra, sollevata in relazione ad analoga fattispecie, che sia stata già decisa in via pregiudiziale (rimanendo pur sempre salvo il potere del giudice nazionale di deferire nuovamente, ove lo ritenga opportuno, la questione alla Corte di giustizia, per ottenere una diversa decisione). Secondo la predetta interpretazione, pertanto, l'art. 177 citato conferisce all'organo giurisdizionale nazionale le cui pronunzie non siano ulteriormente impugnabili il potere di procedere ad una autonoma delibazione sul punto se l'esistenza di una precedente decisione in termini della Corte di giustizia consenta di escludere che il dubbio interpretativo raggiunga la soglia di opinabilità necessaria per assurgere al rango di questione (così Cass., S.U. 22 aprile 1976, n. 1445).

Nel caso di specie, non si ravvisano ragioni per nuovamente investire della questione pregiudiziale sopra menzionata la Corte di giustizia, avendo la stessa, in modo assolutamente convincente e condiviso da questo Collegio, fatto riferimento nella soluzione della ricordata questione pregiudiziale al principio di effettività della tutela comunitaria minima in caso di insolvenza del datore di lavoro e della finalità sociale di fissare con precisione i periodi di riferimento giuridicamente rilevanti, principio evidentemente non realizzato dalla norma interna che consideri, quale arco di tempo in cui collocare il numero di mensilità da corrispondere da parte dell'organo di garanzia, quello determinato, a ritroso, dalla data del provvedimento di apertura del fallimento il quale può intervenire a molto tempo di distanza dalla domanda di dichiarazione di fallimento e dalla stessa cessazione dei periodi di occupazione a cui si riferiscono le retribuzioni non corrisposte.

La regola che deriva dalla decisione comunitaria è applicabile direttamente nel nostro ordinamento ai sensi dell'art. 5 del Trattato.

Vero è che la stessa Corte di giustizia (sentenza 19 novembre 1991-cause riunite C-6/90 e C-9/90 Francovich contro Repubblica italiana; Bonifaci e altri c. Repubblica italiana) ebbe a ritenere non immediatamente applicabile nel nostro ordinamento la direttiva del Consiglio 20 ottobre 1980, n. 80/987/Cee (della quale si tratta) perché - sebbene le sue disposizioni siano sufficientemente precise e incondizionate per quanto riguarda la determinazione dei beneficiari della garanzia e il contenuto dalla garanzia stessa - non risultava precisata l'identità del soggetto tenuto alla garanzia (non potendosi lo Stato considerare debitore per il solo fatto di non avere adottato entro i termini provvedimenti di attuazione).

Ma una volta che il legislatore nazionale ha determinato nell'INPS il soggetto tenuto alla garanzia dei crediti da insolvenza del datore di lavoro, deve affermarsi che la normativa comunitaria, così come interpretata dalla Corte giustizia e la normativa nazionale vengono a formare un complesso unitario di regole, talché alla disposizione attuativa nazionale non può attribuirsi contenuto contrastante con quello della norma di cui costituisce attuazione la quale, a sua volta, non può che essere letta secondo l'interpretazione fornitane dalla Corte di giustizia.

Le considerazioni svolte sono assorbenti rispetto al secondo motivo di annullamento col quale i ricorrenti - solo subordinamente alla reiezione del primo - deducono violazione e falsa applicazione dell'art. 4 co. 2, terzo trattino, Dir. 80/987/Cee, e si dolgono che il giudice di appello abbia considerato il periodo di 12 mesi previsto dalla direttiva europea per il caso in cui lo Stato membro abbia scelto il dies a quo a norma dell'art. 3, comma secondo, terzo trattino, della direttiva cit., con riferimento, cioè, alla data dell'insorgere dell'insolvenza del datore di lavoro o [a] quella della cessazione del contratto di lavoro o del rapporto di lavoro del lavoratore subordinato interessato, avvenuta a causa dell'insolvenza del datore di lavoro.

Conclusivamente, assorbito ogni altro profilo di censura, deve essere accolto il primo motivo di ricorso e dichiarato assorbito il secondo. La sentenza del Tribunale deve essere annullata ed, essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto (particolarmente in ordine alla effettività della data della domanda di fallimento indicata dalle ricorrenti e all'ammontare dei crediti retributivi per i quali l'INPS è tenuto), la causa deve essere rinviata ad altro giudice equiordinato, designato in dispositivo, al quale è altresì opportuno demandare la statuizione sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso e dichiara assorbito il secondo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa, anche per le spese, al Tribunale di Vicenza.

 

Edita in Foro it. 1999, I, pag. 3248 con nota di Ricci G. ; Mass. giur. lavoro 1999, pag. 498; Notiz. giur. lav. 1999, pag. 390