Nota a Tribunale di Roma del 16/12/06


 

Il malato terminale può chiedere ai medici di sospendere le terapie e avviarsi serenamente alla fine divenuta inevitabile, per non protrarre oltre sofferenze e dolori, in una vita che ormai è solo l'anticamera della morte?
Vi sono molti casi decisi in esperienze di altri ordinamenti che hanno fatto epoca, hanno acceso il dibattito tra medici, filosofi, religiosi, giuristi; il dilemma è grave, perché la vita, intesa come valore in sé, si vorrebbe sempre salvare; nel contempo si vorrebbe porre fine al dolore e dare serenità a chi combatte la sofferenza sapendo di non potersi sottrarre al suo destino, e vuole perciò abbreviare il momento del trapasso.
Premesso che l'eutanasia passiva è vietata e sanzionata dalla legge, la zona grigia riguarda la possibilità di terminare le terapie (e l'"accanimento terapeutico") e di rifiutare le cure da parte del paziente che è adulto, cosciente e consenziente. Il caso italiano più recente ha riguardato Piergiorgio Welby.
Il Tribunale di Roma, adito per ottenere un provvedimento d'urgenza da parte del paziente, al fine di ottenere dal giudice l'ordine rivolto alla Associazione Onlus, che aveva preso in carico il paziente, e al medico curante, di interrompere la ventilazione artificiale necessaria alla sua respirazione e l'avvio alternativo di una cura di sedativi per alleviare la sofferenza, ha rigettato l'istanza, con provvedimento depositato il 15 dicembre 2006. Avverso il provvedimento aveva fatto impugnazione il P.M., ma un medico, assumendosene la responsabilità, aveva interrotto la ventilazione, sicché, con il consenso del paziente, la cura si è arrestata; qualche giorno dopo il paziente è mancato.
I difensori di Welby avevano argomentato l'istanza, sostenendo che il paziente era informato, che la Costituzione (artt. 2, 13, 32) consente di rifiutare i trattamenti terapeutici, che vita e morte sono processi in cui l'interessato ha diritto di esprimersi, che la volontà di passare dalla terapia di mantenimento alla terapia sedativa non sarebbe venuta meno anche successivamente all'effettuazione della terapia sedativa.
I convenuti (l'associazione e il medico curante) erano intervenuti chiedendo innanzitutto che fosse accertata il difetto di legittimazione passiva (cioè di non avere alcun titolo per essere convenuti in giudizio) e nel merito di respingere il ricorso; il P.M. aveva concluso per l'ammissibilità del ricorso.
Il giudice, affermata la legittimazione passiva dell'associazione e del medico, ha svolto un ragionamento che muove dalla interpretazione dalla Corte costituzionale e dalla Corte di Cassazione al c.d. "consenso informato", che trova conferma nella Convenzione di Oviedo, ratificata con l. 28 marzo 2001, n. 145 e nel codice di deontologia medica, e quindi ha ammesso in via preliminare la fondatezza del principio della "autodeterminazione individuale e consapevole" del paziente in ordine ai trattamenti sanitari, ma ha ritenuto che tale principio "presenta aspetti problematici in termini di concretezza ed effettività rispetto al profilo della libera ed autonoma determinazione individuale sul rifiuto o la interruzione delle terapie salvavita nella fase terminale della vita umana".
Pur richiamando la giurisprudenza pregressa, la Carta di Oviedo, e altri riferimenti, ha posto il problema in termini diversi: non tanto considerandolo dal punto di vista del paziente ma dal punto di vista del medico. E poiché la legge vigente non si pronuncia sulla responsabilità del medico rispetto a questa particolare richiesta del paziente, poiché l'art. 5 cod.civ. vieta atti di disposizione del corpo diretti a determinare un danno permanente, poiché il codice penale punisce l'omicidio del consenziente e l'aiuto al suicidio ha negato l'autorizzazione. E pur ammettendo che si ha diritto di rifiutare l'accanimento terapeutico (specie nei casi di vita vegetale, come già aveva disposto la Corte d'Appello di Milano, con decr. del 26 novembre1999) ha ritenuto, anche sulla base della testimonianza del medico curante, che non vi fosse accanimento terapeutico nel caso di specie ma solo di alimentazione artificiale, trattamento che il Comitato Nazionale di Bioetica, con un recente parere, aveva considerato lecito e non soggetto ad interruzione volontaria.
In altri termini, il diritto del paziente, che il giudice ha dichiarato sussistente, non trova tutela dall'ordinamento "se poi quanto richiesto dal ricorrente deve essere sempre rimesso alla totale discrezionalità di qualsiasi medico al quale la richiesta venga fatta, alla sua coscienza individuale, alle sue interpretazioni soggettive dei fatti e delle situazioni, alle proprie concezioni etiche, religiose e professionali". Il giudice ha quindi rimesso la questione al legislatore, non ritenendo di poter applicare il rimedio tipico dell'azione cautelare in un caso di vuoto normativo.
Avrebbe potuto decidere diversamente? Molti pensano di sì, perché l'applicazione diretta della normativa costituzionale ai rapporti tra privati, la creazione di diritti soggettivi sulla base del dettato costituzionale (in particolare dei diritti della persona) è ormai una prassi giurisprudenziale assistita da un orientamento consolidato e accolta con favore dalla dottrina. Il "vuoto normativo" a cui si riferisce il giudice, che in modo responsabile, si è preoccupato della sorte (non del paziente, ma) del medico, dovrebbe esser colmato dall'esimente correlata all'autodeterminazione del paziente, che, nel caso di specie, era adulto, cosciente e consenziente.

Autore: Dott. Guido Alpa - pubblicato in "Resp. civ. e prev." 2007, 1, 78