Corte di Cassazione
Sezioni unite civili
sentenza 14 gennaio 2009 n. 553
IN FATTO
Rosa,
Giuseppe e Antonio N., nel convenire in giudizio dinanzi al tribunale di Nola i
coniugi Emilia D. e Nicola L., esposero, in qualità di promissari acquirenti di
un immobile di proprietà di questi ultimi,
- di avergli corrisposto,
contestualmente alla stipula del preliminare di vendita, dapprima la somma di 65
milioni di lire a titolo di caparra confirmatoria, poi quella di 85 milioni di
lire quale ulteriore acconto sul prezzo residuo;
- di essersi obbligati a
pagare tale prezzo entro il 31 gennaio 1996;
- di avere, peraltro,
consegnato ai promittenti venditori, a garanzia di tale adempimento, in luogo
del denaro, alcuni effetti cambiari.
Tanto premesso, i N. chiesero la
risoluzione del preliminare per inadempimento delle controparti - che non
avevano accettato i titoli cambiari in locum pecuniae - e la loro condanna alla
restituzione della complessiva somma di 178 milioni di lire.
I coniugi
L., nel costituirsi, chiesero a loro volta il rigetto della domanda
risolutorio/risarcitoria sì come introdotta dagli attori, instando, in via
riconvenzionale, per la declaratoria di risoluzione del preliminare per
inadempimento dei N. - inottemperanti ad una diffida a comparire dinanzi al
notaio per la stipula del contratto definitivo -, con conseguente "ritenzione
della caparra e risarcimento del danno in misura da determinarsi da parte del
tribunale".
Il giudice di primo grado respinse la domanda principale e,
in parziale accoglimento di quella riconvenzionale, dichiarò risolto il
preliminare per inadempimento degli attori, condannando peraltro i convenuti in
riconvenzione alla restituzione della somma di 65 milioni ricevuta a titolo di
caparra, per mancata prova del danno lamentato da costoro.
La sentenza fu
impugnata da entrambe le parti dinanzi alla corte di appello di Napoli, alla
quale i promissari acquirenti chiesero che fossero loro riconosciuti e
corrisposti gli interessi sulla somma versata a titolo di caparra (della quale
era stata disposta la restituzione in primo grado), mentre i promittenti
venditori avrebbero invocato, per la prima volta in quel grado di giudizio, la
facoltà di esercitare il recesso dal contratto - sì come riconosciutagli, in
qualità di parte non inadempiente, dall'art. 1385 c.c. -, con conseguente
ritenzione della caparra (in particolare, si legge nella sentenza di appello
che, "con il primo motivo di gravame, i promittenti venditori deducono di
sostituire alla domanda riconvenzionale di risoluzione del preliminare di
vendita e di risarcimento dei danni, spiegata in primo grado, quella di recesso
del contratto con ritenzione della caparra": così delimitato il thema decidendum
in quel grado di giudizio, per pacifica ammissione della stessa parte
appellante, non residua in questa sede alcuna ulteriore questione circa la reale
portata della domanda spiegata in primo grado, con la quale, secondo la
ricostruzione dell'intera vicenda processuale sì come operata dallo stesso
giudice di appello, i promittenti venditori avevano in realtà chiesto, con
formula dalla portata più ampia, "la risoluzione del preliminare per
inadempimento, con conseguente ritenzione della caparra e condanna al
risarcimento dei danni").
La corte partenopea, nell'accogliere in parte
qua il gravame dei promissari acquirenti, condannò i coniugi L. a corrispondere
gli interessi legali sulla somma di 65 milioni e a restituire l'ulteriore somma
di 85 milioni ricevuta a titolo di acconto.
Osservò il giudice
territoriale, per quanto ancora rileva nel presente giudizio di legittimità, che
il motivo di appello con il quale i promittenti venditori avevano dedotto di
voler sostituire alla iniziale domanda riconvenzionale di risoluzione
contrattuale per inadempimento della controparte e di risarcimento dei danni
quella di recesso dal contratto e di ritenzione della caparra non poteva trovare
ingresso in sede di appello, attesone l'irredimibile carattere di
novità.
La sentenza della corte partenopea è stata impugnata da Emilia D.
e Nicola L. con ricorso per cassazione sorretto da un unico, complesso motivo di
gravame.
Resistono con controricorso Rosa, Giuseppe e Antonio
N.
L'esame del ricorso è stato rimesso a queste sezioni unite dal Primo
Presidente a seguito di ordinanza interlocutoria n. 4442 del 28 febbraio 2006,
con la quale la seconda sezione della corte ha ravvisato e segnalato l'esistenza
di un contrasto di giurisprudenza sulla questione se, con riferimento ad un
preliminare di vendita in relazione al quale il promissario acquirente abbia
corrisposto al promittente venditore una somma di denaro a titolo di caparra
confirmatoria, il venditore convenuto dall'acquirente per la risoluzione del
contratto sul presupposto di un preteso suo inadempimento possa chiedere, in via
riconvenzionale, in primo grado. la risoluzione del contratto per inadempimento
dell'acquirente e il risarcimento del danno, e in appello - dopo che il primo
giudice abbia accolto la (sola) riconvenzionale di risoluzione, rigettando
quella di risarcimento per mancanza di prova del danno - il recesso dal
contratto ai sensi dell'art. 1385, secondo comma, c.c., e la (conseguente)
ritenzione della caparra.
IN DIRITTO
Con
l'unico motivo di ricorso, la difesa dei coniugi L. denuncia violazione e falsa
applicazione di norme di diritto (artt. 183 e 345 c.p.c., 1385 c.c.);
insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della
controversia.
Si sostiene, nell'illustrazione del motivo, che la
sostituzione, in sede di appello, della originaria domanda di risoluzione
contrattuale per inadempimento con quella di recesso ex art. 1385 c.c. non
integrerebbe affatto gli estremi dello ius novorum (vietato), ma andrebbe, di
converso, configurata come esercizio di una perdurante (quanto legittima)
facoltà del richiedente, in guisa di istanza processuale soltanto ridotta
rispetto alla già proposta risoluzione, nell'ambito della medesima dimensione
risarcitoria della domanda, in conseguenza dell'inadempimento di
controparte.
Come si è già avuto modo di accennare nel corso
dell'esposizione dei fatti di causa, la questione del coordinamento dei due
rimedi risarcitori alternativamente riconosciuti dall'art. 1385 c.c. - quanto,
cioè, alla facoltà, per la parte adempiente che abbia agito per la risoluzione
del contratto (art. 1385, comma 3, c.c.) e per la condanna della parte
inadempiente al risarcimento del danno ex art. 1453 c.c., di sostituire tali
richieste, in appello, con una domanda di recesso dal contratto e di ritenzione
della caparra o del suo doppio (art. 1385, comma 2, c.c.) - è stata più volte
affrontata da questa corte di legittimità, e diacronicamente risolta, in modo
non uniforme, secondo percorsi argomentativi diversi e sovente
contrastanti.
1. - La giurisprudenza di legittimità sulla fungibilità dei
due rimedi "caducatori" degli effetti del contratto
L'analisi delle più
significative pronunce di questa corte regolatrice può utilmente dipanarsi
attraverso tre diversi livelli di analisi: il primo che parta dalla ricognizione
dei profili di uniformità rilevabili in tutte le sentenze che abbiano affrontato
ex professo il tema dei rapporti tra domanda di risoluzione e di recesso, il
secondo che esamini i contenuti e le motivazioni delle pronunce favorevoli alla
sostituzione della prima domanda con la seconda, il terzo volto all'analisi
delle speculari posizioni assunte da quella giurisprudenza più rigorosamente
predicativa del principio della infungibilità tra le due istanze, benché
funzionali entrambe alla caducazione degli effetti del contratto.
1.1. -
I profili di omogeneità rilevabili nelle diverse pronunce della giurisprudenza
di legittimità
Indiscusse, nella giurisprudenza di questa corte,
risultano, nel tempo, le affermazioni secondo cui:
- I due rimedi
disciplinati, rispettivamente, dai commi secondo e terzo dell'art. 1385 c.c. a
favore della parte non inadempiente nell'ipotesi di inadempimento della
controparte hanno carattere distinto e non cumulabile;
- L'inadempimento
si identifica in ogni caso con quello che dà luogo alla risoluzione, di cui il
giudice è tenuto comunque a sindacarne gravità e imputabilità (Cass. 2032/1993;
398/1989; 4451/1985);
- La parte non inadempiente che abbia esercitato il
potere di recesso riconosciutole dalla legge è legittimata a ritenere la caparra
ricevuta o ad esigere il doppio di quella versata: la caparra confirmatoria
assume, in tal caso, la funzione di liquidazione convenzionale e anticipata del
danno da inadempimento. Qualora, invece, detta parte abbia preferito domandare
la risoluzione (o l'esecuzione del contratto), il diritto al risarcimento del
danno, che rimane regolato dalle norme generali, postula che il pregiudizio
subito sia provato nell'an e nel quantum, con conseguente possibilità di rigetto
della relativa domanda in ipotesi di mancato raggiungimento della prova (Cass.
7180/1997; 4465/1997);
- La parte che ha ricevuto la caparra, se
destinataria di una richiesta di restituzione ex art. 1385, secondo comma, sul
presupposto del suo inadempimento, può limitarsi ad eccepire l'inadempimento
dell'altra parte, senza bisogno di proporre domanda riconvenzionale di
risarcimento del danno, essendo questa una facoltà ulteriore, riconosciutale dal
terzo comma dello stesso articolo (Cass. 4777/2005; 11684/1993);
-
Introdotta la domanda di risoluzione per inadempimento e di risarcimento dei
danni, non è applicabile la disciplina della caparra di cui al secondo comma
dell'art. 1385 c.c. (Cass. 13828/2000; 8881/2000; 8630/1998; 3602/1983); è
illegittima la condanna della parte inadempiente a restituire il doppio della
caparra ricevuta, stante la non cumulabilità dei due rimedi (Cass. 18850 del
2004); è necessaria la prova del danno secondo le regole generali (Cass.
17923/2007; 1301/2003; 849/2002; 4465/1997);
- Mancando la prova del
danno, se inadempiente è l'accipiens, la restituzione della caparra è un effetto
della risoluzione come conseguenza del venir meno della causa che aveva
determinato la corresponsione (Cass. 8630 del 1998); l'obbligo di restituzione
della somma ricevuta, privo di funzione risarcitoria, rimane soggetto al
principio nominalistico (Cass. 5007/1993; 2032/1993; 944/1992); se l'accipiens è
adempiente, viceversa, la caparra svolge funzione di garanzia dell'obbligazione
di risarcimento (funzione che si esplica nell'esercizio del diritto - da parte
di chi l'abbia ricevuta e abbia titolo risarcitorio - a ritenere l'importo fino
alla liquidazione del danno), conserva tale funzione sino alla conclusione del
procedimento per la liquidazione dei danni derivanti dall'avvenuta risoluzione,
non trova giustificazione la richiesta di restituzione sino alla definizione di
tale procedimento (Cass. 5846/2006), con conseguente compensazione con il
credito risarcitorio.
1.2. - Le pronunce favorevoli alla sostituzione
della domanda di risoluzione con quella di recesso
Secondo parte della
giurisprudenza di questa corte, la parte non inadempiente che, ricevuta una
somma di denaro a titolo di caparra confirmatoria, abbia purtuttavia agito per
la risoluzione (o esecuzione) del contratto e per la condanna al risarcimento
del danno ai sensi dell'art. 1453 c.c., potrebbe legittimamente sostituire a
tali istanze, in grado di appello, quelle di recesso dal contratto e di
ritenzione della caparra a norma dell'art. 1385, comma 2, c.c. Tale richiesta
non integrerebbe, difatti, gli estremi della domanda nuova vietata dall'art. 345
c.p.c., configurandosi piuttosto, rispetto alla domanda originaria, come
esercizio di una perdurante facoltà (e come più ridotta istanza) rispetto alla
risoluzione, in una parallela orbita risarcitoria che ruota pur sempre intorno
all'inadempimento dell'altra parte (Cass. n. 3331 del 1959; n. 2380 del 1975; n.
1391 del 1986; n. 1213 del 1989; n. 7644 del 1994; n. 186 del 1999; n. 1160 del
1996; n. 11760 del 2000; n. 849 del 2002, sia pur in obiter).
A
fondamento di tale convincimento, si è di volta in volta sostenuto:
- che
la domanda di recesso è anch'essa basata sulla declaratoria di inadempimento e
tende, sia pure con particolari modalità, allo scioglimento del
contratto;
- che la domanda di ritenzione della caparra (ovvero di
pagamento del suo doppio), dal suo canto, è pur sempre una domanda di
risarcimento, non incidendo sulla sua natura e funzione la peculiare forma di
indennizzo preventivamente concordato;
- che "domanda nuova" è solo
quella che importa la trasformazione oggettiva delle domande originarie, la
modifica del fatto costitutivo del diritto vantato, l'alterazione dei
presupposti oggettivi e soggettivi dell'azione, sì da determinare uno
spostamento dei termini della controversia su un piano diverso e più ampio,
ovvero, sotto il profilo del petitum, quella che non abbia la possibilità di
assorbire il contenuto della domanda originaria e non escluda pertanto la
riproponibilità di quest'ultima dopo la decisione del giudice;
- che, ai
sensi dell'art. 1453, comma 2, c.c., si deve ritenere virtualmente compresa
nella domanda di esecuzione quella di risoluzione, mentre la domanda di recesso
o di ritenzione, pur costituendo, sul piano processuale, una domanda più
limitata rispetto a quella di risoluzione, discende ugualmente dalla
declaratoria di inadempimento dell'altra parte secondo i principi generali
sull'importanza e sull'imputabilità del medesimo, e importa l'assorbimento,
sotto questo riguardo, del contenuto della domanda originaria di adempimento (e
poi di risoluzione) sì da renderne giuridicamente impossibile la riproposizione.
Peraltro, la domanda di ritenzione della caparra è pur sempre una domanda di
risarcimento dei danni, che non muta nella sua essenza e funzione sol perché
assume la configurazione dell'indennizzo preventivo, e può rappresentare per la
parte una limitazione della reintegrazione patrimoniale oppure anche un
vantaggio maggiore di quello che si sarebbe conseguito con i modi
ordinari;
- che, in definitiva, la domanda di recesso dal contratto
costituisce una domanda più limitata rispetto a quella di risoluzione per
inadempimento, poiché, in quanto ricompresa nell'unico fatto costitutivo del
diritto vantato, non altera i presupposti oggettivi e soggettivi dell'azione e
non sposta la controversia su un piano diverso, tanto da introdurre nel processo
un nuovo tema di indagine.
Va ancora ricordato come, di recente, con la
pronuncia di cui a Cass. n. 11356 del 2006 - che contiene una sintesi dei
principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in subiecta materia -
questa corte abbia avuto modo di riaffermare il principio della fungibilità
delle domande di risoluzione e di recesso, attribuendo poi alla caparra
confirmatoria (del tutto condivisibilmente) natura composita, funzione
eclettica, effetti diacronici.
1.3. - Le pronunce contrarie alla
ammissibilità della sostituzione della domanda di risoluzione con quella di
recesso
Secondo altra parte della giurisprudenza di legittimità, la
domanda di risoluzione del contratto e di risarcimento del danno e quella di
recesso dal contratto medesimo con incameramento della caparra avrebbero, in
linee generali, oggetto diverso, nonché differente causa petendi. Ne consegue
che la seconda domanda, se formulata soltanto in appello in sostituzione della
prima proposta in primo grado, non costituisce semplice emendatio della iniziale
pretesa, ma delinea una questione del tutto nuova, come tale inammissibile ai
sensi dell'art. 345 c.p.c. (Cass. n. 8995 del 1993).
1.4. - Le pronunce
relative a fattispecie di risoluzione di diritto
Più composito appare il
panorama giurisprudenziale di questa corte nell'ipotesi in cui la relazione tra
azione di recesso e azione di risoluzione abbia avuto riguardo a fattispecie di
risoluzioni di diritto. A fronte di un filone costantemente volto ad escludere
la possibilità di chiedere il recesso, ai sensi del comma secondo dell'art. 1385
c.c., quando si è agito per la risoluzione di diritto dello stesso contratto, si
rinvengono, difatti, altre decisioni che, in vario modo, appaiono più
elasticamente funzionali a consentire al contraente non inadempiente di
utilizzare il meccanismo del recesso.
a) Nel senso della impraticabilità
del rimedio del recesso, essendo il contratto già risolto ex lege, si orientano
tre decisioni di questa corte (Cass. n. 2557 del 1989, n. 26232 del 2005, n.
9040 del 2006, tutte relative a contratti in cui era stata chiesta la
risoluzione in forza di diffida ad adempiere ex art. 1454 c.c. ed era poi stato
esercitato il recesso ai sensi del secondo comma dell'art. 1385 c.c.) il cui
fondamento motivazionale ruota attorno all'ostacolo costituito da un effetto
risolutivo già realizzatosi alla data della scadenza della diffida (e alla
connessa natura dichiarativa della relativa sentenza di accertamento), con la
conseguenza che "non si può recedere da un contratto già risolto de iure". In
particolare, le due pronunce più recenti, non ignare delle argomentazioni svolte
dalla dottrina dominante sul tema della presunta legittimità di una sostituzione
del recesso con la risoluzione, affermano di condividerle limitatamente alla
ordinaria domanda di risoluzione giudiziale, e decidono in ordine alla caparra
sulla base del consolidato principio del cd. "effetto restitutorio" proprio
della risoluzione. In particolare, la pronuncia del 2005, dopo aver negato ogni
fungibilità tra le domande di risoluzione e di recesso, riconosce poi la
legittimità "dell'esercizio dei diritti relativi alla caparra confirmatoria di
cui all'art. 1385 comma secondo c.c.", specificando che si tratterebbe, nella
specie, di far valere un'istanza di danni più ridotta rispetto a quella,
maggiore, che si suppone esercitata con l'azione risolutorio/risarcitoria di cui
al successivo comma terzo, con conseguente esclusione di qualsivoglia profilo di
novità della domanda con riferimento alla (sola) richiesta di danni e
conseguente legittimità della "conversione" in appello dell'istanza di
risarcimento in domanda di ritenzione.
b) Nel senso della possibilità del
recesso se la risoluzione di diritto non si è verificata per rinuncia
all'effetto risolutorio si esprime invece Cass. n. 7182 del 1997, a mente della
quale l'esercizio del diritto di recesso (il cui unico presupposto sarebbe
ravvisabile nell'inadempimento della controparte) è da dirsi legittimo qualora
il contraente non inadempiente che abbia intimato diffida ad adempiere alla
controparte - dichiarando espressamente che, allo spirare del termine fissato,
il contratto si avrà per risoluto di diritto - abbia rinunciato successivamente,
anche con comportamenti concludenti, alla diffida e al suo effetto risolutivo
(come nel caso in cui abbia concesso un nuovo, ulteriore termine per
l'adempimento, con la conseguenza che, nelle more di quest'ultimo, non essendo
intervenuta la risoluzione contrattuale, il recesso "sarà ancora legittimamente
praticabile"). Analogamente, Cass. n. 1952 del 2003, richiamato l'orientamento
prevalente che ammette la sostituzione della domanda di risoluzione e
risarcimento con quella di recesso (attesa "la minore ampiezza della seconda
rispetto alla prima"), lo fa proprio aggiungendo che la sostituzione sarebbe
ammissibile anche nelle ipotesi di risoluzione del contratto per una delle cause
previste dalla legge (artt. 1454, 1455, 1457 c.c.), quando la parte abbia
rinunciato agli effetti della risoluzione del contratto per inadempimento,
rientrando tale potere nell'autonomia privata, che, "come riconosce al creditore
il diritto potestativo di non eccepire preventivamente l'inadempimento che
potrebbe dare causa alla risoluzione del contratto, così non gli nega quello di
non avvalersi della risoluzione già verificatesi o già dichiarata" (nella
specie, la risoluzione si era verificata per mancato rispetto del termine
essenziale: la Corte ha cassato la sentenza di merito che aveva rigettato la
domanda di recesso e di ritenzione della caparra proposta in secondo grado sul
rilievo che il contratto si era già risolto di diritto, omettendo di accertare
se la parte avesse o meno rinunciato, in forma espressa o tacita, agli effetti
della risoluzione del contratto).
c) Nel senso della possibilità di
utilizzare il meccanismo di cui al secondo comma dell'art. 1385 c.c. dopo
essersi avvalsi della risoluzione di diritto senza ulteriore domanda di
risarcimento del danno sembrano ancora indirizzarsi due ulteriori sentenze di
questa corte (Cass. n. 1851 del 1997 e n. 319 del 2001), la prima intervenuta in
una fattispecie di termine essenziale, l'altra di diffida ad adempiere: in
entrambe le ipotesi, è stato riconosciuto alla parte adempiente il diritto di
esercitare l'azione ai sensi del secondo comma dell'art. 1385 c.c. per ottenere,
rispettivamente, di ritenere la caparra ricevuta ovvero di conseguire il doppio
della caparra versata dopo essersi avvalsa della risoluzione di diritto già
verificatesi: decisiva, a giudizio di quei collegi, era apparsa la circostanza
che la parte, nell'esercizio dell'azione dichiarativa per l'accertamento della
risoluzione di diritto, non avesse chiesto la liquidazione del danno ai sensi
dell'art. 1453 c.c. La decisione del 1997 aggiunge, poi, che la scelta
alternativa prevista dall'art. 1385 riguarda l'esercizio dell'azione costitutiva
di risoluzione di cui all'art. 1453 c.c. e non quella che si limita ad accertare
l'intervenuto inadempimento, mentre la sentenza del 2001, sul presupposto della
affinità sostanziale tra risoluzione del contratto per inadempimento e recesso
di cui all'art. 1385 c.c., pone l'accento sulla funzione risarcitoria della
caparra come preventiva liquidazione del danno e ritiene che la scelta tra
questa o l'integrale risarcimento da provare, ai sensi del comma terzo, non sia
preclusa a chi si sia avvalso del meccanismo giuridico della risoluzione di
diritto.
d) Nel senso della possibilità di recesso indipendentemente dal
tipo di risoluzione, infine, risulta essersi espressa, di recente, Cass. n.
16221 del 2002, concernente una fattispecie di risoluzione per diffida ad
adempiere: la Corte, nel cassare la decisione dei giudici di merito che avevano
negato alla parte adempiente il diritto di ritenere la caparra ricevuta essendo
il contratto già risolto per effetto della facoltà di provocare la risoluzione
del contratto mediante diffida, ha ripercorso funditus i disomogenei approdi
della propria giurisprudenza e, pur non affrontando ex professo la questione
della parificazione tra i due tipi di risoluzione, evidenzierà come carattere
comune di entrambi sia pur sempre l'inadempimento presupposto, mentre
altrettanto comuni "sono a dirsi i rimedi - ferma restando la distinzione tra la
caparra, quale danno preventivamente determinato, e il danno effettivo da
provare -", con la conseguenza che l'azione di recesso si configurerebbe "come
domanda meno ampia di quella di risoluzione e risarcimento e, pertanto, non
nuova".
1.5. - Le pronunce relative ai rapporti tra caparra e
risarcimento
Secondo Cass. 3555/2003, chi agisce in risoluzione non ha
diritto, a titolo di danno minimo risarcibile, alla caparra (o al doppio di
quella data) se non prova il maggior danno: la Corte precisa che la soluzione
contraria comporterebbe il venir meno di ogni interesse ad esercitare il
recesso, con conseguente soppressione del rimedio che la legge espressamente
disciplina al comma secondo dell'art. 1385 c.c. Altre pronunce, invece (Cass.
2613/1988, 11356/2006) predicano l'opposto principio secondo il quale la caparra
avrebbe funzione di minimum risarcibile anche nel caso di domanda di
risoluzione: in particolare, Cass. 11356/2006 opina espressamente che la parte
non inadempiente ben possa esercitare il recesso (rectius, la facoltà di
ritenzione della caparra) anche dopo aver proposto la domanda di risarcimento e
fino al passaggio in giudicato della relativa sentenza, ma in tale ipotesi essa
implicitamente rinunzia al risarcimento integrale tornando ad accontentarsi
della somma convenzionalmente predeterminata al riguardo (in termini, ancora,
Cass., 18 novembre 2002, n. 16221; Cass., 24 gennaio 2002, n. 849; Cass., 6
settembre 2000, n. 11760; Cass., 1° novembre 1999, n. 186). Conseguentemente
"ben può il diritto alla caparra essere fatto valere anche nella domanda di
risoluzione".
2. - Le questioni di diritto sottoposte alle sezioni
unite
2.1 - Alla luce dell'analitico excursus che precede, emerge con
maggiore chiarezza come le questioni di diritto sottoposte al vaglio di queste
sezioni unite - in realtà più articolate e complesse di quelle rilevate con
l'ordinanza di rimessione - possano così complessivamente
sintetizzarsi:
a) Analisi della relazione - accessorietà,
complementarietà, (in)dipendenza - intercorrente tra le azioni
risolutorio/risarcitoria da una parte, e le azioni di recesso/ritenzione della
caparra dall'altra;
b) analisi dei rapporti tra l'azione di risoluzione
avente natura costitutiva e l'azione di recesso;
c) analisi dei rapporti
tra l'azione di risoluzione avente natura dichiarativa e l'azione di
recesso;
d) analisi dei rapporti tra risoluzione ex lege, rinuncia
all'effetto risolutorio (in ipotesi di diffida ad adempiere e successiva
"ritrattazione" dopo l'inutile decorso del termine), recesso;
e) analisi
dei rapporti tra l'azione di risarcimento integrale e l'azione volta alla
ritenzione della caparra;
f) proponibilità dell'azione di ritenzione
della caparra in assenza di azione risarcitoria, a prescindere del rimedio
caducatorio prescelto (risoluzione/recesso).
2.2. - Alla soluzione delle
questioni sopra esposte non appare un fuor d'opera far precedere una sintetica
ricostruzione dei più rilevanti aspetti morfologici e funzionali dell'istituto
della caparra, oltre che una breve e giocoforza incompleta ricognizione delle
posizioni della dottrina in ordine ai rapporti tra i rimedi previsti dall'art.
1385 c.c., nell'intendimento di dare continuità ad un recente indirizzo accolto
da queste sezioni unite, che, in non poche pronunce, hanno analizzato, dato
conto e sovente fatte proprie non poche riflessioni della migliore
giuscivilistica italiana, in un fecondo e sempre più intenso rapporto di
sinergia di pensiero tra giurisprudenza di legittimità e studiosi del diritto
destinato sempre più spesso a tradursi in "diritto vivente".
3. - La
natura giuridica della caparra confirmatoria - Le posizioni della
dottrina.
3.1. - La caparra confirmatoria viene comunemente definita come
negozio giuridico accessorio che le parti perfezionano versando l'una (il
tradens) all'altra (l'accipiens) una somma di denaro o una determinata quantità
di cose fungibili al momento della stipula del contratto principale al fine di
perseguire gli scopi di cui all'art. 1385 c.c.
In particolare, il termine
"caparra" riveste, già sotto il profilo strettamente semantico, la duplice
funzione, da un canto, di qualificare, sotto il profilo causale, il negozio
giuridico accessorio, dall'altro di indicare la somma di denaro o la qualità di
cose fungibili che ne costituiscono l'oggetto (come si osserva correttamente in
dottrina, è la stessa norma regolatrice dell'istituto che discorre, da un lato,
di dazione "a titolo di caparra", così indicando il negozio giuridico che dà
fondamento alla datio, dall'altro di "restituzione o imputazione della caparra",
in tal modo riferendosi specificamente all'oggetto del negozio, il denaro o la
res tradita).
Sotto il profilo tanto morfologico quanto funzionale, il
mutevole istituto (come già compiutamente e condivisibilmente rilevato dalla III
sezione questa corte, sulla scia di una attenta dottrina, con la sentenza
11356/2006) presenta caratteristiche affatto composite e spiccatamente
eclettiche.
La caparra confirmatoria, difatti, su di un piano, per così
dire, di funzionalità patologica, è volta a garantire l'esecuzione del
contratto, venendo incamerata in caso di inadempimento della controparte, sotto
tale profilo avvicinandosi alla cauzione; ha carattere di autotutela,
consentendo il recesso senza la necessità di adire il giudice; ha altresì
funzione di garanzia per il risarcimento dei danni eventualmente liquidati in
via giudiziale, ovvero, alternativamente, di liquidazione preventiva, forfetaria
e convenzionale del danno stesso, automaticamente connessa al recesso cui la
parte si sia determinata in conseguenza dell'inadempimento della controparte; in
una speculare dimensione di fisiologico dipanarsi della vicenda contrattuale,
essa si caratterizza invece come anticipata esecuzione parziale della
prestazione dedotta in contratto (mentre correttamente se ne esclude una
ulteriore funzione probatoria dell'intervenuta conclusione del contratto
principale - come pure sostenuto da una risalente giurisprudenza: Cass.
925/1962, 1326/1958 -, atteso che ad essere tradizionalmente inteso come
"probatorio" è in realtà il riflesso di una duplice peculiarità morfologica
dell'istituto, la sua realità e la sua accessorietà).
Fattispecie
cangiante e versatile, la caparra assume, diacronicamente - a seconda, cioè, del
"momento" del rapporto negoziale in cui si colloca -, forme e funzioni assai
diversificate, in ciò distinguendosi nettamente tanto dalla caparra
penitenziale, che costituisce il semplice - e non altrimenti utilizzabile -
corrispettivo del diritto di recesso, quanto dalla clausola penale, rispetto
alla quale non pone limiti all'entità del danno risarcibile - ben potendo la
parte non inadempiente recedere senza dover proporre domanda giudiziale o
intimare la diffida ad adempiere e trattenere la caparra ricevuta ovvero esigere
il doppio di quella prestata a totale soddisfacimento del danno derivante dal
recesso, del tutto a prescindere dall'effettiva esistenza e dimostrazione di un
danno; ovvero non esercitare il recesso e chiedere la risoluzione del contratto
e l'integrale risarcimento del danno sofferto in base alle regole generali, sul
presupposto di un inadempimento imputabile e di non scarsa importanza (la parte
non inadempiente non potrà, in tal caso, incamerare la caparra, bensì
trattenerla a garanzia della pretesa risarcitoria, ovvero a titolo di acconto su
quanto a lei spettante quale risarcimento integrale dei danni che saranno in
seguito accertati e liquidati) -.
Né va trascurato l'ulteriore aspetto
funzionale della caparra conseguente alla scelta della parte di avvalersi dei
rimedi ordinari della richiesta di adempimento ovvero di risoluzione del
negozio, anziché recedere dal contratto: la sua restituzione è in tal caso
conseguenza dell'effetto restitutorio proprio della risoluzione negoziale, del
venir meno, cioè, della causa della sua corresponsione: essa perde in tale
ipotesi la funzione di limitazione forfettaria e predeterminata della pretesa
risarcitoria all'importo convenzionalmente stabilito in contratto, e la parte
che allega di aver subito il danno, oltre che alla restituzione di quanto
prestato in relazione o in esecuzione del contratto, ha diritto anche al
risarcimento dell'integrale danno subito se e nei limiti in cui riesce a
provarne l'esistenza e l'ammontare in base alla disciplina generale di cui agli
artt. 1453 ss. c.c.
3.2. - La questione del coordinamento tra il rimedio
del recesso e quello della risoluzione, espressamente disciplinati in favore del
contraente non inadempiente dal codice vigente, ha radici profonde, che
affondano nell'antico dibattito accesosi in dottrina già nel vigore del codice
del 1865 - che contemplava la sola alternativa tra ritenzione della caparra e
richiesta di esecuzione del contratto, mentre dottrina e giurisprudenza già si
interrogavano, a quel tempo, sulla possibilità di chiedere il risarcimento
secondo le regole ordinarie.
Ecco dunque il legislatore del 1942
introdurre, nell'ambito della disciplina generale dei contratti, accanto al
rimedio del recesso con ritenzione della caparra (o richiesta del doppio di
quella versata), quello della risoluzione del contratto con conseguente
risarcimento del danno da quantificarsi secondo le regole ordinarie. Nella mens
legis, secondo quanto risulta dalla relazione al codice, la caparra «mentre
conferma il contratto (per modo che deve essere restituito o computato in caso
di adempimento...), facilita le composizioni in caso di inadempimento: infatti,
l'inadempiente... perde la caparra data o restituisce il doppio di quella
ricevuta... e questa è certo una composizione spedita. Ma poiché la caparra è di
regola confirmatoria, la parte adempiente può far valere i suoi diritti in via
ordinaria... e allora la caparra funziona come garanzia per il recupero dei
danni, che saranno attribuiti in sede di risoluzione del contratto o, in caso di
condanna ad eseguirlo, per la mora verificatasi».
Pacifico, secondo la
unanime dottrina, il carattere di rigida alternatività tra i due rimedi,
recesso/risoluzione, alcuni autori ne trarranno la ulteriore conseguenza - per
la parte adempiente che non sia riuscita a provare in parte o per l'intero il
danno subito nell'azione di risoluzione e risarcimento - della sopportazione del
rischio di vedersi risarcito un importo inferiore alla caparra, ovvero negato
qualsiasi importo. Altra parte della dottrina, di converso, si indurrà più
benevolmente a temperare tale rigida conseguenza tanto sul piano processuale -
negando la configurabilità di una domanda nuova in ipotesi di sostituzione di
quella risolutoria con quella di recesso/ritenzione -, quanto su quello
sostanziale, ricostruendo la fattispecie, nella sua dimensione dinamica di
liquidazione anticipata del danno, in termini di minimum risarcibile, sempre
legittimamente esigibile dal creditore che non sia riuscito a provare il maggior
danno.
3.3. - A partire dagli anni sessanta, si disegnano sempre più
evidenti profili di omogeneità tra l'istituto di cui al secondo comma dell'art.
1385 c.c. - affidato alla manifestazione di volontà della parte non inadempiente
- e la risoluzione del contratto per inadempimento, giusta la (condivisibile)
considerazione per cui il recesso, in realtà, non assurge a dignità di categoria
giuridica dotata di autonomia strutturale sua propria, ma rileva piuttosto come
fattispecie negoziale dai profili funzionali non omogenei, se la legge stessa
definisce in termini di "recesso" atti recettizi a struttura unilaterale diversi
tra loro quanto a giustificazione causale e meccanismi effettuali. Par lecito
discorrere, allora, di due diverse discipline della risoluzione piuttosto che di
alternativa tra recesso e risoluzione del contratto, par lecito immaginare, di
conseguenza, una ricostruzione della fattispecie in termini di peculiare ipotesi
di risoluzione di diritto, da affiancare (piuttosto che contrapporre) a quelle
di cui agli artt. 1454, 1456, 1457 c.c. Il recesso della parte non inadempiente
si conferma così "modalità" (ulteriore) di risoluzione del contratto, destinata
ad operare, indipendentemente dall'esistenza di un termine essenziale o di una
diffida ad adempiere, mercé la semplice comunicazione all'altra parte di una
volontà "caducatoria" degli effetti negoziali - operante, nella sostanza,
attraverso un meccanismo analogo a quello che regola la clausola risolutiva
espressa. Si discorre, all'esito di queste corrette riflessioni, del tutto
opportunamente, di una "forma di risoluzione stragiudiziale del contratto che
presuppone l'inadempimento della controparte, avente i medesimi caratteri
dell'inadempimento che giustifica la risoluzione giudiziale", cui consegue, tra
l'altro, una "rilevante semplificazione del quadro probatorio".
Con
riferimento ai rapporti tra gli effetti della caparra e i normali effetti
dell'inadempimento dell'obbligazione contrattuale, si riconosce poi
pacificamente, in dottrina, la facoltà di scelta conferita alla parte non
inadempiente dall'art. 1385 c.c., mentre altrettanto dominante risulterà
l'orientamento secondo cui il ricorso al recesso sarebbe legittimo anche quando
sia stata proposta e proseguita una iniziale domanda giudiziale di (esecuzione
o) risoluzione del contratto. Tra le relative domande e azioni non si rinvengono
ragioni di incompatibilità, e nella condivisa impraticabilità del relativo
cumulo la maggior parte degli autori non scorge affatto l'ulteriore conseguenza
dell'illegittimità dell'esperimento di entrambe in posizione alternativa o
subordinata, che si ritiene consentita, di converso, "fino alla precisazione
delle conclusioni nella sede giudiziale che prelude alla decisione di
merito".
3.4. - Tale orientamento verrà, di recente, sottoposto a serrata
critica da parte di altri autori, che, da posizioni minoritarie, qualificano in
termini di vera e propria forzatura dogmatica l'idea che la domanda di recesso
non integri gli estremi della domanda nuova rispetto a quella di (adempimento o)
risoluzione ex art. 1453 c.c.. Pur condividendosi l'affermazione secondo cui la
richiesta di recesso si configura quale "istanza ridotta" rispetto alla
risoluzione, vive nello stesso ambito risarcitorio in relazione
all'inadempimento dell'altra parte, si connota di conseguente identità di causa
petendi (dal momento che la ragione del domandare si sostanzia in entrambi i
casi nell'inadempimento dell'altro contraente), ad essere sottoposta a revisione
critica è l'indiscriminata identificazione del relativo petitum. Sostanziandosi
l'azione di cui al secondo comma dell'art. 1385 c.c., in una forma di
risoluzione stragiudiziale del contratto, operante alla stregua degli altri
meccanismi di risoluzione stragiudiziale previsti dal codice, la sentenza che
pronuncia su tale domanda non potrebbe avere - si sostiene - che natura
dichiarativa, mentre è costitutiva quella che decide sulla risoluzione ai sensi
dell'art. 1453 c.c., è di condanna quella che pronuncia
sull'adempimento.
Duplice, allora, la conseguenza: da un canto, è diverso
il petitum immediato che identifica le azioni che si collegano alle tre domande,
essendo diverso il tipo di provvedimento richiesto al giudice (giusta la
distinzione chiovendiana ancor oggi condivisa dalla dottrina e giurisprudenza
prevalente in tema di petitum attoreo), di talché "non sussiste identità di
azioni e quindi di domande se è vero che tale identità postula la coincidenza
del petitum immediato e di quello mediato"; dall'altro, anche il petitum mediato
(il bene della vita che si chiede alla controparte cui è rivolta la domanda), è
in realtà diverso, se (ex art. 1453 c.c.), volendo conseguire lo scioglimento
del vincolo, si chiede all'inadempiente di subire una certa modificazione
giuridica quale quella che scaturisce da una pronuncia costitutiva di
risoluzione, ovvero, con la domanda di recesso (ex art. 1385, c. 2 c.c.), si
impone alla controparte, mirando alla certezza del modo d'essere del rapporto,
di prendere atto della positiva verifica in ordine alla sussistenza dei
presupposti stragiudiziali della risoluzione.
Fortemente (e
condivisibilmente) critica appare ancora questa stessa dottrina rispetto alla
possibilità di chiedere il recesso dopo aver inizialmente invocato la
risoluzione del contratto sulla base di una pretesa (quanto in realtà
impredicabile) disponibilità dell'effetto risolutorio, effetto del quale si
evidenzia, specularmente, l'assoluta indisponibilità per la parte non
inadempiente, sottolineandosi come tale, erroneo approdo giurisprudenziale
esponga nella sostanza il contraente inadempiente, ormai condotto sulla via
dell'avvenuta risoluzione, ad una inopinata reviviscenza del contratto e al
conseguente, risorto obbligo di adempimento, vicenda che la legge vuole
palesemente evitare, sancendo per tabulas il divieto di modifica della domanda
di risoluzione in domanda di adempimento.
Quanto, infine, alla tesi della
caparra intesa come minimum risarcibile, affacciatasi subito dopo l'introduzione
dell'art. 1385 c.c., va notato come essa sia stata oggetto di recente riscoperta
da parte di più di un autore negli ultimi anni, opinandosi in proposito che,
nell'attribuire la scelta dei due rimedi ai sensi del 1385 c.c., il legislatore
"sarebbe stato mosso dall'intento di tutelare il contraente non inadempiente
consentendogli di provare l'eventuale maggior danno, senza per questo dover
perdere quanto già garantitogli in via preventiva e forfetaria". A fondamento di
tale (poco comprensibile e ancor meno condivisibile) istanza di "ipertutela"
della parte non inadempiente, si sottolinea che altrimenti "si falcidierebbe
l'istituto della caparra annullandone la funzione tipica di predeterminazione
del danno" (mentre, sul piano comparatistico si richiama - ma non del tutto
conferentemente - il codice tedesco che, per un istituto omologo, prevede, in
realtà, con disposizione del tutto "neutra" § 336 e 337 BGB, soltanto che
"qualora l'accipens chieda il risarcimento del danno per inadempimento, nel
dubbio, la caparra vada imputata a risarcimento, mentre deve essere restituita
al momento della prestazione del risarcimento del danno"). Così, dal punto di
vista sistematico, si sostiene - sul presupposto che l'alternativa non sia tra
recesso e risoluzione ma tra l'accontentarsi della caparra o voler perseguire un
più cospicuo ristoro - che domanda di risarcimento dei danni secondo le regole
generali e domanda di ritenzione della caparra sarebbero entrambe species del
più ampio genus "domanda di risarcimento" ai sensi dell'art. 1453 c. 1 c.c.,
autonome rispetto a quelle di adempimento, risoluzione o accertamento di
intervenuta risoluzione. In tal modo - si conclude - sarebbe soddisfatta, senza
forzature dogmatiche di sorta, l'istanza di giustizia sostanziale (?) quale è
quella del contraente incolpevole che, non essendo riuscito a conseguire
l'integrale risarcimento per cui aveva agito ex comma terzo dell'art. 1385 c.c.,
decida "di accontentarsi di meno".
3.5. - Pressoché unanime risulta,
invece, la dottrina nel negare legittimità alla ormai ultratrentennale posizione
espressa da questa corte di legittimità sul tema (supra, sub 1.2-d) della cd.
"rinunciabilità" all'effetto risolutorio conseguente alla sua "ritrattazione" da
parte del contraente adempiente, dopo l'inutile decorso del tempo fissato con la
diffida (giurisprudenza consolidata, da Cass. 1530/1977 a Cass. 11967/2004; da
ultimo, di recente, Cass. n. 23315 del 2007, che contiene, peraltro, una
puntuale analisi e un implicito apprezzamento delle avverse opinioni
dottrinarie). L'asse portante della teoria della rinunciabilità ruota, difatti,
come si legge ancora nella sentenza del 2007, attorno ad un concetto di
essenzialità, per così dire, "unilaterale", posta, cioè, nell'esclusivo
interesse del creditore, unico arbitro della convenienza o meno a far valere
l'inutile decorso del tempo in seno al dipanarsi della vicenda negoziale.
Dunque, la norma di cui all'art. 1454 c.c. non tutelerebbe l'interesse del
diffidato alla certezza del rapporto (intesa in termini di definitiva
realizzazione dell'effetto risolutorio "di diritto" di cui discorre l'ultimo
comma della norma stessa), ma (solo) quello del diffidante che, disponendo (sine
die) dell'effetto risolutorio, può ancora e sempre agire per l'adempimento: così
come, verificatosi l'inadempimento, la parte non inadempiente può scegliere tra
risoluzione, giudiziale o di diritto (per diffida), e adempimento coattivo,
così, verificatasi la risoluzione, la stessa parte potrebbe, nonostante la
scadenza del termine indicato in diffida, purtuttavia esercitare l'azione di
adempimento contrattuale. Argomento a latere di tale ricostruzione della
fattispecie, la natura giuridica della diffida che, in guisa di negozio
giuridico unilaterale recettizio, non potrebbe produrre effetti contro e oltre
la volontà del suo autore: nessun ostacolo, dunque, alla neutralizzazione del
relativo effetto negoziale attraverso altra manifestazione di volontà negoziale,
dichiarativa o per facta concludentia (tale ritenendosi, ad esempio, l'esercizio
di un'azione giudiziale volta a conseguire un risultato affatto diverso dalla
risoluzione).
A mente delle più approfondite costruzioni dottrinarie
intervenute in subiecta materia (che queste sezioni unite, come di qui a breve
si dirà, ritengono di poter condividere), l'effetto risolutorio conseguente alla
diffida non rientrerebbe, viceversa, nella disponibilità dell'intimante. Se "il
contratto è risolto", creditore e debitore sono ormai liberati dalle rispettive
obbligazioni (salvo quelle restitutorie), e l'effetto risolutivo, destinato a
prodursi automaticamente, cristallizza un inadempimento e le sue conseguenze in
iure impedendo ogni ulteriore attività di disposizione dell'effetto stesso. In
tal modo si opera un irrinunciabile bilanciamento tanto dei contrapposti
interessi negoziali - ivi compreso quello dell'inadempiente che non può
indefinitamente restare esposto all'arbitrio della controparte - quanto di
quelli, più generali, al rapido e non più discutibile rientro nel circolo
economico di quei beni coinvolti nella singola, patologica vicenda
contrattuale.
4 - La soluzione dei quesiti sottoposti all'esame di queste
sezioni unite.
4.1. - È convincimento del collegio che il ricorso dei
coniugi L. debba essere rigettato, e che debba essere confermata la statuizione
del giudice territoriale predicativa del carattere di novità della domanda da
quegli proposta in appello in sostituzione di quella originaria, sia pur con le
precisazioni che di qui a breve seguiranno.
4.2 - Si è fatto cenno, in
precedenza (supra, sub 2.1), come le vicende sostanziali e processuali
scaturenti dai rapporti tra azione di risoluzione e di risarcimento da un canto,
e tra domanda di recesso e di ritenzione della caparra dall'altro involgano
delicate questioni di diritto, la cui soluzione postula una corretta analisi di
tali rapporti in una più vasta ottica di ricerca e ritrovamento del reale
fondamento, morfologico e funzionale, dell'istituto della caparra, entro i più
vasti ed attuali confini del giusto processo inteso come processo celere, come
processo evitabile, come equo contemperamento delle posizioni delle parti
contrattuali secondo il fondamentale canone ermeneutico della buona fede
reciproca, id est del ripudio di qualsivoglia forma di abuso che dottrina e
giurisprudenza tedesca felicemente definiscono come Rechtsmi§brauch.
Va
in premessa senz'altro condivisa la ricostruzione dottrinaria secondo la quale
il diritto di recesso è una evidente forma di risoluzione stragiudiziale del
contratto, che presuppone pur sempre l'inadempimento della controparte avente i
medesimi caratteri dell'inadempimento che giustifica la risoluzione giudiziale:
esso costituisce null'altro che uno speciale strumento di risoluzione negoziale
per giusta causa, alla quale lo accomunano tanto i presupposti (l'inadempimento
della controparte) quanto le conseguenze (la caducazione ex tunc degli effetti
del contratto).
Tale inquadramento sistematico dell'istituto postula, al
fine di un legittimo esercizio del diritto di recesso e di conseguente
ritenzione della caparra, l'esistenza di un inadempimento gravemente colpevole,
di un inadempimento cioè imputabile (ex art. 1218 e 1256 c.c.) e di non scarsa
importanza (ex art. 1455 c.c.).
Un inadempimento imputabile, poiché in
assenza di esso viene meno il più generale presupposto richiesto dalla norma di
cui all'art. 1218 affinché il debitore possa considerarsi tenuto al risarcimento
del danno, del quale la caparra costituisce (almeno in uno dei suoi polifoni
aspetti funzionali) liquidazione anticipata, convenzionale, forfetaria: la
impossibilità dell'esecuzione della prestazione per causa non imputabile
determina la risoluzione per impossibilità sopravvenuta della prestazione (artt.
1218, 1256, 1463 c.c.) e la conseguente caducazione dell'intera convenzione
negoziale, ivi compresa quella, accessoria, istitutiva della caparra (in tal
senso, la pressoché costante giurisprudenza di questa corte: Cass. 23.1.1989 n.
398, ove si legge che la disciplina dettata dal secondo comma dell'art. 1385
cod. civ., in tema di recesso per inadempimento nell'ipotesi in cui sia stata
prestata una caparra confirmatoria, non deroga affatto alla disciplina generale
della risoluzione per inadempimento, consentendo il recesso di una parte solo
quando l'inadempimento della controparte sia colpevole e di non scarsa
importanza in relazione all'interesse dell'altro contraente. Pertanto
nell'indagine sull'inadempienza contrattuale da compiersi alfine di stabilire se
ed a chi spetti il diritto di recesso, i criteri da adottarsi sono quegli stessi
che si debbono seguire nel caso di controversia su reciproche istanze di
risoluzione, nel senso che occorre in ogni caso una valutazione comparativa del
comportamento di entrambi i contraenti in relazione al contratto, in modo da
stabilire quale di essi abbia fatto venir meno, con il proprio comportamento,
l'interesse dell'altro al mantenimento del negozio).
Un inadempimento
grave perché (come già correttamente evidenziato nella sentenza dianzi citata, e
come confermato dalla dominante dottrina), diversamente opinando (come pure
ipotizzato da chi sottolinea come la collocazione della norma ex art. 1385 sia
al di fuori dello specifico capo dedicato alla risoluzione per giusta causa ed
ai suoi presupposti, non contenendo il predetto articolo alcuna menzione delle
caratteristiche dell'inadempimento né tantomeno sussumendone la gravità al rango
di condizione necessaria per l'esercizio del diritto di recesso) si finirebbe,
da un canto, per indebolire, anziché rafforzare, il vincolo negoziale -
consentendosi alla parte di sottrarvisi capricciosamente al solo annunciarsi di
qualsivoglia, minima difformità di esecuzione - così determinando una insanabile
contraddizione con l'opposta, tipica finalità di rafforzamento del predetto
vincolo, universalmente riconosciuta alla caparra -; dall'altro, per negare
incomprensibilmente in radice la identità strutturale di un medesimo presupposto
risarcitorio (l'inadempimento), così come sussunto nella sfera del rilevante
giuridico dall'unica norma che lo disciplina in parte qua (l'art. 1385 c.c.),
salvo ad annettervi poi, sul piano funzionale, due rimedi alternativi di tutela
(il recesso, la risoluzione): ammettere l'ipotesi contraria condurrebbe alla
poco logica conseguenza per cui in presenza di un inadempimento lieve il
contraente incolpevole potrebbe recedere dal contratto, ma non provocarne la
risoluzione in via ordinaria (con buona pace della evidente alternatività
"integrale" dei rimedi rispettivamente modellati dal secondo e dal terzo comma
della norma citata, e salva, peraltro, la contraria volontà delle parti che, con
apposita clausola, si determinino ad attribuire rilevanza anche ad ipotesi di
inadempimento lieve, attraverso una specificazione ed eterodeterminazione del
regolamento negoziale espressamente convenuto in forme dissonanti rispetto allo
schema legislativo).
4.3. - Tanto premesso, e avviando a soluzione il
complesso coacervo di quesiti sollevati in premessa, deve in limine osservarsi
che, se il recesso è non altro che una forma di risoluzione stragiudiziale del
contratto che presuppone l'inadempimento della controparte, le interazioni
rilevanti da esaminare sul piano normativo non sono tanto quelle tra il recesso
stesso e le varie forme di risoluzione, quanto quella, pur collegata, tra azione
di risarcimento ordinaria e domanda di ritenzione della caparra.
Si è
condivisibilmente affermato, in proposito, che l'unica ragione per cui il
contraente incolpevole (oltre che di buon senso) possa preferire la meno pervia
strada della risoluzione alla più agevole manifestazione della volontà di
recesso è evidentemente volta al proposito di conseguire un risarcimento (che
egli auspica) maggiore rispetto all'importo della caparra (o del suo doppio). Se
un'alternativa si pone, allora, per la parte non inadempiente, questa non è
tanto limitata ad una scelta (in realtà, del tutto fungibile quoad effecta) tra
recesso e risoluzione, ma si estende necessariamente a quella tra l'incamerare
la caparra (o il suo doppio), cosi ponendo fine alla vicenda negoziale, e
l'instaurare un apposito giudizio per conseguire una più cospicua
locupletazione, un più pingue risarcimento, una più congrua quantificazione di
danni dei quali egli si riserva (fondatamente!) di offrire la prova.
Ecco
che l'analisi della prima relazione tra le azioni in esame comporta non tanto
l'attribuire rilevanza alla pretesa antinomia risoluzione+risarcimento /
recesso+ritenzione della caparra, una vera e propria alternatività (rectius,
incompatibilità) esistendo piuttosto, sul piano morfologico, tra le due sole
azioni "recuperatorie", quella, cioè, strettamente risarcitoria (la domanda di
risarcimento danni) e quella più latamente satisfattiva (la ritenzione della
caparra, sul cui carattere, in realtà, paraindennitario e non strettamente
risarcitorio non è in questa sede lecito approfondire una
riflessione).
Le (apparenti) problematiche afferenti ai rapporti tra le
(sole) domande di risoluzione e di recesso non hanno, in realtà, al di là di
aspetti formalistico/speculativi, autonoma rilevanza giuridica sostanziale: una
domanda (principale) di risoluzione contrattuale correlata ad una richiesta
risarcitoria contenuta nei limiti della caparra, oltre ad avere una rilevanza
pressoché solo teorica (non si capisce perché adire il giudice, potendo la parte
stessa determinare l'effetto risolutorio in sede stragiudiziale, mentre diverso
potrebbe risultare l'approccio in ipotesi di domanda riconvenzionale), non è
altro (nonostante il contrario avviso di autorevole dottrina, che discorre di
compatibilità tra domanda costitutiva di risoluzione giudiziale e risarcimento
del danno nei limiti della caparra) che una domanda di accertamento
dell'avvenuto recesso (e della conseguente risoluzione legale del contratto);
una domanda di risoluzione avanzata senza il corredo di una ulteriore richiesta
risarcitoria, rapportata o meno all'entità della caparra, avrà il solo scopo di
caducare in via giudiziale il contratto senza ulteriori conseguenze economiche
per la parte inadempiente (il che potrà accadere nell'ipotesi - invero assai
rara - in cui la parte adempiente abbia il solo scopo di rendere definitivo
l'accertamento della caducazione degli effetti del contratto, ma non voglia
incamerare, per motivi di etica personale, la caparra ricevuta poiché, a seguito
del primo inadempimento, egli ha potuto successivamente concludere un più
lucroso affare e non intende ulteriormente speculare sulla vicenda), senza che,
nel corso del giudizio, sia lecito introdurre complementari domande
"risarcitorie" collegate (che risulterebbero del tutto nuove e pertanto
inammissibili).
Il vero nodo da sciogliere, dunque, riguarda la relazione
complessa tra le quattro possibili domande giudiziali, le prime due
sinergicamente volte alla risoluzione e al risarcimento del danno, le seconde,
proposte in una diversa fase o (come nella specie) in un diverso grado di
giudizio, funzionali alla declaratoria di recesso con ritenzione della caparra.
Ed è soltanto con riferimento a questa ipotesi che la questione va risolta
analizzando, peraltro, non (soltanto) la interazione risoluzione/recesso bensì
quella tra risarcimento e ritenzione di caparra. Vero che il recesso non è che
un'altra forma di risoluzione ex lege (ciò che apparentemente legittimerebbe le
pronunce che escludono il carattere di novità di quelle domande che abbiano
trasformato la richiesta di risoluzione in istanza di declaratoria di recesso,
orbitando entrambe intorno al medesimo asse costituito dall'inadempimento di
controparte), resta da stabilire se tale fungibilità sia, o meno, legittimamente
esportabile ai rapporti tra le due connesse azioni lato sensu
risarcitorie.
È convincimento di queste sezioni unite che la risposta al
quesito debba essere negativa, e che del tutto destituita di fondamento (benché
suggestivamente sostenuta in dottrina e motivatamente fatta propria da una
recente giurisprudenza di legittimità e di merito) risulti la teoria della
caparra intesa quale misura minima del danno risarcibile da riconoscersi
comunque alla parte non inadempiente benché questa si sia avvalsa, in sede di
introduzione del giudizio, dei rimedi ordinari di tutela.
4.4. - Come
opportunamente e condivisibilmente rilevato da una recente dottrina che ha
esaminato funditus la questione, l'art. 1385 comma terzo c.c., nell'accordare
alla parte non inadempiente la facoltà di avvalersi della tutela risolutoria
ordinaria, non ha in alcun modo previsto la risarcibilità del maggior danno,
quanto piuttosto il risarcimento integrale del danno subito (se provato),
secondo un meccanismo (processuale) ormai del tutto indipendente dalla
precedente liquidazione convenzionale (e stragiudiziale).
Di qui
l'ulteriore connotazione della sinergia necessaria tra azione risolutoria e
azione risarcitoria: attraverso la loro congiunta proposizione, la parte tende
ad ottenere un risarcimento integrale secondo le norme generali in tema di
inadempimento, e non si determina ad invocare e conseguire l'eventuale
differenza tra l'importo convenzionalmente "risarcitorio" rappresentato dalla
caparra, da un canto, e il danno effettivamente sofferto (ma da provare),
dall'altro.
L'esame comparato tra la norma posta dal legislatore in tema
di caparra e quella dettata in tema di clausola penale conferma la bontà di tale
riflessione.
Soltanto in tema di clausola penale, difatti, il legislatore
ha contemplato, per la parte (sia pur previo patto espresso), la facoltà di
agire in giudizio per la risarcibilità del danno ulteriore, con ciò
presupponendosi che la somma dovuta a titolo di penale risulti comunque
acquisita al patrimonio dell'adempiente, il quale ha la ulteriore facoltà di
provare ad incrementare la posta risarcitoria tutte le volte che, in giudizio,
egli sia in grado di provare l'ulteriore danno sofferto.
Le stesse regole
operazionali risultano del tutto assenti (e dunque del tutto impredicabili) in
tema di caparra confirmatoria, poiché risarcibilità del danno ulteriore e
risarcibilità del danno effettivo postulano l'operatività di ben diversi
meccanismi di tutela, diversamente disciplinati dal legislatore (la differenza
viene acutamente colta ed efficacemente esplicitata in una assai risalente
sentenza di merito: secondo la corte di appello di Cagliari - la sentenza è del
24 ottobre 1946 -, difatti, "dal raffronto tra l'art. 1382 - ove, a proposito
della clausola penale, è espressamente contemplata la facoltà delle parti di
convenire la risarcibilità del danno ulteriore, e l'art. 1385 ultimo comma, per
giungere alla conclusione che, se in quest'ultima disposizione il legislatore
non credette di ripetere l'identica espressione dell'art. 1382 ma fece invece
richiamo alle norme generali sul risarcimento, fu perché volle una distinzione
tra le due fattispecie").
Vanno considerate, ancora, ad ulteriore
conferma della correttezza della soluzione adottata:
- la evidente
disomogeneità "genetica" tra il ristoro conseguente all'incameramento della
caparra o del suo doppio - ristoro che in nulla pare assimilabile al meccanismo
risarcitorio tipico, e che addirittura prescinde da qualsiasi prova ed esistenza
stessa di un danno - e il risarcimento del danno vero e proprio, conseguito
secondo le normali regole probatorie, danno la cui riparazione non può che
essere integrale, ai sensi dell'art. 1223 c.c. (in esso ricompresi, oggi,
secondo quanto condivisibilmente affermato da Cass. ss.uu. 26972/08, anche i
pregiudizi non patrimoniali incidenti su diritti inviolabili della persona,
secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata degli artt. 1174, 1218,
1223 c.c.);
- la speculare difformità funzionale tra i due rimedi, la
domanda di ritenzione della caparra (o di richiesta del suo doppio) essendo
pretesa fondata su una causa petendi affatto diversa da quella riconnessa
all'azione di risarcimento. Proprio la finalità di liquidazione immediata,
forfetaria, stragiudiziale, posta nell'interesse di entrambe le parti, viene
irredimibilmente esclusa dalla pretesa giudiziale di un maggior danno da
risarcire (e provare), poiché la semplificazione stragiudiziale del procedimento
di ristoro conseguente alla sola ritenzione della caparra tramonta,
inevitabilmente e definitivamente, al cospetto delle barriere processuali sorte
per effetto di una domanda dalla natura strettamente risarcitoria, e perciò solo
del tutto alternativa;
- il dato testuale dell'art. 1385, c. 3, c.c. che,
nell'offrire una precisa alternativa alla parte adempiente, nulla dispone in
ordine alla possibilità del creditore di disattendere la generale regola,
sostanziale e processuale, secondo cui electa una via non datur recursus ad
alteram. Proprio il richiamo "alle norme generali" va inteso nel senso che il
creditore ha diritto al risarcimento integrale se riesce a dimostrare il danno,
così restando escluso il diritto di modificare la pretesa, a meno di non voler
poi disapplicare proprio quelle "norme generali", ovvero applicarle in un'ottica
di indiscriminato favor per il creditore, secondo una sua personale convenienza
valutata a posteriori, priva di alcun serio bilanciamento di interessi tra le
parti;
- generali considerazioni di economia processuale, oltre che di
corretto bilanciamento degli interessi in gioco, secondo cui, da un canto, chi
agisce in giudizio per la risoluzione è mosso dal proposito di conseguire un
ristoro patrimoniale più cospicuo, e pertanto "rinuncia al certo per l'incerto"
affrontando peraltro l'alea (e l'onere) della prova dell'an e del quantum del
pregiudizio sofferto, con il rischio (a suo carico) che il danno risulti
inferiore a quanto pattuito con la caparra (o addirittura inesistente);
dall'altro, chi ammette una fungibilità tra le azioni lato sensu risarcitorie
ignora che ciò si risolverebbe nella indiscriminata e gratuita opportunità di
modificare, per ragioni di mera convenienza economica, la strategia processuale
iniziale dopo averne sperimentato gli esiti, trasformando il processo in una
sorta di gioco d'azzardo "a rilancio senza rischio"; dall'altro ancora, soltanto
l'esclusione di una inestinguibile fungibilità tra rimedi consente di evitare
situazioni di abuso e rende il contraente non inadempiente doverosamente
responsabile delle scelte operate, impedendogli di sottrarsi ai risultati che ne
conseguono, quando gli stessi non siano corrispondenti alle aspettative che ne
hanno dettato la linea difensiva;
- la più rigorosa osservanza di
precetti costituzionali, così perseguendosi l'ulteriore approdo, in armonia con
il nuovo dettato dell'art. 111 Cost. (e resistendo alla suggestione di dover
sempre preservare, oltre ogni ragionevolezza, la posizione della parte non
inadempiente) di evitare rilevanti diseconomie processuali: oltre
all'apprezzabile risultato di disincentivare il contenzioso attraverso il
divieto di qualsiasi mutatio actionis in corso di giudizio, non va dimenticato
come le domande di risoluzione e di risarcimento comportino spesso, sul piano
probatorio, un'intensa e defatigante attività per le parti e per il giudice, e
un inopinato mutamento delle pretese creditorie vanificherebbe il contenuto
stesso di tali attività, legittimando un'esigenza di parte fondata sulla sola
circostanza di non trovare più conveniente proseguire nel cammino processuale
inizialmente scelto. Si aprirebbero così pericolosi varchi a ben poco fondate
richieste giudiziali, favorendo liti il più delle volte temerarie introdotte da
chi, certo di un commodus discessus processuale costituito dalla inestinguibile
facoltà di rivitalizzare una domanda di recesso con ritenzione della caparra, si
sentirebbe legittimato a tentare in ogni caso una pur assai improbabile
demonstratio di aver subito maggiori danni "a costo zero".
4.5. - Dalle
considerazioni sinora esposte discende la ulteriore, inevitabile conseguenza per
cui l'originaria domanda di (sola) risoluzione non può ritenersi legittimamente
convertibile, in sede di appello, in domanda di (solo) recesso, e ciò non solo e
non tanto per i numerosi motivi di sistema indicati, sul piano della morfologia
delle azioni, dalla più recente dottrina (cui in precedenza si è fatto cenno),
ma soprattutto perché tale modifica potrebbe risultare callidamente e
surrettiziamente funzionale a riattivare il meccanismo legale di cui al secondo
comma dell'art. 1385 c.c. (al recesso consegue, ex lege, il diritto alla
ritenzione della caparra), ormai definitivamente caducato per via delle
preclusioni processuali definitivamente prodottesi a seguito della proposizione
della domanda di risoluzione sic et simpliciter. Specularmente inammissibile
deve ritenersi la domanda di risoluzione giudiziale introdotta dopo essersi
avvalsi della tutela speciale ex art. 1385 secondo comma c.c., intanto perché,
dopo aver esercitato il diritto di recesso, il contratto è già risolto, ma
soprattutto poiché, ancora una volta, con tale trasformazione si cercherebbe
surrettiziamente di ampliare l'ambito risarcitorio in sede processuale, dopo
aver incamerato la caparra, indirizzandolo verso una più pingue (ma ormai
intempestiva) richiesta di risarcimento integrale.
4.6. - Quanto, infine,
alla questione della rinunciabilità all'effetto risolutorio da parte del
contraente non inadempiente, gli argomenti addotti in dottrina appaiono, a
giudizio di queste sezioni unite, meritevoli di ingresso nella giurisprudenza di
questa corte.
A fondamento di tale revirement (sia pur connesso solo
indirettamente alla decisione del caso in esame), va difatti osservato:
-
che il tenore strettamente letterale della norma di cui all'art. 1454 collega
alla inutile scadenza del termine contenuto in diffida un effetto automatico,
verificandosi la risoluzione al momento stesso dello spirare del dies ad quem
indicato dal diffidante. Gli stessi meccanismi operativi previsti per le altre
fattispecie di risoluzione legale confortano tale conclusione, poiché clausola
risolutiva espressa e termine essenziale partecipano, sincronicamente, del
medesimo aspetto genetico della convenzione negoziale, postulando, per loro
stessa natura, la necessità (clausola risolutiva) o la possibilità (termine
essenziale) di una ulteriore manifestazione di volontà da parte del non
inadempiente che, alla luce dei diacronici sviluppi del rapporto contrattuale,
potrebbe farsi portatore di un interesse diverso, rispetto alla risoluzione, nel
tempo del verificatosi inadempimento. La diffida, coevamente comunicata alla
controparte già nel momento (patologicamente) funzionale del rapporto, contiene
invece in sé già tutti gli elementi di valutazione di una situazione attuale e
attualizzata, in termini di interesse, in capo al diffidante; - che il
collegamento tra la essenzialità del termine contenuto nella diffida e la
(peraltro non pacifica) esclusività dell'interesse dell'intimante attiene, in
realtà, all'atto di diffida ma non all'effetto risolutorio, che la norma ex art.
1454 c.c. mostra di considerare automatico, perseguendo la non discutibile
funzione di bilanciamento di interessi contrapposti, a tutela anche della parte
che, allo spirare del termine, abbia posto un affidamento legittimo
nell'avvenuta cessazione degli effetti del negozio;
- che la perdurante
disponibilità dell'effetto risolutorio in capo alla parte non inadempiente
risulterebbe, in assenza di qualsivoglia disposizione normativa "limitativa"
(quale quella dettata, ad esempio, in tema di remissione del debito), operante
sine die, in evidente contrasto con gli analoghi meccanismi di risoluzione
legale collegati al termine essenziale e al relativo adempimento tardivo, così
generandosi, sotto altro profilo, una ingiustificata e sproporzionata lesione
all'interesse del debitore, il cui ormai definitivo affidamento nella
risoluzione (e nelle relative conseguenze) del contratto inadempiuto potrebbe
indurlo, non illegittimamente, ad un conseguente riassetto della propria
complessiva situazione patrimoniale;
- che la stessa ratio legis sottesa
al più generale meccanismo della risoluzione giudiziale (art. 1453 c.c.) appare
principio di portata assai più ampia (e dunque legittimamente esportabile anche
nel parallelo sottosistema della risoluzione legale) dacché permeato
dell'evidente funzione di accordare (moderata) tutela anche alla parte non
adempiente che, assoggettata ad un'iniziativa volta alla caducazione del
contratto, non può più essere, ex lege, destinataria di una successiva richiesta
di adempimento (in una vicenda in cui, si badi, la definizione dell'effetto
risolutorio è ancora in itinere, destinata com'è a formare oggetto di
accertamento processuale in contraddittorio), onde porsi volontariamente (ma del
tutto legittimamente) in condizione di non poter più adempiere. Se la
proposizione di una domanda giudiziale di risoluzione implica l'assenza di
interesse del creditore all'adempimento e il conseguente acquisto, da parte del
debitore, di una sorta di "diritto a non adempiere", non v'è ragione di
escludere che la stessa ratio (di cui è d'altronde traccia dalla stessa
relazione al codice) non debba informare anche la speculare vicenda della
diffida ad adempiere, in entrambi i casi risultando espressa inequivocabilmente
la mancanza di interesse all'adempimento intempestivo;
- che la natura di
negozio unilaterale recettizio della diffida non pare utile a legittimare la
(non conferente) conseguenza della disponibilità dell'effetto risolutivo.
Soccorrono, al riguardo, disposizioni normative, come quelle di cui all'art.
1723 c.c. in tema di irrevocabilità del mandato (anche) in rem propriam, che
lasciano chiaramente intendere come la più generale filosofia ispiratrice del
codice del '42, quella, cioè, della tutela dell'affidamento incolpevole, trovi
necessario spazio e puntuale attuazione tutte le volte in cui l'unilateralità
dell'atto incida significativamente anche sugli interessi del
destinatario;
- che, in definitiva, la concezione dell'effetto risolutivo
disponibile in capo al creditore pare figlia di una ideologia fortemente
punitiva per l'inadempiente, si atteggia a mo' di sanzione punitiva senza tempo,
assume forme di (ingiustificata) "ipertutela" del contraente adempiente, del
quale si legittima ogni mutevole e repentino cambiamento di "umore"
negoziale.
4.7. - Vanno, pertanto, affermati (a soluzione delle questioni
proposte supra, sub 2.1) i seguenti principi di diritto:
a) I rapporti
tra azione di risoluzione e di risarcimento integrale da una parte, e azione di
recesso e di ritenzione della caparra dall'altro si pongono in termini di
assoluta incompatibilità strutturale e funzionale: proposta la domanda di
risoluzione volta al riconoscimento del diritto al risarcimento integrale dei
danni asseritamente subiti, non può ritenersene consentita la trasformazione in
domanda di recesso con ritenzione di caparra perché (a prescindere da quanto già
detto e ancora si dirà di qui a breve in ordine ai rapporti tra la sola azione
di risoluzione e la singola azione di recesso non connesse alle relative azioni
"risarcitorie") verrebbe così a vanificarsi la stessa funzione della caparra,
quella cioè di consentire una liquidazione anticipata e convenzionale del danno
volta ad evitare l'instaurazione di un giudizio contenzioso, consentendosi
inammissibilmente alla parte non inadempiente di "scommettere" puramente e
semplicemente sul processo, senza rischi di sorta;
b) L'azione di
risoluzione avente natura costitutiva e l'azione di recesso si caratterizzano
per evidenti disomogeneità morfologiche e funzionali: sotto quest'ultimo
aspetto, la trasformazione dell'azione risolutoria in azione di recesso nel
corso del giudizio lascerebbe in astratto aperta la strada (da ritenersi,
invece, ormai preclusa) ad una eventuale, successiva pretesa (stragiudiziale) di
ritenzione della caparra o di conseguimento del suo doppio (con evidente quanto
inammissibile rischio di ulteriore proliferazione del contenzioso
giudiziale);
c) Azione di risoluzione "dichiarativa" e domanda giudiziale
di recesso partecipano della stessa natura strutturale, ma, sul piano operativo,
la trasformazione dell'una nell'altra non può ritenersi ammissibile per i
motivi, di carattere funzionale, di cui al precedente punto b);
d) La
rinuncia all'effetto risolutorio da parte del contraente non adempiente non può
ritenersi in alcun modo ammissibile, trattandosi di effetto sottratto, per
evidente voluntas legis, alla libera disponibilità del contraente
stesso;
e) I rapporti tra l'azione di risarcimento integrale e l'azione
di recesso, isolatamente e astrattamente considerate, sono, a loro volta, di
incompatibilità strutturale e funzionale;
f) La domanda di ritenzione
della caparra è legittimamente proponibile, nell'incipit del processo, a
prescindere dal nomen iuris utilizzato dalla parte nell'introdurre l'azione
"caducatoria" degli effetti del contratto: se quest'azione dovesse essere
definita "di risoluzione contrattuale" in sede di domanda introduttiva, sarà
compito del giudice, nell'esercizio dei suoi poteri officiosi di interpretazione
e qualificazione in iure della domanda stessa, convertirla formalmente in azione
di recesso, mentre la domanda di risoluzione proposta in citazione, senza
l'ulteriore corredo di qualsivoglia domanda "risarcitoria", non potrà essere
legittimamente integrata, nell'ulteriore sviluppo del processo, con domande
"complementari", né di risarcimento vero e proprio né di ritenzione della
caparra, entrambe inammissibili perché nuove.
Il ricorso è pertanto
rigettato.
La disciplina delle spese (che possono per motivi di equità
essere in questa sede compensate, attesa la complessità e la natura controversa
delle questioni trattate) segue come da dispositivo.
P.Q.M.
La corte rigetta il ricorso e compensa integralmente le spese del giudizio di cassazione.